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BREVI CENNI STORICI SUL RAPPORTO SCRITTO E PARLATO NELLA SORIA DELLA LINGUA ITALIANA

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BREVI CENNI STORICI SUL RAPPORTO SCRITTO E PARLATO NELLA SORIA DELLA LINGUA ITALIANA


Mi pare doveroso, prima di svolgere la traccia su esposta, precisare almeno in grandi linee che cosa è una lingua. La lingua è quel complesso di suoni, di parole e di locuzioni logicamente legati ed ordinati fra loro di cui ci serviamo per esprimerci e per comunicare con gli altri, ha una duplice funzione: è indispensabile nelle comuni e quotidiane relazioni della vita, è strumento per trasmettere agli altri, a voce o per iscritto, un nostro messaggio e farsi da essi intendere. Essa è in continua evoluzione e si modifica di secolo in secolo, prendendo la fisionomia del tempo e delle persone che la parlano: modificando le parole, la forma e lo stile.


PRIMA DELL'ITALIANO: LA LINGUA DI ROMA

L'italiano è una lingua neolatina o romanza. Essa deriva cioè dal latino, una lingua indoeuropea. Il latino fu la lingua di Roma e del suo vasto impero. A seguito di complesse vicende storiche e sociali (endogene e esogene), ovvero: la fine dell'unità politica dell'impero, il disgregarsi dei suoi strumenti di comunicazione e di trasmissione della cultura e l'invasione dei popoli germanici; si verificarono due fenomeni:

  • Il latino di ogni singola regione acquisì sempre più tratti e caratteri specifici, diversi di quelle di altre aree;
  • La lingua parlata del popolo si distanziò sempre più da quella scritta e ufficiale, rimasta patrimonio unico della Chiesa che conserva il latino parlato e scritto.



DAL LATINO PARLATO ALLE LINGUE NEOLATINE

Le attuali lingue romanze o neolatine, tra cui l'italiano, si svilupparono a partire dal latino "volgare". Sul latino volgare influivano - nella pronuncia, nel lessico, nella morfologia - sia le lingue delle antiche popolazioni conquistate da Roma (galli, italici, iberici, ecc) sia le lingue degli invasori (i popoli germanici). Con questi ultimi, tanto per fare un esempio, affluirono molte parole nu 838f51i ove usate ancora oggi: tutte quelle che cominciano con la lettera G, hanno alla base la lettera W del germanico antico. Nel corso di un processo durato molti secoli, dal IV-V secolo d.C. al IX-X, dalla continua evoluzione del latino volgare si generano molte lingue, dette neolatine o romanze: l'italiano, lo spagnolo, il francese, il rumeno, il portoghese, il catalano, il ladino, il sardo, il provenzale, il franco-provenzale. Ciascuna di esse, inoltre era al suo interno ricca di varietà locali.


IL VOLGARE: I PRIMI DOCUMENTI

Il lungo processo di cambiamento che dal latino condusse all'italiano è difficile da ricostruire fase per fase, essendo avvenuto nella lingua parlata. Uno dei primi documenti scritti in volgare che provano la nascita della lingua italiana è il cosiddetto Placito captano, del 960 (il placito è un atto giuridico, una sorta di istruttoria). Un notaio registra in un atto in latino la testimonianza di gente del popolo circa il possesso di alcune terre; le parole dei testimoni vengono trascritte nel documento esattamente quali erano:

Sao ko kelle terre per kelli fini que ki contene trenta anni le possette parti Sancti Benedicti.

[So che quelle terre, entro quei confini che qui sono indicati, le ha possedute trenta anni la parte (il monastero, cioè la parte in causa) di San Benedetto]. La lingua di questo testo (fatta eccezione del sintagma Sancti Benedicti) non è più latina. Il volgare italiano (anche se non si chiamava ancora così) è ormai ben riconoscibile. Il volgari italiani che a poco a poco si svilupparono a partire dal latino avevano caratteri nettamente diversi da regione a regione, erano cioè quello che oggi chiameremo "dialetti".

Verso la prima metà del Duecento iniziò un' attività letteraria in volgare, di cui restano abbondanti documenti scritti; per fare qualche nome dell'epoca basti pensare a Stefano Protonotaro (Pir meu cori alligrari) e Guido Cavalcanti (Perch 'i' no spero di tornar giammai) che rispecchiano due volgari diversi: uno siciliano e l'altro fiorentino.


IL TRIONFO DEL FIORENTINO

Uno dei volgari nati nell'Italia medievale, il toscano, e in particolar modo il fiorentino assunse molto presto, tra il Duecento e il Trecento, un ruolo di primo piano grazie all'opera di famosi scrittori e poeti: Dante, Petrarca e Boccaccio. Il prestigio superiore assunto dal fiorentino dipese sia dal valore e dalla fortuna di pubblico di questi scrittori. Sia dal ruolo culturale della città, sia infine da un elemento intrinseco: tra i vari dialetti della penisola, il toscano era uno dei più simili al latino quanto a suoni e forme.

In Boccaccio, il tentativo di emulare la nobiltà del latino - attraverso una sintassi e un periodare "ciceroniani", ricchi di subordinate, con il verbo alla fine e con molti latinismi - è chiarissimo, nonostante le sue impressioni di modestia. La lingua della poesia di Petrarca era invece aristocratica e selettiva: tutto ciò che è troppo concreto (termini fisici, vicini alla vita reale) è da lui bandito; le forme sono latineggianti o derivate dalla tradizione letteraria francese. La lingua di Petrarca diventa la lingua della poesia italiana e resta tale fino al XIX secolo, con tutte le sue particolarità che la distinguono nettamente dalla prosa. Il Canzoniere e il Decameron divennero così modelli linguistici (e non solo) da imitare per tutti coloro - anche e soprattutto non toscani - che volevano cimentarsi nella scrittura in volgare. Un discorso più particolare va fatto su Dante che con la sua opera, il De vulgari eloquentia, si conferma come il primo importante studioso di lingua e letteratura nella storia italiana. Dante testimonia un'attenzione costante ai fenomeni letterari del suo tempo e con una riflessione che non ha riscontro nel passato del mondo medievale cristiano, egli dimostra la piena dignità letteraria del volgare, la possibilità di esprimere con esso, e non solo con il latino, opere di registro elevato. L'Italia di Dante però è sotto il segno del plurilinguismo, divisa com'è in tanti volgari e parlate locali. Dante ragiona sul plurilinguismo: si guarda intorno, si chiede quale sia la lingua da istituire. Fa una critica precisa e puntuale a tutte le lingue e vi scorge che i volgari in uso sono tutti ancorati su basi locali. Mentre la lingua che Dante sta cercando deve essere una lingua ideale "illustre", priva di tratti locali e popolari, selezionata e formalizzata ad un livello "alto". L'esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre. La nobilitazione del volgare deve avvenire attraverso la letteratura: quella della corte di Federico II e quella degli Stilnovisti. Il trattato De vulgari eloquentia da libro di linguistica si trasforma in trattato di teoria letteraria. L'entusiasmo con cui Dante espone le qualità del volgare ideale dimostra l'importanza da lui attribuita al ruolo che tale lingua può e deve svolgere: la letteratura che in quel volgare si esprime deve agire in modo diretto sulla società, svolgere un compito politico morale e spirituale insieme. L'aspetto spirituale è toccato dall'aggettivo illustre, per diffondere luce, illuminare, significa appunto aiutare a capire, favorire quindi una crescita interiore dell'intellettuale. L'aggettivo cardinale indica il prestigio del volgare letterario che deve essere regola e modello per gli altri scrittori. L'aspetto politico è sottolineato invece dagli ultimi aggettivi, aulico e curiale strettamente collegati: Dante ribadisce la necessità di una monarchia di corte (curia) in Italia. La curia di cui parla è quella di Roma, sede dell'Impero secondo la tradizione storica, cara a Dante. Il sostantivo "curialità" ha un significato comunque più ampio: contiene in sé l'essenza della "regolarità" del volgare che Dante sta teorizzando. Infatti, una lingua letteraria così com'è prospettata dall'autore godrebbe come il latino dell'appellativo di "grammatica", sarebbe cioè una lingua regolata da leggi fisse, degna di essere universale al pari del ruolo universale della corte in cui verrebbe usata. Una lingua che, priva di difetti e delle rozze abitudini di una parlata popolare, sarebbe capace di svolgere un compito di educazione culturale. In sostanza, intende Dante una norma etica che tende ad una sorta di delocalizzazione della lingua.


E IL LATINO?

C'è da ricordare che il latino, che nonostante il successo del volgare letterario era rimasto la lingua delle scienze, del diritto, delle lettere e delle arti, conobbe un rinnovato splendore al principio del Quattrocento, grazie al movimento dell'Umanesimo che riscopriva la classicità latina. Risale però al 1440 la prima grammatica di una lingua volgare; la compose, per il fiorentino il letterato Leon Battista Alberti. Egli iniziò il movimento definibile "Umanesimo volgare", elaborò un vero programma di promozione della nuova lingua, che culminò in una curiosa iniziativa, "Certame coronario" del 1441. egli organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare. Nonostante il suo relativo successo (il premio non viene assegnato), il Certame segnala la rinascente attenzione per il volgare. Non mancarono in questo secolo autentici sforzi, diverse varietà di lingue scritte attestate dai documenti d'epoca, che tendono verso l'eliminazione dei tratti più vistosamente locali, e che evolvono verso forme di Coinè: termine tecnico con cui si indica una lingua comune super dialettale. Lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimaneva tuttavia ben marcato; il latino e i latinismi erano una base ancor solida e insostituibile.



LA "QUESTIONE DELLA LINGUA"

E' nel Cinquecento che avviene un passaggio decisivo che segnerà il destino nazionale della lingua: il fiorentino si avvia ad essere una lingua scritta ma non parlata. I dotti discutono su quale sia la migliore lingua da usare nei testi letterari: il fiorentino vivo nel tempo, il toscano, il latino. Diverse teorie si confrontano: è la cosiddetta questione della lingua. Pur con una certa approssimazione, i numerosi interventi si possono ricondurre a tre posizioni fondamentali. La posizione cortigiana, la posizione fiorentina e la posizione classicista; espresse nelle rispettive grandi personalità di Giorgio Trissino, Niccolò Macchiavelli e Pietro Bembo. La posizione cortigiana, fautore è Trissino, propone di costituire una lingua letteraria che riassuma gli elementi più significativi delle lingue parlate nelle varie corti italiane. L'esperienza della vita di corte - luogo d'incontro di nobili e intellettuali di diversa provenienza geografica - non soltanto produce una riflessione sugli attributi del perfetto cortigiano, ma sembra anche potersi tradurre in un modello linguistico. Questa soluzione rifiuta il purismo vincolante tutto letterario, per aprirsi ad una maggiore interazione tra la scrittura e la lingua parlata, viva, sia pure riferita all'ambito ristrettissimo, è già di per sé selettivo del mondo cortigiano. La seconda posizione, minoritaria, è quella fiorentina, sostenuta da Macchiavelli. Questa teoria sostiene la superiorità del fiorentino parlato contemporaneo sugli altri dialetti, per la sua ricchezza terminologica e la vivacità espressiva. E' questa una soluzione antiaristocratica, consapevole della mutevolezza del linguaggio e attenta alla sua funzione de comunicazione sociale, ma anche fortemente circoscritta (i suoi fautori escludevano perfino gli altri vernacoli toscani) alla sola città di Firenze. La teoria classicista prevalse, non senza difficoltà. Curiosamente, il portabandiera della posizione classicista era veneto, il letterato Pietro Bembo. Bembo sosteneva che così come il latino classico aveva avuto due grandi modelli, Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia, anche il volgare doveva darsi come modelli due insuperati scrittori del Trecento: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. E' una soluzione "purista", particolarmente evidente nella celebrazione del linguaggio Petrarchesco, retto da una misura di ideale e armonica coerenza, ottenuta attraverso  una rigorosa selezione che espunge dal testo poetico ogni dissonanza e ogni contaminazione con elementi umili, provenienti dal quotidiano. Significativo è il fatto che l'aristocratica prospettiva di Bembo escluda Dante, il cui registro linguistico appare troppo disponibile ad accogliere elementi disparati, dialettali e popolari. Bembo diede l'esempio, scrivendo in stile boccacciano le sue Prose della volgar lingua (1525) e in stile petrarchesco le sue liriche. Con il Cinquecento viene dunque sancita la netta separazione tra la lingua letteraria scritta e lingua parlata. Da qui in avanti possiamo parlare di idioma italiano ben distinto dai dialetti parlati. Nel Seicento la fiorentina Accademia della Crusca fissa in un grande vocabolario il patrimonio lessicale dell'italiano letterario.


UNA LINGUA PER IL NUOVO STATO

La mancanza di un forte centro politico unitario e la conseguente frantumazione della penisola in tanti Stati più o meno autonomi ostacolarono per secoli il processo di unificazione linguistica dell'Italia tuttavia tra il '500 e '800 la lingua ormai si è stabilizzata: la lingua scritta e parlata, l'italiano, coincide con il fiorentino storico; a grandi linee la sintassi e la morfologia è la stessa del Trecento. Ma più di quanto si è ora detto (e pur importante) il fattore più interessante è il problema della unificazione linguistica e l'avvicinamento della lingua scritta e quella parlata. L'italiano era sin nella prima metà dell'Ottocento, una lingua riservata all'uso scritto; e ciò da per tutto, fatta eccezione di due zone: la Toscana e Roma. Analfabetismo e arretratezza culturale persistevano; la scolarizzazione è limitatissima e disomogenea, e il nuovo Stato unitario nasce senza una lingua parlata comune, ma frammentata nella realtà dei dialetti e degli usi linguistici locali. Si riaccendeva così, ancora, la questione della lingua: questa volta però come "questione sociale".

Il 14 gennaio del 1868 il ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio nomina una commissione con il compito di proporre provvedimenti e modi per omogeneizzare a scala nazionale la lingua italiana (parlata e scritta). Presidente di tutta la commissione è nominato il Manzoni. Dopo circa quaranta giorni questi invia al ministro una relazione (dal titolo Dell'unità della lingua e dei mezzi per diffonderla) nella quale afferma la necessità di una lingua comune a tutta la nazione, e che questa può essere l'idioma toscano. Detto questo, sostiene, il Manzoni, che "uno dei mezzi più efficaci per propagare una lingua, è un vocabolario" e che tale vocabolario non può essere altro che quello del linguaggio fiorentino vivente. Non solo: bisognava fare la guerra ai dialetti, così come aveva fatto la Francia più o meno un secolo prima; Firenze dunque come Parigi.


Letta la relazione, il ministro Broglio istituiva per decreto una "Giunta incaricata di compilare il Dizionario della lingua dell'uso fiorentino" e quando questo cominciò ad essere pubblicato, col titolo Novo vocabolario della lingua italiano secondo l'uso di Firenze, nacque una disputa tra i sostenitori della tesi del Manzoni e quelli di Graziadio Isaia Ascoli. Nel 1873 questi sostenne che fare imparare a tutti, per decreto, il dialetto fiorentino non era il modo con cui si sarebbe formata una lingua nazionale. Essa sarebbe nata solo dal progresso e dalla comunicazione fra i diversi ambienti colti della penisola. Sarebbe stata una lingua non rigorosamente fiorentina, ma capace di selezionare forme entrate nell'uso quale che fosse la loro provenienza, settentrionali o meridionali. La storia ha dato ragione piuttosto ad Ascoli che a Manzoni.


LA LINGUA ITALIANA CHE SI E' AFFERMATA

La lingua italiana che si è affermata e che oggi usiamo non è frutto di un decreto ministeriale. Il modello oggi diffuso nei decenni successivi all'Unità nazionale, e in particolare nell'ultimo cinquantennio del Novecento, non è, come pretendevano i continuatori di Manzoni, il dialetto fiorentino delle classi colte, ma una lingua mista e ricca di apporti diversi. Una lingua che, tutti conoscono e capiscono. Secondo le stime del linguista Tullio De Mauro, al momento dell'Unità nazionale (1861) solo il 2,5% della popolazione (toscani compresi) era in grado di usare l'italiano. Oggi se vogliamo fare riferimento a dati quantitativi possiamo dire che l'italiano è parlato da 58milioni di persone in Italia. A unificare ulteriormente il paese dal punto di vista linguistico, e a superare i dialetti non senza difficoltà, sono stati grandi fenomeni di modernizzazione: il servizio militare obbligatorio, la burocrazia, la scuola, l'informazione stampata, e - in modo ancora più incisivo - la radio e la televisione.




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