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RELIGIONE - Problemi di definizione

geologia



religione


introduzione

Problemi di definizione

La definizione dell'ambito ricoperto dalla religione nell'antico Egitto non è immediata. Gli studi si collocano tra due estremi: da una parte, l'interpretazione totalizzante, per la quale dietro ogni attività dell'antico popolo del Nilo l'osservatore indovina forze e forme d'origine religiosa; dall'altra, l'interpretazione desacralizzata, secondo cui ciò che comunemente chiamiamo "religione" in Egitto non è una mistica ma una fisica.

Il concetto di "religione" è un prodotto storico del cristianesimo e del razionalismo, la cui formazione ha comportato la definizione di una serie di ambiti a cui si contrapponeva ed era contrapposto: magia, scienza, politica. L'applicazione di queste categorie allo studio di una civiltà antica e non occidentale impedisce di cogliere l'unità profonda che ne contraddistinse la cultura fino alla fine del II millennio a.C. Società umana, cosmo e mondo divino erano visti come un continuum, tenuto insieme da relazioni visibili ed invisibili, che costituivano la realtà.



Tradizioni/tradizione: il rapporto tra integrazione e manipolazione

Al centro della riflessione egiziana e delle pratiche ad essa connesse furono la ricerca di senso ed il bisogno di garantirsi forme di controllo sulla realtà. Le risposte che gli Egiziani diedero a questi bisogni, ed il modo in cui le vissero, sono l'oggetto dell'indagine storica.

Si tratta di un oggetto complesso, nato da un'originaria pluralità di tradizioni ed evolutosi all'interno di una duplice gabbia: la rimodellazione culturale effettuata dall'élite intellettuale, che formò l'ideologia dello Stato faraonico, e la dinamica del rapporto fra le forme ed i linguaggi della tradizione con i contenuti innovativi. Buona parte della documentazione di cui disponiamo, infatti, è il prodotto della reinterpretazione di elementi mitici e cultuali diversi per origini e per collocazione temporale e della loro integrazione in sistemi unitari ad opera delle élite sacerdotali.

La circostanza fortunata del ritrovamento di una documentazione parallela ed alternativa, che conservi la memoria di quanto sparì o fu modificato, è rara e determinata da fattori casuali. Per questo, l'indagine archeologica moderna spesso mette in luce esperienze che non riescono a trovare una loro collocazione all'interno del quadro dominante.

Documenti inegualmente distribuiti nel tempo e nello spazio, inoltre, gettano una luce discontinua sull'esistenza di approcci e soluzioni diverse. In tutto il corso della storia egiziana, la "via" ufficiale fu affiancata da pratiche religiose alternative, e risposte non univoche furono date ai grandi temi dell'esistenza umana. La consapevolezza del legame esistente tra la tipologia e la distribuzione delle fonti e l'interpretazione dei dati deve guidare ogni ricostruzione storica delle concezioni egiziane.

Gli studi di preistoria egiziana hanno messo in evidenza la profonda eterogeneità culturale delle origini. La storia più antica dei territori che costituirono in epoca storica l'Egitto è la storia di un marcato regionalismo, a cui pose fine il crescente inaridimento del deserto: la progressiva inospitalità di aree un tempo occupate da popolazioni e culture diverse, con scarsi contatti reciproci, spinse gruppi umani sempre più numerosi a convergere verso la Valle del Nilo.

L'esperienza della convivenza di questa molteplicità di culture e credenze dovette trovare forme di integrazione già 929g64j nel Tardo Predinastica: la fisionomia den definita della fase culturale di Naqada II e la sua diffusione mostrano che il processo di agglutinamento di unità geo-politiche minori intorno ai primi grandi centri meridionali si accompagnò ad una parziale omogeneizzazione.

Il sostrato regionale della religione egiziana è una delle caratteristiche più macroscopiche di questa civiltà: ogni santuario venerava una o più divinità locali, talvolta viste come forme particolari di una divinità diffusa su scala nazionale, alla quale si associavano culti di dei "ospiti". L'atteggiamento dei fedeli rispettava questa divisione territoriale, giacché gli abitanti di un nomo riconoscevano come divinità maggiore quella locale.

L'osservazione di questo stato di cose portò a formulare un'interpretazione della religione egiziana come somma di religioni locali, memoria del passato frammentato che precedette l'unificazione politica e culturale dell'Egitto. Le critiche mosse a questa visione ne rilevarono l'incapacità di cogliere nella differenziazione gli elementi unitari e la sopravvalutazione di elementi che ricevettero sistemazione ed enfasi in una fase più tarda della religione egiziana.

La forte differenziazione regionale dei culti egiziani è comunque un'eredità di quel passato multiculturale. Su quel sostrato, tuttavia, si esercitò la grandiosa opera di rimodellazione del potere centrale, imprimendo forma e sostanza unitaria alla precedente materia.

Tradizione/innovazione

I cinquecento anni che intercorrono tra la fase protodinastica ed il tardo Antico Regno videro la codifica degli elementi principali della cultura faraonica. Una volta definita la forma canonica della tradizione, essa fu trasposta sul piano mitico ed atemporale della Prima Volta, quando tutto ciò che esiste fu pianificato e realizzato dal dio creatore. La storia altro non era che la ripetizione e l'attualizzazione incessante di quella Prima Volta; il compito supremo consisteva nel mantenimento senza alterazioni del codice primordiale. La tradizione, in questo modo, costituiva garanzia di verità, di rispetto dell'ordine naturale.

La realtà storica fu il risultato di un compromesso tra quelle idee ed il mutamento delle circostanze. L'esito dell'adattamento fu un linguaggio espressivo che restò sempre il più possibile aderente alla veste formale della tradizione, pur trasmettendo contenuti innovativi. L'evolversi della concezione del divino si espresse attraverso la duplicazione degli epiteti ed attributi; nelle iconografie religiose, combinazioni diverse degli stessi elementi possono essere spia di nuove sintesi teologiche.

Una lettura multidimensionale

Un esempio emblematico delle modalità operative dei processi di formazione e di trasmissione di culti e credenze, è la formazione del mito di Horo e Seth, che può ritenersi il mito stesso di fondazione dello Stato egiziano.

I suoi elementi costitutivi sono già nei Testi delle Piramidi, la raccolta di formule rituali, scongiuri magici ed enunciati teologici, incisa nelle camere sepolcrali delle piramidi a partire dalla fine della V dinastia. La loro forma in quei testi, tuttavia, è solo allusiva, dal momento che la funzione rituale e funeraria di quelle formule ne precludeva unna narrazione estesa.

Ci sono pervenuti resoconti più articolati del mito, quale quello fatto incidere su una stele dal re Shabaka, della XXV dinastia. A quanto afferma lo stesso re, la versione riportata sulla pietra era la copia di un originale molto più antico. La stele, collocata nel tempio di Ptah a Menfi, narrava la cosmologia locale, nota come "Teologia menfita", che faceva del dio Ptah il creatore dell'universo. Essa era preceduta da una spiegazione mitologica del ruolo del tempio di Ptah come "Bilancia delle Due Terre", che faceva riferimento al mito della lotta tra Horo e Seth: era Menfi, infatti, il luogo dove era avvenuta la riconciliazione dei due dei che si contendevano il possesso dell'Egitto.

Il mito si apre con l'intervento di Geb, che separa i due contendenti ed assume l'arbitraggio della disputa: in un primo momento, Geb instaura Seth sul trono dell'Alto Egitto e Horo su quello del Basso Egitto. Seth, infatti, deve recarsi sul luogo in cui è nato, l'Alto Egitto, mentre a Horo spetta il luogo dove è annegato suo padre Osiride, il Delta. La narrazione prosegue descrivendo l'amarezza di Geb nel dover dividere l'eredità di Osiride, l'Egitto, che egli vorrebbe attribuire interamente a Horo, figlio primogenito di Osiride e suo nipote. L'intimo desiderio di Geb ha quindi il sopravvento, ed egli assegna a Horo l'intero Egitto. Horo appare dunque come re delle Due Terre, mentre Seth si riappacifica con Horo nel tempio di Ptah a Menfi, punto di congiungimento dei due regni uniti.

Una ricca simbologia dualistica fa da contorno al racconto: l'iconografia dell'Unione delle Due Terre, in cui Horo e Seth annodano le due piante emblema dell'Alto e del Basso Egitto intorno al geroglifico "unire"; le Due Corone, la bianca e la rossa; le Due Signore, Nekhbet, la dea avvoltoio di el-Qab, e Uadjet, la dea cobra di Buto nel Delta; i due santuari arcaici connessi al Nord ed al Sud. Sul piano rituale, la duplice realtà di un Egitto unificato a partire da due regni, coincidenti con la Valle del Nilo e con il Delta, svolgeva un ruolo significativo, esemplificato dalla scenografia della festa Sed, il giubileo regale che rinnovava il potere del re e ne riaffermava il diritto divino al possesso della terra d'Egitto.

In questo mito, l'egittologo Kurt Sethe lesse il riflesso di una realtà storica dell'epoca predinastica: egli formulò una teoria della formazione dello Stato egiziano che vedeva nel progressivo aggregarsi delle città in province (i nomi) e federazioni il processo costitutivo di due grandi regni, quello del Sud, con capitale ad Ombos (Naqada), e quello del Nord, con capitale a Damanhur nel Delta occidentale. Il Sud sarebbe stato sotto la tutela del dio Seth, il Nord sotto il dio falco Horo. Alla fine del V millennio, gli "Horiani" del Nord avrebbero sconfitto il Sud, unificando l'Egitto e ponendo la capitale a Heliopolis, il cui dio Atum-Ra sarebbe divenuto la divinità nazionale e dinastica. Questo regno unito eliopolitano si sarebbe mantenuto fino alla rivolta del Sud, alla fine del IV millennio, con l'invasione del Basso Egitto e la creazione della seconda monarchia unita, quella storica, intorno al 3000 a.C., avente Menfi per capitale e Menes come primo re.

Sethe aveva ricostruito, con la sua ipotesi, la versione che della propria storia davano gli Egiziani, nel tardo Antico Regno. La lettura incrociata dei nuovi dati forniti dall'archeologia pre- e protodinastica, insieme a quelli della documentazione testuale ed iconografica, permette di discernere e separare alcuni degli strati che formarono il mito e di collocarli nel contesto appropriato.

Se l'origine di Seth a Naqada è un dato storico, problemi crea quella di Horo: questi, legato al Delta più dalla morte di suo padre Osiride che da un'origine effettiva del culto, fu venerato in tempi antichi a Nekhen, in Alto Egitto, che i Greci chiamarono Hierakonpolis, la "Città del Falco". Nei Testi delle Piramidi è questo il solo luogo di culto ricordato per il dio, che aveva già aspetto di falco, come mostra la sua rappresentazione sulla tavolozza di Narmer, uno dei re predinastici della dinastia 0, conservata dai sacerdoti in una cripta del tempio della città. Il nome ("Colui che è in alto") e l'aspetto potrebbero indicarne la natura celeste: un pettine della I dinastia lo rappresenta su una barca, sorretta da un paio di ali spiegate.

La tradizione iconografica successiva rappresentò sempre su barche le divinità di cui si voleva mettere in rilievo la natura astrale: il sole, le divinità del suo equipaggio celeste, gli dei che rappresentavano i pianeti e le stelle. La barca era la metafora grafica che suggeriva l'idea del moto. È impossibile dire se le barche rinvenute ad Abido, seppellite accanto alla tomba di uno dei re protodinastici, dovessero servire alle navigazioni celesti del re come Horo, o fossero intese semplicemente come suppellettili essenziali alle funzioni del sovrano.

Fin dalle origini, il dio Horo è associato alla regalità. Un numero significativo di documenti, databili tra la fine del IV e gli inizi del III millennio, accosta al sovrano il dio falco Horo: l'immagine del rapace sovrasta la rappresentazione stilizzata del palazzo reale che racchiude il nome del re (il "nome di Horo", nucleo più antico del protocollo regale), in una sintesi grafica dell'idea che il re è "Horo nel palazzo", l'incarnazione contingente del dio; sulla tavolozza di Narmer, il falco Horo, che regge tra gli artigli un geroglifico con il nome del territorio conquistato, fa da contrappunto alla grande immagine centrale del re che impugna per i capelli il nemico in ginocchio.

La duplice natura di Horo (dio celeste/re) ne fece la divinità principale della religione più antica. La sua natura concreta di dio in terra, visibile nella persona del re, rappresentava un potente elemento d'attrazione. Questa duplice natura si presta a fare della figura del re il perno attorno a cui si costruisce, nelle prime dinastie, la visione egiziana del mondo: il re è l'elemento d'unione fra cielo e terra, tra mondo divino e umano. I suoi atti e le sue parole possono agire su ambedue i livelli e garantirne l'unione.

L'esistenza di un duplice regno a Sud e a Nord non è confermata, per ora, dall'archeologia. I ritrovamenti nel Delta sembrano delineare un quadro più poliedrico e frammentato, caratterizzato da diversi centri di potere, di cui uno di più significativi fu Buto, legata alla storia mitica dei re predinastici del Nord e al ciclo di Horo. L'unità del Delta, tuttavia, fu una conseguenza dell'espansione meridionale. Lo "slittamento" di Horo da Sud a Nord va letto nel quadro della rimodellazione effettuata dal potere centrale: esso fu funzionale alla creazione di un nuovo polo di riferimento a nord, contemporanea al ruolo intellettuale dominante che andava assumendo Heliopolis, e all'elaborazione, ad opera dei suoi sacerdoti, di quella geografia religiosa simbolica, strutturata sul dualismo, che costituì l'ossatura del sistema.


la visione del mondo

La religione come spiegazione della realtà

La richiesta di senso, che è alle origini della religione, fece sì che questa dovesse proporsi come spiegazione del mondo. Una parte consistente della religione egiziana, infatti, fu dedicata ad una sistematizzazione dell'universo, che può configurarsi come un tentativo di spiegazione scientifica, secondo i modi e le possibilità di quella civiltà.

Un approccio corretto allo studio della religione egiziana non può prescindere dalla consapevolezza della profonda differenza di mentalità che separa gli antichi da noi.

La civiltà egiziana concepì l'esistente come l'insieme di due livelli, intercomunicanti ed interagenti, ma distinti: il livello della realtà sensibile e quello dell'ultrasensibile. Il secondo comprendeva tutto ciò che sfugge alla percezione umana, ma la cui realtà è innegabile e avvertita; su questo livello si poneva il mondo divino e sovrumano. In epoca più tarda, quando una parte degli intellettuali egiziani aveva assorbito i modi speculativi ed espressivi tipici del pensiero greco, questa visione avrebbe assunto la forma del rapporto tra macrocosmo e microcosmo. I due piani costituivano una totalità organizzata, i cui elementi erano collegati tra loro attraverso una serie di relazioni, costruite sui principi dell'analogia, della correlazione e dell'opposizione. La ricerca di queste relazioni, percepite come l'ordine che sottostà all'universo, fu l'oggetto del pensiero speculativo egiziano.

L'incessante opera teorica di messa in ordine iniziava dal piano della realtà sensibile. Il postulato di base era che le caratteristiche visibili fossero il segno di proprietà specifiche ma celate. Una forma tipica di associazione era l'unione di due entità antitetiche o simmetricamente opposte: essa stava alla base di una struttura caratteristica del pensiero egiziano, il dualismo. Coppie di questo tipo costituivano, nel pensiero egiziano, l'unità elementare del creato. Erano possibili, tuttavia, anche altre forme di associazione: una di queste fu quella fondata sull'assonanza del nome, che ebbe una particolare diffusione nella speculazione religiosa d'età tarda.

L'insieme delle relazioni che permettevano di costruire una classe omogenea veniva riferito ad un principio divino. Le divinità, dunque, fungevano da referente astratto del reale, principio ordinatore e causale: la presenza di caratteristiche che gli Egiziani sentivano come simili era spiegata in termini di partecipazione della natura di una stessa divinità. Il rapporto tra i due piani della realtà, sensibile ed ultrasensibile, è assimilabile a quello tra un significante ed un significato, legati insieme da un nesso non arbitrario. Le divinità egiziane sono concepibili come rappresentazioni generali delle forze che costituiscono il mondo. Le correlazioni, tuttavia, non erano fisse né univoche; ciascuna entità reale riassumeva in sé aspetti e funzioni molteplici, rappresentabili con altri segni mitici.

Il pensiero "geroglifico"

Il processo di astrazione, che portò gli Egiziani ad un sistema di scrittura in cui la funzione di molti segni prescindeva dal significato dell'immagine rappresentata, incise profondamente sulla loro riflessione e sulla loro rappresentazione del mondo. Gli Egiziani non passarono all'astrazione neutrale di un codice grafico privo del valore evocativo originario, ma conservarono i segni densi di richiami iconici al mondo circostante. Come i geroglifici mostrano una cosa ma a volte ne significano un'altra, così il mondo ebbe per gi Egiziani livelli di lettura molteplici e non sempre evidenti.

L'equazione mondo-geroglifico fu posta esplicitamente dal pensiero egiziano: nella Teologia Menfita, il dio Ptah crea il mondo concependo nel suo cuore l'immagine delle cose e facendole venire in essere attraverso il nome pronunciato dalla lingua; così è venuto in esistenza ogni "discorso del dio". Il termine usato "parole del dio", è lo stesso con cui si indicano i geroglifici, nati dall'unione di un'immagine ad un suono o insieme di suoni. La cosmogonia menfita vede la creazione divina su due livelli paralleli, quello ideale, in cui il dio pensa "geroglifici", e quello reale, in cui i geroglifici pensati e pronunciati si traducono nelle cose esistenti. La Teologia pone dunque le basi teoriche del rapporto tra scrittura e creazione, e della creazione come atto supremo di ordinamento.

Fisica e cosmologia

Gli Egiziani videro l'universo come un sistema dinamico; le diverse concezioni condivisero la consapevolezza della fragilità dell'ordine naturale: esso è il risultato del braccio di ferro cosmico che oppone dei e uomini alla pressione disgregante del non-esistente. Quest'ultimo, che i testi chiamano Nun, non è il nulla, ma la materia sottratta alle leggi dell'universo spazio-temporale ed aggregata in un'unica compatta unità. Le sue caratteristiche sono definite dai testi cosmogonici con un procedimento negativo, attraverso l'assenza delle qualità fondamentali che l'esperienza umana attribuisce al mondo. La creazione, messa in moto dall'energia presente da sempre nel Nun e identificata dalle diverse cosmogonie ora con la divinità suprema ora con un demiurgo, è l'atto ordinatore e separatore per eccellenza: esso da forma e movimento alla materia immota ed informe, sottoponendola alle leggi dello spazio e del tempo. La molteplicità dell'esistente è tratta dall'indifferenziazione originaria attraverso la creazione della prima dualità, unione di principio maschile e femminile. L'energia che fa interagire i due principi è espressa nella Teologia Menfita come il risultato del rapporto di amore e odio che unisce i vari elementi.

La cosmogonia eliopolitana descrive le fasi successive della creazione, a partire dalla prima dualità, nei termini di una genealogia, attraverso la quale si definisce l'universo fisico, dall'alto verso il basso: da Shu e Tefenet, che circoscrivono l'ambito aereo-igneo, sono generati Nut e Geb, il cielo e la terra. La generazione successiva, composta da due dei, Osiride e Seth, e due dee, Iside e Nefti, innesta il piano sociale su quello cosmico, attraverso l'intermediazione del mito regale: da Osiride ed Iside nasce Horo, prototipo divino della regalità egiziana che si rinnova in ogni faraone.

La creazione non è la trasformazione totale ed irreversibile del non-esistente in esistente: non implica la sua eliminazione. Il mondo creato è solo una nicchia scavata nell'infinita immensità del non-essere, che non può essere interamente trasformato. Esso segna un limite invalicabile per gli stessi dei, perché questi fanno parte della creazione e ne subiscono le leggi. Gli dei egiziani muoiono o moriranno: non solo Osiride, prototipo divino del re morto; morte e corruzione sono il destino che attende tutti, uomini e dei. Nemmeno l'universo durerà in eterno.

L'atto della creazione inserisce tutti gli elementi in un sistema equilibrato di relazioni: questo complesso concetto di ordine ed equilibrio è chiamato dagli Egiziani Maat. Esso esemplifica la continuità tra piano cosmico naturale e piano umano-sociale: Maat è sia il regolare svolgimento dei fenomeni cosmici e biologici, sia il rispetto delle norme religiose, sociali ed etiche; per garantire il primo, è fondamentale il secondo.

Il bisogno di ordine e la visione pessimistica della sua fragilità furono profondamente radicati nella psicologia collettiva dell'antico Egitto, e determinati dalle caratteristiche stesse dell'ambiente in cui questa civiltà si sviluppò, dalla minaccia continua che il deserto rappresentava per quel solco di vita delimitato con rigida geometria e mantenuto a patto di un'altrettanto rigorosa gestione dell'irrigazione. L'insistenza sui valori della stabilità e permanenza, la prospettiva da cui si guardò al problema del male in termini di disordine e la soluzione immaginata al problema, che assegnò al re il ruolo supremo di agente rituale ed ai sudditi quello dell'obbedienza sociale, ricordano quanto funzionale fosse questa concezione all'ideologia del potere.

La nozione di divino e gli dei

L'universo religioso delle prime fasi della civiltà egiziana è un messaggio in codice, la cui chiave è persa. È possibile che alcune rappresentazioni di emblemi presenti sulla ceramica dipinta d'età predinastica alludano al culto di feticci, ma è improbabile che l'indagine archeologica possa rinvenire prove concrete della loro esistenza. È invece certa la presenza, in epoche antiche, del culto di animali sacri. Il contesto in cui si situano questi remoti antenati delle rappresentazioni simboliche successive ne chiarisce la centralità: culture nomadi o seminomadi, caratterizzate da un precoce pastoralismo e da una fortissima dipendenza dal latte, dal sangue e dalla carne che quelle bestie potevano fornire.

Nella seconda metà del IV millennio a.C., luoghi specifici erano ormai deputati al culto di esseri divini.

Con la comparsa della scrittura geroglifica, il concetto di divino è ormai formulato ed espresso nella parola ntr, la cui traduzione con "dio" si fonda sull'equivalenza con il greco theos, in età tolemaica, e con l'analoga resa del copto noute. Tre segni geroglifici possono scrivere la parola: nella sua forma essenziale, un bastone avvolto con bende o nastri, rappresentazione di un feticcio da cui discesero, probabilmente, i vessilli che sventolavano all'ingresso dei templi; il falco issato su un trespolo; il dio in forma antropomorfa. Varie etimologie sono state proposte per chiarire il significato della parola ntr, dal nesso con una radice che significa "ringiovanire" alla parola "natron", nessuna convincente.

Gli Egiziani non concepivano la natura divina radicalmente diversa da quella umana: la differenza era più quantitativa che qualitativa. Un attributo caratteristico degli dei egiziani era il ba, un modo di essere che gli uomini possono raggiungere solo da morti e che designa la facoltà di manifestarsi su di un altro livello del reale. Animali, piante, fenomeni naturali possono essere qualificati come ba di un determinato dio. Dopo l'età ramesside, i teologi svilupparono a livelli di estrema complessità questo concetto, moltiplicando i ba degli dei e facendoli coincidere con gli elementi costitutivi del cosmo, in una sorta di panteismo.

Una caratteristica delle divinità dell'antico Egitto è la loro vaghezza: ricondurre un dio ad un'unica iconografia, collegarlo ad un'etichetta precisa, è impossibile.

La complessità degli dei egiziani è connessa al fatto che essi rappresentavano non i singoli fenomeni concreti, ma i principi astratti operanti in essi: erano formule più che forme. Nomi, forme, attributi erano aspetti contingenti, variabili ed accrescibili a seconda delle esigenze; il sistema era aperto, una qualità che sottolinea la profonda estraneità del monoteismo al pensiero egiziano.

La spiegazione delle aporie: l'esistenza del male

La concezione ufficiale, che faceva coincidere la nozione del male con quella di disordine, non poteva costituire una spiegazione interamente soddisfacente dell'esistenza del male. Le ingiustizie, la sfortuna e la necessità di concepire la divinità come buona e misericordiosa dovevano rendere pressante la domanda sulle cause dell'esistenza del male e insufficiente la risposta ufficiale.

I dati del problema sono già presenti in uno dei Testi dei Sarcofagi: si tratta del capitolo che chiude la raccolta di formule nota come Libro delle due vie, antesignano delle guide dell'Aldilà iscritte nelle tombe reali del Nuovo Regno. Il demiurgo rammenta le quattro buone azioni che egli ha concepito per neutralizzare il male: ha creato i quattro venti, affinché ognuno possa respirare; l'inondazione, per dare uguale possibilità di sostentamento a tutti; l'uguaglianza degli uomini; la consapevolezza della morte ed il sentimento religioso, affinché siano rispettati il culto dei morti e quello degli dei.

Il testo imposta il problema della teodicea e fornisce la teorizzazione del libero arbitrio umano: il creatore è buono, si preoccupa di neutralizzare il male, un'affermazione che implica, però, che il male esista a priori. Le misure prese dal dio per scongiurare il male si fondano sulla possibilità di garantire agli uomini una base egualitaria di diritto all'esistenza; l'uomo non ha tuttavia mantenuto la bontà originaria dell'opera divina. Se ne deduce una teoria sociale che, nell'affermare il libero arbitrio dell'uomo e scagionare il dio, individua le cause della malvagità umana nell'ineguaglianza. Il dio è dunque sollevato dalla responsabilità diretta dell'esistenza del male: il male è nella natura dell'uomo, ed esisterà finché esisteranno gli uomini.

Fino alla fine del II millennio, i testi sembrano fornire due tipi di risposte al problema dell'esistenza del male: uno vede il male come parte necessaria alla creazione; il demiurgo partecipa della sua natura duplice ed ambigua. Il secondo tipo di risposta nasce dall'esigenza di trovare nella religione il sostegno ed il conforto necessari a superare le traversie della vita; esso richiede che la divinità sia concepita come sommamente buona e deve cercare altrove le radici del male. L'ingiustizia non resta impunita: l'idea del libero arbitrio e della malvagità connaturata all'uomo condividono la fede nell'esistenza di un legame di causa-effetto tra colpa e punizione. L'Insegnamento per Merikara è una testimonianza degli albori di questa concezione.

La fiducia nel libero arbitrio dell'uomo ha radici antiche nella cultura egiziana: il cuore, per gli Egiziani sede dell'intelletto, dà all'uomo la possibilità di agire o meno secondo l'insegnamento divino.

Alla fine dell'età faraonica, si fa strada una nuova tendenza determinista nella riflessione sul rapporto tra controllo divino e libertà umana: è il trionfo della predestinazione, che trova nel diffondersi di un'immagine pessimistica della divinità, capricciosa ed arbitraria, l'altra faccia della medaglia.

La documentazione di Età Tarda sembra suggerire un'accresciuta sensibilità al problema dell'esistenza del male, con il conseguente formarsi di una visione nuova e più cupa dell'azione delle forze del caos nel mondo. L'importanza crescente dei culti soteriologici costituisce un tentativo di risposta alla consapevolezza dell'azione devastante del male nel mondo, con la consegna di ogni speranza di salvezza nella figura di un dio bambino, che diviene il simbolo del trionfo dell'innocenza.

La morte

Gli antichi Egiziani portarono a picchi mai più raggiunti la volontà di esorcizzare la morte, spingendone agli estremi la ritualizzazione e profondendo risorse ingenti nel compito di rendere meno terribile di destino nell'Aldilà.

La morte era vista come connaturata all'esistenza stessa e armoniosamente integrata nel cosmo. Tuttavia, i testi, le raffigurazioni, le pratiche documentate attestano che la maggioranza degli antichi Egiziani guardò alla morte con angoscia.

Fino alla fine dell'Antico Regno, l'integrazione della morte individuale nel ciclo cosmico fu un privilegio riservato solo al sovrano. Solo dopo quest'epoca si assiste alla progressiva demotizzazione delle pratiche che permettevano anche ai comuni mortali l'accesso al ciclo di morte-rinascita dell'universo.

Nella definizione della teologia regale agli inizi della storia egiziana, la morte del re rappresentò l'aporia massima da risolvere, giacché poneva un problema che era da una parte quello del non senso della morte, dall'altro quello della morte del re-dio. Nelle epoche più antiche, il destino post-mortem assegnato al re è astrale, forse stellare in una prima fase, poi solare. L'importanza che il re raggiunga le sue mete celesti è tale che forze e risorse ingentissime sono mobilitate intorno alla costruzione delle piramidi. Nelle prime due dinastie, tuttavia, il re è ancora seppellito in tombe a mastaba, e non è possibile stabilire se già allora un destino celeste attendesse il re morto.

Per tutti gli altri, l'esistenza dopo la morte è concepita all'interno della tomba, e la possibilità di sopravvivenza è affidata alle offerte funerarie. Destinatario dell'offerta è il ka, la componente della personalità umana che rappresenta la forza vitale. Con il tempo, la nozione di ka sembra confondersi con quella di ba. Ba è in origine un modo di esistere più divino che umano: nell'Antico Regno, l'unico uomo a disporre di questa prerogativa è il re defunto. Il concetto di ba implica due aspetti interconnessi: quello di soglia tra diversi livelli della realtà e quello di manifestazione. Il ba è la manifestazione terrena di un potere la cui sfera di esistenza si colloca sul livello ultrasensibile; esso non fa parte della personalità umana, ma diviene una componente della personalità del defunto nel momento in cui questi viene assimilato ad Osiride. Ba è dunque la manifestazione del morto nel mondo umano, la sua capacità di muoversi tra i due livelli.

Tra la fine del III e gli inizi del II millennio, l'identificazione con il dio Osiride assicura al defunto, da una parte, l'integrazione allo schema idealizzato del rapporto padre-figlio, dall'altra, la negazione della morte attraverso l'inserimento nel ciclo dell'eterno ritorno cosmico. Il mito di Osiride offre un aggancio a tutti i miti la cui base è costituita da fenomeni periodici. Il circuito solare offrì la materia preferenziale per la costruzione della teologia di Ra-Osiride: il sole, principio della vita, penetra al tramonto nel mondo sotterraneo, dove incontra e si fonde con Osiride nel cuore della notte; da questo incontro con la morte incubatrice di vita, il sole notturno trae l'energia che mette in moto il rinnovamento e la rinascita all'alba.


il rapporto con il divino

Per entrare in comunicazione con il divino, gli antichi Egiziani disponevano di tre mezzi: i rituali, la divinazione e la preghiera.

I rituali

I rituali facevano parte del culto: le conoscenze, i principi operativi e i procedimenti potevano essere usati della sfera individuale; in questo caso, può essere funzionale una definizione di tali rituali come "magici".

Il rituale offriva un mezzo per intervenire sul corso degli eventi, per propiziarsi le forze in azione nel mondo, per affrontare l'ignoto. Nell'ideologia ufficiale, la sua funzione era la conservazione dell'ordine naturale. Attivando e rendendo operativa la connessione tra i due livelli del reale, sensibile ed ultrasensibile, il rituale agiva attraverso l'imitazione, la riproduzione simbolica dell'evento su cui voleva intervenire. A questo obiettivo concorrevano tutti i riti, sia quelli di funzionamento, destinati ad assicurare il corretto svolgimento dei fenomeni cosmici, che quelli apotropaici.

Una parte importante del rituale quotidiano era occupata dalla cura della statua divina e dal cerimoniale delle offerte; il rituale orario faceva parte della liturgia solare quotidiana. Altri riti avevano una ricorrenza periodica, in occasione dei momenti significativi dell'anno o delle feste, sia a carattere nazionale che locale: i Misteri di Osiride, noti sin dalla XII dinastia, erano tra questi, così come il rituale che celebrava il ritorno della dea Hator-Tefenet, attestato almeno dal Nuovo Regno. Questi entrano nella categoria dei riti che drammatizzano un mito, e così facendo lo riattualizzano: ogni rituale presuppone e mette in scena un mito, anche se nella pratica molti miti erano costretti ad hoc ad uno specifico rituale, allo scopo di conferire a gesti banali l'adeguata sacralità.

Un presupposto del culto era che l'agente rituale fosse il re: il rituale era uno scambio inter pares, un dialogo tra dei. Il re rappresentava l'umanità e costituiva l'intermediario tra i due livelli del reale. Nella pratica, il problema della non ubiquità del re era risolto attraverso l'idea della delega reale ai sacerdoti.

Con l'eccezione del clero più alto, dunque, la maggior parte delle persone era estranea alla religione ufficiale. Se si eccettua la partecipazione alle feste religiose, i soli atti di culto ufficiale che riguardavano in prima persona l'uomo comune erano quelli relativi alla sua morte: i rituali funerari ed il culto successivo.


Le pratiche religiose personali

Da sempre, gli uomini cercarono risposte e mezzi personali per affrontare le sventure o tollerare la paura di quelle potenziali. Gli amuleti, le pratiche magiche, la divinazione e la pietà si situano in questo spazio.

L'inaccessibilità degli dei orientò i fedeli verso figure di intermediari: ricoprivano questo ruolo le statue di individui che avevano occupato un ruolo preminente nel corpo sociale e che godevano di un vero e proprio culto. I morti furono gli interlocutori privilegiati dei vivi bisognosi d'aiuto.

In tutte le epoche e a tutti i livelli sociali, l'onomastica mostra la presenza immanente della divinità nella vita personale: il nome creava una relazione tra il neonato a cui era imposto e il dio nominato.

L'emergere di una religione personale non si ha che nel Nuovo Regno. L'elemento scatenante di questa trasformazione va visto nell'irruzione di una nuova dimensione nell'esperienza religiosa: la storia. Con il Nuovo Regno, per la prima volta, gli eventi storici non sono più la ripetizione, cristallizzata una volta per sempre, del mito, ma l'espressione della volontà divina. Gli oracoli si comprendono alla luce di questa concezione del divenire, che sfocerà nella teocrazia della XXI dinastia: il destino umano e cosmico è nelle sole mani di dio, a cui l'uomo non può rivolgersi che con la preghiera.




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