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STRUTTURE AGRARIE E INSEDIAMENTO RURALE - L'EREDITÀ DELLA STORIA NELLE CAMPAGNE DELLA VECCHIA EUROPA

geografia



strutture agrarie e insediamento rurale


l'eredità della storia nelle campagne della vecchia Europa

Il significato originario della policoltura di sussistenza

Le società rurali hanno instaurato dei rapporti durevoli e complessi con lo spazio agricolo da sfruttare, cioè hanno creato delle strutture agrarie che si caratterizzano per le tecniche e i sistemi di coltura, la morfologia agraria, i tipi d'insediamento e le diverse forme di proprietà e di conduzione. Nella ricerca di garantirsi i mez­zi di vita, hanno scoperto la diversità d'adattamento delle varie piante domestiche alle condizioni ambientali. Hanno adottato un sistema di policoltura, spesso associata all'allevamento; hanno mirato a fondare la sussistenza non su coltivazioni slegate, ma sull'accostamento di piante attra­verso una precisa ripartizione dei terreni e dei lavori. Agli inizi, l'agricoltura è basata sulla coltivazione di cereali, di leguminose e piante tessili.



Espressione emblematica della policoltura di sussistenza è l'azien­da agricola tradizionale della vecchia Europa. La policoltura sì adatta a ritmi di lavoro complementari, differiti nel tempo per permettere una continuità d'occupazione e una maggiore produttivi­tà. La policoltura rappresentava un'assicurazione contro le calamità: se andava perduto un raccolto, un altro prodotto poteva sopperire alla situazione d'emergenza.

In tutta l'Europa la policoltura è sostituita da varie specializzazioni, ma permane l'impronta che essa ha conferito al paesaggio rurale. Tre tipi fondamentali di paesaggi agrari sono riconoscibili alla base dell'organizzazione delle campagne della vecchia Europa. Nei paesi del Mediterraneo, i tratti più appariscenti derivano dalla discontinuità dei campi, alternati ai pascoli, e dall'insediamento in centri compatti; le valorizzazioni più avanzate riguardano i terrazzamen­ti dei pendii e le colture di seminativi associati alla vite e all'olivo.

Nel bassopiano franco-germanico-polacco l'agricoltura si affermava nel Medioevo con un carattere comunitario. Per accordi collettivi la campagna attorno al villaggio era divisa in tre settori: uno era seminato a frumento in autunno, nell'altro si seminava l'avena a primavera, il terzo era aperto al pascolo. Ogni anno si ruotavano le colture, secondo una rotazione triennale. Vigeva la proibizione di recintare le strisce di terra che ogni famiglia possedeva in ciascuno dei settori; da ciò deriva il paesaggio "a campi aperti", senza siepi, chiamato openfield

Nelle regioni occidentali d'Europa l'agricoltura tradizionale è individualistica. Essendo ciascuno il padrone assoluto dei pro­pri campi, li ha recintati con siepi per riservare il pascolo ai propri animali o per impedire agli animali di entrare a danneggia­re i raccolti. Questo paesaggio "a campi chiusi", che si è soliti chiama­re bocage, è espressione della proprietà fami­liare, cui si accompagna l'insediamento in case isolate sui fondi.

La proprietà privata della terra è originaria dell'Europa e non è omogenea; la proprietà fondiaria riguarda il pos­sesso della terra, la conduzione agraria riguarda il modo di gestirne l'uso.

La piccola proprietà coltivatrice è la forma più diffusa nell'Europa Occid 858g69i entale: il proprietario assume la gestione della sua terra e la coltiva col proprio lavoro e con quello dei suoi familiari (coltivazione diretta). Il diritto di successione "romano", che spartisce l'eredità tra i figli, ha portato alla progressiva frammentazione delle proprietà fondiarie a seguito delle ripetute successioni. Quando il fondo è molto piccolo (microfondo), è causa di sprechi e rende non remunerativa la meccanizzazione; talvolta si è proceduto ad un riaccorporo dei lotti attraverso la ricomposizione fondiaria

La grande proprietà può essere condotta in economia direttamente dal proprietario, che si può avvalere di salariati fissi per tutto l'anno e di braccianti: si tratta di una conduzione capitalistica finalizzata a produzioni da reddito attraverso l'applicazione delle tecniche moderne. La gran­de proprietà può essere appoderata, cioè suddivisa in poderi affidati ciascuno al lavoro di una famiglia di mezzadri.

Vi sono grandissime pro­prietà legate all'arcaica struttura del latifondo: il proprietario si limita a percepire la rendita di uno sfruttamento estensivo, senza curarsi di reinvestire gli utili per una migliore valorizzazione.

Diversità d'ambiente e di strutture nelle contrade mediterranee

I paesi affacciati al Mediterraneo pre­sentano caratteri originali molto marcati; l'attività agricola è condizionata da un'estate troppo secca, tanto più arida in quanto la mancanza di precipitazioni è aggravata dalla calura. Per i cereali il con­tadino mediterraneo ha utilizzato la "coltivazione a secco" nella rotazione biennale, un anno a colture e un anno a riposo.

L'associazione dei cereali con le colture arboree o arbustive è la formula classica dell'agricoltura mediterranea: queste piante possono reggere al secco meglio delle colture erbacee. Si viene a costituire la "triade mediterranea" (fru­mento, olivo, vite) adatta ad un clima caldo e secco d'estate, mite e piovoso d'inverno. Vista l'esiguità delle pianure, i contadini hanno messo a profitto i pendii applicando la tecnica deI terrazzamento: hanno inciso le pendici con terrazze degradanti a scalinata e sostenute da muretti di pietre a secco.

Un carattere tipico delle zone meno favorite è la discontinuità del­le colture: lo spazio si differenzia in una localizzazione/utilizzazione centrale e in una localizzazione/utilizzazione periferica.

Alla storia, più che alla natura, i paesaggi agrari mediterranei debbono la loro complessa differenziazione. Quasi ovunque si contrappongono la piccolissima proprietà (minifondo) e la grande proprietà o il latifondo, mentre restano in ombra le proprietà medie. L'eccessivo frazionamento della terra impedisce l'introduzione della specializzazione e della mec­canizzazione.

I villaggi torreggiano su alture di difficile accesso, ove furono costruiti per ragioni difensive e per evitare la malaria: il bisogno di protezione spiega l'aspetto di fortezze che essi ostentano.

Un aspetto fondamentale delle contrade mediterranee consiste nella giustapposizione di due tipi di paesaggio: uno, storico, con cereali e alberi da frutto adatti al clima secco e con insediamenti arroccati in siti eminenti; l'altro, più moderno, con l'intensificazione delle colture attraverso la bonifica e l'irrigazione delle zone piane e con l'inserimento di case isolate nei poderi.

La bonifica delle pianure costiere e dei fondi vallivi, insieme al raggiungimento della sicurezza sociale, ha provocato nell'ultimo secolo lo slittamento verso il basso della popolazione dei borghi sommitali.

L'Italia di mezzo è caratterizzata dal paesaggio della "coltura promiscua": la campagna è geometricamente divisa in riquadri rettangolari, sepa­rati da filari di viti; nel mezzo l'arativo è investito a grano, a foraggiere, a colture industriali. L'alberata e la piantata si sono diffuse a partire dal XV secolo per iniziativa della borghesia.

Tra il XVII e il XIX secolo la crescente pressione demografica e l'ulteriore intensificazione dell'agricoltura hanno sminuzzato le campagne in piccole proprietà di coltivatori, e in pro­prietà di borghesi cittadini affidate in conduzione a mezzadri.

Nel periodo tra le due guerre, il passaggio dalla policoItura di sussi­stenza all'agricoltura specializzata per il mercato e la meccanizzazione agricola che esige vasti spazi a seminativi senza intralci di alberi, hanno segnato il declino della mezzadria e della pianta­ta.

Paesaggio a openfield: gestione comunitaria e insediamento accentrato

Contrariamente alle regioni mediterranee, a partire dal Medioevo i paesi dell'Europa centroccidentale non han­no cessato di perfezionare le tecniche agricole. Dopo il periodo barbarico dell'Alto Medioevo, lo sviluppo delle cit­tà riprese vigore e la crescente domanda di prodotti alimentari stimolò la ricerca di migliori tecniche agricole.

DaI IX secolo la rotazione biennale praticata dai Romani comincia ad essere sostituita dalla rotazione triennale con due anni di coltura e solo il terzo a riposo. Allo sforzo di aumentare la resa deI suolo si aggiunge, nel XII secolo, l'allargamento delle aree coltivate. A questo stadio socioeconomico si fa risalire l'affermazione della struttura comunitaria dell'openfield nelle zone in cui la riduzione dell'incolto pascolativo a vantaggio delle coltivazioni portava a utiliz­zare le stoppie per il pascolo comune, e a riservare al bestiame un settore dell'agro con una rotazione obbligatoria.

La morfologia dell'openfleld presenta appezzamenti nastriformi aggruppati in quartieri quadrilateri. Norme comunitarie proibivano qualsiasi re­cinzione per dare al bestiame libero accesso sui campi deI settore te­nuto a maggese. La terra pertinente ad ogni famiglia era ripartita in ciascuno dei tre settori, in modo da dare differenti raccolti.

Paesaggio a bocage: proprietà familiare e insediamento sparso

Entro il dominio dell'openfield s'inseriscono talvolta dei trat­ti di bocage; ma è sulla facciata atlantica dell'Europa che questo pae­saggio a campi chiusi si dispiega in tutta la sua entità: neppure qui, tuttavia, l'omogeneità è compatta, poiché s'interpongono zone a campi aperti.

Il bocage si potrebbe definire come quel sistema di produzione che in un ambiente favorevolmente umido dà importanza alle foraggiere per l'allevamento, oltre ai cereali, e si organizza con recinzioni intorno ai campi: vi si accompagna la gestione privata delle aziende e l'inse­diamento in case sparse, o in agglomerati elementari. La morfologia agraria è caratterizzata dalle recin­zioni; i campi hanno la forma di quadrilateri irregolari.

Il bocage si segnala per la notevole varietà. La varietà deI bocage è il risultato dell'individualismo; la gestione deI territorio non è vincolata a norme comunitarie e il pascolo è circoscritto entro appezzamenti recintati.

Il sistema a campi chiusi è una protezione deI seminativo dal bestiame, attuata recin­tando i campi e chiudendo il bestiame in un prato; ma è anche un limite giuridico a garanzia deI possesso individuale: di fron­te all'uso di considerare le terre aperte come beni comuni, la recinzione del proprio campo appare come una sorta di affermazione deI diritto di proprietà.

Nella fascia atlantica dell'Europa questo duplice significato delle "chiusure" è stato rinverdito in epoca moderna dallo sviluppo dell'eco­nomia di mercato. In Gran Bretagna, attraverso il movi­mento delle "enclosures", dal XVI al XVIII secolo, la borghesia ha tra­sformato l'openfield medievale in grandi proprietà dedite all'allevamen­to. Il "modello inglese" ha aperto la via a una serie di riforme agrarie capitalistiche, che hanno sostituito l'openfield con il bocage in interi Stati.




adattamento delle strutture agrarie all'economia di mercato

Rivoluzione verde e meccanizzazione agricola

Nei sistemi tradizionali di policoltura, la necessità di praticare le coltivazioni indispensabili alla vita deI gruppo ha sortito uno scarso rendimento della terra e una ancor più scarsa produttività del lavoro umano.

Fino alla rivoluzione industriale deI XIX secolo, parecchie cause concorrevano a mantenere la valorizzazione deI suolo ad un livello molto basso. La povertà dell'attrezzatura, l'inadeguata concimazione, l'ignoranza di tecniche per migliorare le piante coltivate e le razze al­levate, condannavano i sistemi pre-industriali di coltura e di alleva­mento a rese non soddisfacenti.

Ma nel XIX secolo si è avuta in molte campagne europee una profonda trasformazione dell'atti­vità agricola, che va sotto il nome di "rivoluzione verde". Essa ha con­dotto a due risultati fondamentali: l'agricoltura si è fatta più intensiva, cioè capace di una maggiore produzione per unità di superficie; ma soprattutto si è specializzata, adottando le coltivazioni meglio rispon­denti alla "vocazione" di ciascuna zona e alla domanda di mercato.

Il primo passo è attuato con l'eliminazione deI turno di riposo nel­la rotazione triennale; l'ab­bondante foraggio ottenuto porta ad un'intensificazione dell'allevamento stallino, che diviene il secondo fattore di produzione nell'azien­da. Il massiccio sfruttamento del letame facilita la continuità delle colture mantenendo la fertilità della terra.

La selezione delle sementi porta a un miglioramento delle piante coltivate, sia nella qualità che nella resa; la scelta di razze adat­te accresce la produzione zootecnica. Il progresso è facilitato dallo sviluppo delle scienze agronomiche, che utilizzano le ricerche della biologia e della chimica.

Oggi la resa per unità di superficie non è la massima preoc­cupazione dell'agricoltore; importa di più, il rendi­mento per unità lavorativa, in quanto il costo della manodopera incide in misura crescente sui costi di produzione. Lo sviluppo della meccanizzazione agricola risponde anche a questa istanza di economia. Grazie all'industria, che fornisce macchine agricole sempre più efficaci, il risparmio di mano­dopera è enorme.

La motorizzazione dell'agricoltura, cancellando la necessità di te­nere animali da lavoro, ha liberato grandi estensioni dal vincolo della fornitura foraggiera e ha reso possibile l'impianto di coltivazioni più congeniali e più remunerative. Inoltre, ha affrancato la campagna da un'enorme quantità di lavoro umano e ha liberato una massa di manodopera, che è andata a ingrossare le file deI proletariato urbano. La meccanizzazione agricola e il progresso dei mezzi di trasporto hanno aperto la strada all'agricoltura di mercato, cioè a un'economia specializzata nelle produzioni di merci da vendere.

Aziende specializzate per un'agricoltura di mercato

In alcuni paesi europei, importanti trasformazioni delle strutture agrarie si erano annunciate già prima della rivoluzione industriale.

In Inghilterra lo sviluppo dei commerci e delle manifatture, a cominciare dal XVII secolo, aveva arricchito la borghesia imprenditrice delle città e i proprietari terrieri. Questa clas­se finanziariamente solida si impossessò delle pic­cole proprietà contadine e delle terre a gestione comunitaria, passan­do a recintarle per tenervi l'allevamento specializzato di pecore: si svolse così quel vasto processo di trasformazione capitalistica delle enclosures che proseguirà fino all'inizio deI XIX secolo. Il primo atto fu la distruzione deI sistema dell'openfield, cioè dell'economia cerealicola su "campi aperti" nelle mani di società contadine di piccoli coltivatori; al suo posto si è formato un paesaggio di bocage attraverso l'aggregazione di par­ticelle e la recinzione di vasti lotti per l'allevamento. È quindi avvenuto un processo di eliminazione degli antichi diritti comunitari e divisione privata dei beni, di dissoluzione deI secolare accentramento in villaggi e diffu­sione di case isolate su fondi autonomi, di scomparsa della classe di piccoli coltivatori e affermazione dei gentiluomini di cam­pagna.

I grandi proprietari investirono i capitali in una ricon­versione colturale in parallelo con l'inserimento delle foraggiere nella sezione deI maggese: tutto a vantaggio di una razionale intensificazione dell'allevamento. Nell'Ottocento gli Inglesi, per facilitare l'esporta­zione dei prodotti delle industrie, adottarono il principio economico deI "libero scambio".

Nell'agricoltura di mercato, la dissociazione tra produzione e con­sumo ha generato strutture intermediarie tra produttori e consumatori nel quadro di circuiti commerciali. Per alcuni prodotti funzionano delle borse merci: i prezzi oscillano a seconda deI gioco della domanda e dell'offerta, o in dipendenza da avveni­menti di politica interna o internazionale.

Il movimento commerciale di una grande quantità di prodotti esi­ge una razionalizzazione mercantile; s'inquadra nel sistema anche il ciclo della distribuzione: i prodotti vengono im­magazzinati secondo vari processi conservativi.

L'agricoltura di mercato tende ad assumere alcuni dei caratteri peculiari dell'industria. Se la rivoluzione agricola ha trasformato gli ordinamenti colturali e se il rinnovamento socio-professionale può procedere in tempi brevi, le strutture agrarie evolvono con molto ritardo a causa della forza d'inerzia che le tiene radicate al passato.



monocolture commerciali dei paesi nuovi

Produzione specializzata per il mercato: i belts nordamericani

Mentre nella vecchia Europa il paesaggio rurale è un palinsesto che porta le tracce di una storia secolare, nei "paesi nuovi" l'agricoltura è cresciuta libera da ogni servitù deI passato. Dalla metà dell'Ottocento si sono diffuse in questi paesi colture speculative fondate sui mezzi di trasporto, in particolare sul connubio tra ferrovie e navi.

Il paesaggio rurale dei paesi nuovi si presenta sotto forma di un'occupazione continua deI suolo su vasti spazi. Il dise­gno degli appezzamenti è di una regolarità geometrica senza eccezioni. Nel Nordamerica i coloni poterono organizzare l'agricoltura nel modo più razionale e con un carattere specializzato e speculativo, tenendo conto ­delle attitudini naturali del territorio e delle opportunità offerte dal mercato. In base a tale principio, essi hanno ripartito le coltivazioni in zone specifiche (Belts), consacrate ciascuna ad un solo prodotto, anche se oggi la specializzazione integrale è limitata.

Le aziende sono quasi tutte di notevole superficie, ma più deI prezzo della terra conta l'investimento di capitale in macchine e attrezzature. La manodopera grava pesantemente sul costo di produzione; perciò si cerca, attraverso la meccanizzazione, di accrescere il rendi­mento per unità lavorativa. L'organizzazione commerciale permette di immagazzinare i cereali in attesa deI momento favorevole alla vendita.

La scelta delle piante da coltivare dipende molto dalle quotazioni di mercato. Questi metodi, che si basano sulla standardizzazione, non possono evitare le crisi agricole per sovrapproduzione e conseguente crollo dei prezzi. Lo stato interviene sia indirettamente, curando studi previsionali deI mercato, sia direttamente, fissando un prezzo garantito.

Rang della colonizzazione francese e township della colonizzazione anglosassone

Nel Nordamerica la colonizzazione si è affermata attraverso la spartizione della terra in lotti individuali, perciò nelle campagne prevale l'insediamento sparso. Quasi ovunque il popolamento si è inscritto in reticoli geometrici: i rettangoli deI rang della colonizzazione francese e la scacchiera deI township dei coloni anglosassoni.

Il rang, diffuso nel Canada francofono e nella Louisiana di coloniz­zazione francese, ricalca l'originaria concessione di terre in lotti rettangolari, col lato breve appoggiato a un fiu­me e, successivamente, alle strade. Si iniziò col dividere il territorio in strisce uniformi, perpendicolarmente al fiume; le case risultavano in posizione autonoma ma abbastanza vicine tra loro.

La colonizzazione anglosassone adottava verso la fine deI XVIII secolo il sistema deI township: la tec­nica della divisione si basava su un reticolo a quadrati tracciati secondo i meridiani e i paralleli senza tener conto degli accidenti naturali: le de­limitazioni venivano impresse nel territorio dalla rete stradale. Ogni township era ripartito in 36 sezioni di un miglio qua­drato: In tal modo si è cristallizzata la ripartizione a quadri e l'insediamento in case sparse. Le colture si succedo­no su campi di notevole ampiezza, squadrati, senz'albe­ri né muretti.

Di recente si assiste ad una concentrazione fondiaria con la scomparsa delle aziende più piccole, meno redditizie, e la crescita delle proprietà superiori a 200 ettari. Grandi società capitaliste hanno preso pos­sesso di enormi spazi agricoli: si tratta di società ad attività industriali multiple, attirate dal rapido profitto offerto da certi prodotti alimenta­ri molto richiesti dal mercato.

Dry-farming e allevamento speculativo

Quando negli Stati Uniti la colonizzazione investì i ripiani dell'Ovest, in un ambiente meno favorevole, si adottarono lotti ampliati fino ad un'intera sezione di 259 ettari o anche a più sezioni. Nella prima metà del XIX secolo la prateria era utilizzata per l'allevamento brado dei bovini; dopo la costruzione delle ferrovie trans­continentali e l'introduzione del filo spinato per le recinzioni, prendeva corpo il processo di divisione e assegnazione delle terre, secondo i ca­noni del township, e si estendeva la coltivazione del grano in dry-farming (aridocoltura).

L'aridocoltura è una tecnica adottata nei territori con piogge insufficienti al fabbisogno idrico delle coltivazioni: si alternano un anno a grano e un anno a riposo, lavorando la terra nell'anno di riposo per immagazzinare nel suolo l'acqua piovana, cosicché la semina di grano nell'anno successivo possa fruire della pioggia di due anni.

La monocoltura del grano, ripetuta per anni sulle distese della prateria, causava il denudamento del suolo esponendolo all'erosione. Le acque dilavanti e la forza del vento scorticavano la terra asportando gli elementi più fertili. Per combattere questo flagello, è stata messa in piedi una nuova morfologia agraria: l'aratu­ra dei campi segue le curve di livello per evitare il ruscellamento erosivo dell'acqua, quale si formerebbe nei solchi in pendenza; le colture si succedono in lunghe fasce parallele alternando una fascia di coltura protettrice (a leguminose) e una fascia a grano (stripcropping). Questi metodi anti-erosione si combinano con la sistema­zione del declivio in lunghi ripiani orizzontali o in contropendenza. Anche contro l'erosione eolica si adottano colture in fasce successive, disposte perpendicolar­mente alla direzione del vento dominante.

Nelle praterie dell'Ovest non coltivate a grano, è rimasto l'alleva­mento di bovini.


agricoltura di sussistenza e piantagioni speculative dei paesi tropicali

Arretratezza e povertà: l'agricoltura itinerante

Se nelle regioni temperate degli altri continenti gli Europei hanno potuto attuare una "colonizzazione di popolamento", nelle regioni tro­picali hanno organizzato delle "colonie di sfruttamento". Lo sfruttamento risulta evidente nel sistema delle "piantagioni": immense aziende a monocoltura commerciale dirette da pochi Bianchi con l'im­piego massiccio di manodopera a buon mercato.

L'estendersi delle piantagioni ha significato un grave detrimento per la povera agricoltura indigena di sussistenza, già svantaggiata da condizioni naturali poco favorevoli.

La causa fondamentale della bassa produttività delle coltivazioni indigene risiede nell'arretratezza tecnica e nella debolezza delle strutture socio-economiche. Si pratica tuttora l'"agricoltura itinerante", cosi denominata perché gli uomini sfruttano sommariamen­te un suolo e poi si spostano a coltivarne un altro.

Lo sfruttamento è collettivo: tutta la comunità partecipa ai lavori. La preparazione del suolo tocca agli uomini; alle donne spetta il compito della semina. Sfruttato in questo modo, il suolo si esaurisce rapidamente e dopo due o tre anni bisogna abbandonarlo e preparare nuovi campi. Ad un certo punto viene spostato anche il villaggio. Nell'arco di una ventina d'anni l'itinerario degli spostamenti riporta al luogo di partenza, dove nel frattempo si è riformata la coperta vegetale. La superficie della radura coltivata dipende dall'entità nu­merica del gruppo umano che la sfrutta.

L'agricoltura itinerante va re­stringendosi a causa di due fenomeni tipici del mondo tropicale: l'impressionante crescita della popolazione e lo straordinario sviluppo delle colture commerciali impiantate da imprese capitaliste. I governi incoraggiano la popolazione a passare all'agricoltura permanente.

I progressi dell'agricoltura asciutta

La coltivazione permanente rappresenta un fondamentale progres­so sull'agricoltura itinerante. I legami tra l'uomo e la terra hanno favorito, col raggiungimento di un certo grado di organizzazione sociale, la trasformazione delle radure in campi stabili. Tuttavia la coltivazione delle terre asciutte conserva sempre un carattere estensivo, basato su tecniche poco efficaci.

In limitate aree delle regioni tropicali asciutte, la pressione demografica e la deforestazione hanno fomentato un'agricol­tura capace di assicurare la continuità produttiva della terra e il so­stentamento di una popolazione sedentaria relativamente densa. Si tratta di gruppi umani che hanno saputo associare l'allevamento all'agricoltura, riuscendo a mantenere fertile il suolo, a coltivarlo secondo rotazioni appropriate e a proteggerlo dall'erosione per mezzo di piantagioni arboree.

I paesi a clima più umido sono il teatro di un'agricoltura intensiva creatrice di paesaggi totalmente modellati dall'opera umana.

Nel mondo tropicale, per nutrire una popolazione in continua crescita, prima le potenze coloniali e poi gli Stati emer­si dalla decolonizzazione si sono impegnati a perfezionare ed estende­re l'agricoltura asciutta. Questi Stati hanno ini­ziato a lanciare grandiosi piani di ammodernamento dell'agricoltura, affidandone la realizzazione a società nazionali con la partecipazione di grandi imprese europee od americane fornitrici dell'indispensabile sostegno. Ma in gran parte queste iniziative sono fallite, sia sul piano finanziario sia sul piano ecologico: i suoli tropi­cali, molto fragili, non hanno retto all'impatto delle pesanti tecniche moderne e in pochi anni hanno perso la fertilità. Dopo simili fallimen­ti, si è capito che nei paesi tropicali non bisogna copiare i metodi eu­ropei, ma adattarli all'ambiente.

Risaie irrigue e formicai umani

L'irrigazione rende intensiva l'agricoltura assai più del concime sui campi asciutti. Essa fa aumentare il rendimento accrescen­do l'effetto del periodo vegetativo, ma soprattutto serve per certe colture che non prosperano se non nell'acqua: tra queste, la risaia inondata occupa una posizione tanto preminente da configurare una vera e propria "civiltà del riso".

Il riso cresce immerso in uno strato d'acqua che bisogna far alza­re di livello di mano in mano che le piantine si sviluppano: esige dei terreni piatti, in primo luogo le pianure irrigabili. Per questo la popolazione si accumula in modo impressionante nelle regioni deltizie e nelle valli. Il regno della risaia inondata segna l'incontro delle civilizzazioni indiana e cinese.

Tutti i terreni utilizzabili offrono l'immagine di una scacchiera a riquadri regolari ma minuscoli, delimitati da arginelli per contenere gli specchi d'acqua. Per riservare al riso il maggiore spazio possibile, non si coltivano foraggi e non si alleva bestiame; perciò i lavori si devono fare a mano. Senza allevamento, quindi senza letame, il contadino è costretto a raccoglie­re ogni rifiuto domestico per ingrassare il terreno.

Il sistema dei trapianti, lasciando libera la risaia mentre le nuove pianticelle spuntano nel vivaio, permette di inserire nel ciclo annuo una seconda coltura, o anche una terza nelle zone più calde e umide. Ma se la resa è notevole, la produttività della fatica manuale rimane debole.

Il paesaggio è frutto di una fatica secolare: per lasciare più spazio alle colture, gli uomini si raccolgono in villaggi a catena. L'insediamento è sempre di tipo accentrato: il villaggio è espressione di un'antica struttura comunita­ria. Il contadino è rimasto sempre abituato ai legami collettivi, e ha dimostrato un immediato adattamento dove s'è instaurato il comunismo.

Benché la risicoltura richieda tanto lavoro, la massa di manodope­ra non può essere completamente impiegata, visto che in media la superficie delle aziende familiari è inferiore all'ettaro. Una povertà generale è la conseguenza di tale situazione, soprattutto dove la mag­gior parte del suolo coltivabile si trova in poche mani di grandi pro­prietari.

Piantagioni capitalistiche e piantagioni indigene

Alla varietà delle coltivazioni di sussistenza si contrappone l'uni­formità delle monocolture di piantagione: si tratta di inviare ai paesi industriali delle zone temperate certe merci che possono essere raccolte soltanto nelle zone tropicali; la speculazione è fon­data sulla specificità geografica dei paesi produttori. Altre colture prendono forza dall'opportunità di sostituire o integrare alcune produzioni europee con analoghe produzioni tropicali a prezzi più bassi o con caratteristiche diverse. Sono piante che crescono bene ai tropici: la scelta è dettata dai vantaggi del clima.

La diversità di popolamento e di colonizzazione contribuisce a differenziare i paesaggi di piantagione.

La trasformazione del paesaggio ebbe inizio con le aziende che i piantatori creoli realizzarono a partire dal XVI secolo nelle Antille e in qualche punto delle coste sudamericane. Per il sostentamento della manodopera, costituita da schiavi negri, una porzione del terreno era destinata alle colture alimentari, che rompevano la monotonia del paesaggio.

Il caso più comune rispecchia aziende familiari di medie dimen­sioni, nelle quali il proprietario bianco impiega alcuni salariati di co­lore, discendenti da schiavi o da immigrati. Alla canna e al caffè si aggiungono secondo i luoghi banane, ananas, tabacco; una parte del terreno è riservata alle colture alimentari e al legname da opera. Salariati e coloni hanno in godimento un minuscolo pezzo di terra, in cui coltivano ortaggi e allevano maiali e volatili.

Le grandi piantagioni capitalistiche, estese fino ad alcune migliaia di ettari, sono suddivise in unità aziendali di 200-300 ettari, dotate di un proprio centro direttivo attrezzato per la prima trasformazione dei prodotti.

Ci sono casi di gigantismo: società speculative che con la loro potenza finanziaria possono condizionare le economie nazionali.

La crescita dell'agricoltura di piantagione è dovuta a due cause fondamentali: la decolonizzazione e lo sviluppo del sistema agro-industriale. Gli Stati emersi dalla decolonizzazione hanno favori­to l'agricoltura di piantagione perché forniva i capitali necessari a in­nescare il processo di industrializzazione: l'agricoltura assumeva il ruolo di "motore dell'industrializzazione". La seconda ragione è lo sviluppo del sistema agro-industriale. Le indu­strie agro-alimentari raggruppate in enormi imprese multinazionali con capitale americano, a partire dagli anni Settanta han­no rivolto i loro investimenti al terzo mondo tropicale: in cambio delle facilitazioni ricevute dallo Stato, esse reinvestono sul posto una parte dei profitti, animando il decollo industriale.

Recentemente sono nate delle piccole pian­tagioni per iniziativa di agricoltori autoctoni, a somiglianza di quelle europee ma con un livello tecnico più basso.

L'evoluzione in atto mira all'abbandono della rigida monocoltura; si va diffondendo l'agricoltura contrattuale, attivata da un rappor­to contrattuale tra la società straniera e la collettività contadina attra­verso l'intermediazione di una rete di commercianti locali. L'agricoltura delle regioni tropicali sta perdendo il suo carattere di attività autonoma e si va in­tegrando alla catena agro-alimentare mondiale.


agricolture collettive

Il modello sovietico

Nel nostro secolo sono nate diverse forme di agricoltura collettivi­sta: si tratta di collettivizzazione della terra e dei mezzi di produzione secondo i canoni del comunismo marxista

Due caratteri fondamentali distinguono le economie agricole co­muniste: il lavoro si svolge in gran parte secondo un sistema comunitario; la produzione è condizionata dalla pianificazione del mercato, prodotti e consumi sono prestabiliti nel quadro del piano generale.

Il processo di collettivizzazione si è svolto in due fasi. La prima è la fase della riforma agraria: esproprio dei grandi possedimenti e redistribuzione di lotti ai lavoratori, che vedono realizzarsi il sogno di diventare proprietari. La seconda fase consiste nel riaccorporo delle aziende a gestione individuale in poche grandi aziende statali su terre non lottizzate.

Il prototipo di collettivismo marxista è quello realizzato nell'Unione Sovietica. La rivoluzione del 1917 portò alla trasformazione radica­le delle strutture agrarie, così come di tutta l'organizzazione sociale ed economica del paese.

Già con l'abolizione della servitù della gleba (1861) si era comin­ciata a formare la piccola proprietà accanto agli antichi latifondi; ma la classe contadina rimaneva sottoposta a decime esose e a un lavoro massacrante per un compenso di pura sopravvi­venza. La rivoluzione ha fatto tabula rasa delle vecchie strutture e ha messo in piedi una nuova economia: le terre sono state collettivizzate e ripartite in grandi unità aziendali, la cui ampiezza è commisurata a un idoneo impiego delle macchine e delle tecniche più moderne. Il processo si è svolto nel corso del primo piano quinquennale (1928-32), facendo seguito alla riforma agraria che, all'indomani della rivoluzio­ne, aveva distribuito ai contadini le terre dei grandi proprietari.

Gli organismi agricoli creati dalla collettivizzazione si riconducono a due tipi: kolchoz e sovchoz. Il kolchoz è una cooperativa gestita dall'assemblea dei membri: le grandi colture meccanizzate permettono un'elevatissima valorizzazione del lavoro; ma le decisioni vengono prese da capi ossequienti ai dettati dei "piani" governativi.

Ogni membro del kolchoz è retribuito in denaro e in natura secon­da un'unità di misura, il trudodny (giornata), che tiene conto della du­rata e del tipo di lavoro prestato. L'attività si svolge collettiva­mente, in squadre e brigate di lavoro: la remunerazione individuale è calcolata in base alla tariffa stabilita per la squadra di appartenenza. Dopo qualche tempo si è diffusa la tendenza a sostituire il sistema del trudodny con un salario fisso.

Lo statuto dei kolchoz contempla la proprietà individuale della casa, concepita come pic­cola azienda domestica. Su questo esiguo lotto la famiglia contadina può organizzare un'economia differenziata: essa contribuisce al soddisfacimento dei bisogni primari di una popolazione frugale e permette un com­mercio libero, che permette di ottenere disponibilità in denaro liquido a integrazione del bilancio familiare.

La politica dello Stato nei confronti dei kolchoz non è stata sempre la stessa. Fino agli anni Cinquanta i grossi mezzi meccanici erano forniti dalle "Stazioni di Macchine e Trattori" (MTS), che potevano impartire direttive politiche stabilendo il pro­gramma dei lavori, tanto da essere considerate come strumento di pressione sui colcosiani. Dal 1958 i kolchoz sono stati autoriz­zati ad acquistare direttamente le macchine di cui avevano bisogno, rendendosi autonomi.

La forma di conduzione più malleabile e tecnicamente più avanza­ta è il sovchoz: fattoria gestita direttamente dallo Stato, nella quale i lavori vengono compiuti da squadre di salariati sotto la direzione di tecnici e funzionari governativi.

La collettivizzazione della terra è stata accompagnata da un proces­so di trasformazione del disegno dei campi: i piccoli lotti della proprie­tà contadina sono stati incorporati in grandi unità regolari, sulle quali le macchine possono lavorare più facilmente.

L'insediamento rurale ha opposto una notevole inerzia e si è trasformato assai meno. Il nucleo abitativo dei kolchoz è costituito dalle case dei lavoratori, ma è anche dotato di un cen­tro di coordinamento economico-sociale. Negli anni Cinquanta si sono formati immensi sovchoz, specie sul­le "terre vergini" della Russia asiatica, impostati su piani industriali per una produzione agricola di massa.

Oggi nella ex Unione Sovietica è in corso un processo di trasfor­mazione delle basi economiche dell'agricoltura fino al passaggio all'economia di mercato e alla proprietà privata della terra.

Le strutture agrarie delle "repubbliche democratiche" europee

Dopo l'ultima guerra mondiale, il sistema socialista si è affermato in tutti i paesi occupati dalle armate russe a est della linea geopolitica chiamata "cortina di ferro". In questi paesi il modello sovietico in cam­po agricolo è stato seguito con sfumature diverse, sia per la natura più varia rispetto alla monotona pianura sarmatica, sia soprat­tutto per la complessità delle situazioni storico-sociali.

Le riforme agrarie hanno mirato a espropriare i domini feudali e le grandi tenute, per poi distribu­ire ai contadini senza terra lotti da 5 a 10 ettari dietro corresponsione di un modesto canone annuo. Gli assegnatari si sono poi riuniti in cooperative insieme ai proprietari medi, non eliminati perché capaci di apportare alla cooperativa la loro competenza professio­nale. Nella costituzione delle cooperative si è ammesso il principio che la retribuzione individuale desunta dagli utili d'esercizio venisse calco­lata non soltanto in base al lavoro che ciascuno ha prestato, ma anche alla quota di terra che egli ha conferito alla cooperativa. La nascita delle cooperative si è accompagnata al riaccorporo del mosai­co di particelle fondiarie in grosse unità adatte ai sistemi di lavoro meccanizzato.

Oggi le cose stanno cambiando entro il quadro delle trasformazio­ni conseguenti al crollo dell'Unione Sovietica e della sua influenza politica ed economica sull'Est europeo: tuttavia, nei paesi dell'Est è inconcepibile un ritorno alle antiche strutture agrarie di tipo capitalistico o addirittura latifondisti­co, unanimemente condannate e contestate.

L'originalità della "comune cinese"

La Cina ha scavalcato il modello sovietico seguendo una linea diversa anche da quella delle democrazie popolari d'Europa: dopo gli espropri e la costituzione di cooperative, la terza fase della riforma agraria ha portato alla creazione di un tipo originale di strut­tura organizzativa, la "comune". La rivoluzione ha spazzato via il vec­chio regime marchiato dalla collusione dei poteri pubblici coi grandi proprietari.

La riforma agraria del 1949 eliminò i proprietari assenteisti, mentre i proprietari coltivatori poterono conservare la porzione che erano in grado di coltivare direttamente. Le terre espro­priate vennero spartite tra i contadini. La collettivizzazione comin­ciò nel 1953, adottando un regime analogo a quello delle repubbliche democratiche europee: nazionalizzazione dell'uso, non della proprietà del suolo. La seconda fase - nascita di cooperative ad imitazione del kolchoz sovietico - risultò facilitata dall'abitudine dei con­tadini a condurre collettivamente una parte dei lavori. Nel 1958 sopravvenne la "grande svolta" che staccò il modello cinese da quello sovietico con la creazione delle "comuni popolari": non semplici organismi di produzione, ma anche di popolamento e di servizi so­ciali.

La comune è una grande unità territoriale e funzionale, in cui tutti i mezzi di produzione e di vita sono collettivi. La comune ri­sponde a una pianificazione razionale dello spazio e del lavoro, a un'associazione delle attività agricole con le altre attività produttive, a una politica di piena occupazione della manodopera rurale. È un'"unità d'integrazione economica" che associa agricoltura, industria e commercio. Il miglioramento delle condizioni di vita del popolo cinese è visto come il risultato di uno sviluppo armonioso della vita rurale, e non della crescita della produzione.

L'ordinamento è strutturato su quattro livelli gerarchici: proprietà individuale della casa con orto e piccolo allevamento, in modo analo­go al kolchoz; squadra di produzione (30-40 famiglie) con i propri strumenti di lavoro; brigata di produzione, dotata delle attrezzature d'interesse generale, comprese quelle attribuite alle "stazioni di macchine e trattori" di modello sovietico; infine la proprietà della comune: oltre agli strumenti di produzione e di stoccaggio, tutta la dota­zione commerciale e finanziaria.

Nel 1979 la riforma agraria di Den Xiaoping metteva fine al regi­me delle comuni, accresceva le dimensioni dei lotti privati e stimolava il mercato libero dei prodotti agricoli nelle campagne. Nel 1984-85 la riforma agraria veniva ampliata sotto la guida di Zhao Ziang: è ridotta al minimo la produzione sottoposta alla pianificazione e gran parte dell'economia è sottratta alle imprese di Stato. Attualmente siamo in presenza di un processo di "decollettivizzazione" e del declino di orga­nismi come la brigata di lavoro: si mette l'accento sull'organismo di base, la squadra, che diviene il perno del sistema di produzione, detto "sistema di responsabilità" perché si basa su un contratto.

Collettivismo non marxista: il caso di Israele

Lo Stato d'Israele offre un esempio di gestione collet­tiva della terra al di fuori degli schemi marxisti. I primi insediamenti israeliani in Palestina adottarono una struttura chiusa, subordinata alle necessità di difesa: i gruppi originari, fortemente cementati, hanno dato luogo a forme socio-economiche strettamente comunita­rie.

Si distinguono tre tipi di organizzazione agricola collettiva, i quali non escludono la sopravvivenza di aziende individuali. Il kibbutz è un centro di produzione e di consumo a regime comu­nitario nel senso che la vita si svolge in comune. L'amministrazione è affidata all'assemblea dei membri: non v'è salario né ripartizione degli utili, ma ciascuno viene soddisfatto in rapporto ai suoi bisogni. I kibbutzim sono nati all'inizio del no­stro secolo ad opera di gruppi di ebrei immigrati, come espressione di un peculiare tipo di collettivismo in cui domina il con­cetto di uguaglianza: di conseguenza vige l'obbligo per ciascun compo­nente di dare la propria opera per il lavoro in campagna o in fabbrica. I mochavim sono villaggi formati da aziende familiari riunite in cooperativa: ogni fami­glia gestisce il suo appezzamento e resta proprietaria dei mez­zi di produzione, mentre la cooperativa interviene per la compravendi­ta dei prodotti.

Riforme agrarie

La riforma agraria corrisponde a una trasformazione rapida delle strutture agrarie come risultato di due rivendica­zioni: la rivendicazione sociale per una più equa distribuzione dei beni; la rivendicazione economica con l'obiettivo di organizzare unità di produzione più efficaci. Dapprima propugnata come atto di giusti­zia sociale, la riforma agraria è sempre più concepita come fattore di sviluppo, come elemento di pianificazione.

È da fare un distinzione tra le riforme parziali, che riguardano sol­tanto alcuni settori e non mettono in discussione il sistema economico vigente, e le riforme radicali, che rovesciano completamente i modi di possesso e i rapporti di produzione.





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