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FRANCESCO ADAMO - LO SVILUPPO URBANO - NELL'ITALIA DEL CAPITALISMO FLESSIBILE E GLOBALISTICO

geografia



FRANCESCO ADAMO


LO SVILUPPO URBANO

NELL'ITALIA DEL CAPITALISMO FLESSIBILE E GLOBALISTICO


Sviluppo ed organizzazione della città e dei sistemi di città. - Agli albòri del XXI secolo - nel mondo di Internet e dello spazio virtuale delle reti di comunicazione, in un mondo in cui la new economy va facendo grandi passi in avanti e sta radicalmente cambiando il nostro modo di vivere e di lavorare, in cui la competizione tra le imprese dell'economia ancora dominante, ufficiale e formale, produttrici di beni materiali di consumo finale si realizza in un mercato reale che è ormai globale e fortemente integrato - ritengo utile che l'analisi geografica dello "sviluppo urbano", ovvero dei mutamenti strutturali in atto nelle singole città italiane e nei sistemi di città in cui esse sono integrate, parta da una preliminare riconsiderazione ed esplicitazione dei paradigmi della geografia e particolarmente delle concezioni assiomatiche dello spazio terrestre, oggetto della descrizione geografica.



Una prima concezione è quella che intende lo spazio terrestre (e i singoli territori in cui s'articola), quale sistema (o "sintesi", come dicevano i geografi della generazione di D. Gribaudi, o "organismo" come si diceva ancor prima) ovvero quale combinazione spaziale di elementi di natura diversa, sociale e naturale, materiale e immateriale. In base a questa concezione del proprio oggetto di studio - che caratterizza l'approccio scientifico proprio della migliore tradizione geografica sin dall'Ottocento e che negli ultimi trent'anni, grazie agli importanti sviluppi della teoria generale dei sistemi si è andato diffondendo anche alle discipline sociali di tipo analitico - l'interdipendenza dei fenomeni diviene un principio di base della geografia e questa è vista essenzialmente come scienza di rapporti.

Una seconda concezione - che da sempre dà ragione dell'utilità della descrizione geografica .- è quella di territorio come condizione dell'azione umana, oltre che prodotto della stessa azione e di quella della natura. Ogni unità regionale e ogni struttura territoriale, come quella di una città o di un sistema di più città, presenta "valori" , vincoli e opportunità, che non solo sono differenti a seconda delle attività e degli interessi delle distinte classi sociale e dei differenti soggetti sociali, ma che sono anche storicamente relativi. Questa concezione, ben evidente ad esempio nella geografia di M. Sorre (1951), si rifà certo in parte al tradizionale "principio d'attività" , secondo il quale "i fatti geografici, fisici o umani, sono fatti in continua trasformazione e vanno studiati in quanto tali" (Brunhes, 1925, p.13), evidenziandone i processi di formazione e di sviluppo. Essa si è però largamente arricchita e consolidata, da un lato grazie agli sviluppi dell'economia spaziale e da un altro lato grazie all'affermarsi anche in geografia di un approccio critico-riflessivo, marxista o strutturalista, che ha recepito i contributi del materialismo storico, nonché di concetti della approccio behavioristico che sono fondamentali per una corretta interpretazione dei rapporti tra gruppi umani e territorio.

Una terza concezione, che è presupposta dalle due precedenti e che ritengo meriti una riconsiderazione in relazione alle tematiche di questa sessione congressuale, é quella di spazio differenziato, che come la precedente risale al pensiero geografico classico dell'antica Grecia. Questa concezione dello spazio terrestre e della geografia ci richiama di nuovo von Humboldt e Ritter, ma anche von Richtofen, e poi soprattutto Hettner e dopo ancora l'opera di Hartshorne (1959) sulla "natura della geografia" e finalmente il saggio di G. De Jong (1962), intitolato appunto Chorological Differentiation, as the fundamental principle of Geography, il quale, malgrado i tanti successivi scritti sulle basi teoriche della geografia, merita un'attenta rilettura.

Sulla base di questa concezione, nell'analisi degli attributi o "valori" territoriali di ciascun luogo (villaggio, città, regione, ecc.) della geosistema mondiale, siamo soliti distinguere gli essenziali attributi e valori "spaziali" da quelli "ambientali": i primi, com'è noto, attengono principalmente alla posizione relativa del luogo, da cui dipenderebbe la sua integrazione "orizzontale" con altri luoghi ed i rispettivi ambienti; mentre i secondi dipendono dalla natura dei fenomeni o elementi (materiali ed immateriali, naturali e sociali) coesistenti in quel luogo e dalla loro integrazione "verticale" .

Pur ritenendo essenziale, nell'individuazione dei caratteri e nella progettazione dello sviluppo di una data città o regione, la considerazione delle relazioni orizzontali, mi sembra utile sottolineare che in questo paradigma non si pone tanto l'accento sulle variabili spaziali di queste relazioni, quanto sulla differenziazione sociale e naturale dello spazio terrestre, sulla variabilità ambientale dei luoghi. Porre l'accento sui valori dell'ambiente locale è oggi importante perché, mentre l'ambiente esterno, con la crescente integrazione dei geosistema mondiale e dei geosistemi macro-regionali e nazionali in cui s'articola il mondo, va ponendo in generale condizionamenti (vincoli-opportunità) sempre più determinanti, le relazioni orizzontali di una data città (con città e regioni urbane esterne alla propria regione funzionale, intesa come spazio continuo di relazioni) ed il suo sviluppo dipendono essenzialmente da quelle verticali: dalla qualità dell'ambiente locale, della città e della propria regione, e dalla capacità dei soggetti locali di aprirsi al mondo esterno e di partecipare alla costruzione di un proprio sistema di relazioni sovranazionale e globale. Questo sistema sarà spaziale nella misura in cui le relazioni orizzontali daranno vita a flussi materiali (persone e cose), altrimenti sarà puramente virtuale o fisicamente a-spaziale; nel primo caso, comunque, raramente configurerà uno spazio continuo, ma uno spazio discontinuo.

L'importanza fondamentale che il principale paradigma geografico attribuisce all'ambiente locale (naturale e sociale) per comprendere lo sviluppo e progettare il progresso economico e sociale, è riconosciuta negli ultimi anni anche da una grande "varietà di contributi teorici provenienti da diverse discipline: dalla 'nuova geografia economica' (Krugman 1991 e 1998; Fujita e Thisse 1997), alla management literature (Porter 1998), all'economia urbana e regionale (Amin e Thrift 1992; Henderson 1996; Markusen 1995; Storper e Salais 1997; Storper 1997), ai sistemi nazionali di innovazione (Dosi, Gianetti e Toninelli 1992) e alle reti sociali (Fukuyama 1995; Harrison e Weiss, 1998)", come ci ricordano M. Di Tommaso e R. Rabellotti (1999, p.16-17); con i quali concordo (Adamo 1989) che "forse ciò che colpisce di più è il crescente interesse di alcuni economisti mainstream verso quella che oggi molti definiscono la 'nuova geografia economica' "

I valori dell'ambiente locale che più contano quali condizioni del progresso economico e sociale - in quanto costitutivi di quelle" economie esterne" o "vantaggi competitivi" che sono veramente dati da elementi esterni alle imprese e non semplicemente il prodotto della loro azione - restano ancor oggi i valori "urbani" e sono quindi variabili secondo la geografia della città e la geografia delle città (ovvero della "rete"o "armatura" o sistema urbano regionale in cui ciascun luogo è integrato). Come in ogni altra società "civile" o società di classe, la città resta il fondamento della vita sociale e dell'organizzazione territoriale della società, e lo sviluppo (mutamento strutturale) dei sistemi "urbani" è il risultato dell'interazione dei mutamenti delle strutture di tutti i sotto-sistemi in cui il sistema urbano, come ogni altro sistema territoriale o geosistema, si può suddividere a fini analitici.

Sulla base delle concezioni tradizionali dello spazio geografico che ho ricordato, questa relazione esamina soprattutto i mutamenti strutturali delle principali città e reti regionali di città in Italia: trascura in pratica l'analisi delle reti sovranazionali e globali formate dall'operato dei soggetti sociali insediati nelle città italiane (e costitutive di sistemi a-spaziali e spaziali, continui e discontinui). Queste reti , certo pur essenziali per competere globalmente, saranno oggetto di altri contributi congressuali e qui verranno solo considerate in conclusione quali ipotesi per interpretare il mutamento dei valori della "centralità"; inoltre, la riorganizzazione delle reti o sistemi urbani a scala regionale sarà semplicemente vista quale risultato della ridistribuzione territoriale di attività economiche e popolazione, ma non si esamineranno le variazioni dei flussi (di merci, capitali, persone, informazioni) che misurano le relazioni tra le città e consentono di individuare-delimitare i sistemi di città, il loro diverso grado d'integrazione e la loro eventuale complementarietà funzionale.

Questa relazione, quindi, si propone soprattutto : 1) un aggiornamento dell'analisi dei processi di "urbanizzazione diffusa" che si manifesta in Italia, come in Europa, dai primi anni '70 (Adamo 1984) e , come risulta dalle nuove analisi[2], s'intensifica negli anni '80 e sembra continuare ancora per gran parte degli anni 90, contraddistinguendo la fase storica che oggi ormai chiaramente si può definire di passaggio dal capitalismo oligopolistico, ford-tayloristico, al capitalismo flessibile (Piore e Sabel, 1984; Pettenati, 1991) e di intensificazione del processo d'integrazione del geosistema mondiale; 2) di considerare (cercando di evitare di cadere nel dilagante "nuovismo" alla moda, ormai purtroppo da anni, in vari campi e non per ultimo in geografia,) i nuovi termini della questione urbana in Italia tenendo conto dei valori d'ambiente urbano richiesti dal nuovo capitalismo, flessibile, globalizzante e globalistico (Adamo, 1998).


L'urbanizzazione diffusa Nell'urbanizzazione diffusa, intesa quale processo di de-concentrazione territoriale dell'insediamento della popolazione e delle attività economiche, quale controtendenza rispetto alla concentrazione dominante in precedenza[3], si possono distinguere due componenti principali: la "suburbanizzazione allargata" e la "urbanizzazione periferica".


La suburbanizzazione allargata è un processo di deconcentrazione territoriale interno a quelle che erano le aree centrali del modello di sviluppo precedente - per le quali si sono assunte in quest'analisi le "provincie metropolitane", vale a dire le provincie comprendenti le 11 maggiori agglomerazioni urbane o "aree metropolitane" (Min.LL.PP., 1982) - ed è evidenziata semplicemente dalla maggior crescita relativa degli insediamenti suburbani o satelliti periurbani ("Altri comuni della provincia") rispetto all'area urbana centrale (Comune capoluogo della provincia)

Fondamenti generali della suburbanizzazione - che è la modalità con cui si è sempre realizzata l'espansione del singolo sistema urbano, praticamente da quando esiste la città, e non la fase di un fantomatico ciclo di vita della città (Adamo, 1984) - restano la dinamica spazio-temporale della rendita urbana, che nel caso dell'Italia è stata inasprita dalle risposte dei proprietari di alloggi alla "legge dell'equo canone" , la crescita dei redditi delle famiglie e della motorizzazione privata, e quindi anche dei valori dell'accessibilità.

Alcune novità in questo processo si possono identificare nella sua maggiore estensione territoriale e soprattutto nella sua intensità, ma fors'anche nel fatto che il decentramento residenziale, di cui la suburbanizzazione è in larga parte espressione, si accompagna ad una crescente consapevolezza dei problemi ambientali urbani (ecologici e sociali) e quindi possa riflettere il tentativo individuale di eluderli, piuttosto che un'ideologia antiurbana. XXXXXXXXXXXXX(v. All.2): Il decentramento residenziale negli spazi periurbani ha comportato un notevole incremento della pendolarità casa-lavoro e - anche per l'ancòra rilevante arretratezza del mezzi di trasporto pubblico, malgrado gli indubbi miglioramenti riscontrabili in molte città - del traffico automobilistico privato, con conseguento problemi irrisolti di congestionamento e di inquinamento dell'aria. Malgrado questa mobilità (come quella per studio e in complesso anche quella per affari) non sembra ridursi, una grande possibilità di miglioramento ci viene offerta dalla grande novità costituita dallo sviluppo delle "città cablate" e più in generale dello spazio telematico (Bonora, 1991), che va già riducendo in questi ultimi tempi vari spostamenti (verso sportelli di certificazioni e altre pratiche amministrative, acquisti di biglietti di viaggio, pratiche postali e bancarie, ecc.) e, anche se non ancora in grado di invertire la crescita complessiva della mobilità, apre una importante prospettiva, unitamente alle possibilità d'espansione di altre novità connesse, quali videoconferenze, teledidattica, e soprattutto telelavoro per il quale le prospettive d'espansione sono rafforzate anche dai mutamenti in atto nei rapporti di lavoro.

Il cambiamento più significativo dei caratteri dell'urbanizzazione in questa fase della storia umana, é comunque il fatto che la maggior crescita relativa di popolazione ed attività nei sobborghi ed in centri satelliti non è semplicemente espressione del tradizionale sviluppo della singola città - configurabile da un lato come processo di crescita estensiva delle attività economiche che investiva, a macchia d'olio, le aree suburbane e periurbane meno densamente occupate, da un altro come un processo di sostituzione dal centro alla periferia (un "filtering down" dettato dalla rendita ) di residenze e attività povere con attività più ricche. Infatti, com'è evidente nel caso delle maggiori agglomerazioni urbano- industriali d'Italia, non solo è stata ben scarsa la crescita di attività produttive nelle aree suburbane, ma nelle loro aree urbane (comuni capoluoghi delle provincie metropolitane) l'espansione di nuove attività più pregiate, soprattutto di servizio, è stata di inferiore alla rilevante contrazione del numero di abitanti residenti e di addetti all'industria verificatesi negli ultimi trent'anni in queste aree centrali. Di conseguenza, in Italia ed anche altrove, i grandi spazi centrali occupati da fabbriche e magazzini abbandonati (cimiteri dell'industria tayloristica che i tecnici chiamano "vuoti urbani") non hanno per lo più trovato ancora nuove, adeguate, funzioni.

Questo carattere dello sviluppo urbano degli ultimi trent'anni, che emerge dall'analisi dei mutamenti interni alla singola grande città, si collega agli stessi processi sociali che hanno determinato la seconda componente dell'urbanizzazione diffusa , che ho chiamato urbanizzazione "periferica" e che emerge dall'analisi comparativa tra le varie e distinte agglomerazioni urbane di uno stesso paese.


L'urbanizzazione "periferica", che esprime anch'essa un processo di deconcentrazione spaziale della popolazione e delle attività economiche, è evidenziata da una certa correlazione inversa tra la dimensione dell'agglomerazione urbana e la sua crescita quantitativa (in termini di popolazione, addetti alle attività economiche, impianti), quale risulta dalla minor crescita relativa delle grandi città rispetto alle medie e piccole città: cioè, in base alle unità territoriali considerate in queste analisi, dalla minor crescita relativa delle provincie metropolitane (o centrali) rispetto alle provincie non metropolitane (o periferiche) (v. All. 1 e 3).

Si tratta di una grande novità: una vera e propria inversione di tendenza dell'urbanizzazione, che sino all'inizio degli anni '70 aveva sempre visto una crescente concentrazione nelle maggiori agglomerazioni urbane , cioè nelle aree centrali del modello di sviluppo ford-tayloristico del capitalismo oligopolistica (domestico e multi-domestico).

La nuova tendenza territoriale- che negli ultimi anni sembra esaurirsi, senza per ciò preludere certo ad un ritorno al precedente modello di crescita - è l'espressione fisica della transizione ad un nuovo modello di sviluppo, ad un nuovo capitalismo che mi piace definire "flessibile" e "globalistico" in base ad alcuni suoi più evidenti caratteri : a) "flessibile", per le sue capacità di risposta alla domanda (espandendo o contraendo e, soprattutto, diversificando la produzione) e per le modalità d'impiego del fattore lavoro; b) "globalistico", sia per la crescente globalizzazione delle strategie imprenditoriali, per la tendenziale liberalizzazione e la più rapida integrazione dei mercati nazionali, sia anche per l'ideologia "globalistica" che va accompagnando tali processi reali, la quale è per ora soprattutto espressione dell'intensa propaganda neoliberista americana, che di fatto vuole affermare nel governo dell'economia mondiale le regole degli Stati Uniti.

In quanto periodo di transizione, in esso s'intrecciano mutamenti che sono semplicemente l'espressione patologica della "crisi" e della fine del modello ford-tayloristico, nazionale o multinazionale con mutamenti che esprimono la fisiologia del nuovo modello e altri ancora che esprimono entrambi. Ad esempio, il decentramento industriale internazionale verso paesi a più basso costo del lavoro fu la prima e principale risposta delle grandi imprese al rallentamento della crescita, negli anni 70 in Europa occidentale e già negli anni 60 negli Stati Uniti. Negli 80, non potendo più conseguire un vantaggio competitivo con questa strategia, adottata anche dai propri concorrenti, le grandi imprese intensificarono le risposte fisiologiche ed in particolare l'innovazione dei processi produttivi, per cui tale decentramento internazionale degli investimenti industriali diede segni d'esaurimento. Negli anni 90, pur continuando la diffusione di innovazioni, il decentramento internazionale o, meglio, la crescita decentrata della produzione industriale, s'intensifica nuovamente, com'è evidente dai dati degli investimenti verso i paesi del Sud del mondo, interessando non solo quasi tutti i settori produttivi, ma vedendo anche, quali protagonisti del processo, medie e medio-piccole imprese.

Il rallentamento della crescita economica dei paesi capitalistici avanzati, a sua volta alimentato dalle risposte delle imprese mette decisamente in crisi lo Stato sociale: una crisi fiscale da cui non sembra più riprendersi, che rende lo Stato incapace di sostenere le esigenze di un "capitalismo nazionale o multinazionale", qual era quello keynesiano e fordistico, che di fatto lascia il passo a quello globalistico in cui lo Stato è ancora molto importante, ma si tratta essenzialmente di quello della nazione egemone. Questa crisi dello Stato è evidente sino ad oggi negli stessi Stati Uniti; poiché la loro eccezionale crescita negli anni 90 si è ottenuta al prezzo di enormi indebitamenti (pubblico, estero, delle imprese e delle famiglie).

A questa crisi dello Stato, di fatto non ancora risolta, si deve la crescita di diseconomie ambientali, in particolare di urbanizzazione, che negli anni 1970 e negli anni 1980 riguarda le grandi città e spiega in parte i processi deglomerativi, di decentramento industriale e quindi di urbanizzazione periferica, mentre oggi riguarda, chiaramente in Italia, anche città medie e piccole. Queste non solo hanno ormai esaurito anch'esse le loro economie esterne ed i vantaggi relativi che offrivano ancora rispettoi alle grandi città, ma alcune di esse si trovano anzi in una situazione persino peggiore, non disponendo le loro aree urbane di quegli estesi "cimiteri di fabbriche e magazzini" (che hanno assunto la denominazione di "vuoti urbani") che rappresentano una potenzialità per le grandi città che vogliano ricreare vecchie e nuove economie esterne e ridivenire attrattive di investimenti.


Urbanizzazione diffusa e geografia dello sviluppo italiano. - I processi territoriali degli ultimi trent'anni del XX secolo che hanno dato prevalenza in termini quantitativi ad una urbanizzazione diffusa, si sono accompagnati - nel senso che sono stati effetto e causa - ad un profondo mutamento delle condizioni della competizione capitalistica, cui ho accennato e che dovrò considerare in conclusione per cercare di suggerire alcune linee di politica economica e territoriale.

In questa prospettiva è utile intanto sottolineare i sensibili mutamenti che si sono realizzati in tal periodo nella geografia dello sviluppo economico regionale dell'Italia. La maggior crescita relativa, sia riguardo alla popolazione che all'occupazione e alle strutture edilizie, delle medie e piccole città - che contraddistinguevano le aree marginali o secondarie o anche in senso lato "periferiche" (province non metropolitane) nella geografia dello sviluppo capitalistico italiano sino agli anni 1970 - corrisponde anche ad una effettiva maggior crescita dei redditi pro capite di queste aree, tale per cui si è registrato sotto questo aspetto un sensibile riequilibrio, tanto all'interno delle regioni amministrative del Nord-Ovest e nelle altre regioni del Centro-Nord, ma anche all'interno dello stesso Sud e tra questo e le provincie dell'antico Triangolo Industriale Italiano. Alcune province dell'Italia centrale e nord-orientale - cioè di quell' "Italia di mezzo" che negli anni 60 stava industrializzandosi più rapidamente del Triangolo Industriale, come già aveva ben evidenziato Calogero Muscarà (1967) - hanno persino superato i livelli di reddito procapite di province metropolitane dello stesso Centro-Nord, come Genova e Torino (Pettenati, 1991). Altrettanto vale per alcune delle province non metropolitane del Nord-Ovest, le quali in complesso non si possono disgiungere da quelle dell'Italia Nord-Orientale e Centrale neppure riguardo al modello di sviluppo, basato largamente su sistemi locali di piccola e media impresa ed anche per altri aspetti sostanzialmente corrispondente al cosiddetto "modello NEC "(Fuà, 1983)

Il "Nord", inteso come l'Italia capitalisticamente più avanzata, si è in sostanza esteso a tutta l'Italia centrosettentrionale e si è anche spinto nel Mezzogiorno: soprattutto lungo i tratti settentrionali dei due assi costieri - cioè nel "Nord del Mezzogiorno" da tempo evidenziato per la parte tirrenica da Ernesto Mazzetti (1966) - ma pure in altre aree. Ciò malgrado e malgrado pure interessanti casi di sviluppo locale d'impresa in settori avanzati, le disparità del Mezzogiorno rispetto al Nord restano in complesso ancora profonde e tali da far considerare le sue medie e piccole città, e persino alcune grandi città, ancora largamente marginali nello sviluppo italiano e mondiale e anche in senso stretto periferiche ovvero largamente dipendenti da scelte esterne e incapaci di orientare il proprio sviluppo.

Le medie e piccole città del Nord, in particolare i capoluoghi delle provincie non metropolitane, sono invece divenute in genere luoghi "centrali" dello sviluppo italiano, perché centri di sistemi economici locali a sviluppo autonomo e basato su prodotti e servizi competitivi nel mercato mondiale e mostrano una capacità autonoma di adeguarsi alle innovazioni tecniche e ai mutamenti del mercato. Nelle province del Nord, una certo minor livello di redditi e di indicatori di benessere si riscontra essenzialmente in alcune zone rurali di montagna e di collina, ma spesso è da dubitare che questo corrisponda ad una minor qualità della vita e di felicità. Le aree che più possono preoccupare sono piuttosto alcune città della frangia peri-urbana di grandi città, le quali continuano a restare semplici satelliti industriali o residenziali e, come i sobborghi della grande città, incapaci di orientare il proprio sviluppo, malgrado possano avere elevati livelli di redditi e si vadano dotando di nuovi servizi, come ad esempio di strutture universitarie. Alla loro frammentata struttura economica, caratterizzata da impianti di distinti cicli produttivi facenti capo ai sistemi produttivi della metropoli , e alla spesso forte pendolarità in uscita corrisponde una scarsa coesione sociale, tale da essere di ostacolo alla realizzazione di progetti di sviluppo alternativo e competitivo.

La nuova centralità delle città non metropolitane del Nord è espressa pure dal fatto che la diffusione di servizi, ben evidente ovunque , anche nel Mezzogiorno, e spesso superiore alla crescita industriale, non si é limitata ai servizi alle famiglie e ai più banali servizi alle imprese. Tali città si sono e si vanno dotando di tutti o quasi tutti i servizi necessari alle imprese per competere in un mercato sempre più ampio ed in particolare dei servizi specializzati, connessi al ruolo e alla specializzazione produttiva del sistema locale. Una certa superiorità gerarchica delle città metropolitane riguarda i servizi generali o comuni a più settori, i quali pur presenti in città medie e piccole sono certamente offerti con una maggior gamma di scelta. La vicinanza fisica (che pur sempre conta molto negli affari), una migliore conoscenza delle esigenze dei clienti locali, permette comunque alle aziende locali che offrono anche servizi generali (o gerarchizzabili) di essere competitive rispetto a quelle delle grandi città. Va da sé che riguardo alla centralità intesa alla Christaller, sono stati sostanzialmente superati, ovunque in Italia, gli squilibri spaziali tra offerta e domanda di servizi per le famiglie, almeno a piccola e media scala geografica, poiché a grande scala possono considerarsi non solo rilevanti, ma addirittura accresciuti in funzione del ruolo che si attribuisce allo "shopping" e all'uso dell'automobile privato (Adamo, 1993 e 2000). Si può, inoltre, affermare che per tali servizi si è sostanzialmente superata la gerarchia tra i centri che tradizionalmente consideriamo "città" (Dematteis, 1971), i quali agli inizi degli anni 1970 corrispondevano a luoghi centrali almeno di terzo ordine gerarchico (a partire dal basso), mentre oggi queste stesse città corrispondono a luoghi centrali in grado di offrire in pratica tutti i servizi a mercato libero per le famiglie. I centri che dispongono di questa dotazione di servizi - che oggi si potrebbe assumere quindi come requisito minimo della "città" nei paesi avanzati - formano una armatura urbana di base, caratterizzata dal fatto che ciascuna città è a capo di un sistema di centri minori o anche è costituita da un sistema di centri minori scarsamente gerarchizzato, ma non forma con le altre città un vero e proprio "sistema" urbano regionale, in quanto per tali servizi ogni città è relativamente autosufficiente . All'interno delle principali aree metropolitane si va faticosamente formando anche in Italia una struttura policentrica non gerarchica, rappresentabile con un "grafo planare" e caratterizzata da una ripartizione tra più centri equipotenziali delle funzioni centrali d'alto livello, che in precedenza erano concentrate in un unico centro (coincidente o prossimo al centro storico della città). Si tratta di un processo che, per quanto realizzato con grandi operazioni immobiliari private, è il risultato di precise linee di politica territoriale volte a decongestionare il tradizionale centro della città; è inoltre un processo che sinora è stato piuttosto stentato, malgrado si siano rese disponibili vaste aree edificabili. Una simile complementarietà ed integrazione funzionale si può ipotizzare esistente anche nei sistemi urbano-regionali, tra distinte città, ma vicine e con simili valori di centralità, le quali si ripartirebbero tra loro le funzioni centrali di più alto rango e, quindi. tutte assieme funzionerebbero quasi come un' unica città di tipo policentrico d'ordine superiore (assommando l'intera gamma dei servizi centrali presenti in città di ordine superiore a quello proprio di ciascun centro considerato separatamente ).

Comunque, come in tutti i paesi avanzati, altamente popolati, urbanizzati e dotati di infrastrutture, la centralità urbana è oggi molto meno espressione della importanza della città nell'organizzazione di un territorio regionale, cioè di uno spazio contiguo che si estende attorno alla città , che è servito e a servizio della città stessa, e che chiamiamo regione urbana; la centralità è in altri termini meno facilmente misurabile in base allo "eccesso d'importanza" del centro urbano dato dalla sua "area complementare; nelle reti regionali la gerarchia si è molto indebolita e gli ordini delle città si riduce sostanzialmente a due o tre ordini, considerando anche i servizi pubblici e le attività amministrative. La complementarietà che ne misura oggi l'importanza - e che non riguarda tanto l'organizzazione dell'economia regionale, quanto l'economia sovra-regionale e mondiale - è data dalle tante aree e centri urbani tra loro separati che formano lo spazio discontinuo della rete delle sue relazioni economiche, che è essenzialmente espressione della proiezione internazionale delle imprese locali. Oltre che da questa rete di relazioni esterne, da cui largamente dipende la competitività delle imprese locali nel mercato globale, la centralità è espressa dalla capacità dell'ambiente locale di attrarre investimenti di imprese, esterne e locali, ed in breve esprime i vantaggi competitivi della città considerata. Anche sotto questi aspetti, come sotto quello più tradizionale della dotazione di servizi, la dinamica dagli anni 70 sino ai nostri giorni evidenzia che tra le aree centrali del capitalismo flessibile e globalistico sono indubbiamente da annoverare anche gran parte delle città e province non metropolitane, quantomeno di quelle più sviluppate del Centro-Nord. Considerando il livello dei redditi pro-capite sembrerebbe, anzi, che molte di esse non abbiano minore importanza centrale rispetto alle città e provincie metropolitane. A questo riguardo, tuttavia, occorre intanto precisare che il superamento, o per lo meno la forte riduzione, di tali disparità è largamente espressione del "declino della centralità" di molte città metropolitane, conseguente al nuovo capitalismo ed ai problemi della transizione che per lo più le grandi città italiane non hanno ancora superato, malgrado ormai da un decennio abbiano sostanzialmente completato la ristrutturazione dell'industria, fatta di decentramenti territoriali e di grandi innovazioni tecniche (Borlenghi, 1990). Infatti, con la new economy, da un lato le industrie meccaniche e chimiche in genere, concentrate nelle grandi città e considerate "centrali" o "moderne", perdono questo attributo: divengono anch'esse "tradizionali", come quelle tessili, dell'abbigliamento, dei mobili e articoli per la casa, ecc. le quali con la rivoluzione elettronica si sono anch'esse rinnovate e sono ringiovanite. D'altro lato, le più avanzate attività terziarie avanzato, soprattutto finanziarie e direzionali, la cui crescita anche in questa fase di prevalente diffusione, ha continuato a concentrarsi in alcune grandi città, ed anche le tipiche attività della new economy, innovative o di punta, tanto industriali quanto di servizio, che sono da considerarsi le nuove attività "moderne" o "centrali", avendo privilegiato anch'esse alcune città metropolitane (come Milano, Torino, Bologna, Roma, ma anche Napoli, Catania ecc.), evidenziano certo il permanere, o meglio il riprodursi, sotto nuove forme, di una certa disparità di valori centrali gerarchici tra città metropolitane e non, in complesso a vantaggio delle prime (Borlenghi, 1990; Gianfranco Spinelli, 2000). La crescita di queste attività è però stata in genere piuttosto scarsa e non ha impedito un certo livellamento dei valori della centralità tra la maggior parte delle città metropolitane, ed anche una sensibile riduzione del divario tra queste e le città non metropolitane, che in molti casi restano subordinate alle prime soprattutto amministrativamente, poiché queste sono quasi tutte capoluoghi di regione.

La crescita di nuove attività centrali non ha consentito comunque, neppure nelle città in cui si è concentrata, di compensare l'abbandono delle attività che erano in esse dominanti in precedenza, o la drastica contrazione dei loro posti di lavoro, né di impedire un certo generale declino, comune a tutti i paesi, della importanza relativa di quasi tutte le città - nel caso italiano essenzialmente con l'esclusione di Milano - nella rete gerarchica dei centri di direzione dell'economia europea e mondiale. Questa tendenza è stata accentuata dal fatto che il generale processo di concentrazione delle principali attività centrali, ed in particolare delle funzioni di direzione del sistema economico, in un numero sempre minore di luoghi sempre più importanti, che accompagna da secoli il processo di integrazione dell' economia-mondo del capitalismo, si è accelerato sempre più proprio negli ultimi trent'anni , grazie all'integrazione europea e alla globalizzazione - cioè alle nuove forme che ha assunto l'integrazione mondiale , sotto la spinta della politica americana e delle esigenze delle grandi imprese mondiali e della telematica. Se si escludono le poche importanti città finanziarie e di direzione delle imprese che dominano l'economia mondiale, non vi è in sostanza per questi aspetti della centralità una netta distinzione gerarchica tra le altre città, pur potendo queste presentare per altri aspetti differenze profonde e tali da offrire distinte prospettive di sviluppo e di progresso.

A questo riguardo, pur riscontrandosi una estrema variabilità da caso a caso, si può affermare che per alcuni importanti valori territoriali le città non metropolitane restano o sono divenute inferiori alle città metropolitane e quindi sembrano offrire minori prospettive economiche. Da un lato, infatti, il loro ambiente non solo ha esaurito alcuni dei vantaggi competitivi che avevano permesso la loro crescita estensiva (più basso costo del lavoro e flessibilità propria alla piccola dimensione d'impresa) sino a metà degli anni 80, ma si è pur esso gravato nel frattempo di alcune diseconomie comuni alle grandi città, date soprattutto da carenze infrastrutturali nei trasporti e comunicazioni. Da un altro lato, le città metropolitane hanno maggiori possibilità di superamento di queste carenze: sia valorizzando i grandi spazi occupati dai "cimiteri dell'industria fordistica" che per lo più soltanto ai nostri giorni stanno divenendo fisicamente veri "vuoti urbani" , attraverso la demolizione dei vecchi edifici, in attesa di future e spesso ancora incerte destinazioni; sia beneficiando maggiormente dei finanziamenti di grandi opere, specie nel campo dei trasporti, a livello regionale e soprattutto sovrarregionale che di norma determinano, com'è ben evidente il caso degli assi europei dell'alta velocità ferroviaria", una crescita dei valori della nodalità a vantaggio delle grandi città.
Le città metropolitane, però, offrono minori valori locali e vantaggi competitivi riguardo ad alcuni aspetti sociali ed economici la cui importanza è stata esaltata dal capitalismo flessibile e dalla globalizzazione e con cui tutti i sistemi produttivi locali, e particolarmente quelli metropolitani e le loro grandi imprese, devono costantemente fare i conti se vogliono essere durevolmente competitivi. Si tratta di aspetti che discendono dalla struttura del sistema produttivo locale (o geosistema produttivo), evidenziata dalle relazioni tra le imprese locali, e dal connesso ambiente sociale . Malgrado una tendenziale convergenza verso un modello di struttura a rete (Adamo, 1996), che si va facendo strada anche nei sistemi polarizzati che caratterizzavano le grandi città industriali (mono- o plurisettoriali), è evidente che in queste città stenta ad affermarsi pienamente, in quanto non è facile superare la cultura, d'impresa e sindacale, propria del capitalismo ford-tayloristico che è più radicata nelle grandi imprese e nelle grandi città. Il superamento culturale del vecchio capitalismo é ben più facile e largamente in atto nei sistemi distrettuali - tipici di molte città medie e piccole del Centro-Nord, ma anche del Sud - dei quali il modello a rete, fondato su chiari rapporti di collaborazione (tra le aziende e al loro interno), costituisce la fisiologica evoluzione. Esso richiede non solo un ben più grande cambiamento da parte delle imprese nelle grandi città, ma anche specifiche politiche di sviluppo, a via scala geografica, che affrontino questa sfida. Le città metropolitane presentano a questo riguardo anche lo svantaggio ambientale di una struttura sociale caratterizzata da una ben maggiore frammentazione dei rapporti e di ben più difficile ricomposizione verso obiettivi comuni. E' per questo motivo pure che è anche più difficile in esse e nelle loro città satelliti lo stesso assorbimento della nuova immigrazione e quindi "il convivio delle differenze" etniche e culturali (Prefettura di Novara, 1999). Per comprendere l'importanza di queste ed altre differenze di struttura e quindi di prospettiva tra città metropolitane e non, come più in generale per impostare politiche di sviluppo capaci di rafforzare la competitività delle imprese locali, grandi e piccole, e di rispondere alle principali esigenze, nuove e vecchie, delle comunità sociali urbane, occorre assumere ed esplicare , se non proprio una completa teoria dello sviluppo capitalistico in questa fase storica, quantomeno una tesi sulle condizioni poste dalla competizione globale e ,quindi, sulle strategie devono adottare specificamente le imprese che operano o intendono operare in un paese ad alti redditi come l'Italia e sui valori territoriali (o vantaggi competitivi fondamentali) che devono trovarvi, particolarmente nell'ambiente (fisico e sociale) delle sue città, per investirvi.


4. Competizione, collaborazione e valori dell'ambiente locale .


La qualità delle risorse umane e quindi del lavoro è sempre stato un fondamento dell'organizzazione territoriale dell'economia, come dell'organizzazione economica del territorio, tanto in società precapitalistiche e tanto più nelle società capitalistiche (Adamo, 1974).

Malgrado in certe teorie dell'economia capitalistica questa risorsa venga assunta, alla stregua di altre merci, come mobile, occorre tener presente intanto che la grande maggioranza dei lavoratori non sono affatto "liberi" di spostarsi, come rendono evidente i tanti "lacci e lacciuli" che si frappongono alla loro libera circolazione internazionale, in contrasto con il dilagante liberismo commerciale che riguarda altri fattori e i mezzi di produzione. Le risorse umane di maggior qualità, inoltre, tendono a radicarsi in certi luoghi e, comunque, possono essere attratti solo in luoghi dotati di certi attributi ambientali, e non in altri luoghi; anche la loro produzione, pur possibile in luoghi che ne sono privi, richiede tempi ben lunghi, quantomeno per alcuni importanti aspetti, pur intensificado il più possibile le attività educative e di formazione professionale.

La dotazione di risorse umane d'alta qualità (lavoratori ed anche imprenditori, distinzione che ha sempre meno senso riguardo alla questione della competitività delle imprese e dei loro sistemi locali) è divenuto nel nuovo capitalismo il principale "valore " dell'ambiente locale: quello che, se riprodotto e rafforzato continuamente, può garantire alle imprese locali di essere competitive nel mercato mondiale e un progresso duraturo dei geosistemi in cui sono integrate. L'importanza strategica di questo valore locale si deve da un lato ad esigenze ormai tradizionali dell'economia italiana : alla esigenza, non potendo contare su altre risorse, di garantire un mercato aperto e poter disporre di un crescente apertura degli altri mercati nazionali e macroregionali (costituiti da associazioni varie di libero scambio tra Stati nazionali), in particolare di quelli dei paesi ricchi; e all'esigenza, dati gli alti redditi e costi del lavoro, di competere nel mercato globale dei prodotti di qualità, destinati ai paesi ricchi e in genere ai consumatori ricchi. Da un altro lato, la qualità delle risorse umane ha assunto un'importanza generale, nuova e crescente con la liberalizzazione commerciale, in quanto è da essa che dipende la qualità del prodotto su cui si fonda sempre più la competizione globale, ovvero la strategia delle imprese che vi partecipano.

E' ben vero a quest'ultimo riguardo che il management tradizionale di molte imprese continua a vedere ancora nelle innovazioni di processo uno strumento per abbattere il costo del lavoro e che queste stesse innovazioni, creando disoccupazione, hanno deregolamentato il mercato del lavoro, hanno riaperto la forbice tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro e soprattutto hanno così frenato il mutamento nelle relazioni sociali di produzione, all'interno delle aziende e tra le aziende che è comunque in atto, sotto la spinta degli imprenditori e dirigenti più accorti e attenti al mercato di sbocco dei prodotti, e che è certo auspicabile per garantire una duratura competitività alle imprese e il progresso sociale (Adamo, 1996). E' ben vero inoltre che la diffusione delle innovazioni di processo non ha arrestato il dccentramento di molte attività produttive verso paesi meno avanzati, che è ripreso più intensamente negli anni 90 (Adamo, 1997) e che è dettato semplicemente dalla tradizionale strategia del capitale,che certo resta "famelico di sopralavoro", e non dalla ricerca delle risorse umane di qualità necessarie a innovare e migliorare continuamente la qualità dei prodotti e a creare nuovi prodotti di qualità, che è alla lunga l'unica strategia vincente.

In effetti, quando tutte le imprese concorrenti adottano la stessa strategia di decentrare quanto possibile, una simile organizzazione interna e/o comprano le stesse macchine (che consentono non solo lo stesso valore d'uso della forza-lavoro ma prodotti di qualità simile, almeno sotto l'aspetto tecnico), per avere un vantaggio competitivo non si può contare che sul miglioramento della qualità dei prodotti e sulla creazione di prodotti che costituiscano effettivamente nuovi valori d'uso, e certo anche sull'innovazione d'organizzazione e di processo, che però va vista soprattutto quale strumento per migliorare e affermare i propri prodotti.

La qualità delle risorse umane a questo scopo indispensabile non riguarda solo le conoscenze e capacità tecniche, di cui esse devono essere portatrici, che è l'importante attributo tradizionale che viene in mente in tema di innovazione, ricerca e sviluppo; ma riguarda anche attributi sinora trascurati o decisamente cancellati dall'organizzazione tayloristica del lavoro, fortemente gerarchica. Le risorse umane necessarie alle imprese del nuovo capitalismo devono essere creative, collaborative e flessibili, cioè capaci di affrontare e adeguarsi al cambiameno, oltre che istruite e capaci professionalmente. Ciò non solo perché l'innovazione stessa richiede creatività (fantasia e altre doti che si possono e devono coltivare) ed è dimostrato che è largamente favorita ed anche originata dalla collaborazione, all'interno dell'azienda e tra aziende; ma anche perché la qualità dipende anche molto dall' "amore con cui si fanno le cose" , dal senso di responsabilità con cui si lavora e dalla prontezza con cui si coglie il cambiamento delle esigenze e dei gusti, caratteri che oggi dovrebbero essere esaltati e valorizzati dalla consapevolezza che dalla "qualità totale " dipendono le sorti dell'intera azienda e spesso dello stesso sistema di aziende in essa è integrata, particolarmente a livello locale. La "flessibilità", capacità indispensabile all'impresa per rispondere alle esigenze del mercato, non può certo essere ridotta a "precarietà" del lavoro e a "libertà di licenziare arbitrariamente", come si è di fatto largamente manifestata nella transizione al nuovo capitalismo ed ancor oggi qualcuno pretende di rappresentarla. La flessibilità e più in generale la competitività, dipendendo dalla qualità delle risorse umane su cui l'impresa può fare affidamento, dovrebbero indurre le imprese a garantirsi la collaborazione dei lavoratori con le doti richieste, nonché delle imprese fornitrici, e a creare una nuova stabilità occupazionale fondata sul merito e una nuova organizzazione sociale del lavoro, fondata sempre più su un nuovi rapporti di produzione, in particolare su rapporti di collaborazione più che di dipendenza, oltre che sul lavoro autonomo e su aziende no-profit che si vanno moltiplicando in attività in cui nullo o scarso è l'investimento capitalistico.

Le nuove doti richieste a lavoratori ed imprenditori rendono indispensabile non solo una politica che elevi i livelli d'istruzione e di formazione professionale, ma una nuova concezione e politica dell'educazione, da attuarsi nella scuola, nella famiglia e nell'intera società. Si tratta di educare a lavorare in gruppo, ad essere "parte di una stessa squadra", in breve a collaborare anziché a competere, il che non significa affatto non premiare i diversi meriti, ma anzi esaltarli e riconoscerli in modo trasparente, rendendo vano il controllo gerarchico tipico dell'organizzazione tayloristica. Occorre inoltre favorire la libera espressione idee e le condizioni che aiutino a sprigionare la creatività, la quale dipende pure dall'ambiente sociale ed anche fisico in cui si vive, cioè dagli stimoli che l'individuo riceve da esso. A questo riguardo mi riferisco anche ai suoi paesaggi, alle iniziative culturali, alle opportunità ricreative che l'ambiente di ogni singola città offre (Adamo, 1998).

Questi ultimi caratteri, assieme ai servizi per le famiglie, sono indispensabili per una "riproduzione" sempre più "allargata" richiesta da nuovo capitalismo e quindi per mantenere alta e tanto più per elevare la qualità delle risorse umane locali. Essi sono essenziali pure per attrarre dall'esterno nuovi lavoratori qualificati e nuovi investimenti. La qualità delle risorse umane dipende quindi anche dalla qualità di altri aspetti dell'ambiente locale, non per ultime le condizioni ecologiche, e dalle politiche che si attuano per migliorarne l'attrattiva residenziale. Per le città italiane, queste politiche continuano a restare come molti anni or sono (Adamo, 1985) una priorità e, assieme all'altra vecchia priorità insoddisfatta che riguarda le infrastrutture, dovrebbero concentrare l'attenzione delle Amministrazioni cittadine e provinciali, più che la creazione di nuovi strumenti di governance alla moda o di altri servizi alle imprese (per l'innovazione, per l'internazionalizzazione, ecc), che erano tanto alla moda nelle politiche degli anni 80 e che in realtà non serve che se ne preoccupino tanto le Istituzioni locali. Questi ultimi servizi, se servono veramente, vengono creati largamente dal mercato: ad essi l'ente locale può offrire al più qualche incentivo. Migliorare i servizi di trasporto collettivo, decongestionare il traffico urbano, rendere l'aria respirabile e in genere l'ambiente meno sporco, offrire servizi sociali (ospedali, asili e scuole, ecc ) più qualificati ed efficienti, superare lo squallore architettonico e urbanistico praticamente di quasi tutte le periferie urbane cresciute nell'ultimo mezzo secolo restano non solo compiti essenziali dei quali i cittadini, imprenditori e lavoratori, non possono che chiedere conto alle Istituzioni locali, ma sono anche una condizione e quindi una priorità dello sviluppo. Non è infatti pensabile che in ambienti degradati e poco vivibili si sviluppino innovazioni, si attraggano investimenti in produzioni e attività di ricerca avanzate, che si formino o si attraggano risorse umane, o che si sviluppi, come molte città stanno cercando di realizzare per cercare di superare la crisi della grande industria, un turismo duraturo.


Lo sviluppo delle reti di città per lo sviluppo della città. - La collaborazione come via alla crescita della qualità dei prodotti e della competitività non riguarda solo la scala della singola azienda e del sistema locale d'imprese, essa è indispensabile anche a scala sovraregionale e mondiale: ogni sistema locale d'imprese., e quindi anche ogni impresa per il tramite delle imprese leaders del sistema, deve divenire nodo di una rete, tendenzialmente globale, di collaborazioni (meglio se attraverso espliciti accordi, compartecipazioni e fusioni tra imprese)e anche di proprie unità decentrate: una rete che consenta un "avvicinamento" ai mercati degli output e degli input, e quindi una loro migliore conoscenza, un aumento della qualità e una riduzione dei costi attraverso una crescente specializzazione dei nodi della rete e la realizzazione di economie di scala tecniche, un aumento delle capacità finanziarie ed in complesso della forza competitiva. Anche per la costruzione e il rafforzamento di questa rete di relazioni esterne - che molti sistemi d'impresa italiani, metropolitani e non, hanno già realizzato - può essere importante l'iniziativa politica degli enti pubblici della città e della sua provincia, in particolare nell'incentivazione dell'offerta di adeguati servizi per le piccole imprese locali (informazioni e analisi dei mercati, consulenza import/export, linguistica, nel campo della contrattualistica e della legislazione commerciale internazionale, ecc.) e nell'avviare relazioni di collaborazione con le amministrazioni delle città e delle provincie degli altri nodi della rete.

La probabilità di realizzazione e di successo di queste iniziative, come pure delle politiche prioritarie di qualificazione e riqualificazione delle risorse umane e degli altri elementi sopra ricordati dell'ambiente urbano locale, sono funzione della consapevolezza che esse rispondono a interessi generali e del consenso politico che le sostiene; il quale è a sua volta funzione del grado di coesione dell' ambiente sociale della singola città interessata ed anche dell'ambiente sociale e delle reti urbane delle comunità regionali in cui è compresa.

Riguardo alla città singola, è evidente che per queste ragioni le città metropolitane e i loro satelliti, incontrano maggiori difficoltà e non sempre riescono a compensarle con la maggiore disponibilità di mezzi. In queste città, per la maggior frammentazione sociale e/o la maggior dimensione che rende meno facile la partecipazione alle decisioni, i "Patti territoriali" che, com'è noto, sono un nuovo importante strumento di guida dello sviluppo urbano, finiscono per essere essenzialmente una mediazione tra interessi contrastanti ed in pratica a ridursi a uno strumento di spartizione delle risorse pubbliche, piuttosto che la risposta ad interessi che, seppur differenti secondo i soggetti sociali, possono considerarsi "comuni" nel senso che si tratta di interessi tra loro sinergici per cui la loro soddisfazione porta ad un maggior beneficio per tutti. E' quindi in queste città che più si misura la capacità della politica nel senso più alto del termine di capacità di guidare lo sviluppo, anziché inseguirlo, e di guidarlo verso il progresso sociale.

Riguardo all'ambiente sociale e alle politiche urbane che si praticano a varie scale regionali, prima di evidenziarne l'importanza, é doveroso sottolineare in conclusione che in questo contributo, per comprendere i problemi dello sviluppo urbano ed impostare le politiche necessarie per accrescere la competitività dei sistemi economici delle singole città (o meglio dell'area che beneficia maggiormente delle sue economie di agglomerazione e che più risente della sua influenza), si è insistito sui valori dell'ambiente locale, dai quali in ultima analisi dipendono anche le sue capacità di proiettarsi internazionalmente e di costruirsi la propria rete globale. Si è trattato di una scelta voluta: da un lato, per evidenziare che la globalizzazione non determina una indifferenza dei luoghi, ma ne esalta le differenze e rende sempre attuale una geografia che esplori il mondo e valuti i nuovi valori che assumono i suoi diversi luoghi e particolarmente le sue città; da un altro, per contenere questo scritto nei limiti dovuti e per evitare anche sovrapposizioni con altri contributi a questa sessione congressuale, che come è stato accennato si soffermeranno sulla diversa specializzazione e sui diversi livelli di centralità delle città nella rete italiana ed europea, come sui problemi urbani che si collocano a queste scale, sulle politiche e gli strumenti messi in atto.

La focalizzazione sui rapporti locale/globale, per altro abbastanza frequente ai nostri giorni, non è quindi espressione di una sottovalutazione dell'importanza, altrettanto determinate, di certi valori dell'ambiente "regionale" (ovvero dello spazio contiguo delle relazioni della città), relativi in particolare alle scale geografiche (mesoregionale, nazionale e macroregionale ) corrispondenti a livelli di decisione politica (Regioni amministrative, Stato Italiano, Unione Europea). Dalle scelte a queste scale dipendono largamente il miglioramento delle grandi infrastrutture, e quindi l'importanza nodale e centrale delle singole città, il miglioramento della qualità dell'educazione e di vari altri aspetti della vita umana, e in genere il governo dei processi di trasformazione socio-economia che investono le città.

In proposito, ci si limita qui a sottolineare brevemente che le soluzioni dipendono , come nella comunità locale,dal grado di coesione sociale esistente nei diversi geosistemi regionali: in pratica, dai rapporti sociali tra i nodi della rete urbana e da come le singole comunità urbane si sentono parte integrante di tali più vaste comunità e sono adeguatamente rappresentate nelle istituzioni che le governano.

Il principio di sussidiarietà che, com'è noto, dovrebbe regolare i rapporti tra le diverse scale di decisioni politiche, favorire una migliore partecipazione dei cittadini alle scelte e quindi una maggior rispondenza alle reali istanze ed esigenze, ha fatto certo molta strada in Italia negli ultimi dieci anni, i suoi effetti benefici si notano già in vari campi, tra i quali quello degli strumenti di politica e pianificazione dello sviluppo urbano, che di fatto oggi permettono una maggiore flessibilità ed adeguamento alle peculiarità locali. Esso, però, non è di per sé sufficiente ed, anzi, può anche essere controproducente se fa difetto la rappresentanza delle comunità minori in quelle maggiori . Questa è una delle ragioni per cui lo stesso principio di sussidiarietà stenta ancora ad affermarsi pienamente e soprattutto è la ragione principale delle forti resistenze che sono opposte dalle comunità minori (e che possono divenire aperti conflitti sociali tra scale geografiche diverse) alle scelte di governo delle comunità maggiori che le comprendono, com'è evidente in molti casi in cui i benefici di una nuova infrastruttura ricadono su una vasta area e i costi , in termini di esternalità negative, ricadono su una comunità minore.

Il problema di fondo, di come garantire il governo ed il progresso del territorio, dalla singola città alla rete urbana, resta quello di come la politica e le istituzioni in cui si concretizza riescono a rappresentare i soggetti sociali e le loro comunità, e come si rappresentano le loro istanze. Come si può ben comprendere dalla crisi dei Partiti politici tradizionali, che è crisi di tale rappresentanza e della politica, dall'acceso dibattito sul sistema elettorale ed anche dalle proposte di federalismo (che in realtà hanno investito per ora essenzialmente "gli addetti ai lavori"), da un decennio è certo una priorità in Italia la riforma istituzionale. E' però illusorio che alla crisi della rappresentanza politica - e quindi della capacità di dare risposte ai problemi del territorio accettate anche da chi ne può fare le spese, nella consapevolezza di costui dei maggiori vantaggi che in complesso derivano dall'essere parte della comunità, anziché isolarsi da essa - possa darvi risposta l'ingegneria istituzionale, vuoi applicata al sistema elettorale vuoi applicata ai rapporti tra le istituzioni territoriali.

In particolare, un più spinto regionalismo, cioè un ulteriore rafforzamento dell'autonomia delle Regioni attraverso un più ampio decentramento di poteri, può permettere certo una più ampia affermazione del principio di sussidiarietà nel rapporto Stato/Regioni. Esso però non eleva necessariamente la rappresentanza della Regione in sede sovra-regionale, che resta fondamentale per i tanti problemi di sviluppo che richiedono scelte sovra-regionali.

Tanto meno questi problemi troverebbero più facili e migliori soluzioni con la trasformazione dello Stato unitario in uno Stato federale[10]. Innanzitutto, le Regioni non avrebbero in sede europea e internazionale quell'attenzione che oggi riceve lo Stato italiano e senza il sostegno di questo anche gli interessi materiali delle loro imprese e dei loro abitanti sarebbero meno difesi. Inoltre, se l'articolazione regionale dovesse restare quella delle Regioni attuali previste dalla Costituzione Italiana, come sembrano propendere alcuni nuovi simpatizzanti del federalismo, la competizione ed il contrasto di interessi tra Regioni vicine finirebbe per non risolvere molti problemi o risolverli molto peggio dello Stato nazionale unitario: risolverli cioè come pura mediazione di interessi in una ottica limitata, tenendo conto al riguardo che i territori delle attuali Regioni hanno ormai un'estensione troppo ridotta in relazione alla tendenza ad una regionalizzazione a maglie sempre più larghe. Questa tendenza è ormai evidente da decenni ed è, com'è noto, determinata dall'ammodernamento dei trasporti terrestri (su autostrade e soprattutto ferrovie ad alta velocità, che finalmente anche in Italia si sono messe in cantiere), che rende reale l'integrazione dei mercati e produce nell'organizzazione del territorio cambiamenti consistenti, spesso irreversibili, tali da rendere superata dai fatti l'attuale articolazione dell'Italia in regioni amministrative e certo deleteria se venisse assunta dalle proposte federaliste. D'altra parte, una nuova divisione regionale dell'Italia , tanto più in unità che dovrebbero costituire i territori di una Federazione di Stati, non può certo costrursi "a tavolino" (sarebbe una assurdità!) : ogni unità territoriale, amministrativa e politica, sia essa a base di una Regione o di uno Stato, non può che essere un prodotto storico, un prodotto di popolo che si identifica in essa. Per uomini che ormai si sentono a casa propria non solo in tutt'Italia, ma anche sempre più in tutt'Europa e persino in tutto il mondo, una operazione di questo genere sarebbe andare contro la storia e certo, pur senza cadere nel mito che la storia vada comunque sempre in direzione del meglio, in questo caso sarebbe andare contro il progresso.



Per una rassegna al riguardo i già menzionati Di Tommaso e Rabellotti (p.17) ci rinviano a Fujita, Krugman e Venables (1999). Vale la pena , per evitare di ripetere errori che la "vecchia geografia economica" (quella propria dei geografi) ha faticosamente superato , che i cultori della "nuova geografia economica" si riferiscano alle opere principali della vecchia geografia e ne considerino il percorso metodologico. Questo è imporante, oltre che per evitare ovviamente di "scoprire l'acqua calda", per scongiurare i pericoli maggiori : di cadere nell'empirismo e di restare prigionieri delle peculiarità dei luoghi, di ricadere nel determinismo geografico (spaziale e ambientale) nell'interpretazione dello sviluppo economico.regionale (come appare ad esempio in M.Gavin e R.Hausmann, 1998).

Il lavoro di 'aggiornamento dei dati , che nella precedente pubblicazione si arrestavano al 1981, di rielaborazione statistica e rappresentazione cartografica si deve ai seguenti tre dottorandi di ricerca, che ringrazio vivamente per la collaborazione: Raffaella Afferni (Abitanti ed abitazioni) , Stefania Cerutti (Composizione socio-professionale, occupazione e disoccupazione, immigrazione), Maurizio Gibin (Attività economiche)

In tal senso, per definire l'urbanizzazione diffusa, che negli Stati Uniti d'America si manifesta già negli anni '60, Brian Berry (1976) ha efficacemente impiegato il termine di "counter-urbanization", pur riferendosi con ciò ai soli aspetti quantitativi.

Piuttosto che continuare ad avvalersi dell'uso di un post ("postfordismo", "post-modernità", ecc.), che è tanto alla moda, nell'identificazione di nuove tendenze e periodi storici, ma che non dice nulla del periodo specificamente considerato.

Questo modello di sviluppo , com'è purtoppo noto, è stato definito anche della "Terza Italia" (Bagnasco, 1977) . Questa definizione, anche se solo intesa come "metafora ", ritengo sia errata e fuorviante. E' errata in primo luogo sul piano economico, perché il modello di sviluppo è presente anche nelle altre due presunte regioni economiche d'Italia e per le altre ragioni economiche ben esposte da P. Costa (1989) , con cui concordo pienamente; perché, inoltre, l'ambiente sociale (mezzadria, piccola prorietà contadina,ecc) che ha favorito la nascita e la crescita dell'imprenditorialità industriale nelle regioni dell'Italia Nord orientale e centrale non era storicamente diverso da quello che ha favorito l'industrializzazione del Nord-Ovest . E' fuorviante perché la questione socio-economica e politica fondamentale, su cui concentrare l'attenzione degli studiosi e dell'intera opinione pubblica, resta ancora il dualismo Nord-Sud,; anche se i termini della questione meridionale sono certo mutati

Per l'inerzia propria dello spazio fisico edificato, tra le città permangono le distanze storiche, proprie dei sistemi urbani europei pre-industriali, indicate dal Christaller, le quali s'aggirano generalmente sui 30 chilometri, salvo nelle aree ad alta densità demografica, come ad esempio nelle principali province metropolitane, ove tali livelli minimi di offerta possono essere raggiunti da centri di quartiere urbano e di sobborgo.


Con specifico riferimento alle città italiane, l'ipotesi che esistano situazioni del genere trova fondamento nelle analisi di C. Emanuel (1989), relative in particolare alla composizione delle attività centrali (e terziarie in genere) presenti nelle città della Padania centro-occidentale.

Poiché l'integrazione funzionale può essere una strategia molto importante in una politica di "rafforzamento della rete non metropolitana" (Dematteis, 1991, )- ed in particolare di ulteriore riduzione della polarizzazione e di riqualificazione e rafforzamento delle periferie regionali - questa ipotesi meriterebbe certo d'essere verificata con una attenta analisi dei flussi tra le città considerate ed approfondita anche con l'analisi del processo di diversificazione delle attività in esse presenti. A questo riguardo è utile tener presente, infatti, che la complementarietà presuppone la diversità, ma questa non comporta di necessità la prima; e che l'integrazione tra le città, come evidenziano le analisi di alcuni casi analoghi in cui tale integrazione funzionale si è riscontrata (Adamo, 1974a, p. 204-206)., è in genere parziale, limitata dalla concorrenza tra le varie città vicine che pur sempre permane ed è tale in genere da impedire all'insieme delle città vicine di funzionare come un'unica città di ordine superiore

Dal sistema elettorale dipende certo la forma della democrazia, ma non la sostanza.   Il sistema proporzionale, senza una reale partecipazione dei cittadini alla vita dei Partiti e un democratico sistema di proposizione e selezione delle candidature, non garantisce certo la rappresentanza, né certo garantisce da possibili corruzioni e deviazioni.; si può dire altrettanto per il maggioritario che può impedire , ben più del proporzionale, il ricambio della classe politica per il serio rischio che questa d'esser composta essenzialmente di notabili locali preoccupati di tenersi stretto il proprio "feudo", il collegio elettorale uninominale, come c'insegna la storia dell'Italia liberale. D'altra parte, il maggioritario che era stato propagandato, e soprattutto per questo largamente accolto dagli elettori, quale toccasana della corruzione e di altri mali pubblici indagati dalla magistratura , espressi con il termine di "Tangentopoli" e in particolare quale strumento per "ripulire" il Parlamento e i Consigli degli Enti Locali da certi personaggi politici , non sembra proprio che sia di per sé in grado di risolvere questi problemi, come mostrano i risultati elettorali e le cronache del periodo successivo alla prima riforma elettorale (a meno che non si voglia attribuire anche queste colpe alla residua quota proporzionale!.).

Questa proposta - di cui francamente mi sfuggono i vantaggi per i cittadini italiani o le ragioni ideali, visto che siamo una sola nazione e i nostri antenati hanno dato anima e sangue per la sua unità - va purtroppo facendosi strada tanto tra le forze politiche della maggioranza al Governo, cioé di centro-sinistra, quanto in quelle di centro-destra all'opposizione nel tentativo forse di superare così le farneticanti ( ma pericolose) rivendicazioni separatiste della Lega Nord., se non proprio nel tentativo di attrarre le simpatie di questa nuova forza politica ed il relativo pacchetto di voti, che alle prossime elezioni può fare la maggioranza.





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