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LA QUESTIONE MERIDIONALE: DAL 1861 DIBATTITI INFINITI

sociologia



LA QUESTIONE MERIDIONALE:
DAL 1861 DIBATTITI INFINITI


La questione meridionale nasce all'indomani dell'unità d'Italia, quando le diverse realtà politiche ed economiche della penisola vengono riunificate sotto la corona sabauda. Sin dal 1861 è evidente il profondo squilibrio economico che divide in due l'Italia, che al nord presenta un modello di sviluppo di tipo capitalistico del tutto assente nelle regioni del Mezzogiorno d'Italia. La produzione agricola costituisce ancora la principale attività del paese, ma essa viene praticata in forme diverse nelle regioni italiane, e ciò è ad un tempo effetto e causa della diverse organizzazione sociale vigente nelle due aree sopraccitate. Al nord si va sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole che ha nel Piemonte e nella Lombardia le regioni trainanti.
Questo modello gestionale prevede l'investimento di cospicue quantità di denaro per l'ammodernamento costante degli strumenti di produzione delle aziende agricole, che ha per conseguenza un costante incremento della produzione e la progressiva meccanizzazione del lavoro. Le produzioni specialistiche del nord Italia - si pensi al riso- vanno allineandosi così agli standard delle più avanzate nazioni europee e sono in grado di presentarsi con successo sui mercati internazionali. Questo sistema di produzione, che viene incentivato dalle politiche liberiste in vigore nel Piemonte sabaudo, richiede e contribuisce a sviluppare una borghesia imprenditrice, disposta ad investire parti consistenti dei propri profitti per l'ammodernamento delle imprese e tende ad estinguere i comportamenti tipici dell'aristocrazia terriera che fondava la propria ricchezza su posizioni di rendita.

Opposta si presenta invece la situazione nel meridione d'Italia negli anni immediatamente a cavallo dell'unità. L'agricoltura non conosce in queste zone alcuna trasformazione di tipo capitalistico, laddove domina invece un tipo di organizzazione e di




gestione di chiara origine feudale. Alla media e piccola proprietà diffusa nel centro e nel nord Italia si contrappone al sud l'immensa distesa del latifondo, di proprietà di una borghesia assenteista che ha rivelato non solo le proprietà ma anche gli usi e i modi dell'aristocrazia.
I vastissimi appezzamenti di terreno sono concessi in affitto ai contadini o vengono coltivati facendo ricorso alle masse di braccianti, seguendo tecniche in uso da secoli. Prevale al sud la coltivazione estensiva di grano destinato al mercato interno e all'auto- sostentamento, non competitivo sul piano internazionale per costi e metodi di produzione. La borghesia meridionale non era disposta a reinvestire i propri profitti nelle imprese agricole, che pertanto rimanevano in condizioni di arretratezza produttiva rispetto al nord Italia. L'atteggiamento della borghesia meridionale dell'epoca viene così tratteggiato dallo storico Francesco Barbagallo:
"La classe borghese dei grandi e medi proprietari terrieri nasceva e si rafforzava al di fuori di un reale conflitto con la proprietà nobiliare, anzi aspirava ad imitarne i costumi e le abitudini, e mutava dalla feudalità caratteri e forme del tradizionale sfruttamento della terra e dei contadini. L'appropriazione borghese della terra non comportava il superamento dei rapporti agrari e sociali più arretrati."

Nei primi anni unitari la questione meridionale, intesa come il problema dell'arretratezza economica ma anche sociale e politica del sud, non fu argomento di discussione. Altri problemi infatti sorsero tra il nord e il sud Italia, così gravi da minacciare la stessa unità appena raggiunta. Dal 1861 al 1865 si sviluppò in Basilicata, in Molise, in parte dell'Abruzzo, della Calabria e della Puglia il cosiddetto fenomeno del "brigantaggio". Organizzati in bande i briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano negozi e davano fuoco agli edifici comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture. Si trattava di un fenomeno molto esteso, che coinvolse migliaia di persone e che ebbe moltissimi fiancheggiatori nel meridione e che fu espressione di un profondo disagio maturato in ampi strati della popolazione meridionale all'indomani dell'unificazione.
I briganti erano il simbolo del malcontento dei contadini e della massa popolare che aveva attivamente partecipato ai moti risorgimentali nella speranza d'ottenere cambiamenti importanti sotto il profilo economico e sociale e che era ora delusa nelle sue aspettative. L'annessione piemontese non aveva infatti portato per loro nessun miglioramento della situazione, lasciando immutati i rapporti di forza tra popolo e i ricchi borghesi proprietari della terra: dall'unità anzi erano venuti per loro solo danni, poiché era stato introdotto la coscrizione obbligatoria e erano state inasprite le tassazioni.

A questa sollevazione popolare le istituzioni italiane - che erano controllate in larga maggioranza da piemontesi - avevano reagito con grande durezza, inviando più della metà dell'esercito nelle zone dove operavano gli insorti, con l'autorizzazione ad applicare severissime norme di guerra che prevedevano ergastoli e fucilazioni per gli insorti.
Bloccati i tentativi insurrezionali, i successivi dieci anni non portarono significativi


miglioramenti all'economia meridionale, che anzi entrò in una fase ancora più critica con la crisi agraria che investì l'Europa sul finire degli anni ottanta a causa dell'invasione sul mercato dei prodotti americani, resi ora disponibili dalla velocizzarsi del trasporto su nave e da prezzi di produzione assai competitivi.
La crisi agricola e l'assenza pressoché totale di sviluppo industriale resero dunque evidente il deficit economico meridionale e indussero intellettuali e uomini politici ad interrogarsi sui motivi di questa persistente arretratezza che non accennava a diminuire ma anzi sembrava amplificarsi con il trascorrere degli anni.
Il primo ad interrogarsi risolutamente sulla questione meridionale fu Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le "Lettere Meridionali". Uomo della destra storica, il Villari denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, indagando soprattutto sull'inefficienza e la debolezza delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio. La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del nord che del sud Italia.

Il vero soggetto su cui si doveva puntare per una trasformazione radicale della situazione meridionale era però per il Villari la borghesia terriera, che doveva essere persuasa al cambiamento, secondo la formula già utilizzata in Inghilterra dai conservatori inglesi che avevano inteso che era necessario "riformare per conservare". La tesi del Villari però difettava nella mancanza di analisi delle vere ragioni della persistenza di modelli semifeudali nella società meridionale e soprattutto era incapace di cogliere il ruolo ormai secondario che avrebbe svolto l'agricoltura nel sistema economico e sociale italiano degli anni a venire.
Più approfondite e scientificamente più fondate risultavano invece le analisi prodotte da Franchetti e Sonnino negli anni immediatamente successivi.
Sonnino concentrava la sua attenzione sulla realtà siciliana indagandone l'organizzazione della proprietà e i rapporti di produzione e derivando da quest'analisi le strategie per il miglioramento della situazione. Sonnino, aristocratico e colto conservatore, era scandalizzato dalle pratiche sociali ed economiche adottate dalla borghesia terriera meridionale, interessata solo a sfruttare al massimo le proprie risorse e i propri dipendenti. Il problema del Mezzogiorno, sosteneva giustamente Sonnino, era la permanenza a livello economico ma anche sociale della proprietà latifondista di origine feudale, che impediva lo sviluppo di una moderna economia di mercato.

Per risolvere la crisi, Sonnino sosteneva la necessità di una moderata riforma dei patti agrari e più in generale intendeva esportare nel sud Italia il modello mezzadrile in vigore in Toscana. Proprio in questa aspirazione a riproporre il modello paternalistico toscano - di cui egli stesso era interprete - stava il grave limite dell'analisi sonniniana, incapace di comprendere l'enorme diversità di ispirazioni e storia tra l'alta borghesia settentrionale e quella meridionale, interessata solo " alla massima accumulazione di capitale". Nella storia dell'economia italiana e in quella della questione meridionale, un momento particolarmente importante è quello della svolta protezionistica del 1887.
Il provvedimento viene varato sulla scorta di quelli approntati da quasi tutte le nazioni europee - con l'eccezione inglese- nello stesso periodo e che sono volti sia a tentare di porre un argine alla crisi agraria che al rafforzamento della produzione industriale, considerata adesso un elemento chiave per lo sviluppo delle economie nazionali. Le tariffe protezionistiche rendono difficile l'importazione di merci e favoriscono in tal modo l'industria nazionale che può immettere sul mercato interno i propri prodotti senza doversi preoccupare della concorrenza straniera. Si tratta di provvedimenti che rendono possibile grandi accumulazioni di capitali all'industria, che si giova anche delle commesse statali per le opere pubbliche e per le forniture militari, e che però penalizzano notevolmente i semplici cittadini, costretti ad acquistare merci a prezzi più elevati che in passato, quando vigeva un sistema di concorrenza.

La fine dell'economia liberista segna anche l'avvento del mito della forza della nazione, alla quale i governi decidono di sacrificare il benessere dei cittadini: il bene comune appare ora un valore superiore della volontà del singolo. In Italia, il ripercussioni anche sullo sviluppo economico del sud Italia. Al nord infatti esiste, almeno in nuce, una struttura industriale pronta a cogliere i benefici derivanti dalle tariffe protezionistiche e anzi è proprio la classe imprenditrice del nord a domandare l'applicazione di queste leggi. Al sud, al contrario, non esistono poli industriali di rilievo, perché i pochi presenti sono stati spazzati via dalla concorrenza sorta durante i primi anni di libero mercato. La tariffa protezionistica avvantaggia in questo senso indubbiamente il nord Italia, amplificando le distanze con il mezzogiorno.
Eppure, a varare queste tariffe, è il primo governo della Sinistra Storica, guidato da De Pretis, politico di origine meridionale, ed espressione del crescente peso politico delle regioni del sud d'Italia. Perché dunque i politici meridionali accettano passivamente questo blocco protezionista che affossa l'economia meridionale? Si tratta di una delicata fase di passaggio, in cui viene formandosi l'alleanza tra classi sociali che controllerà il paese per molti anni a venire. La tariffa protezionistica, che è estesa anche alla produzione agricola, legherà indissolubilmente la proprietà terriera meridionale e la proprietà industriale e capitalistica settentrionale. La borghesia latifondista del sud viene avvantaggiata da dazi doganali che mantengono forzatamente competitiva la produzione agricola sul mercato interno, anche se questa si basa su processi di produzioni arcaici e arretrati.

La produzione di cereali, che ad esempio sarebbe stata spazzata via dalla concorrenza dei prodotti americani, si mantiene viva proprio grazie alla protezione doganale. L'accordo tra produttori del nord e latifondisti del sud ha però conseguenze estremamente negative per il meridione. Il vecchio sistema di sfruttamento economico in vigore al sud viene artificialmente mantenuto in vita e con esso si cristallizza anche l'arcaico sistema sociale già descritto e criticato da Sonnino. La proprietà agraria meridionale continua nel suo sfruttamento della classe contadina e nei suoi atteggiamenti feudali, conservando e anzi rafforzando il proprio potere politico attraverso l'alleanza con gli industriali del nord.
Ma questi ultimi hanno in realtà la guida del paese e costituisco il settore più moderno e avanzato dell'economia italiana e lentamente al nord l'incremento della produzione industriale dà benefici anche al proletariato industriale, seppure attraverso numerosi momenti di crisi, come quello attraversato a fine secolo. Il consolidarsi del blocco di potere dominante non impediva tuttavia l'emergere di voci di dissenso, che riproponevano il problema dell'arretratezza del mezzogiorno. A contestare l'insano equilibrio provvedevano talvolta esponenti della stessa borghesia agraria meridionale, che rifiutavano il modello di sviluppo economico italiano: due di questi erano Giustino Fortunato e Antonio De Viti De Marco. Giustino Fortunato si preoccupò inizialmente di tracciare un quadro della situazione meridionale basandosi su strumenti d'indagine di tipo positivista.

L'esigenza di combattere il diffuso razzismo verso i meridionali - accusati di pigrizia e indolenza - e di sfatare il mito del sud come terra opulenta, lo indusse ad una descrizione minuziosa della realtà fisica del meridione. L'arretratezza del meridione era dunque almeno in parte dovuta alle difficoltà ambientali che dovevano affrontare i suoi abitanti, come i terreni argillosi e cretosi, le lunghe siccità, la malaria e l'isolamento geografico. Ovviamente lo stesso Fortunato era consapevole che da solo quest'argomento era insufficiente per rendere conto delle difficoltà in cui versava il meridione, ma lo utilizzava per spazzare il campo da facili pregiudizi che si andavano diffondendo anche per la crescente popolarità delle tesi di Lombroso. Fatte queste premesse Fortunato


procedeva ad una analisi critica della situazione, accusando anch'egli la borghesia meridionale per la totale mancanza d'intraprendenza economica.

Dapprima Fortunato ritenne di poter individuare nello Stato unitario il motore della trasformazione meridionale, attraverso un nuovo orientamento della politica fiscale e doganale e tramite l'onesta amministrazione della cosa pubblica. Ma presto questa speranza in uno Stato " così forte di autorità e di mezzi da condurre tutto il popolo italiano sulle vie della coltura della morale della pubblica ricchezza" venne meno e Fortunato ricerco altrove i possibili correttivi della situazione. Ripose quindi le sue speranze nello sviluppo di una economia pienamente liberista ma dovette ammettere che vane erano le speranze nelle "libere energie vitali" della borghesia meridionale. Fu così che egli si orientò su posizioni decisamente pessimistiche, nel quale come ha scritto Franco Gaeta " a lui non sarebbe stato possibile che abbracciare un pessimismo radicale e virile nel quale la condanna della borghesia meridionale avrebbe fatto tutt'uno con la censura apposta a tutto il processo risorgimentale.

Anche Antonio De Viti De Marco, grande produttore vitivinicolo pugliese, ripose le proprie speranze nel liberalismo economico come strumento della trasformazione del meridione. Egli criticò il recente sviluppo capitalistico italiano, sostenendo che esso era avvenuto avvantaggiando il nord a discapito del sud e che l'intero processo era patologico e artificioso perché avvenuto in deroga ai principi liberali. Nella sua idea la fine del protezionismo avrebbe permesso lo sviluppo di una agricoltura capitalistica anche nel sud Italia, liberata dalle pastoie. La tesi di Antonio De Viti De Marco era però inficiata da un grave errore prospettico, perché prevedeva e auspicava per l'Italia e non solo per il meridione uno sviluppo economico basato sulla prevalenza dell'agricoltura a discapito di quello industriale che, se applicato, avrebbe condannato l'Italia al sottosviluppo.
Tesi completamente opposta era invece sostenuta ad inizio secolo da Francesco Saverio Nitti, che nel primo dopoguerra diventerà presidente del consiglio. Pur senza concessioni all'autocommiserazione vittimistica, Nitti sottolineava come la povertà del meridione fosse in parte determinata da un processo di unificazione che aveva sottratto ricche 111d32b zze al sud attraverso la tassazione per riversarle sotto forma di spese pubbliche al nord Italia. L'analisi di Nitti, parzialmente veritiera, non conduceva però ad una assoluzione della borghesia meridionale, i cui modi venivano anzi duramente criticati: "E' innegabile che politicamente i meridionali abbiano rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d'ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali". Come modificare la situazione che vedeva il sud-Italia arretrato economicamente ma anche politicamente e socialmente?

La risposta di Nitti era nello sviluppo dell'industria anche nel meridione. La trasformazione industriale avrebbe modificato anche la società, stimolando la nascita di una borghesia produttiva. E per sviluppare l'industria, occorreva una decisa azione del governo, che doveva sopperire alla mancanza di capitali disponibili per gli investimenti. Come fare? Lo Stato avrebbe dovuto anzitutto varare una riforma tributaria che favorisse gli investimenti produttivi nel sud soprattutto da parte dell'industria settentrionale che era in fase espansiva e aveva capitali da investire, oltre che tecnici e imprenditori capaci di avviare il progetto.
Aspetto principale della riforma proposta da Nitti era l'avviamento di un processo di industrializzazione di Napoli, città che stava attraversando un crescente degrado:
" Il disordine della vita pubblica quale esso sia, è poca cosa di fronte al disordine profondo, alla depressione crescente della vita economica[...] Molte sono le forze ritardatrici: poche e scarse quelle che operano in senso utile. La borghesia è composta in gran parte da avvocati e medici: di classi che vivono dunque di due calamità sociali: la lite e la malattia; mancano, fatte pochissime eccezioni, elementi industriali operosi."Napoli doveva dunque trasformarsi in un polo industriale capace di dare nuovo respiro all'economia meridionale e per farlo era necessario un deciso intervento dello Stato, che in deroga ai principi liberali avrebbe potuto ad esempio municipalizzare la produzione energetica per favorire lo sviluppo di nuovi stabilimenti.

Ma il progetto nittiano venne realizzato solo in parte, con la costruzione della acciaierie di Bagnoli, che però non modificarono né l'economia cittadina né tantomeno la situazione economica complessiva del meridione. L'irrisolta questione meridionale continuò così a tormentare le coscienze degli uomini politici e soprattutto degli intellettuali del sud Italia.

Salvemini si interessò per tutta la vita alla questione meridionale e pertanto le sue tesi e prospettive risentono dei diversi orientamenti politici e intellettuali di una lunga carriera.
Inizialmente collocato su posizioni marxiste, Salvemini fu tra i primi a parlare del ruolo che le masse contadine avrebbero potuto e dovuto assumere nel processo di trasformazione del meridione. Lo storico pugliese fu uno dei primi meridionalisti a guardare ai contadini non come una massa inerte incapace di storia ma come un soggetto determinante per cambiare la società e l'economia del sud Italia. L'idea di dare ai contadini l'opportunità di incidere sulla loro storia rimase punto fisso del pensiero di Salvemini, anche quando si spostò da posizioni marxiste a posizioni democratiche ispirate alle idee federaliste del Cattaneo. Il suffragio universale gli apparve come il metodo più idoneo per dar voce alle masse meridionali e per molti anni si batté per veder realizzato questo progetto politico, che si compì nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale.

L'approvazione del suffragio universale maschile ebbe come conseguenza l'affermarsi del Partito Socialista e del Partito Popolare alle elezioni politiche del 1919. E se il Partito Socialista faticò a lungo, sia prima che dopo queste elezioni, ad affrontare con rigore la questione meridionale e a presentare ipotesi congiunte per una sua risoluzione, Don Luigi Sturzo fu uno dei più lucidi interpreti di questa realtà nei primi anni del novecento. Il fondatore del Partito Popolare sostenne la necessità di difendere e rafforzare la piccola proprietà contadina meridionale, in cui vedeva l'unica forza capace di opporsi con successo ai latifondisti assenteisti. Sturzo intendeva favorire la nascita e lo sviluppo "di quel ceto medio economico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società."
Con questa politica egli si opponeva sia al conservatorismo di destra che al rivoluzionarismo di sinistra. Rispetto al primo, il suo progetto prevedeva il coinvolgimento di quelle masse che invece era aborrito dal liberalismo conservatore di un Salandra o di un Sonnino; rispetto ai socialisti, che andavano reclutando nelle file delle confederazioni sindacali i braccianti e il proletariato urbano, si proponeva come alternativa di stabilità sociale contro gli intenti rivoluzionari dei primi. Se Sturzo in perfetta sintonia con l'ispirazione cattolica del suo partito rifuggiva la conflittualità di classe come strumento di trasformazione del Mezzogiorno, Antonio Gramsci si muoveva in direzione esattamente opposta. Il fondatore del partito comunista italiano s'ispirava ai principi rivoluzionari leninisti e agli esiti della rivoluzione russa per proporre la rivolta delle classi contadine come unico strumento di emancipazione del meridione.

Con il testo Alcuni temi della questione meridionale apparso sulla rivista "Stato Operaio" del 1930 Gramsci poneva i problemi del meridione al centro della sua analisi dell'intera storia italiana. Propriamente la questione meridionale diveniva parte della questione italiana e la crisi del sud era per Gramsci l'esito del fallimento dell'intero capitalismo italiano. La povertà del sud era il risultato dello sfruttamento da parte dei capitalisti del nord, che prosperavano alleandosi con la borghesia agraria meridionale. Proprio perché problema di carattere nazionale e non solo locale la sua risoluzione avrebbe portato l'intero paese su posizioni rivoluzionarie. Non era stato questo l'esito della rivoluzione russa?
Come i contadini s'erano accordati con i proletari e avevano condotto sotto la guida dei bolscevichi la battaglia rivoluzionaria, così poteva accadere in Italia. Anzi, secondo il dettame leninista il moto propulsivo rivoluzionario non sarebbe più giunto - come sosteneva Marx - dal proletariato industriale ma dalle masse contadine impoverite: la rivoluzione era più facile in paesi più arretrati che in paesi industrialmente più avanzati. In Italia la società socialista sarebbe stata imposta da un nuovo blocco di potere capace di bilanciare e sopravanzare il vecchio blocco agrario-industriale: l'alleanza tra proletariato del nord e le masse contadine del sud, secondo l'ordine lanciato nella terza internazionale.
Ma Gramsci era consapevole che il consenso delle classi meridionali era difficile da conquistare e che al nord bisognava sconfiggere il razzismo verso i meridionali, che era assai diffuso sin dall'epoca unitaria. Il problema principale per il partito comunista era comunque quello di penetrare tra le masse contadine del sud, diffidenti verso esiti rivoluzionari, socialmente frammentate e assoggettate agli intellettuali.

La borghesia intellettuale meridionale - notai, medici, avvocati, insegnanti - era infatti secondo Gramsci la custode e la garante del potere dei capitalisti del nord, a cui assicurava la pace sociale nel meridione ottenendone in cambio incarichi all'interno delle amministrazioni locali e favori clientelari. Per Gramsci, anche grandi intellettuali come Croce con il sostegno dato al mito del buon governo costituivano un sostegno irrinunciabile per il mantenimento della status quo meridionale, narcotizzando quelle istanze rivoluzionarie delle masse contadine che sole avrebbero potuto risolvere il problema del mezzogiorno.
Con le riflessioni di Gramsci finiva la prima parte del dibattito sulla questione meridionale, perché il fascismo, pur approntando misure speciali per cercare di risolvere la situazione, non fu mai disponibile ad una pubblica e sincera disamina della questione. Solo con la nascita della Repubblica, il dibattito riprenderà vigore.


BRIGANTAGGIO: TRA LEALISMO E REPRESSIONE




Costituire l'Italia, fondere insieme gli elementi diversi di cui si compone, armonizzare il Nord con il Sud, offre tante difficoltà quante una guerra contro l'Austria e la lotta con Roma". Così scriveva Cavour poco prima della sua morte. In effetti, unificare realmente il Sud al Nord costò di fatto una guerra, il lungo conflitto (1862-64) che oppose l'esercito regolare italiano a bande di contadini ribelli che erano presenti soprattutto nell'entroterra campano, lucano e pugliese. Il brigantaggio era la spia di un fenomeno ben più profondo e complesso, che riguardava l'estraneità delle classi contadine, e quelle meridionali in particolare, al moto risorgimentale. Nei programmi delle forze politiche e nelle scelte economiche del nuovo Stato, i grandi bisogni delle masse povere delle campagne non avevano trovato alcuna risposta. Rispondere, infatti, avrebbe significato, per lo Stato, affrontare la questione della terra, cioè garantire l'accesso alla proprietà ai ceti contadini. In realtà gli uomini che avevano diretto il Risorgimento nazionale erano in prevalenza grandi proprietari fondiari, ostili per interessi e condizione sociale a promuovere quella riforma agraria che avrebbe avvicinato le masse rurali al nuovo Stato. Ai bisogni delle masse povere meridionali rimasero sostanzialmente sordi anche i democratici, tra i quali le idee del socialismo risorgimentale di Ferrari e Pisacane non avevano raccolto molte adesioni. Durante la conquista del Mezzogiorno, i dirigenti garibaldini, infatti, avevano manifestato il loro disinteresse, quando non la loro ostilità, verso le rivendicazioni dei contadini meridionali che si erano avvicinati all'esercito di liberazione con un carico rilevante di aspettative sociali. Di fronte alle proteste contadine volte a ottenere di nuovo i propri diritti d'uso sulle terre demaniali che i latifondisti avevano usurpato, di fronte all'occupazione delle terre, l'esercito garibaldino rispose con la fucilazione dei contadini insorti, come accadde a Bronte; queste azioni e queste scelte si ripercossero a fondo e lontano nella coscienza dei contadini ricacciandoli dall'iniziale adesione al moto liberale unitario in una passività fatta di rassegnazione, di sfiducia e anche di ostilità. Infatti, dopo l'editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che "la rivoluzione unitaria italiana" portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero ricredere perchè, con l'avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi borghesi ferventi "unitaristi", si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini ed i pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all'asta. In questo modo le terre non infeudate passarono velocemente in loro possesso ed ai contadini, defraudati dei loro secolari diritti d'uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: "o brigante o emigrante". I briganti furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini, braccianti e pastori) che si sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877: "Il brigante è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile degli altri che si ribella alle ingiustizie ed ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell'estremo". Nei paesi si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto ("gli eterni nemici nostri", li chiamava il brigante Carmine Crocco. Le carte catastali venivano distrutte in quanto simbolo della proprietà e dell'oppressione), nonché i saccheggi delle case dei "galantuomini", noti come usurpatori delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e Garibaldi, s'issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all'esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano verso le zone presidiate dall'esercito piemontese e, quando i bersaglieri rioccupavano i paesi "reazionari", rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con l'incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri: uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli. Spesso i loro cadaveri venivano lasciati insepolti per giorni, come ammonimento. Su questo tronco si innestò la politica cavouriana volta a rimuovere rapidamente ogni influenza politica dei democratici, che avevano diretto la guerra antiborbonica, ed a privilegiare l'alleanza con il ceto medio urbano, in parte favorevole all'unità d'Italia ed in parte legato ancora al vecchio ordine politico. Seguendo un principio rigidamente censitario, vennero mantenuti in numerosi gangli vitali dell'amministrazione e dell'esercito elementi legati al passato regime, senza consentire un ricambio di uomini e di metodi, allontanando ancor di più i contadini dallo Stato unitario. In questo contesto fece presa la reazione legittimista, cioè di coloro che premevano per un ritorno al potere della dinastia borbonica.

L'agire concentrico di questi fenomeni determinò una tumultuosa sollevazione del Mezzogiorno rurale che si manifestò nella forma del brigantaggio. Armati di schioppo, migliaia di braccianti e contadini presero la via delle montagne organizzati nella forma tradizionale utilizzata per secoli dai poveri per ribellarsi ai ricchi ed ai potenti: la grande banda di briganti, che calava nei borghi e nei campi saccheggiando ed uccidendo. Alcuni capibanda erano stati garibaldini ed avevano appoggiato l'impresa dei Mille: ora combattevano contro i Savoia, contro i "piemuntisi", come venivano chiamati nel dialetto locale i funzionari del nuovo Stato. Il brigantaggio era una forma di protesta e di rivolta proprio contro i governanti di allora. Accorsero ad ingrossarne le file, oltre agli sbandati del disciolto esercito borbonico, evasi dal carcere renitenti alla leva, sacerdoti apostati, contadini che, in mancanza di sufficiente reddito dalla campagna, trovavano il brigantaggio più remunerativo, avventizi, ossia contadini che lasciavano occasionalmente il lavoro dei campi per farvi ritorno ad impresa banditesca compiuta. Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea accorsero dal re in esilio ("per il trono e l'altare, per la fede e la gloria"), e già durante l'assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni ed anche qualche americano; il loro contributo fu, però, marginale poiché i briganti, contadini e pastori in massima parte, non avevano una "cultura militare" tale da accettare le direttive di quei soldati stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra il brigante Carmine Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di raggiungere Roma, ma fu preso dai Piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a Tagliacozzo l'8 dicembre del 1861. Le bande erano organizzate in piccoli gruppi con un capo, che si imponeva per prestigio personale e per ferocia. Avevano la loro stabile sede sui monti, in boschi fitti. Il capo distribuiva una paga. Vestivano con panno nero, con cappelli a larghe tese ornati di nastri rossi, mantelli di lana. Le varie bande comunicavano tra loro con colonne di fumo durante il giorno o con falò e lampade nella notte. I messaggi venivano trasmessi con speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, colpi di fucile intermittenti, imitazione di richiami di uccelli. Si circondavano di sentinelle e vedette, che davano l'allarme con fucilate, fischi, squilli di tromba, rumori vari. Quando l'esercito, inviato per sgominare le bande, faceva il rastrellamento che durava più giorni, i briganti si spostavano continuamente e non accendevano i fuochi di notte. Era, quindi, una vita dura, che richiedeva pernottamenti all'addiaccio, veglie, fame, marce forzate, scontri sanguinosi d'estate e d'inverno. I feriti venivano raccolti sul terreno per evitare delazioni, quelli più gravi e intrasportabili venivano uccisi e poi cremati per renderli irriconoscibili. Le bande a cavallo avevano grande mobilità e potevano percorrere circa 50 miglia in una sola notte, per cui le guardie nazionali ben poco potevano contro di loro. Praticavano contro le forze regolari la guerriglia ed avevano sempre previste vie di ritirata nei boschi e verso i monti in caso di rovescio. In quest'ultimo caso abbandonavano sul terreno l'equipaggiamento pesante per avere maggiore scioltezza nella fuga. Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia rifugiandosi nelle zone montuose più impervie e inaccessibili per dare inizio a una guerriglia condotta su un duplice fronte, quello delle incursioni per razziare e depredare i ricchi proprietari terrieri, e quello sul piano squisitamente militare contro l'esercito piemontese. Il brigantaggio era il sintomo di una frattura profonda tra Nord e Sud, tra la grande massa dei contadini poveri del Mezzogiorno e lo Stato unitario: nella compagine del nuovo regno si delineavano drammaticamente i contorni di due Italie, destinate a comunicare tra loro in maniera discontinua ed incerta. Il risultato di questa distanza ed incomunicabilità tra nuovo governo e governati fu una vera e propria guerra civile che imperversò per cinque anni. La popolazione, ostile ai nuovi governanti "piemontesi", proteggeva i briganti, ritenuti uomini vendicatori di ingiustizie e repressioni, di cui si riteneva vittima. I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi ed il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia.

i fuorilegge potevano contare anche sull'aiuto della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino, in cui fu presa la decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora saldamente nelle mani di Papa Pio IX, fermamente intenzionato a non rinunciare al potere temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento. Ma non solo. Una delle tante anime del brigantaggio era proprio la componente religiosa: frati e sacerdoti erano presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi come avvenne all'arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza, sostennero efficacemente l'insurrezione, promulgando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste provenienti dalla Santa Sede; nel 1861 in 57 su 84 diocesi del Sud i vescovi erano impossibilitati ad esercitare le loro funzioni per l'opposizione del nuovo regime. L'invasore piemontese era considerato un nemico della religione ed il popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni di luoghi sacri effettuate dai soldati piemontesi, inoltre, il loro re, Vittorio Emanuele, era stato scomunicato da papa Pio IX (solo tra il febbraio ed il marzo del 1868 fu firmata a Cassino una convenzione tra lo Stato della Chiesa ed il Regno d'Italia per l'estradizione dei briganti rifugiatisi nello stato pontificio). Sottolinea, inoltre, De Jaco che "i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese di origine),. si ornavano il collo ed i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini, la sera recitavano in comune il rosario". Spesso, prima della morte, invocavano la Madonna, a loro molto cara, come pure fece, sulla sponda opposta, il milite della guardia nazionale Vitantonio Donateo che, per questo, ebbe salva la vita. Non meno importante fu la "resistenza non armata", la resistenza civile, bollata come "reazionaria", che si presentò con forme molto articolate e coinvolse tutta la società meridionale del tempo: l'opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della Magistratura, che subì nei sui membri più prestigiosi delle vere e proprie epurazioni e vide cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni giuridiche; la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali (già il 19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni amministrative, votò a Napoli meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerse Giacinto de' Sivo. Le numerose pubblicazioni antiunitarie avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro ed i loro autori a minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la "libertà di stampa", sancita dallo Statuto Albertino, non valeva per la stampa di opposizione, ma solo per quella di regime; i redattori di questi giornali passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per forza maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino e quasi avventuroso. Un aspetto interessante del fenomeno del brigantaggio è quello connesso alla realtà femminile. Lo studioso Valentino Romano ha raccolto numerose testimonianze che riguardano il dramma delle brigantesse. "Dramma della rottura dell'equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. E' difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò - forte della sua posizione sociale - di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata.

In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un'eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una "questione dentro la questione". E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell'intera questione delle classi subalterne meridionali. E' comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell'ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell'organizzazione brigantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre ed operare - semmai - un'altra distinzione che dall'ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra "la donna del brigante" e "la brigantessa". Numerosi sono gli esempi di " donne del brigante", più rari - ma non meno significativi - quelli di "brigantesse". Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell'ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all'affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana. La "donna del brigante" è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia. Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l'ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l'opinione pubblica l'ha additata con disprezzo e l'ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei "galantuomini", ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo. La "donna del brigante" è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta - contro il suo volere - a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come "sindrome di Stoccolma". E' il caso, ad esempio - sempre nel periodo di occupazione francese - di una non meglio identificata Margherita. Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l'odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall'amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un'imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece - proprio nei confronti dello stesso Bizzarro - la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi.

Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba - anche dormendovi sopra - per evitarne lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia. Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, "la donna del brigante " segue volontariamente l'uomo di cui è innamorata. Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le "nozze rusticane" e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall'accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare - attraverso false testimonianze - di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note "brigantesse". Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall'infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un'intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Non si sottrasse nemmeno all'omicidio, avendo preso attiva parte all'eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite. Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l'amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora. La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l'esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest'ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l'arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell'Ofanto che in ginocchio - chiedendole perdono - le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno. Filomena Pennacchio però non visse - come altre - nel ricordo del suo uomo. Preferì - allettata da una promessa di sconto della pena - tradire anch'essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose "brigantesse", Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta "Ciccilla", è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della "brigantessa": Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Subito dopo - a dorso di mulo - raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l'unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza - contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti - non fu poi eseguita ma tramutata nell'ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all'opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia - come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell'epoca - fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d'amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al "capitano Cannone") o a ricamare per mesi l'immagine dell'amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio. Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano "brigantesse" in stato di gravidanza. E' difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. E', semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale, anche attraverso i sentimenti più naturali. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli - simile per aspetto e corporatura ad una bambina - compagna del capobanda Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi. Per le brigantesse catturate si aprono le vie del carcere. La legislazione dell'epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi ma l'orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Normalmente la pena inflitta si aggira sui quindici anni di carcere, spesso in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in apparenza più lieve. Infatti, le condizioni di vita all'interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d'Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le "brigantesse" accusano - più dei loro uomini - il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, che poco o niente curate in carcere, le portano ad una morte prematura. E' il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l'arido atto di morte del comune di Potenza per "setticemia", provocata da un'infiammazione del perineo. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, " ganze", "drude", donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle "brigantesse" restano oggi solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a "brigantesse" che si sono fatte ritrarre - armi in pugno - in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale. Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata". Ricordiamo per tutte Michelina De Cesare, che fu catturata e torturata affinché rivelasse i nomi dei partigiani meridionali e, visto che ella si rifiutava di farlo, fucilata e fotografata prima e dopo il supplizio (30 agosto 1868). L'insensibilità delle nuove classi dirigenti nei confronti dei problemi del Sud e l'incapacità di cogliere la distanza che separava le due parti costitutive del nuovo Stato emersero con chiarezza nel modo con il quale il governo nazionale decise di piegare la rivolta, di estinguere il fenomeno del brigantaggio. Già nel novembre del 1860, pochi giorni dopo l'incontro di Teano tra re Vittorio e Garibaldi, sui muri dei paesi intorno Avezzano era stato affisso un proclama (tra i primi di una lunga e tragica serie) del generale piemontese Pinelli (decorato dai Savoia, con medaglia d'oro al valore, per la campagna contro il brigantaggio) che ordinava: "1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente; 2) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere sarà fucilato immediatamente; 3) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana. Abitanti dell'Abruzzo Ulteriore, ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo o tosto sarete distrutti". In seguito, giacché si era sparsa per l'Europa la notizia che nel sud d'Italia stava avvenendo un massacro, il governo inviò l'ordine di fucilare solo i capi e di mettere in carcere in attesa di processo gli altri; narrava, in proposito, il generale Enrico Della Rocca (responsabile del massacro di Scurgola con 117 vittime): "Ma i miei comandanti di distaccamento che avevano riconosciuta la necessità dei primi provvedimenti, in certe regioni dove non era possibile governare se non incutendo terrore, volendosi arrivare l'ordine di fucilare soltanto i capi telegrafavano con questa formula: "Arrestati, armi alle mani, nel luogo tale tre, quattro, cinque capi di briganti" ed io rispondevo: fucilate!". Nel luglio 1861 Enrico Cialdini, già a capo di tutte le forze di repressione ed autore di ordini scritti ai suoi sottoposti che suonavano: "Non usare misericordia ad alcuno, uccidere tutti quanti se ne avessero tra le mani", assommò su di sé anche la carica civile di luogotenente diventando di fatto il responsabile unico delle sorti del Mezzogiorno. La situazione era veramente preoccupante con i guerriglieri che operavano non solo sui monti e le pianure, ma persino alle porte di Napoli tanto che Cialdini arrivò a promettere 25 lire di ricompensa a chi catturava un "ribelle"; lo stesso generale, per sicurezza, spesso di notte andava a dormire su una fregata e così scrisse al primo ministro Bettino Ricasoli, succeduto al Cavour: "Il nostro governo in queste province è debolissimo.non ha altri partigiani sicuri che i battaglioni di cui dispongo". Abolito l'istituto della luogotenenza, a lui successe, nell'ottobre 1861, il generale La Marmora, che assommò su di sé la carica di prefetto di Napoli ed il comando militare della repressione del brigantaggio. Re Vittorio Emanuele II, nell'agosto del 1862, decretò lo stato d'assedio; in questo modo nel Sud l'autorità militare veniva ad essere superiore a quella civile (La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell' esercito"). Un corpo di spedizione, che, nel giro di due anni, raggiunse i centomila uomini, la metà dell'esercito nazionale, occupò militarmente le regioni meridionali e represse la guerriglia con costi umani altissimi-

Sull'onda delle proteste interne ed internazionali fu istituita, nel dicembre 1862, una Commissione Parlamentare di Inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio nelle province meridionali e le sue cause politiche e sociali. L'inchiesta, nota come Massari - Castagnola, già più volte proposta dalla sinistra, avrebbe dovuto anche sollevare il velo di silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall'esercito nell'opera di repressione. Nel maggio 1863 la Commissione d'Inchiesta concluse i lavori. I risultati, raccolti in una lunga relazione, vennero letti alla Camera in diverse sedute e furono pubblicati in estate sul giornale "Il Dovere". La relazione evidenziava numerose ragioni economiche e sociali del fenomeno del brigantaggio, ma evitava di parlare delle responsabilità del governo, chiamando, invece, in causa l'attività degli agenti borbonici e clericali. In sostanza, concludeva la relazione, "Roma è l'officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle province meridionali ne trae incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché ivi è il deposito, il quartier generale del brigantaggio d'importazione". In essa si insisté sull'interpretazione del fenomeno del brigantaggio come frutto di delinquenza comune, retaggio del vecchio regime, e come l'effetto dei tentativi di riconquista delle Due Sicilie, da parte di Francesco II, con la complicità dei preti meridionali legittimisti. Come conseguenza di questa analisi, venne approvata, ad agosto, con procedura d'urgenza, la famigerata legge Pica (che rimase operativa fino al 1865) la quale aboliva qualsiasi garanzia costituzionale; in virtù di essa furono insediati otto speciali Tribunali militari, i collegi di difesa vennero assegnati agli ufficiali e si abolirono i tre gradi di giudizio che erano operativi nell'altra parte d'Italia. In pratica le condanne, che erano inappellabili, variavano dalla fucilazione ai lavori forzati (spesso a vita); venne stabilito il reato generico di "brigantaggio" in virtù del quale ogni sentenza era legittima; anche persone non partecipi alla rivolta persero la vita perchè accusate ingiustamente di brigantaggio da loro nemici personali i quali, in questo modo, saldavano sbrigativamente dei conti in sospeso. Giuseppe Massari, presidente della commissione, scrisse nel 1863: "La sola miseria non sarebbe in effetti cotanto perniciosa se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali sono l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia". Egli proponeva come rimedi la riforma agraria, la diffusione dell'istruzione pubblica, la costruzione di strade, le bonifiche ecc. Ma, viceversa, si inviarono 120.000 uomini (quasi la metà dell'intero esercito) per reprimere con la forza il fenomeno e si commisero abusi come fucilazioni di chi era trovato in possesso di armi, arresto domiciliare degli individui sospetti e così via. I briganti risposero con non meno ferocia: soldati furono legati agli alberi ed arsi vivi, altri furono crocifissi o mutilati. Le repressioni piemontesi giunsero anche all'interno delle fabbriche. Per spezzare la resistenza dei briganti i generali incaricati della repressione arrestavano anche le loro famiglie promettendone la liberazione a patto che essi si costituissero, dopo di ciò i briganti erano avviati al plotone di esecuzione o al carcere. Il bilancio totale delle vittime fu drammatico, fu un vero massacro: le cifre non sono tutte concordi, quelle ufficiali si limitano alle dichiarazioni di La Marmora alla Commissione di Inchiesta sul Brigantaggio dove affermò che "Dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilato 7.151 briganti. Non so niente altro e non posso dire niente altro". Ad essi vanno aggiunti i caduti dell'esercito italiano: "I morti dal 1 maggio 1861 al 31 dicembre 1864, l'unico periodo per il quale esistono dati ufficiali, furono 465, 18 i dispersi e 190 feriti, ai quali sono da aggiungersi i 138 morti ed i 63 feriti della Guardia Nazionale.

L'efferatezza tipica di una guerra civile si palesò anche con gesti disumani come l'esposizione in pubblica piazza dei cadaveri insepolti dei briganti o delle loro teste mozzate conservate in apposite teche trasparenti o anche nelle frequentissime macabre fotografie di briganti uccisi; scrive sempre De Jaco: "Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei"cafoni" con i briganti. Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono, ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini ed unica speranza dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile, per i pastori e le plebi, quello della belva feroce per i benestanti; erano i ricchi, infatti, ad aver paura dei rapimenti di persona con richiesta di relativo riscatto, dei saccheggi, dell'incendio delle messi, del taglio delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano niente da perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille soprusi ed i patimenti di cui era piena la loro giornata. Non ci voleva comunque molto perché i nomi dell'uno o dell'altro brigante salissero in fama di grande ferocia, temuti dai viandanti più dei lupi affamati. I briganti stessi desideravano questa fama, condizione indispensabile per far riuscire i ricatti con i quali, dalla selva, potevano procurarsi il cibo o il denaro; inoltre la particolare ferocia e la prontezza, l'ardimento e la forza fisica erano le condizioni per primeggiare tra gli stessi compagni di ventura, la loro risolutezza finiva con l'esprimersi in una dura disciplina interna alle bande che prevedeva la morte per ogni viltà o disubbidienza". Il 18 aprile 1863 il deputato Miceli, che aveva visto i massacri perpetrati dalle truppe in Calabria, dichiarava che gli uomini erano fucilati senza neppure uno straccio di processo, le sue dichiarazioni furono messe in dubbio dai sostenitori del governo, ma intervenne il generale Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, e, pertanto, fiero nemico della reazione, che si alzò per confermarle, dichiarando che quanto aveva affermato Miceli era vero e che poteva attestarlo per cognizione personale. "Un sistema di sangue", egli esclamò, "è stato stabilito nel Mez¬zogiorno d'Italia. Ebbene, non è col sangue che i mali esistenti saran¬no eliminati. C'è del vero in ciò che l'onorevole Miceli ha detto: è evidente che nel Mezzogiorno non si domanda che sangue, ma il Par¬lamento non può adottare gli stessi sistemi. C'è l'Italia, là, o signori, e se vorrete che l'Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l'effusione del sangue". Nicotera, un altro garibaldino, parlò nel medesimo senso dei suoi colleghi Ferrari, Miceli e Bixio. "Il governo borbonico", egli disse, "aveva almeno il gran merito di preservare le nostre vite e le nostre sostanze, merito che l'attuale governo non può vantare. Le gesta alle quali assistiamo possono essere paragonate a quelle di Tamerlano, Gengis Khan e Attila". Nel dibattito dell'8 maggio 1863, alla Camera dei Comuni britannica, oratori di varie correnti politiche si dichiararono d'accordo con il Ferrari sul cosiddetto "brigantaggio", ossia che si trattava di una vera guerra civile. "Il brigantaggio", disse Mr. Cavendish Bentinck, "è una guerra civile, uno spontaneo movimento popolare contro l'occupazione straniera, simile a quello avvenuto nel regno delle Due Sicilie dal 1799 al 1812, quando il grande Nelson, sir John Stuart ed altri comandanti inglesi non si vergognarono di allearsi ai briganti di allora ed il loro capo, il cardinale Ruffo, allo scopo di scacciare gli invasori francesi". "Desidero sapere", rilevò Disraeli nel corso della stessa seduta, "in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gl'insorti sono chiamati briganti e nell'altro patrioti, ma, al di là di questo, non ho appreso da questo dibattito nessuna altra differenza fra i due movimenti". Citiamo anche le proteste inviate al governo italiano dall'imperatore Napoleone III, che il 21 luglio scriveva da Vichy al generale Fleury: "Ho scritto a Torino le mie ri¬mostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ri¬tenere che essi alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana. Non solo la miseria e l'anarchia sono al culmine, ma gli atti più colpevoli ed indegni sono considerati normali espedienti: un generale, di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che sono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili. Firmato: Napoleone". In conclusione, l'intervento dell'8 giugno del 1864 del deputato Minervini: "Si sono condannati alla morte e colla fucilazione anche nelle spalle (il che è contro la legge) individui volontariamente presentati. Si sono condannati a morte i minori arrestati non nell'atto dell'azione..si sono passati per le armi individui non punibili per brigantaggio.si sono condannate per manutengole di briganti con complicità di primo grado le mogli dei briganti ai ferri a vita, e le figli e minori di 12 anni a 10 a 15 anni di pena". "Quei poveri cafoni, che avevano combattuto o erano stati simpatizzanti dei briganti, nei quali riconoscevano le loro idee di lotta e di amore per una patria reale, fatta di piccole cose, di modeste realizzazioni, di pane e libertà, di vita frugale; che erano contro tutti quelli che gridavano per una patria costruita a tavolino, astratta, ideata, pensata appositamente per l'agiografia e per gli alibi dei potenti e dei prepotenti che non intendevano cedere i privilegi acquisiti da secoli, quei poveri cafoni pagarono da soli il prezzo dell'unità d'Italia". Le carceri arrivarono ad ospitare dai 30 ai 40 mila detenuti politici che versavano in condizioni disastrose. Riferisce Eduardo Spagnuolo: "Anche molti fiancheggiatori (i cosiddetti manutengoli) pagavano con la vita l'appoggio ai briganti". Alla fine del 1864 il Sud si poteva considerare rappacificato, ma non era stato risolto il problema fondamentale che aveva scatenato la prima grande ribellione della storia dell'Italia unita: la miseria e l'oppressione sociale dei contadini meridionali.


DON STURZO: IL SISTEMA REGIONE
CONTRO I BUROSAURI DELLO STATO


"Decentramento amministrativo, le autonomie locali e la costituzione della Regione".
Le ultime fasi della vita parlamentare hanno rimesso in primo piano nel paese i problemi inerenti al decentramento amministrativo, ed hanno fatto riaccendere le polemiche sul principio regionale. Deciso assertore della Regione è stato il nostro partito, il quale, si può dire, ha preceduto il movimento di pensiero e quello politico verso una revisione dei poteri creati allo Stato dal continuo accentramento; ed alla critica contro l'elefantiasi dei servizi burocratici statali ha contrapposto non solo un decentramento dei servizi con allargamento delle Circoscrizioni, ma un vero e proprio decentramento amministrativo organico o istituzionale per i servizi pubblici di carattere locale.
La vecchia e assillante questione delle autonomie degli enti locali viene ripresa nel maggior complesso delle questIoni, che dovrebbero essere risolte nel nuovo fondamentale riordinamento dell' amministrazione dello Stato. Attorno a questa dovrebbe svolgersi tutta l'organizzazione di carattere sociale e sindacale, che non può oramai avere vita avulsa dall'organismo locale e centrale, amministrativo e politico.
È uno sguardo d'insieme che bisogna dare per conoscere e approfondire il problema, il quale oggi non può essere posto nei termini nei quali veniva discusso nel 1860 da Cavour e da Minghetti; per Il fatto che tanto le funzioni e la struttura stessa dello Stato si sono svolte e ampliate, quanto è mutata, attraverso leggi e abitudini, la situazione e l'organizzazione locale; e lo svIluppo degli istituti democratici dà altra caratteristica alla politica del paese.

Da molti si è creduto finora che le questioni del decentramento amministrativo, dell'autonomia locale e della costituzione della regione fossero da lasciare ai professori ed ai comunalisti, perché l'opinione pubblica e la massa degli uomini esponenti di essa non si sono appassionati a tali problemi; si seguiva in ciò quasi inconsciamente quell'indirizzo che la politica burocratica italiana ha portato come suo speciale compito: svuotare, cioè, l'amministrazione libera ed autonoma di ogni compito specifico, rendere i controlli amministrativi e contabili strumento politico, ridurre a semplice attività soggetta e attribuita, quella che doveva essere manifestazione e attività amministrativa libera e responsabile. D'altro lato ogni ulteriore forma di attività, specialmente nel campo sociale, veniva organizzata dal centro al di fuori di ogni organo elettivo e rappresentativo di interessi generali, tendendo contemporaneamente alla formazione di organi classisti, speciali, particolaristici ; ai quali perciò veniva tolta la caratteristica propria e la libertà organica, per il fatto stesso che si affidava a elementi burocratici la ragione politico-sintetica e la decisione definitiva d'ogni questione tecnica e amministrativa.
Quali e quanti siano i comitati, le commissioni, le giunte consultive, autonomiste, presso le prefetture e presso i ministeri, non lo può sapere nessuno, e sarà difficile fare una guida del perfetto cittadino, che desse il filo, novella Arianna, per girare sicuro il labirinto della nostra burocrazia. Come ultima espressione di simile tendenza, fin da prima della guerra, ma con sistema accelerato durante e dopo la guerra, sono stati creati monopolI, enti, consorzi, federazioni, istituti amministrativi, commerciali e industriali, per potere arrivare a risolvere un problema assillante, quello di sfuggire agli eccessivi controlli dello Stato e alle barriere amministrative costruite dall'abile mano burocratica per il così detto giuoco di scaricabarile, ovvero rimbalzo delle responsabilità, e avere nello stesso tempo il denaro dello Stato, al di fuori di quella elementare responsabilità politica, che costringe il ministro a rispondere dei suoi atti al parlamento. le condizioni eccezionali durante e dopo la guerra hanno svelato a molti gli errori accumulati in decenni di accentramento statale e di elefantiasi burocratica. Il grido di allarme è venuto; manca però l'orientamento politico e tecnico alla soluzione del problema.
A parte le affermazioni generiche, gli ordini del giorno votati o ritirati, i discorsi più o meno chiari attorno all'arduo problema della riforma amministrativa statale e locale, il parlamento ha creduto di potere Isolare il problema economico della burocrazia indirizzando le riforme verso uno sfollamento di impiegati sulla base di una regolamentazione quasi meccanica, e tentando di recidere i rami di quell'evidente superfluo, che si è venuto accumulando nei ministeri o negli uffici decentrati, si da ottenere una economia da devolvere alla perequazione degli stipendi del personale
Questa direttiva consacrata nella legge dell'agosto passato e in corso di esecuzione, con le notevoli difficoltà da affrontare, manca di una ragione sintetica e di una costruzione sicura, che può dare ai provvedimenti che saranno escogitati il diritto di chiamarsi «riforma». Invano con l'ordine del giorno Tangorra del febbraio scorso, ripreso poi dall'on. Cingolani nella discussione del luglio e con le richieste. dell' onorevole De Gasperi per esplicite dichiarazioni sulla regione, e (nella incerta e agitata discussione dell' art. I della legge) con l'emendamento Calapelle sulle autonomie locali, il gruppo parlamentare popolare tentò impostare seriamente il problema: il parlamento vi sfuggì perché non aveva una convinzione della riforma, imposta col semplicismo giolittiano solo per evitare le spine dell' agitazione degli impiegati.

Quale che sia per essere l'esito dell'applicazione della legge 13 Agosto, e gli sforzi della commissione consultiva e del comitato interministeriale, rimane nella sua piena efficacia aperto e pressante, il problema della Riforma sul decentramento amministrativo-organico, sulle autonomie locali e sulla istituzione della Regione; per noi si tratta di orientare definitivamente la nostra battaglia politica. Prima di entrare in argomento, credo opportuno riassumere brevemente come si sia svolto il pensiero e l'attività del partito popolare italiano attorno a tali problemi e alla loro pratica soluzione.
I - La prima e solenne affermazione è nell'appello al paese e nel programma ove è detto: «Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del Comune, della Provincia, della Regione in relazione alle tradizioni della Nazione e alla necessità dello sviluppo della vita locale. Riforma della burocrazia. Largo decentramento ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (Capo VI).
2 - Il primo atto collettivo fu quello del congresso di Bologna (giugno I9I9) approvando l'ordine del giorno di Monsignor Gentili per il rispetto alle autonomIe delle terre redente; e seguì tosto altra affermazIone politica nelle dichiarazioni del Presidente del consiglio on. Nitti nel luglio I9I9 ad una commissione di deputati popolari prima e al segretario politico del partito dopo, a favore delle auto nomie delle terre redente, specialmente scolastiche, che per il significato della nomina dell' on. Credaro a commissario di Trento sembravano compromesse. Questa posizione presa dal partito popolare fu costantemente continuata nel succedersi di ministeri, e si ottenne che nel discorso della Corona e nella legge di annessione se ne facesse speciale accenno; si deve all'azione singola e collettiva dei deputati popolari e della deputazione trentina la più oculata e strenua difesa di quelle autonomie. Come a coronamento di questa azione il sottoscrItto segretario politico del partito andò a Trento nel gennaio I92I per una solenne affermazione autonomistica e regionale.
3 - La prima proposta concreta di decentramento regionale autarchico, organico speciale, a base sindacale, fu fatta dal gruppo parlamentare il 6 febbraio I920 con la presentazione del progetto di legge sulle Camere regionalI di agricoltura, che fu seguita da altro disegno del ministro Visocchi, che poi ebbe ritocchi dal ministro Micheli; i quali due progetti ripresentati all'aprirsi della XXVI legislatura parlamentare, sono tuttora allo studio della sesta commissione.
4 - Il Congresso di Napoli (aprile 1920) riconfermò il voto sulle Camere regionali di agricoltura (ordine del giorno Martini), approvò il concetto dei consigli di lavoro regionali e provinciali (ordine del giorno Gianturco) e riaffermò il programma autonomista degli enti amministrativi alla vigilia della lotta elettorale comunale e provinciale (ordine del giorno Sturzo); e quindi il nostro consiglio nazionale nella prima seduta dopo il congresso (maggio 1920) impostò la questione regionale, come in una sintesi, col seguente ordine del giorno Pini-Sturzo:
«Il consiglio nazionale del partito popolare italiano, mentre riconosce che il progetto del gruppo parlamentare sulle Camere regionali di agricoltura è un primo passo verso la costituzione di rappresentanze regionali; afferma la necessità (anche per meglio risolvere il problema meridionale) che le Regioni siano organo di decentramento amministrativo e di rappresentanza politica d'interessi locali; fra i quali in modo speciale sono da riguardare i lavori pubblici, le scuole secondarie e professionali, i problemi agrari, industriali e del lavoro; e secondando i voti dei fratelli redenti, domanda che vengano subito ricostituite in tutta la efficienza le loro rappresentanze regionali autonome - Pini-Sturzo».
In rapporto a tale voto i deputati popolari del Mezzogiorno (luglio 1920) deliberarono il seguente importante ordine del giorno:
«I deputati dell'Italia meridionale e insulare del partito popolare italiano, sentito il Segretario


politico del Partito stesso prof. Luigi Sturzo :
«riconfermando i voti del congresso di Napoli dell'11 aprile e del consiglio nazionale del partito del 15 maggio riguardanti la questione meridionale e il proprio ordine del giorno presentato alla Camera e discusso il 9 luglio;
«ritenuto che uno dei postulati fondamentali del programma del partito popolare è l'autonomia e il decentramento amministrativo a base regionale; e che a tale criterio si è ispirato il gruppo parlamentare nel proporre l'istituto delle Camere regionali di agricoltura, come ente autarchico, primo esperimento di decentramento amministrativo della agricoltura (che è così varia e distinta nelle diverse regioni d'Italia) e di rappresentanza di interessi di classe a base sindacale (vero elemento ricostruttivo del Paese) ;
«affermando che i consorzii di provincie, proposti da alcuni, se possono avere efficacia per interessi speciali e transitori comuni a provincie limitrofe, non possono giammai rappresentare nè un equivalente nè un omologo dell'Ente Regionale, che è organico con proprie finalità complessive e rappresenta una somma di interessi e di bisogni, che lo Stato non deve rifiutarsi di riconoscere e di soddisfare;
«additando nella nuove provincie la dimostrazione più eloquente dei vantaggi reali di un decentra- mento regionale, e ricordando che appunto le caratteristiche regionali hanno dato individualità propria alle nuove terre italiane;
«ritenuto che il decentramento amministrativo concretizzato nelle autonomie della regione autarchica rafforza l'unità statale, la quale invece nel centralismo trova le difficoltà maggiori di funzionalità e di rispondenza ai bisogni;
«delibera di intensificare la propria azione parlamentare nella più energica ed insistente difesa di quegli interessi del Mezzogiorno continentale ed insulare, che solamente nelle autonomie regionali e nel decentramento amministrativo possono trovare le garanzie sufficienti ed il necessario incremento, per la soluzione del grave problema meridionale, che deve essere finalmente affrontato e risolto come problema nazionale ».
5 - La battaglia per la proporzionale amministrativa è stata impostata come uno strumento di autonomia e di libertà; e le affermazioni notevoli dal centro alla periferia, in ordini del giorno e in discorsi, crearono un ambiente adatto alla più larga propaganda nel paese a favore della riorganizzazione dello Stato sulla base del più largo decentramento e delle forze regionali del paese. I discorsi dei nostri parlamentari nelle vivaci discussioni del luglio e del novémbre 1920, e tutto il periodo della lotta elettorale amministrativa e il successivo delle assemblee provinciali dei Comuni popolari, ebbero per elemento forza il nostro programma autonomista. Le circolari della direzione del partito (novembre 1920), i discorsi del sottoscritto a Torino e a Roma nell' ottobre 1920, a Napoli nel novembre 1920, a Torino, Padova, Brescia, Verona, Genova e Trento nel gennaio 1921, gettarono la base concreta del successivo movimento regionalistico svolto nel presente anno e che ha autorevole e importante espressione nell'attuale congresso nazionale.

6 - Altra posizione politica per il decentramento amministrativo, fu presa dagli organi del partito, e specialmente dal gruppo parlamentare e dal consiglio nazionale dall'inizio dell'agitazione degl'impiegati fino alla approvazione della legge. In seguito al voto concorde della direzione del partito e del direttorio del gruppo, l'on. Tangorra e altri (febbraio 1921) proposero alla Camera il noto ordine del giorno, che poi l'on. Cingolani ripresentò durante la discussIone della legge (luglio 192 I) il quale suonava così:
«La Camera convinta
«l°, che un largo decentramento amministrativo sulla base della regione, che deve essere costituita come ente autarchico per i servizi amministrativi di interesse locale oggi centralizzati e di una maggiore autonomia degli enti locali, è condizione necessaria alla soluzione razionale ed organica del problema della riforma della pubblica amministrazione; « 2°, che sono da attribuirsi agli organi locali della pubblica amministrazione di Stato, con le necessarie garanzie e con il maggiore senso di responsabilità, quelle funzioni e competenze che rispondono alla vita sociale, sicché per tale parte il compito degli organi centrali sia soltanto di direzione, coordinamento e vigilanza;
«3°, che siano semplificati i controlli e resi veramente efficienti e si tenga a garentire la pubblica amministrazione più che altro nel momento di agire e deliberare, impersonando la responsabilità senza attenuazioni preventive, con la molteplicità di organi e col funzionamento di competenze;

«4°, che siano ridotte allo stretto necessario le funzioni statali nel campo della economia privata, dovendosi limitare l'azione statale alla funzione stimolatrice e incitatrice e non mai a quella di soppiantare le attività economiche della nazione con artificiose costruzioni di enti e di consorzii e di istituti spesso fatti in modo da sfuggire al controllo amministrativo e alle responsabilità politiche degli stessi organi sta tali;
«5°, che nell'ordinamento centrale si tenga a riunire le funzioni simili in forma organico-sintetica per impedire la suddIvisione di competenze sulla base di una oggettivazione schematica di categorie prestabilite, che impedisce la visione completa di un affare qual è prospettato dalla realtà per la moltiplicità di interferenze unilaterali da ministero a ministero e da divisioni a divisioni, si da intralciare l'andamento dei servizi stessi; e si proceda quindi alla riduzione di ministeri, di direzioni generali e divisioni create spesso più per sfogo di carriera e per eccesso di centralizzazione che per necessità organica nei pubblici servizi;
«6°, che delle proposte che sarà per fare la commissione parlamentare talune reclamano per loro natura un'applicazione immediata ed urgente specialmente in relazione alle strettezze economiche in cui versa buona parte della classe dei pubblici funzionari:
« confida che a tali criterii fondamentali saranno ispirati gli studi e le proposte della commissione e la conseguente azione del governo ».
Gli onorevoli Tovini, Tangorra e Di Fausto sostengono questi criteri nella Commissione parlamentare di inchiesta. sulla burocrazia.
Il consiglio nazionale nelle sedute su ricordate (marzo 192I) riprese largamente questa discussione, e diede il tema importantissimo al nostro Congresso con un Ordine del giorno che può dirsi riassume in poche parole il senso di tutte le affermazioni precedenti:
«Il Consiglio Nazionale del Partito Popolare Italiano, mentre fa suo l'ordine del giorno presentato dall'on. Tangorra a nome del gruppo parlamentare popolare a proposito della riforma dei servizi pubblici;
«rileva con soddisfazione la campagna iniziata dalla direzione del partito e promossa dai convegni dei rappresentanti popolari dei Comuni e delle provincie per il decentramento amministrativo e l'autonomia degli enti locali; e ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico, attenuando quel centralismo statale, dannoso alla stessa compagine della vita nazionale e al più completo ristabilimento dell'autorità statale;
«crede matura ormai la costituzione dell'ente Regione, autarchica e rappresentativa d'interessi locali, specialmente nel campo dell'agricoltura, dei lavori pubblici, delle industrie, commerci e lavoro e degli interessi scolastici;
«delibera portare l'argomento al terzo Congresso nazionale per un'azione decisiva;
«impegna il proprio gruppo a tutelare e favorire le autonomie e libertà locali esistenti nelle terre redente e a promuovere la riforma in senso autonomistico con R. D. 18 maggio 1918 e ancora allo studio della speciale Commissione;
«invita la Direzione del Partito a promuovere adatte pubblicazioni per creare attorno al problema del decentramento e dell'autonomia amministrativa una coscienza popolare, necessaria perché le soluzioni invocate siano assistite dal consenso e dal favore generale».
7°, - Sciolta la Camera, la questione regionale fu riaffermata come una delle tre libertà messe a base della lotta elettorale politica, cioè: la libertà organica, e fu segnata come una conquista della nuova legislatura con le seguenti parole messe nell'appello al paese:
«È maturata oramai nella coscienza pubblica la necessità della riforma dell'organamento statale, sulla base di un largo decentramento fino alla costituzione amministrativa della regioneche si riallaccia alle pure tradizioni italiche e che servirà a rafforzare lo Stato nelle sue vere funzioni politiche»; e fu riaffermata da me solennemente nel discorso elettorale dell'Augusteo a Roma; (Parlamento e Politica) e dai discorsi elettorali di De Gasperi e Anile.
Giolitti l'aveva consacrata nella relazione al Re pel decreto di scioglimento e poscia ebbe a farla ripetere al Re nel discorso della Corona. I giornali parlarono di vittoria popolare.
Subito dopo le elezioni fu ripresa l'agitazione degli impiegati (giugno 1921); e la direzione del partito nel fissare il suo punto di vista riconfermò la tesi del decentramento amministrativo; che fu poscia sostenuto brillantemente alla Camera dai nostri amici con le modifiche dell'art. 1° del disegno di legge, ove furono introdotte le parole: «ad attuare un largo decentramento amministrativo con una maggior autonomia degli enti locali» e con le dichiarazioni del presidente del Consiglio, on. Bonomi, provocate dal l'energico contegno dell'on. De Gasperi, e che furono precisate dal noto comunicato, che suona cosi :
«Per chiarire la portata delle dichiarazioni fatte ieri dal presidente del Consiglio sull' emendamento aggiuntivo proposto dall'on. De Gasperi per i popolari (con il quale si invitava il governo a presentare sollecitamente il disegno di legge per l'autonomia regionale) oggi verso le 16 ebbe luogo un colloquio tra gli on. Tovini, Fino e Bosco Lucarelli in rappresentanza del Gruppo popolare e S. E. il presidente del Consiglio.
«S. E. Bonomi non ebbe nessuna difficoltà a dichiarare che le affermazioni venute dal banco del Governo non volevano in alcuna guisa limitare per i popolari la libertà d'azione che spetta ad ogni gruppo della maggioranza.
«Quanto al merito della questione S. E. Bonomi confermò essere suo preciso intendimento di profittare delle vacanze per preparare un disegno di legge che tenendo conto degli studi già fatti in questa materia, attui un decentramento amministrativo a base regionale soprattutto in fatto di lavori pubblici, istruzione, agricoltura, sanità, assistenza sociale.
«Con ciò il presidente del Consiglio ritiene di sostanzialmente corrispondere agli impegni assunti quando costituì il Ministero.
«La Commissione del Gruppo Popolare, considerando che con le dichiarazioni soprascritte il presidente del Consiglio abbia corrisposto anche nella essenza della proposta formulata nell'emendamento aggiuntivo presentato dal gruppo popolare, ringraziò vivamente il presidente del Consiglio di queste dichiarazioni che dissipano ogni possibile malinteso».
8°, - Altra occasione di affermazione autonomista è stata la battaglia sulla libertà scolastica: battaglia iniziale per l'esame di Stato; però un suo primo cenno di autonomia scolastica regionale si ebbe al congresso di Napoli, nell'ordine del giorno Anile, riguardo il problema universitario; altro più deciso si è avuto nella posizione presa dal gruppo parlamentare a favore dei Comuni autonomi nell'amministrazione delle scuole elementari (legge 4 giugno 1921) per i quali nel luglio passato fu presentato apposito progetto di legge. La questione dal lato tecnico viene oggi ripresa nel congresso nazionale, su relazione dell'on. Piva.
9°, - Anche a proposito della riforma delle finanze locali, il cui progetto fu presentato al Governo dalla commissione reale fin dal 1920, il gruppo parlamentare fece notevoli affermazioni con l'interrogazione dell' on. Bazoli e nella relazione di minoranza dell'on. Tovini sulla proposta di legge per la proporzionale amministrativa, affermazioni anche e più volte ripetute dalla direzione del partito e dalla segreteria politica.

Questo rapido e sintetico esame ci fa conoscere gli sforzi fatti dal partito popolare italiano per impostare nel paese cosi grave problema - attraverso le .fasi molteplici, mutevoli e diverse della vita pubblica - con un orientamento, che nell'orbita della base programmatica dell'articolo VI, è andato evolvendosi e rafforzandosi. Oggi è il momento della più larga e notevole discussione che mai si sia fatta in Italia sul problema della Regione.
Per ragione di metodo e perché questione centrale e di caratteristica politica, comincio dall'analisi della Regione quale è da noi oggi concepita e prospettata. AnzItutto credo opportuno sgombrare il terreno da un pregiudizio affacciato dagli antiregionalisti, che cioè non esiste un serio movimento in Italia a favore della costituzione della Regione che è un


artifizio di parte, sfruttando un movimento istintivo di reazione contro il centralismo burocratico; che la Regione non ha precedenti storici, non ha vere circoscrizioni definite; e che può divenire un movimento disgregativo dello Stato e perciò politicamente pericoloso.
Nel precisare le caratteristiche della Regione e le sue funzionI, i timori politici cadranno facilmente; tanto più che oggi, dopo sessant'anni di unità nazionaIe, la cui forza morale è penetrata nelle masse ed è base sentita dell'educazione politica del nostro popolo, nessuno può onestamente pensare che una costruzione amministrativa e rappresentativa della Regione possa avere caratteri o ripercussioni antinazionali. Nè è serio l'altro timore, affermato anche recentemente sopra una rivista, che il movimento regionale disgreghi lo Stato: secondo noi lo rafforza nella sua caratteristica statale e toglie la debolezza organica attuale dell'accentramento amministrativo. Certo noi non neghiamo, anzi confermiamo la nostra tendenza politica espressa nell'appello al paese del 18 gennaio 1919 in questi termini:

"Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza diretta degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali, e il più largo decentramento nelle unità regionali».
Questo programma non è antistatale, ma è contro il predominio statale burocratico, che bisogna correggere. Su questo argomento il nostro pensiero è stato sempre chiaro, rettilineo, convincente; e non ho che riferirmi alle molteplici affermazioni del nostro partito, che ho cercato di illustrare nei vari discorsi da me tenuti, a cominciare da quello di Milano del novembre 1918 «Problemi di dopo guerra», che preludeva la costituzione del nostro partito.
La Regione è concepita da noi come una unità convergente, non divergente dallo Stato. Ricercare caratteristiche amministrative e organiche nella storia delle regioni d'Italia, può servire per esercitazione polemica; la Regione da noi esiste come unità specifica di lingua, di storia, di costumi, di affinità. Vi sono regioni circoscritte naturalmente, come la Sardegna, la Sicilia e la Liguria; altre sono state storicamente sempre une, altre politicamente sono legate alle grandi storie delle repubbliche e dei principati; una varietà che non ha mai soppresso il senso di una realtà vissuta benché non sempre politicamente.

Così oggi si parla ancora di Lombardia o di Puglie, di Marche o di Liguria come unità non soppresse nè sopprimibili. Le piccole questioni storiche o territoriali, quali quelle della Lunigiana o del Monferrato o della Lomellina, accennate anche da giornali seri come difficoltà antiregionali, danno invece la più viva prova che l'Italia ha vissuto in ogni suo angolo, come forza perenne della sua razza. Le ventuno regioni italiane rispondono a una realtà, che neppure l'unitarismo burocratico in sessanta anni poteva far scomparire; ecco perché in Italia si può parlare di Regioni, non come una eventuale o burocratica o sistematica divisione di territorio ma come una regione geografica, storica e morale, come una realtà esistente e vivente nella unità nazionale e nella compagine statale.
Quando al 1860 fu posto il problema, dopo l'unione della gran parte dell'Italia al Piemonte, il Ministro dell'Interno Carlo Farini, d'accordo con Camillo Cavour fece costituire la commissione legislativa per il nuovo ordinamento amministrativo, il Farini nell'inaugurare i lavori affrontò in pieno il problema della Regione, escluse, e si comprende, la circoscrizione politica dei vecchi Stati, escluse il criterio delle circoscrizioni francesi, ammettendo l'unità morale e storica delle regioni italiane.
La circoscrizione politica, egli affermava, che dobbiamo stabilire, non vuoI essere frutto di un concetto astratto, nè un'opera arbitraria, ma deve rappresentare quelle suddivisioni effettive che esistono nelle condizioni naturali storiche di quei centri di forze morali, le quali se fossero oppresse per pedanteria di sistema potrebbero riscuotersi e risollevarsi in modo pericoloso, ma che legittimamente soddisfatte possono mirabilmente concorrere alla forza e allo splendore della Nazione.

Per noi il movimento regionalista non ha pertanto carattere di semplice base di circoscrizione territoriale per un migliore assetto degli organi statali, decentrati alla periferia, ha una caratteristica amministrativa organica autonoma: è una unità specifica, ragione della vita rappresentativa delle forze locali.
Escludiamo subito che con queste parole si possa direttamente o indirettamente tendere alla struttura politica della regione e al sistema federalistico della nazione: dico neppure indirettamente, perché le funzioni fondamentali dello Stato, politica interna, estera, finanze e tesoro, guerra, marina, colonie, giustizia, trattati commerciali, servizi generali, non possono avere che unica espressione popolare: il parlamento nazionale, unico organo di attuazione: il governo dello Stato, unica ragione fondamentale; gl'interessi collettivi della nazione. Lo Stato italiano è unitario non federale, e la sua struttura non solo non viene per nulla toccata, ma viene rafforzata dallo sgombro di quello che lo Stato ha di meno appropriato, di superfluo, di accentrato nel campo della pubblica amministrazione e della economia.(...) »



*Fu sacerdote con forte interesse per la politica. Una seconda "vocazione" che lo portò a conquistare ed a tenere la carica di Pro sindaco di Caltagirone dal 1905 al 1920. In quegli anni, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscì a fondare, il 18 gennaio 1919, un partito cattolico, il Partito Popolare Italiano. Don Sturzo ne assunse la segreteria mantenendo fin dall'inizio posizioni di centro e rigorosamente antifasciste. A questa linea mantenne fede con estrema decisione tanto che nel 1923 convinse i dirigenti del P.P.I. a ritirare l'appoggio al governo di Mussolini. Nello spazio di pochi mesi venne costretto alle dimissioni dalle pressioni della Santa Sede: la Chiesa infatti cominciava a guardare con un certo interesse al Movimento fascista.
Determinato a non rinunziare alle proprie posizioni, don Luigi Sturzo preferì lasciare l'Italia andarsene in esilio.
Rientrò in Italia nel 1946 e riprese subito l'attività politica. Tenendosi ad una certa distanza dalla neonata Democrazia Cristiana, della quale non condivideva alcune posizioni.
Nato a Caltagirone nel 1871 morì a Roma nel 1959.


IL SUD DOPO L'UNITA' D'ITALIA.
UNA STORIA CHE NON FU


L'economia del Sud è stata sempre una forma di pura sopravvivenza, è stata tagliata fuori dai ritmi e dai livelli del mercato comune nazionale ed europeo. È sempre stata convinzione comune che il problema del Sud fosse un problema locale e settoriale, una questione straordinaria e territorialmente circoscritta, come se il Mezzogiorno fosse una riserva indiana. In realtà è un problema centrale di indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato.
Al fine di chiarire i punti citati è necessario un excursus storico della situazione socio - economico - industriale negli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie per poi affrontare il tema delle varie politiche economico - sociali dello Stato italiano nel Meridione dopo l'unificazione. I problemi del Mezzogiorno erano quelli della ristrettezza economica, della staticità delle strutture burocratiche e ministeriali, del protezionismo e del fiscalismo, che non agevolarono certo la formazione di vasti ceti imprenditoriali moderni, come anche non permisero di assimilare e tradurre in atto i progetti dei riformatori: caratteristiche che assunsero forme ancora più gravi ed acute quando il confronto si fece con le aree del Nord e con le leggi dello Stato post - unitario. A questo punto il problema dei problemi divenne politico, perché investiva la responsabilità dell'intera classe politica nazionale, i suoi governi ed il Parlamento. Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera.
Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali erano sufficientemente grandi e diffuse. Il sistema economico del Regno delle Due Sicilie era basato, analogamente a quello degli altri Stati italiani, sul settore primario. Il settore agricolo era infatti la fonte più importante e in talune zone l'unica fonte di lavoro e di ricchezza. Il sistema produttivo del Regno delle Due Sicilie era costituito precedentemente da imprese di medie e piccole dimensioni; tra queste svettava per il numero di occupati quella delle costruzioni, seguita da quella tessile e da quella alimentare. L'industria siderurgica e metallurgica era il settore più prestigioso e tali imprese erano specializzate nella fornitura di materiali ferroviari all'esercito ed alla marina militare e mercantile. L'industria tessile si suddivideva tra il comparto della seta, del cotone e della lana. Il sistema tributario, elaborato e supervisionato da Luigi de' Medici, era poggiato principalmente sul connubio tra Imposte Dirette e Imposte Indirette sui consumi; queste ultime fondate quasi esclusivamente sui Dazi. Minore importanza avevano le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza, quali l'imposta di registro e di bollo.
Negli ultimi anni pre-unitari si andò accentuando la tendenza del governo borbonico a favorire la capitale e le zone vicino a scapito del resto del Regno, quasi i due terzi delle spese statali, provinciali e comunali per le opere pubbliche venivano assorbite da Napoli e dalla provincia di Terra di Lavoro. Vi era una sola banca, il Banco delle Due Sicilie per i domini al di qua del Faro, con una sola succursale a Bari. In Campania si concentrarono le linee ferroviarie costruite prima del 1848 (Napoli-Torre Annunziata-Castellamare e Napoli-Caserta-Capua), mentre altre erano in costruzione: la Torre Annunziata-Salerno e la Capua-Ceprano; da non dimenticare che la prima linea ferroviaria è datata 1839 ed è la Napoli-Portici.

L'ultimo decennio borbonico si svolge in una capitale assonnata, priva dei suoi figli migliori, dominata dalla polizia regia, non più amata dal sovrano i cui fratelli, compreso il liberaleggiante Leopoldo, non danno esempi di buona vita, imperanti i rancori, i sospetti, le denunzie. Ma le province sono meno inerti e si preparano in gran segreto, i grandi esuli collaborano al piano unitario che Cavour va pazientemente intessendo; altri diffondono il verbo mazziniano.
Nel 1859 muore Ferdinando II e gli succede Francesco II; la favolosa impresa dei Mille conclude il suo iter il 7 settembre 1860, quando Garibaldi entra trionfalmente a Napoli senza colpo ferire, proclamando l'annessione della città al regno sabaudo ed il prossimo plebiscito d'approvazione. Dopo un'accanita resistenza di mesi, l'ultimo Borbone si arrende e, nel 1861, lascia per sempre il suo regno. Il 1860 rappresenta per il Mezzogiorno d'Italia uno spartiacque storico. Il vecchio mondo borbonico, con le sue tradizioni e consuetudini, lascia il passo a nuovi uomini e nuove culture. Al di là dell'inevitabile retorica, il passaggio è traumatico. Sulle rovine dell'antico regime si impone uno Stato unitario e centralista, relativamente moderno, ma culturalmente distante dalla realtà del Sud Italia. Nel 1860 la società meridionale viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale - cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo - e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d'Italia, anche a causa della <<sistematica e non graduata demolizione di un'immensità di istituzioni, interessi ed amministrazioni>> denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817/1888), che aveva prodotto <<una lesione troppo estesa e profonda>>.
Duro il trapasso, duro l'inizio del nuovo regime. Già è difficile assuefarsi di colpo alla libertà, già è difficile osservare i doveri che essa comporta, ma per il Meridione la cosa era più grave, in quanto le libere istituzioni venivano ad applicarsi in un'area e ad un popolo da secoli abituati ad un'amministrazione paternalistica ed autoritaria insieme, al timore ed all'inosservanza delle leggi e dei regolamenti. Intanto le prime elezioni del 1861 videro il trionfo della linea cavouriana ed il progressivo allontanamento dai luoghi decisionali della sinistra costituzionale: si aprì così per il Meridione un periodo di profondi travagli. Sicuramente la rivoluzione industriale nacque in Italia con forti ritardi e condizionamenti. L'economia italiana, infatti, al compimento dell'unità nazionale, era basata su attività agricole di tipo tradizionale. La mancanza di unità politica, la carenza di materie prime, di grandi capitali disponibili per gli investimenti necessari e di adeguate infrastrutture ( rete stradale e ferroviaria, sistema dei trasporti, ecc.) avevano ostacolato il formarsi di un apparato industriale moderno.
L'inizio dello sviluppo industriale italiano toccò solo alcune zone e non conobbe una diffusione uniforme; avvenne soprattutto nei settori tessile ed alimentare, che richiedevano tecnologie non molto avanzate, una forte utilizzazione della forza - lavoro e la possibilità di sfruttare forme di energia naturale come quella idrica. Solo in seguito si svilupperanno altri settori, come quello metallurgico, meccanico e chimico, in seguito alla svolta impressa dall'utilizzo dell'elettricità nel progresso dell'industria. La sua introduzione fu un fattore che rese competitive le nostre fabbriche con quelle degli altri paesi europei. Non possiamo, però, dimenticare che il processo industriale al Nord fu favorito dal sistema delle comunicazioni, che avvicinò ulteriormente il Piemonte, la Lombardia ed il Veneto ai mercati di sbocco. Già negli anni Ottanta del XIX secolo l'intera valle del Po costituiva il polmone dell'industria manifatturiera nazionale e, attorno agli anni Novanta, in Italia del Nord la grande industria meccanica aveva fatto salti da gigante.
Questo balzo in avanti non si spiega ancora senza tenere conto di un altro importante fattore, quello politico, che è rappresentato, nel periodo crispino, dalle finalità dello Stato nazionale, impegnato a conseguire un livello di grande potenza, finalità che non sarebbe stata possibile conseguire senza l'introduzione di una siderurgia pubblica, senza l'incremento delle spese militari e la costruzione di fabbriche d'armi, senza il potenziamento delle infrastrutture, senza il rafforzamento della finanza attraverso la fondazione della Banca Commerciale e del Credito Italiano, per iniziativa delle grandi banche tedesche. Necessariamente anche la composizione del capitale cambiò: quello fisso (le macchine) assunse un peso più decisivo nei nuovi settori della produzione industriale. In breve, all'origine del grande balzo economico del Nord è un complesso di fattori che non sono solo riferibili alle condizioni economiche locali, più o meno favorevoli, ma anche a certe scelte politiche fondamentali, che indubbiamente avvantaggiarono le aree potenzialmente più promettenti e socialmente avanzate, che erano quelle settentrionali del famoso triangolo industriale (Milano - Torino - Genova).


Potremmo sintetizzare in questi termini l'arretratezza del Mezzogiorno rispetto all'economia lombarda e piemontese: agricoltura latifondista e piccola proprietà contadina frammentata, commercio agricolo molto scarso e, peraltro, nelle mani di grossi mercanti, che speculavano soprattutto sul grano. Solo alcune zone producevano per il mercato, perlopiù quelle che avevano sbocco al mare. Le zone più interne, sprovviste di un efficiente sistema viario, erano appena in grado di produrre per i propri consumi. Se si confronta il Mezzogiorno con la situazione del Nord, ci si può rendere conto di come, nel caso di quest'ultima, la vicinanza dei mercati centroeuropei abbia facilitato il più rapido progresso dei commerci e l'accumulazione della ricchezza. Sicuramente va anche considerata la politica dei governi borbonici (costantemente in apprensione per lo spettro delle carestie e delle ribellioni del popolo), che si era sempre preoccupata di mantenere basso il prezzo del grano e dei generi alimentari, non favorendo l'esportazione.
Il settore rispetto al quale i governi "unitari" succedutisi dopo l'eliminazione del Regno delle Due Sicilie hanno fatto sentire maggiormente i loro effetti negativi è proprio quello industriale, abbastanza discreto a livello produttivo prima dell'Unificazione. Nella politica economica successiva alla conquista del 1860 manca una strategia capace di rendere più moderni i modi di produzione e di allargare i mercati dei settori artigianali e domestici. Mancano anche interventi finalizzati al mantenimento di quelle condizioni che avevano favorito la localizzazione dei settori dell'industria moderna nel Meridione. I motivi veri dell'enorme divario tra Nord e Sud sono da ricercare in diversi fattori che vanno oltre le affermazioni di Benedetto Croce che ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Antonio Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale del Sud. Effettivamente l'Italia unita segnò, in altri termini, il trionfo di una proprietà di "parvenus" emersi in seguito alla lenta erosione giuridica ed al ridimensionamento economico dell'eredità feudale del Medio Evo perseguiti ininterrottamente nelle Due Sicilie dal 1734 in poi.
Si trattava di piccoli borghesi avidi e senza tradizioni cui i governi francesi di occupazione spalancarono le porte nel 1806, con il pretesto delle leggi eversive della feudalità, e che costituirono la quinta colonna su cui poterono fare affidamento i registi che, da Torino, telecomandarono prima la spedizione dei Mille e poi l'invasione piemontese. L'unico scopo di questa classe fu quello di sottrarre la maggiore quantità di prodotti a contadini sempre più declassati ed impoveriti. È stato affermato, non a torto, che questa borghesia rapace ed opportunista, spina nel fianco dei governi borbonici e trionfatrice dopo l'annessione, non gestì la terra, ma organizzò il saccheggio sistematico delle risorse naturali del Sud, impadronendosi delle terre di uso comune. Lo fece attraverso l'oppressione sistematica dei contadini ormai disarticolati e costretti a lavorare di zappa frammenti di terra diversi ogni anno, senza alcuna possibilità di organizzare la propria attività produttiva.
Altre cause di differenziazione vanno ricercate nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali per il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché dai luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale. Queste differenze non fecero altro che accelerare l'evoluzione del Settentrione, a fronte di un forte ritardo del Meridione; si verificò quello che alcuni chiamarono effetto cumulativo del processo di crescita e che portò ad uno sviluppo del tipo "Gesellschaft" ( evoluzione rapporti sociali e propensione al mutamento) al Nord e "Gemeinschaft" ( organizzazione familiare dominata da costumi e tradizioni) al Sud

Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878/1887, con l'aumento tariffario che, aumentando i dazi su grano e beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare), allora ecco che si spiega il fallimento del Meridione. Al Sud non si era verificato alcun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale.
Sta di fatto che, dopo il 1861, dopo l'unione forzata in un "grande Stato", di fronte alla spoliazione economica cinicamente progettata dai gruppi di potere che sponsorizzavano il nuovo governo "unitario" di Torino, alle masse popolari del Sud non restò altro che la strada della resistenza armata che gli storici del nuovo regime chiamarono "brigantaggio". Si trattò, in realtà, di una feroce guerra civile durata quasi un quindicennio, che provocò migliaia di morti e decine di migliaia di carcerazioniQuando questa eroica resistenza fu piegata in un mare di sangue e di inaudite sofferenze, alla sconfitta militare e politica i diseredati meridionali, privati violentemente delle non infondate speranze di sviluppo costruite pazientemente per decenni dai governi delle Due Sicilie, risposero con l'emigrazione di massa, che dette il colpo fondamentale anche per la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti.
Tutto questo portò all'enunciazione dell'economista classico-liberal americano G. Hildebrand: << .in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall'inizio; incapace com'era di difendersi, poteva solo tentare di diminuire in qualche modo l'enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato>>. Riassumendo, dopo l'Unità d'Italia, la divaricazione fra Nord e Sud era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all'aristocrazia nobiliare e, quindi, incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell'indispensabile processo di rinnovamento.
La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l'unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l'iniziativa industriale del Sud già esistente, come nel caso dell'unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario. Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dello '800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e dal continuo potenziamento dell'esercito. Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso.
Il più moderno nucleo industriale del settore tessile era ubicato in Campania, avente come base la direttrice geografica Napoli - Salerno. In quest'area, quasi tutta nelle mani di imprenditori svizzeri, la filatura meccanica era tecnologicamente avanzatissima. Il ramo metalmeccanico costituiva l'altro punto di forza dell'industria meridionale post-unitaria, anche se era totalmente affidata alla gestione pubblica o esercitata da abili imprenditori e tecnici inglesi, come Thomas Richard Guppy e John Pattison. Va detto, tuttavia, che la lavorazione dei metalli era più o meno praticata in tutto il Mezzogiorno, dove esistevano nuclei di piccole officine e ferriere, addette, per lo più, alla produzione di meccanica varia e di utensili correnti. Non trascurabile la lavorazione del vetro e del cristallo, nonché la produzione di carta. Con il passare degli anni, in particolare, nel penultimo decennio del secolo, la situazione divenne disastrosa.
Crollarono diversi istituti di credito e l'industria si trovò in grandi difficoltà. La grande industria metalmeccanica soffriva di crisi produttive crescenti con l'affievolirsi della politica espansionistica di Crispi; i nuclei di industria tessile e della carta non avevano esteso i propri traffici, occupando un numero di addetti non superiore a quello del periodo borbonico. Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra Nord e Sud si allargava sempre di più. Nel 1865 l'87,1% del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord - Ovest, il 2,2% nel Nord - Est, il 6,5% nel Centro ed il 4,2% nel Sud.
Credo non ci sia conclusione migliore che riportare il pensiero di uno storico del "nostro Mezzogiorno", come amava definirsi, di uno storico della crisi del Meridione, questa crisi di oggi e di ieri, che viene comunemente definita "questione meridionale", Gabriele De Rosa: << Le malattie endemiche sono solo la manifestazione più visibile di una malattia ancor più profonda, che rende affannoso il respiro del Sud: la debolezza organica di una classe dirigente che ha accettato la staticità sociale del Mezzogiorno come premessa ineluttabile e necessaria per garantire una gestione protetta e paternalistica del potere locale>>.
De Rosa immaginava il corso di un'altra storia per il Sud, una storia che non fu: <<il corso di una storia di terre produttive senza latifondo ed assenteismo padronale, con una borghesia non avvocatesca e formalistica, ma intelligente e coraggiosa, colta e responsabile, con una città non parassitaria e non disordinata ma a servizio di uno sviluppo razionale ed omogeneo del contado, con un'industria in armonia con il paesaggio agrario>>>. Ma questa storia ideale e sognata non fu e, in luogo di essa, invece, fu << una storia irreale e violenta, dettata ed imposta dalle leggi del mercato più forte, dalle leggi del protezionismo di ferro, usuraio e sfruttatore, applicato con la prassi del più sconcio trasformismo clientelare, a servizio di uno sviluppo capitalistico pressoché uniforme al Nord, a singhiozzo alle isole ed al Sud.




La Questione del Mezzogiorno


1. Per una definizione

La Questione del Mezzogiorno o Questione Meridionale nasce dall'annessione forzata del Regno delle Due Sicilie al Regno d'Italia, nel 1861, e la sua storia è la storia dei tentativi compiuti dallo Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all'incontro-scontro fra realtà disomogenee. Questo contrasto fra il "Nord" e il "Sud" - indicazioni geografiche che nascondono realtà sociali complesse e differenziate - è ricondotto dal politologo Ernesto Galli della Loggia a "[...] una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana" e dall'antropologo Carlo Tullio Altan a "uno scontro di civiltà", cioè a un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse di organizzazione sociale, che dopo l'Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo ineguale.


2. Le origini

La rappresentazione del "Mezzogiorno", cioè delle province continentali e insulari dell'ex Regno delle Due Sicilie, come un blocco unitario d'arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica. I primi a diffondere giudizi falsi sugl'inferiori coefficienti di civiltà di quell'area sono gli esuli meridionali che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l'onore della dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell'immagine del Sud, riproponendo secolari stereotipi sul "paradiso abitato da diavoli", presto ripresi dai titolari d'inchieste pubbliche o private. Dopo il 1860, l'intreccio di brigantaggio e di legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria a individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna di eversione e ad assegnarsi la missione d'inserire nella nuova compagine statale l'ex regno napoletano, anche a costo di cancellarne l'identità storica. "La differenza tra il Mezzogiorno e il resto del paese - scrive lo storico siciliano Giuseppe Giarrizzo - si configura come polarità simbolica di barbarie e civiltà, di borbonismo e liberalismo, di "feudalesimo" nel Sud e vita borghese nel Nord - una polarità esasperata dal contrasto mitico tra la difficile natura del Centro-nord e la naturale disposizione del suolo e del clima meridionale alla fertilità e agli agi".

I temi del meridionalismo saranno enfatizzati, a partire dai primi decenni del secolo XX, dal nuovo ceto politico locale allo scopo di rivendicare ingenti provvidenze pubbliche e di porsi come mediatore nella loro distribuzione. Dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), la Questione del Mezzogiorno viene affrontata con una politica d'interventismo statale, caratterizzata da una mole crescente di trasferimenti di risorse verso il Sud, che sono destinate prevalentemente a fini non produttivi e che in parte alimentano il circuito perverso politica-affari-criminalità.


3. Le interpretazioni economiche

Da Pasquale Villari (1826-1917) ad Antonio Gramsci (1891-1937) il Mezzogiorno viene letto soprattutto nei termini di un grande problema sociale e, pur nella diversità delle interpretazioni, l'analisi prende le mosse abitualmente dalla sua condizione materiale. Per il primo meridionalismo, definito "classico", la Questione del Mezzogiorno consiste nella mancata integrazione dell'economia del Sud nel processo di sviluppo capitalistico, mentre per le correnti d'ispirazione marxista - e anche per Rosario Romeo (1924-1987), che "aggiorna" il meridionalismo liberal-democratico - questa integrazione è avvenuta, ma nei modi peculiari con i quali il capitalismo avanzato subordina a sé l'economia dei paesi arretrati, rendendola funzionale al suo sviluppo. In entrambi i casi la lettura del Sud in termini di arretratezza - vista talvolta come divario d'origine rispetto alle regioni settentrionali del paese, altre volte come frutto del processo di unificazione gestito dallo Stato unitario - ha come riferimenti il modello economico liberale, nato dalla rivoluzione industriale che determinò anche una profonda trasformazione dei rapporti sociali, e un'impostazione culturale idealistica, che giudica la storia del Mezzogiorno secondo il parametro della crescita della coscienza civile, che sarebbe giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento. Il Meridione d'Italia viene valutato, dunque, in ragione della sua devianza da quei modelli e viene descritto in termini d'individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica e di resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di clientelismo, utilizzando le dicotomie sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una scala ideale da percorrere.

In realtà, nel 1860 la società "napoletana" viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo di tipo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale - cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo -, e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d'Italia, anche a causa della "sistematica e non graduata demolizione di un'immensità di istituzioni, di interessi, di amministrazioni" - denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) -, che aveva prodotto "una lesione troppo estesa e profonda".


4. Le interpretazioni sociali e culturali

Nel secondo dopoguerra la fioritura degli studi sociologici sul Mezzogiorno si concretizza nella elaborazione di alcune opinabili categorie interpretative - come quelle di "paganesimo perenne" e di "cultura subalterna", riferite al mondo contadino dallo scrittore Carlo Levi (1902-1975) e dall'antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) -, oppure nella lettura della specificità meridionale nei termini di una sua vocazione quasi antropologica a una religiosità elementare e superstiziosa, come per l'etnologo Ernesto De Martino (1908-1965), o del Sud come sacca arretrata e deposito di mentalità pre-moderne, come per il sociologo statunitense Ernest C. Banfield, teorico del "familismo amorale", a suo avviso causa determinante di una disgregazione permanente della società. La categoria dell'arretratezza ricompare così come nodo ineliminabile della storia del Mezzogiorno, in relazione alla sua subordinazione economica o alla sua struttura sociale e culturale, entrambe legate a presunti, secolari condizionamenti. In realtà, i preconcetti di certi studiosi, alcuni dei quali stranieri, servono ad alimentare una letteratura d'impostazione discutibile, diffusa soprattutto nel mondo protestante, secondo cui "[...] la vita religiosa del Sud - come nota lo stesso De Martino - sta in fondo come pretesto fin troppo scoperto per condurre la polemica anticattolica".

Gli studi degli storici Gabriele De Rosa e Giuseppe Galasso hanno consentito, però, di superare il luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e d'individuare in alcune sopravviventi pratiche magiche - ritenute comunemente parte integrante della religiosità delle popolazioni rurali - solo il relitto di arcaiche strutture psicologiche e religiose. Anche il grande rilievo assunto dalla famiglia nella società meridionale - e nelle altre regioni d'Italia, dove la socialità, secondo lo storico Marco Meriggi, "si sgrana quasi naturalmente in un ventaglio di famiglie, molto più che in una miscela di individui" - non è più ritenuto un sintomo di arretratezza, anzi proprio questa tenace caratteristica sociale ha rappresentato un limite quasi invalicabile all'espansione soffocante dello Stato unitario e il più sicuro antidoto nei confronti dell'individualismo politico ed economico. L'unione forzata in un "grande Stato", nel 1861, ha determinato, prima ancora della spoliazione economica, la dispersione d'una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali del Mezzogiorno, ma l'insieme dei caratteri e degli aspetti che contraddistinguono gli abitanti di queste contrade, soprattutto a livello del costume e della vita di relazione, s'è mostrato per lungo tempo resistente e impermeabile alla modernità, intesa come insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale.

Il Sud, dunque, non è un'area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una società dotata d'una forte personalità storica e d'una inconfondibile fisionomia, in cui si sono riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali, una "nazione" che ha le sue radici remote nella vigorosa sintesi, realizzata dopo il secolo VI, fra tradizioni autoctone, cultura greco-romana e apporti germanici. Il Sud non è neppure una periferia d'Europa, caratterizzata da una lunga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o d'arcaicità, né è il luogo di coltura della "napoletanità", intesa come un isolato universo antropologico e culturale. Al contrario, la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l'"altra Europa" - presente ovunque nel continente durante l'età moderna e collocata idealmente "sotto i Pirenei" dal giurista e storico spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) -, che per molto tempo ha rappresentato la sopravvivenza di un'area di Cristianità e ha costituito un limite all'espansione della modernità.


5. Conclusioni

Negli ultimi centocinquant'anni il popolo italiano ha subìto un processo di alienazione della propria identità e della propria tradizione, romana e cattolica - che avevano vivificato e modellato nel corso dei secoli i costumi, la mentalità e il comportamento degli abitanti della penisola -, da parte di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama "[.] partito anti-italiano. Per questo partito "fatta l'Italia" non si trattava soltanto di "fare gli italiani"; si trattava piuttosto di fare l'Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo".

Il Mezzogiorno, in particolare, è stato aggredito contemporaneamente, e da più parti, da fermenti incalzanti di trasformazione, ma ha costituito un luogo di resistenza alla modernizzazione forzata. Dunque, non il particolare modo d'essere del popolo "napoletano", ma il tentativo diffuso d'annientarne la personalità e di dissolverne l'eredità ha innescato un processo di alienazione culturale, mentre il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali ha aperto la strada allo sviluppo della criminalità organizzata, la cui forza non è il radicamento nel Mezzogiorno - dove tutt'al più ha riattivato i circuiti classici della delinquenza locale, ampliandone le cerchie - ma l'incontro con fenomeni nuovi e poco "meridionali", come il commercio internazionale di droga e d'armi e la lotta per il controllo di enormi risorse finanziarie.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni 1950 - con una nuova frana emigratoria, che ha prodotto la disarticolazione definitiva dell'antica organizzazione sociale e territoriale, e con l'assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello tradizionale - l'identità del Mezzogiorno si sta dissolvendo nel crogiolo dell'omologazione, favorita dalla scuola, dai partiti politici e dai grandi mezzi d'informazione.

Pertanto, quanti si accostano alla Questione del Mezzogiorno non possono ignorare che la sua soluzione passa attraverso una rinascita religiosa e civile, che può essere perseguita soltanto con il ricupero di quanto sopravvive delle radici storiche e nazionali del Mezzogiorno stesso, da tempo conculcate e disprezzate, purtroppo non solamente da parte di estranei.

La Questione Meridionale e il Mezzogiorno d'Italia

Il dibattito storico sul Mezzogiorno d'Italia dopo l'annessione del regno borbonico da parte della monarchia sabauda, si articola su alcuni temi-base attorno a cui si agitano tesi contrapposte. Esse costituiscono i punti focali del dibattito sul problema noto come la "Questione Meridionale." Per comodità espositiva ogni tesi è contrassegnata dal nome del soggetto storico che ne è stato un sostenitore.

La Questione Meridionale

Fertilità/sterilità naturale

Antonio Genovesi Fin dai tempi della Magna Grecia, famosa e celebrata è la bellezza del paesaggio meridionale, la dolcezza del clima e la fertilità del suolo.

Giustino Fortunato Il Mezzogiorno, lungi dall'essere terra fertile e ricca, presenta una estrema povertà naturale che lo rende, dal punto di vista  agricolo-produttivo, inferiore al resto della penisola.

Sfruttamento/favoreggiamento (carico fiscale dall'esterno)

Pietro Giannone Il Mezzogiorno è stato, nel corso dei secoli, dominato da  potenze straniere che l'hanno spogliato economicamente, attingendo da esso fortune colossali, soprattutto durante il periodo della dominazione spagnola. Questa spoliazione ha  impoverito il Regno e ne ha impedito lo sviluppo economico.

Antonio Serra Le entrate della monarchia spagnola derivanti dal Regno di Napoli venivano tutte spese all'interno e talvolta è stato necessario trasferirvi argento dall'esterno per i bisogni militari e amministrativi del Regno. Inoltre si rileva (Paolo Mattia Doria) che il dominio degli spagnoli in altre regioni (ad es. le Fiandre) non ha impedito che queste avviassero il loro autonomo processo di sviluppo economico.


Sfruttamento/favoreggiamento (carico fiscale all'interno)

Francesco Saverio Nitti Nel nuovo Regno unitario il carico fiscale si ripartisce in  maniera diseguale in rapporto alla situazione patrimoniale e reddituale, gravando in misura maggiore sulle regioni  meridionali che, inoltre, ricevono una quota di contributi statali  (spese per servizi pubblici) inferiori al prelievo.

Corrado Gini Non vi sono dati a sostegno della tesi che il Mezzogiorno abbia subito un prelievo fiscale proporzionalmente superiore a quello  delle regioni settentrionali, anzi, per alcuni periodi i dati mostrerebbero esattamente il contrario anche per quanto riguarda il flusso di contributi statali.

Liberismo/protezionismo (mercato interno)

Ferdinando Milone Il liberismo attuato dal nuovo Regno attraverso l'abbattimento  repentino delle tariffe protettive vigenti nel Regno di Napoli ha  distrutto o quanto meno bloccato la nascente industria  meridionale e ha favorito lo sviluppo industriale al Nord, anche attraverso l'utilizzo del Sud come mercato di assorbimento di beni manufatti.

Gino Luzzatto L'insufficiente produzione industriale nel nuovo Regno, appena bastante per il mercato locale, e la mancanza di una adeguata rete viaria e ferroviaria, rendono l'interscambio Nord-Sud dopo l'unificazione del tutto trascurabile anche dopo l'abbattimento delle barriere doganali. Non si può quindi parlare di concorrenza che avrebbe affossato l'industria meridionale ma di generale arretratezza tecnico-organizzativa aggravata, questo sì, dal venir meno dei sussidi assistenziali del Regno borbonico.


Liberismo/protezionismo (mercato esterno)

Napoleone Colajanni Le tariffe protezionistiche, introdotte nel 1887, rappresentano la via obbligata per dotare l'Italia di un apparato industriale. Inoltre (Ivanoe Bonomi) in una situazione europea di  protezionismo generalizzato, una politica libero-scambista favorirebbe i manufatti esteri senza peraltro creare possibilità di esportazione ai prodotti agricoli del Mezzogiorno, sempre meno competitivi rispetto alle produzioni di altri paesi (ad es. il grano e gli agrumi statunitensi, il vino spagnolo, ecc.).

Antonio De Viti De Marco Il protezionismo danneggia gravemente l'agricoltura  meridionale, quanto meno nei suoi comparti volti all'esportazione (vino, olio, ecc.) mentre favorisce le industrie  settentrionali introducendo, nel mercato interno, un sistema di  scambio ineguale (prodotti industriali costosi - prodotti agricoli a buon mercato).

Centralismo/federalismo

Pasquale Turiello Il Regno unitario, attraverso una ferma direzione centralizzata  (monarchia esecutiva) deve cercare di superare sia il parlamentarismo parolaio che il clientelismo localistico. Il decentramento invece porterebbe ad un definitivo prevalere, nelle regioni meridionali, della corruzione amministrativa.

Gaetano Salvemini Il Mezzogiorno soffre a causa dell'accentramento imposto dal nuovo Regno unitario che spoglia di capitali il Sud e incentiva il disinteresse degli amministrati e la corruzione degli amministratori, mentre il federalismo arresterebbe l'emorragia di capitali ed educherebbe alla vita democratica.


Nota

Queste tesi contrapposte, possono tutte accampare pretese di veridicità in quanto basate tutte su dati reali. Ma è proprio questa ambivalenza e plurifungibilità che le riduce dal rango di spiegazioni causali (causazioni) a quello di descrizioni di accidenti (occasioni) della storia. In sostanza, queste tesi sembrano lungi dal poter essere considerate esplicative del mancato sviluppo economico del Mezzogiorno; anzi, paiono aver agito come un velo mascherante le cause effettive alla base della situazione effettiva (passata e presente) delle regioni meridionali.

Per cercare di mettere in luce queste cause è necessario esaminare la concezione di vita delle popolazioni del Mezzogiorno d'Italia, ripercorrendo lo schema elaborato in riferimento ai tipi 'ideali' di società di sviluppo e di nonsviluppo.

Va comunque preliminarmente precisato che:

-  l'abbozzo analitico che si va a delineare presenta caratteristiche  di estrema generalità nel tempo (passato-presente) e nello spazio (campagna-città) proponendosi di dar vita ad una schematica rappresentazione della concezione esistenziale tipo presente nella realtà meridionale ma non ha certo la pretesa di raffigurare tutta la realtà né la realtà di tutti.

-  il quadro di riferimento è costituito dalla società meridionale (ambiente complessivo) e non dal soggetto (il meridionale) se non in quanto parte (attiva o passiva) di questo ambiente. Va cioè tenuta sempre presente la distinzione tra il meridionale e l'ambiente meridionale nel senso che il meridionale in un altro ambiente presenta spesso tratti estremamente diversi rispetto a quelli dell'ambiente meridionale.

-  le considerazioni sulla società meridionale vanno collocate in rapporto al tipo di sviluppo economico quale si è manifestato nell'occidente industrializzato; ma ciò non vuol  dire che questo sia l'unico tipo di sviluppo economico auspicabile o accettabile.

La concezione di vita della società meridionale

Morale

Il nonlavoro Forse come retaggio di alcuni aspetti della concezione morale dei Greci, il lavoro in generale, e quello manuale in particolare, viene tenuto in discredito. Il lavoro è stato ed è, dai più, visto quasi essenzialmente come pena, come sforzo e difatti, spesso,  non si usa l'espressione vado a lavorare ma vado a 'faticare'. Dal momento che la fatica abbrutisce, ne risulta che il signore ('il galantuomo') in questa società è, idealmente, colui che non fa niente pur ricevendo tutto, che vive del lavoro altrui senza essere 'disonorato' dal lavoro, soprattutto da quello manuale. Questa concezione da 'rentier', adattata e modernizzata, è sostanzialmente viva tuttora; anzi, l'innalzamento del tenore di vita permette che sia finalmente praticabile a livello diffuso come ricerca di occasioni di reddito sicuro dissociate da situazioni di impegno lavorativo o con impegno lavorativo scarso o nullo. (vedi quadro statistico: pensioni, lavoratori pubblici) Ciò non vuol dire che il meridionale, in assoluto, eviti il lavoro (si vedano, ad esempio, gli emigrati che hanno costruito i grattacieli di Manhattan all'inizio del XX secolo) ma solo che la società meridionale, nel suo complesso, è immune dall'etica del lavoro. Questa immunità dal 'contagio' del lavoro è stata e continua ad essere resa possibile da particolari situazioni storiche e geografiche in cui, anche quote ridotte di sforzo lavorativo hanno permesso di soddisfare bisogni elementari (di cibo, di riparo) laddove, a parità di lavoro, in altri contesti storici e geografici, non vi sarebbero che fame e desolazione.

Il consumo A meno di privazioni imposte dalla natura (cattivi raccolti) o da padroni (esazioni eccessive), sembra mancare al sud la concezione di una vita frugale. Astinenze volontarie sono estranee alla mentalità del meridionale e il riferimento è soprattutto al corpo in generale e al cibo in particolare. Fenomeno tipico del Sud è, ad esempio, la preparazione esuberante di cibo; si mette in mostra, anche attraverso il corpo, il proprio stato di benessere, di floridezza. Questa esuberanza ('spreco') nel mangiare e nei piaceri corporali in genere si manifesta anche come 'spreco' di tempo e di denaro, spreco nel senso di un loro utilizzo non economicamente produttivo anche se, talvolta, psicologicamente appagante. Per intendersi su questo punto va detto che, spreco di denaro significa anche denaro conservato (la roba denaro), non impiegato e quindi 'sprecato' ai fini della crescita-sviluppo economico interno.

La disonestà Il meridionale coinvolto negli affari assume, come arma di difesa-offesa verso l'esterno, il raggiro. Strumento e manifestazione del raggiro è la 'bugia' intesa come reinvenzione della realtà (disonestà creativa), arte della commedia (recitazione) e commedia dell'arte di arrangiarsi (improvvisazione). Quindi nuova realtà-verità che non ha nulla da spartire con il falso, allo stesso modo in cui non avrebbe senso definire bugiarda una sceneggiata. Chi prosaicamente trascura l'aspetto artistico-creativo, è in grado di cogliere solo la scarsa sicurezza del commercio, i prezzi fluttuanti ad personam, la perdita di tempo nelle contrattazioni, in una parola, il rischio continuo di essere 'fatti fessi'. Questa 'disonestà' caratterizza il rapporto economico tra le persone come rapporto di sfiducia reciproca, che non è possibile modificare unilateralmente perché il concedere fiducia non farebbe altro che accrescere la legittimità della truffa in quanto sarebbe moralmente riprovevole (da 'fessi') non approfittare della ingenuità altrui.

Psicologia

La creatività La creatività del meridionale è generalmente a livello individuale e non è volta a determinare modifiche nella sfera socio-economica in quanto è soprattutto creatività di tipo prettamente artistico (poetica, pittorica, melodica, oratoria, amatoria, ecc.) è espressione di soggetti che si arrangiano, cioè si danno da fare (professionalmente o no) con l'arte oppure riguarda soggetti esperti nell'arte di arrangiarsi, che richiede anch'essa indubbie capacità artistiche.

La volontà La capacità volitiva sembra limitata ad alcune sfere di interessi quali, ad esempio, il lato erotico-affettivo, la protezione e il rafforzamento della famiglia. Dal punto di vista economico appare, ad esempio, come volontà di accumulo socialmente improduttivo di beni ('la roba') in vista di una crescente sicurezza personale e familiare, in contrapposizione con l'accumulo capitalistico (modello teorico) che è volto all'impiego produttivo e/o speculativo di beni e risorse personali ad un rischio crescente.

Filosofia

La concezione esistenziale del meridionale, a livello teorico, è genericamente definibile come filosofia dell'attesa e della pretesa del cambiamento e miglioramento eterodeterminato. La storia del Mezzogiorno è costellata di usurpatori-salvatori da cui tutti si attendono almeno qualche cosa di più rispetto ai precedenti padroni. Nella filosofia meridionale si intrecciano e si confondono questi vari aspetti: da una parte si sa che non cambierà mai nulla anche se dovesse cambiare tutto (fatalismo) tant'è che alcuni preferiscono cambiare formalmente tutto per non cambiare sostanzialmente nulla (conservatorismo); dall'altra si vorrebbe che cambiasse effettivamente tutto senza però fare nulla (miracolismo). Tra questo tutto e questo nulla, c'è una pratica di vita che è fatta più di consumo (di prodotti, di notizie, di parole, di gesti, ecc.) che di produzione (di beni, di servizi). Quindi, né filosofia dell'immutabilità perché cambiano i regimi, le mode, i consumi; né filosofia del progresso perché non vi è tensione verso il futuro, non vi è impegno e finalizzazione dei propri atti a un progetto individuale e collettivo di avanzamento civile e culturale. E non vi può essere una filosofia del progresso in una situazione di assenza pressoché totale di entusiasmo attivo (ma chi t'o ffa fa') quale risulta dal sommarsi di rapporti di sfiducia tra le persone (diffidenza) con rapporti di sfiducia tra le persone e gli eventi (fatalismo).

Sociologia

Manca, in generale, una sicura e costante autodisciplina organizzativa che è interiorizzazione di definiti parametri di misura (tempo, spazio, modo, tipo) coinvolgenti gli individui e le cose e i loro reciproci multipli rapporti. La cooperazione è scarsamente presente, spesso anche a livello elementare, mentre hanno notevole peso particolarismi che sfociano in litigiosità di vario tipo e a vario livello (politico, giudiziario, familiare, di clan) che impediscono o per lo meno ostacolano una autoregolamentazione dell'organismo sociale a fini di efficienza produttiva. Inoltre, poiché nella scala di valori del meridionale i fini interni di sicurezza e di reddito del suo microcosmo (famiglia) si impongono in maniera miope sui fini di cooperazione verso l'esterno (società), ne risulta un modello socio-produttivo notevolmente inefficiente, con conseguenze negative sotto tutti gli aspetti (qualità, quantità) in termine di produzione di beni e di servizi per tutti.

Tecnologia

Sembra essere carente nel meridionale, tranne le normali eccezioni, un interesse e una volontà di applicazione allo studio metodico concernente problemi definibili genericamente di tipo matematico-fisico-meccanico. Inoltre, la conoscenza del reale nelle sue componenti grossolanamente materiali (fisiche, chimiche, ecc,) ha una considerazione sociale minore rispetto allo studio delle elaborazioni sul reale (il diritto, la filosofia, l'arte, ecc.). Tutto ciò ha riflessi negativi sulla dinamica tecnologica e scientifica e conseguentemente sulla produzione di beni e servizi.


Prime considerazioni sul Mezzogiorno d'Italia

Dalla concezione di vita così sommariamente delineata e dai rilievi storici schematizzati nelle tesi che hanno dato corpo alla Questione Meridionale, emergono alcuni punti centrali su cui è necessario soffermarsi. La società meridionale sembra essere stata caratterizzata nel corso della sua storia, e soprattutto nei secoli più recenti, da tre 'mancanze':

Mancanza di una concezione di sviluppo-progresso Già nel periodo tardo medioevale, mentre altrove rinasce la vita urbana e si allargano le produzioni e i traffici tra città e campagna, e tra i diversi centri urbani, il mondo meridionale rimane chiuso nei feudi e nei paesi arroccati sui monti nel ricordo terrorizzante degli attacchi saraceni. E successivamente, mentre la nascente rivoluzione industriale contagia l'Europa e la dissemina di opifici, fabbriche, cantieri, rompendo barriere fisiche e mentali, il Mezzogiorno nel suo complesso resta ai margini di tale dinamica. Di questo passivo quieto vivere è testimonianza il Regno borbonico, chiuso tra l'acqua salata e l'acqua benedetta come soleva dire Ferdinando II, a caratterizzare quasi visivamente la separazione fisica del paese dal mondo esterno. Manifestazione di questa separazione-alterità è la politica economica caratterizzata da servizi e opere pubbliche scarse e da un elevato protezionismo che concorrono a formare nel Regno una economia stazionaria chiusa in cui talune opere (la prima strada ferrata della penisola, il primo battello a vapore) se indicano un certo interesse alle novità del progresso tecnologico, brillano però come eccezioni più uniche che rare.

Mancanza di spirito imprenditoriale Mentre i mercanti e i banchieri fiorentini, veneziani, genovesi, lombardi, si muovono attraverso l'Europa manovrando merci e risorse finanziarie, il Sud d'Italia, tranne il caso di Amalfi, peraltro di breve durata, non mostra esempi degni di nota di attività commerciali-imprenditoriali. Si può affermare che lungo tutto il corso delle vicende storiche si manifesta una marcata carenza di spirito imprenditoriale. Non sorprende quindi il fatto che sotto i Borboni le maggiori industrie e banche del Regno siano frutto dello spirito di intrapresa di individui e gruppi esterni (Egg, Guppy, Meyer, Wenner, Wonwiller, Rothschild, Appelt, Fourquet, Degas, Meuricoffe e molti altri). O che, per stimolare uno spirito imprenditoriale quasi inesistente il governo debba ricorrere a forti incentivazioni, assumendosi gran parte degli oneri, riducendo al minimo i rischi per gli investitori, introducendo forti barriere protettive. Ma tutto ciò, invece di operare nel senso di formare una imprenditorialità locale diffusa, e di irrobustirla attraverso il protezionismo interno, provoca effetti opposti di pressoché totale assenteismo imprenditoriale e di crescente assistenzialismo statale.

Mancanza di capitale La mancanza di capitale a cui si fa riferimento attiene alla secolare carenza di sapere volto a fini di sviluppo produttivo mostrata dal Sud d'Italia nel corso della sua storia. Quindi non si intende affatto significare mancanza di numerario, di cui pare anzi che, prima dell'annessione, il Regno fosse ben fornito, come indicano i dati sui depositi per abitante o, per altro verso, le notevoli risorse monetarie impiegate nell'acquisto di terre demaniali e di beni ecclesiastici; si intende invece mancanza di sapere idealizzato e materializzato (scienza e tecnica) volto alla produzione di beni e servizi. Quindi, assenza di sapere produttivo, il che non significa affatto mancanza di sapere tout court, quali ad esempio il sapere giuridico, filosofico, artistico, letterario, in cui il Regno di Napoli, attraverso alcuni individui eccezionali, dà mostra di eccellere nei confronti del resto della penisola.

Se definiamo lo sviluppo economico come l'unione di volontà (spirito imprenditoriale) e di capacità (capitale imprenditoriale) nell'ambito di una concezione socio-esistenziale dinamicamente finalizzata verso obiettivi di avanzamento civile e produttivo (filosofia del progresso), ne risulta che il Mezzogiorno, per un complesso di secolari atteggiamenti mentali e comportamentali che si è cercato di tratteggiare schematicamente e di riassumere nelle 'mancanze' sopra esposte, non è definibile come società di sviluppo ma trova, per molti versi, la sua collocazione nell'ambito delle società di nonsviluppo, pur non identificandosi totalmente con esse.

Arrivati a questo punto dell'analisi, in cui la società meridionale  viene definita (almeno in una prima approssimazione) come società di nonsviluppo, occorre riprendere i fili del discorso in riferimento alla Questione Meridionale formulando due ipotesi riguardanti le cause e le conseguenze della carenza, nella società meridionale, dei fattori posti a base dello sviluppo.

Le cause Il nonsviluppo del Mezzogiorno è, sostanzialmente, il frutto di caratteristiche interne (fattori autonomi) di civiltà (valori) e non il prodotto di pressioni economiche esterne (fattori eteronomi) definibili con il termine 'sfruttamento'.

Le conseguenze Il nonsviluppo della società meridionale non sembra portare come conseguenza, almeno attualmente, all'indigenza degli individui né nella dotazione di beni (di riparo, di sostentamento) né nella dotazione di servizi, senza peraltro entrare nel merito della effettiva fruibilità (qualità, efficienza, ordine, regolarità) degli stessi.

Queste due ipotesi - assenza di sfruttamento dall'esterno - assenza di indigenza all'interno vanno verificate e, qualora sufficientemente corroborate, andranno successivamente sviluppate nelle loro conseguenze sia di ordine interpretativo che di proposta di intervento attivo nei confronti della realtà meridionale.

A tal fine verranno evidenziati ed esaminati alcuni aspetti socio-economici concernenti:

- Il Mezzogiorno d'Italia : dati statistici - Una Regione del Mezzogiorno : la Calabria - Un Comune della Calabria : Trebisacce

cercando di scendere sempre più nel particolare sia in maniera statistica che impressionistica.

La nuova centralità della questione meridionale


La questione meridionale è anche questione culturale di opposizione alla globalizzazione imperialista


La "questione meridionale" (..) costituisce l'aspetto principale e più drammatico delle contraddizioni sociali vissute dalla collettività nazionale. Perché è nel Mezzogiorno d'Italia che, almeno a livello potenziale, si sono esplosivamente accumulate, nei secoli, contraddizioni profonde, ingiustizie stridenti, intollerabile sfruttamento parassitario. (..) E', quindi, nel Meridione che la Rivoluzione italiana ripone, anche oggi, le sue maggiori speranze.",

Angiolo Gracci ('Gracco', La Rivoluzione negata, La Città del Sole, 1999, pp.219/20)



La guerra acuisce la questione meridionale, le questioni meridionali. Aggrava le condizioni della propria parte proletaria, che sono Sud in quanto classe. E il pensiero meridiano, si invera solo in un nuovo meridionalismo. I comunisti, i rivoluzionari, rivendicano quel pensiero come proprio e fanno il nome del suo massimo esponente: Antonio Gramsci.


L'analisi meridionalista gramsciana ritrova la sua attualità nel crudo andamento della temperie della guerra criminale scatenata all'alba del XXI secolo.

C'è oggi ancora più bisogno di ieri di un meridionalismo di nuovo tipo, ma i cui fondamenti possono essere rintracciati in una filosofia meridionalistica che proprio da Gramsci può trovare alimento.


La stessa categoria di meridionalismo non abbraccia più il solo Sud dell'Italia, ma tutta quell'immensa periferia, entro e fuori le mura della cittadella imperialista. Bisogna ragionare della necessità della riappropriazione del ruolo di intellettuali "organici" ad un nuovo blocco storico-sociale alternativo, in qualità di comunisti e rivoluzionari che sentono ancor prima di comprendere.


Rifondare un nuovo pensiero meridionalista elaborato con 'sentimenti meridiani' piuttosto che porre un 'pensiero meridiano', costituisce oggi una rigenerazione del ruolo dell'intellettuale non funzionale al dominio delle classi dominanti e all'imperialismo, politico, culturale e militare.


In una sua forma "separata", la questione meridionale non esiste in quanto tale: questo è il tema dominate della riflessione di Gramsci dall' Ordine Nuovo ai Quaderni, passando per il manoscritto elaborato nel 1926 e ritrovato subito dopo l'arresto, pubblicato per la prima volta nel 1930, Alcuni temi della questione meridionale, sulla rivista Stato Operaio.


Laquestione meridionale è parte di una questione più vasta, il carattere specifico del capitalismo italiano e il suo blocco sociale dominante di riferimento: padronato del Nord e agrari del Sud. Un carattere specifico che viene dalle modalità stesse dell'unificazione nazionale, durante e dopo il Risorgimento, con l'egemonia dei moderati e che chiama in causa anche la formazione e la funzione degli intellettuali, rielaboratori in chiave culturale, del dominio della borghesia capitalista e del blocco sociale di potere delle classi dirigenti. Le masse subalterne non possono attendersi da questa configurazione che il riprodursi "intenzionale" del folclore e del senso comune, intesi come assenza di autonomia e incapacità di egemonia. Folclore e senso comune, in questo significato storico, hanno un segno di classe.


Tenendo presente questa struttura e la sovrastruttura relativa, Gramsci tende a rovesciare i rapporti in una prospettiva di liberazione sociale: a quel blocco dominante, causa dello sfruttamento operaio e nel contempo non di una generica "arretratezza", ma della subalternità storicamente determinata del mondo contadino del Sud,  bisogna opporre l'unità fra proletariato produttivo del Nord e contadini del Mezzogiorno.


L'analisi di Gramsci esalta la necessità di una reale autonomia e indipendenza delle masse subalterne e, tra esse, dei contadini del Mezzogiorno: ma una reale autonomia e indipendenza che si conquistano nel processo storico di emancipazione e non nei retaggi funzionali al potere delle classi dominanti: altrimenti la strada sarà sempre quella di un ribellismo spontaneistico e inconsulto, destinato direttamente o indirettamente a perpetuare la subordinazione. Una subordinazione sociale che si trasforma, strutturalmente, in soggezione culturale.

Nel suo saggio del '26, in Gramsci si avverte la difficoltà per le classi oppresse del Mezzogiorno di costituire un proprio strato di intellettuali che si opponga e sconfigga l'egemonia dei grandi intellettuali e dei quadri amministrativi che fanno da "tramite" e risultano funzionali al blocco moderato e agli interessi capitalistici.


Le elaborazioni di Gramsci, parlano un linguaggio nuovo. Rintracciarne i fondamenti oggi, significa rendere asse portante della politica dei comunisti il meridionalismo nell'epoca della globalizzazione imperialista. E' l'unico linguaggio, infatti, che oggi può comprendere in un unico Sud, tutti i Sud del mondo. L'attualità sta qui: Gramsci nel fuoco della lotta politica e poi dal buio del carcere, riesce a universalizzare i contenuti meridionalistici e pone la rigenerazione dell'intellettuale come necessità di definitiva liberazione ed emancipazione. Cinquant'anni dopo, il fenomeno della «globalizzazione» tende allo sradicamento e rende periferia un numero sempre più esteso di territori e collettività: ma la linea di confine è sempre più tenue. Il confine è labile, non regge: e il Sud si estende, si allarga e cinge d'assedio la cittadella fortificata. La contaminazione tra culture di popoli rimescola continuamente la cultura, le culture dominanti. Ma l'imperialismo, culturale in questo caso, tende ad escludere, non a integrare: e lo sradicamento diventa estraniamento.  Ecco perché alla globalizzazione ci si contrappone rivitalizzando le radici culturali dei popoli: perché l'altra risposta, l'omogeneizzazione sotto il dominio dell'imperialismo, è regressiva e fuori tempo storico. Il meridionalismo non può che ritrovare insieme, sia il legame con i popoli e le proprie radici, sia la massima apertura all'universo-mondo. L'uno senza alcuna contrapposizione all'altra, anzi, in stretta connessione dialettica. La connessione dialettica è anche coscienza di una lotta permanente per l'emancipazione senza la perdita del senso comunitario.


Il riscatto del Mezzogiorno domanda un protagonismo all'intera collettività subalterna, chiamata, oltre che a contrastare l' egemonia della strutturazione capitalista, a proporre una nuova egemonia costruita sull'arresto del processo di deculturizzazione e affermazione in sé di nuovi valori costituenti, proprio perché non eterodiretti, ma interni alla propria identità culturale.



Il quadro di una logica di dominio può saltare grazie all'attivismo delle popolazioni meridionali, come le lotte di Scanzano Jonico, Melfi, Termini Imprese, Acerra, ecc.,  hanno dimostrato. Perché qualcosa sta cambiando e in profondità: le nefaste conseguenze del liberismo capitalista stanno provocando una ribellione che trova mille strade per esprimersi, facendo riprendere la parola a chi non vuole rassegnarsi a questo becero imperialismo che non è solo economico, militare e politico, ma culturale e che rischia di disintegrare valori antichi di coesione sociale e di identità. La lotta nel Mezzogiorno deve essere accompagnata da un movimento di massa di tutto il paese: perché la posta in gioco è la ripresa di un conflitto che deve vedere protagoniste le popolazioni a riprendere in mano il loro destino. 

Questione meridionale e globalizzazione del capita

Introduzione

Mentre la borghesia italiana festeggia l'ingresso nella moneta unica europea, si fanno sempre più drammatiche le condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Nonostante i trucchi e le manipolazioni delle statistiche, i pennivendoli borghesi non riescono più a nascondere il dramma della disoccupazione, che, nella sola Europa, colpisce oltre venti milioni di lavoratori. Il raggiungimento dell'obiettivo dell'Euro, come gli stessi uomini del governo hanno voluto prontamente puntualizzare, non significa che i sacrifici siano finiti. Anzi, come lo stesso ministro del tesoro Ciampi ha affermato:

il difficile non è stato tanto arrivare nella moneta unica quanto rimanerci.

Questa frase sintetizza e nello stesso tempo anticipa la politica economica del governo dei prossimi anni, incentrata ancora una volta sui tagli alla sanità, alle pensioni e a quel che rimane dello stato sociale.

Nel pieno dei festeggiamenti per il raggiungimento dell'obiettivo della moneta unica, nella maggioranza di governo è proseguito lo scontro interno sui destini dell'IRI. Gli enormi interessi che ruotano intorno alla privatizzazione dell'industria pubblica, la prospettiva che si apre alla borghesia di acquisire per poche lire alcune imprese del gruppo che sono all'avanguardia nella competizione sui mercati internazionale, hanno trasformato l'argomento in un terreno di scontro tra le varie componenti del governo. Tra le proposte lanciate negli ultimi mesi, ha suscitato un certo interesse quella di Rifondazione Comunista, la quale ha lanciato l'idea di trasformare l'IRI in un'agenzia per la promozione dello sviluppo nell'Italia meridionale. Per il partito di Bertinotti e Cossutta, sempre pronto a svolgere il ruolo doppiogiochista di partito di governo e d'opposizione, la drammatica situazione occupazionale e dell'economia meridionale deve essere affrontata costituendo un'apposita agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno con le risorse provenienti dalla privatizzazione dell'Iri. Con il solito tono minaccioso e nello stesso tempo rassicurante, Rifondazione si è dichiarata pronta a rompere con l'attuale maggioranza se il governo non prende delle misure serie ed urgenti per contrastare il dilagare della disoccupazione nel meridione. Per Rifondazione, la nascita dell'Agensud costituisce il primo di una serie di provvedimenti che il governo dovrà prendere per dare una soluzione ai problemi del meridione d'Italia.

La proposta di Rifondazione Comunista, pur non riscuotendo alcun appoggio all'interno della maggioranza di governo, ha suscitato la ripresa del dibattito sulla questione meridionale nel variegato mondo neo-riformista. Dopo anni di silenzio seguiti alla fine dell'intervento straordinario, la questione meridionale torna ad essere al centro del dibattito politico. Presentate come le nuove idee che dovrebbero finalmente risolvere la questione meridionale, tornano in circolazione le vecchie tesi del meridionalismo italiano, che tanti danni hanno prodotto alla classe operaia italiana. Di fronte al fallimento delle politiche d'industrializzazione del meridione, il neo-meridionalismo cosa propone di nuovo? Ancora una volta l'industrializzazione. Proprio in questi ultimi mesi, sulle pagine del quotidiano pseudo comunista "Il Manifesto", sono apparsi alcuni articoli nei quali alcuni economisti della sinistra borghese hanno rilanciato l'idea dell'industrializzazione come unico veicolo per ridare fiato all'economia meridionale e dare così una risposta al dramma di milioni di disoccupati. Nella più totale confusione ideologica è proseguita l'opera di mistificazione sulle cause dell'arretratezza economica del meridione d'Italia; gli interventi degli illustri economisti, malgrado le apparenti diversità, non sono andati oltre uno sterile disegno di sviluppo tutto interno al modo di produzione capitalistico che vede nella "mitica" industrializzazione del sud l'unico passaggio possibile.

Ma l'attuale ritorno d'interesse su un tema come la questione meridionale da parte della borghesia italiana, non nasce dalla volontà di dare una risposta ai problemi del sud. Una nuova fase si è aperta nei rapporti tra capitale e lavoro, nella quale la borghesia, per attenuare gli effetti della sua crisi, non può far altro che comprimere costantemente il costo della forza-lavoro. Se in passato il meridionalismo è stato utilizzato dalla classe dominante per produrre illusioni e preparare alla sconfitta il proletariato italiano, oggi la stessa borghesia utilizza la questione meridionale per attaccare ulteriormente le condizioni di vita della classe operaia. I notevoli cambiamenti in atto nei meccanismi di accumulazione del sistema capitalistico hanno dato alla borghesia italiana la possibilità di utilizzare il sottosviluppo del meridione come un'arma di ricatto per tutto il proletariato italiano.

Ma, prima d'introdurci nell'attualità dell'argomento, riteniamo necessario sintetizzare le varie tappe del meridionalismo italiano e la puntuale critica fatta dalla sinistra comunista. Questo ci aiuterà molto nella comprensione del "nuovo meridionalismo", alla luce dei nuovi processi di globalizzazione dell'economia e della svalutazione selvaggia del costo della forza-lavoro.

All'origine della questione meridionale
La questione meridionale affonda le proprie radici ai tempi dell'unità d'Italia. Non esiste periodo in cui l'arretratezza del sud non abbia costituito elemento di discussione e di accese polemiche. Senza voler riprendere, per ovvi motivi di spazio, le varie posizioni sulla questione meridionale, possiamo affermare che le prime indicazioni date dalla borghesia italiana sull'arretratezza del sud sono tutte impregnate di una visione liberista del problema. E' dalla seconda metà del secolo scorso, infatti, che la borghesia italiana è impegnata nel formulare ipotesi di sviluppo per l'Italia del sud, senza però dare una risposta seria ai drammatici problemi del proletariato meridionale. Sono stati innumerevoli i tentativi per venire a capo del problema e portare nelle misere terre meridionali il necessario progresso economico e sociale. Dopo l'unificazione del regno, il governo, per approfondire le cause del ritardo economico, invia nelle regioni meridionali tutta una serie di economisti, sociologi ed altri studiosi. I risultati delle inchieste, ricollegandosi alle teorie del liberismo economico, imputano le cause del sottosviluppo agli ostacoli che impediscono il perfetto funzionamento dei meccanismi del mercato. I primi governi unitari hanno adottato una politica economica tendente a favorire complessivamente lo sviluppo del capitalismo nelle aree più avanzate. Il progetto unitario è visto esclusivamente come il passaggio obbligato per unificare il mercato italiano e dare così alla borghesia uno spazio economico dove vendere le proprie merci. Per il pensiero liberista il solo intervento consentito allo stato è quello finalizzato ad eliminare gli ostacoli che si frappongono al libero funzionamento del mercato. Per tutta una fase storica, che si protrae fino agli inizi del 20° secolo, quella liberista è l'unica risposta fornita dalla borghesia per giustificare il ritardo economico del meridione.

Merita un semplice cenno, anche per dimostrare come la borghesia pur di difendere i propri interessi di classe è disposta a tutto, il tentativo rozzo e spesso volgare, fatto dal settore più reazionario della classe dominante italiana, di spiegare il ritardo del sud come un semplice fattore di razza. Inserito in un contesto più antropologico che economico, questo filone cerca di spiegare il ritardo del meridione con l'inferiorità della razza meridionale; il capofila di questa scuola di pensiero è stato il Lombroso, autore di innumerevoli studi sull'inferiorità intellettiva meridionale. Può apparire assurdo, ma le aberranti teorie lombrosiane hanno riscosso un notevole appoggio non solo tra le file della borghesia, ma anche nei settori più riformisti del PSI. Per il Lombroso, l'arretratezza economica del meridione è da attribuire all'inferiorità degli uomini del sud. Partendo dai caratteri somatici dei meridionali, il Lombroso evince che i meridionali costituiscono un popolo rozzo, incivile e soprattutto violento e come tale incapace di varcare le soglie della modernità. Ricordiamo che la spiegazione lombrosiana s'inquadra in un contesto storico nel quale l'opposizione al progetto unitario dei Savoia è ancora forte; proprio per questo, descrivere i meridionali come un popolo violento, aveva allora il significato di dare una giustificazione ideologica alla durissima repressione in atto nei territori meridionali.

La borghesia italiana, impegnata nel suo contraddittorio sviluppo, non produce altre teorie sull'argomento ed affida alla repressione e ai meccanismi regolatori del mercato il compito di risollevare le sorti dell'economia meridionale.

La questione meridionale nell'analisi di Gramsci
Il nuovo secolo porta con sé sulla scena politica italiana un proletariato capace di elaborare sulla complessità delle contraddizioni del capitalismo italiano. E' così che la questione meridionale s'arricchisce del contributo dell'analisi del socialismo riformista italiano. Fra i primi riformisti a dare alla questione meridionale una rilevanza nella strategia politica complessiva è stato Gramsci. L'impostazione metodologica data da Gramsci all'arretratezza del meridione ha costituito, e per certi aspetti costituisce tuttora, il punto di riferimento per le ipotesi di sviluppo dell'Italia del sud fatte dal riformismo italiano, che tante sconfitte ed illusioni ha prodotto nelle coscienze del proletariato italiano.

Il carattere idealistico del pensiero gramsciano risalta in maniera netta nelle riflessioni che egli compie sulla questione meridionale. Nei "Quaderni del carcere" il problema del mezzogiorno appare immediatamente collocato nell'ambito dello sviluppo storico del capitalismo italiano. Il ritardo economico del meridione d'Italia non è, per Gramsci, il prodotto delle contraddizione capitalistiche, ma la sua comprensione richiede una rilettura critica degli eventi risorgimentali che hanno portato all'unità del regno. La questione meridionale è una specificità nazionale e non il risultato delle contraddizioni capitalistiche, che determinano nello stesso tempo sviluppo di alcune aree e fame e miseria in vaste aree del pianeta.

L'errore maggiore dell'elaborazione gramsciana è stato quello di individuare la causa dell'arretratezza meridionale nel permanere di rapporti di produzione di natura feudale. Il blocco che si realizza tra la grande borghesia del nord e i gruppi "feudali" del sud rappresenta lo scoglio contro il quale si scontra ogni politica di progresso in Italia. Sentiamo Gramsci:

Esso realizza un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle banche. Il suo unico scopo è conservare lo status quo. Nel suo interno nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi. [1]

E' nella mancanza di una borghesia meridionale che bisogna ricercare la causa prima dell'arretratezza del sud, nella sua incapacità di contrastare il blocco sociale prima descritto. Posta in questi termini la questione, ne deriva la necessità storica di spezzare il blocco agrario per liberare le energie di quelle forze sociali indispensabili per qualsiasi politica riformistica. A questo punto Gramsci rompe gli indugi e prepara il terreno sul quale costruire le alleanze sociali capaci di dare un impulso alla politica dei "miglioramenti". Ridiamo la parola ancora una volta a Gramsci:

Al di sopra del blocco agrario funziona nel mezzogiorno un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora ad impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana. [2]

Il problema che si pone Gramsci è quello di attrarre nell'ambito delle forze progressiste gli intellettuali, per dare una maggiore consistenza all'opposizione contro il blocco agrario.

Come si può constatare, la distanza che separa Gramsci dalle posizioni classiche del marxismo rivoluzionario sono siderali. Nell'elaborazione gramsciana la profonda frattura sociale esistente tra borghesia e proletariato, punto fermo della dottrina rivoluzionaria, si stempera in uno sterile quanto dannoso interclassismo; all'alleanza operai-contadini si affianca e talvolta si sostituisce la relazione urbano-rurale. Il rapporto squilibrato tra nord e sud viene qui individuato in relazione alla disparità tra le capacità di direzione espresse dai ceti urbani delle due aree del paese.

L'impostazione gramsciana, incentrata sulla politica delle alleanze tra proletariato, settori illuminati della borghesia e intellettuali, costituirà negli anni a seguire la base teorica per le successive politiche di sviluppo del meridione, nelle quali gli interessi del proletariato saranno completamente subordinati a quelli della borghesia. Dietro il mito della riforma agraria non c'è forse l'impostazione gramsciana delle alleanze sociali? Intesa come il primo passo da compiere per rompere il blocco reazionario, la riforma agraria, spezzettando in tanti piccoli appezzamenti le grandi proprietà terriere, diede l'illusione di aver posto le condizioni per superare il sottosviluppo meridionale. Ma le speranze di milioni di contadini e braccianti meridionali s'infrangono quasi subito sotto i colpi delle leggi del mercato.

Senza riprendere le nostre posizioni in tema di riforma agraria, possiamo solo ribadire che essa, in definitiva, ha portato all'ulteriore impoverimento del sud. La scelta strategica operata dalla borghesia italiana ha imposto che l'inserimento del capitalismo italiano nel quadro di quello internazionale avvenisse tramite una tumultuosa crescita dell'industria del nord. Ciò ha determinato che, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, inizia un processo migratorio di contadini meridionali richiamati dalle sirene delle fabbriche del nord. Si assiste in quegli anni ad un vero e proprio processo di spopolamento, che dura fino agli anni settanta; interi paesi abitati da soli vecchi, donne e bambini e dal mito ormai sepolto della riforma agraria.

Il meridionalismo nella critica della sinistra italiana
Gramsci, come dicevamo, ha segnato una tappa fondamentale del meridionalismo italiano. Aver "nazionalizzato" un aspetto contraddittorio del modo di manifestarsi del capitalismo, ha comportato che il meridionalismo non abbandonasse mai il terreno di difesa degli interessi della borghesia, ma si è limitato a sfornare periodicamente piani di sviluppo per il sud privi di qualsiasi significato di rottura rivoluzionaria.

E' stata opera della sinistra italiana aver fissato una volta per sempre il problema meridionale in termini di classe, evidenziando i limiti teorici e politici dell'impostazione gramsciana della questione meridionale e denunziando le pericolose illusioni che potevano da essa derivare. Scrivevamo in Prometeo nel 1949, nel pieno delle lotte per la terra:

Quella che banalmente si considera come l'arretratezza dello sviluppo sociale del mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell'Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell'eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenire capitalistico, nell'Europa specie mediterranea nell'epoca post-feudale. [3] [4]

Per la sinistra italiana non dunque nella permanenza di istituti feudali è da ricercarsi la causa della crisi del mezzogiorno d'Italia, ma nelle stesse dinamiche del modo di produzione capitalistico. Parlare di residui di feudalesimo nel pieno della fase imperialistica del capitalismo era una pura follia politica; l'arretratezza meridionale era piuttosto la logica conseguenza delle contraddizioni capitalistiche, che, nel loro operare, così come producono degli squilibri tra i diversi settori produttivi, nello stesso modo creano squilibri tra le diverse aree del mondo.

L'analisi da noi condotta è stata confermata dagli eventi successivi, laddove anche in presenza di una fase di sviluppo del ciclo di accumulazione del capitale, le differenze tra le diverse aree economiche del mondo anziché ridursi si sono ulteriormente accentuate. Per capire il ritardo del mezzogiorno italiano bisognava abbandonare la visione gramsciana della presenza di rapporti di produzione feudali e della necessità quindi di dar vita ad un'alleanza della classe proletaria con la borghesia per sconfiggere le resistenze della reazione feudale. Per la sinistra italiana le responsabilità andavano addossate esclusivamente al capitalismo, e concludeva che:

il problema del mezzogiorno è un problema di classe, un problema d'abbattimento dello stato italiano, un problema di inquadramento di tutte le forze lavoratrici contro il dominio del capitale. [5]

Contro le nostre posizioni, chiaramente ancorate ad una visione di rottura con il modo di produzione capitalistico, si sono come sempre scagliate le iene dello stalinismo. Nel rispetto della tradizione delatoria, gli stalinisti, approfittando dell'onda delle lotte contadine, ci accusavano di essere al servizio dei latifondisti reazionari.

L'industrializzazione e l'intervento straordinario
In linea con la visione gramsciana, per la quale il mezzogiorno restava la contraddizione fondamentale del sistema capitalistico italiano e di conseguenza il punto debole della struttura economica nazionale, nell'immediato dopoguerra tra le forze politiche italiane, PCI compreso, si fa strada l'idea che la risoluzione del problema meridionale dovesse obbligatoriamente passare attraverso la realizzazione di un piano d'industrializzazione del sud.

In concomitanza con le lotte contadine, il governo democristiano, grazie ai finanziamenti del governo americano e della banca mondiale, attua un piano d'intervento straordinario per il meridione con il quale si tenta di far partire l'industrializzazione nel mezzogiorno d'Italia. Per la realizzazione di tale piano, nel 1950 viene creata la Cassa per il Mezzogiorno, un istituto speciale chiamato a gestire le risorse destinate alla realizzazione nel sud di impianti industriali. I risultati conseguiti nei 40 anni di vita della Cassa per il mezzogiorno son a dir poco fallimentari. Concepita come uno strumento con il quale realizzare interventi aggiuntivi rispetto agli investimenti ordinari, la Cassa per il Mezzogiorno si è trasformata nel tempo nell'unico veicolo attraverso il quale finanziare l'economia meridionale. Nonostante le risorse finanziarie impiegate per lo sviluppo del meridione d'Italia, l'industrializzazione è rimasta soltanto una chimera. A fronte di investimenti di migliaia di miliardi di lire, nel sud sono stati realizzati pochissimi impianti industriali e perlopiù avulsi dal contesto economico dell'area circostante. La montagna di capitali investita nel mezzogiorno, soprattutto negli anni cinquanta e sessanta, ha partorito il classico topolino delle cattedrali nel deserto; impianti faraonici che non sono mai entrati in funzione.

Ad un'attenta analisi, la politica d'industrializzazione del meridione è servita ancora una volta a tutelare gli interessi della grande industria del nord. Infatti, i capitali investiti nelle aree meridionali, seguendo una sorta di circolo vizioso, affluivano, sotto forma di domanda di beni strumentali, nelle tasche dei capitalisti del nord. L'intervento straordinario, realizzato tramite la Cassa per il mezzogiorno, è sempre stato dettato per soddisfare le esigenze d'accumulazione del capitale delle aree più sviluppate del paese. Come spesso accade nelle dinamiche dei processi d'accumulazione, la classe dominante riesce a sfruttare a proprio vantaggio anche quelle iniziative che in apparenza sembrano favorire la risoluzione di una propria contraddizione, ma che nella realtà si tramutano in un peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice delle aree meno sviluppate. La questione meridionale e la politica d'industrializzazione del sud sono stati utilizzati dalla grande borghesia italiana per assecondare la fase espansiva del ciclo d'accumulazione. Infatti, una corretta valutazione dell'intervento straordinario nel sud, conduce inevitabilmente a considerare l'accresciuta domanda di beni strumentali necessari per la realizzazione delle nuove imprese meridionali come un grosso regalo fatto dallo stato italiano alle grandi imprese del nord.

Se andiamo ad analizzare i numeri delle statistiche relative agli anni del boom economico, possiamo osservare che, nonostante l'intervento straordinario, non solo non si è avviato alcun processo d'industrializzazione nel meridione, ma la crescita economica del mezzogiorno d'Italia è stata nettamente inferiore a quella fatta registrare dalle regioni del centro-nord. Nel periodo 1951-70, gli anni in cui il capitalismo mondiale si sviluppa con una rapidità straordinaria, le aree meridionali si sviluppano ad un ritmo annuo del 5%, mentre nello stesso periodo le regioni del centro-nord fanno registrare punte di crescita superiore al 6,5%. Se consideriamo che nel ventennio 1951-70 il PIL del mezzogiorno d'Italia rappresentava soltanto un quarto di quello del centro-nord, la differenza espressa in termini assoluti mette ancor più in evidenza il processo di divaricazione economica tra le due aree considerate. Ma è sul fronte occupazionale che emergono con maggiore nettezza le differenze tra le due aree del paese. Nel ventennio 1951-70, il centro-nord fa registrare un tasso di disoccupazione medio pari al 3,2%, con delle aree, come il famoso triangolo industriale, che presentano un tasso del 2%. Nello stesso periodo le regioni meridionali fanno registrare un tasso di disoccupazione intorno al 7%. Se consideriamo l'enorme flusso migratorio che ha portato milioni di proletari meridionali verso il nord del paese, la differenza dei tassi di disoccupazione tra le due aree assume una dimensione ancora più significativa.

A partire dagli anni settanta, in concomitanza con le prime manifestazioni della crisi economica del sistema capitalistico su scala internazionale, per il meridione italiano inizia un rapido processo di desertificazione economica. Se le aree più sviluppate del capitalismo italiano, grazie ad enormi processi di ristrutturazione dell'apparato produttivo, riescono a mantenere una certa competitività sui mercati mondiali, il meridione italiano subisce un vero e proprio tracollo economico. Il divario tra nord e sud del paese aumenta progressivamente sotto l'incalzare della crisi economica. Con l'aggravarsi delle difficoltà economiche, la disoccupazione nelle aree meridionali cresce a ritmi vertiginosi. La riduzione degli investimenti nel mezzogiorno d'Italia, ridottisi nel 1983 a circa il 50% rispetto a quelli realizzati nel 1974, provoca un'immediata impennata del tasso di disoccupazione che sfiora il 18-20%, mentre nelle regione del centro-nord non supera il 9%.

Nel 1990 finisce l'esperienza dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno. Per la borghesia italiana sono altre le priorità da raggiungere con ogni mezzo finanziario. L'obiettivo dell'unione monetaria, imponendo il risanamento delle finanze pubbliche, non permette al capitalismo di indirizzare risorse nel meridione; ciò determina delle conseguenze sociali drammatiche. Negli anni novanta l'attacco sistematico operato dalla borghesia allo stato sociale e la continua riduzione degli interventi di sostegno alla fragile economia meridionale, accentuano il divario tra il centro-nord e il sud del paese. S'aggrava la disoccupazione, specie quella giovanile, che in regioni come la Campania e la Calabria rappresentano il 55% dei giovani.

Il sud, dopo l'illusione dell'intervento straordinario e dell'industrializzazione, si è trasformato rapidamente in un grande contenitore per disoccupati ed emarginati.

Il "nuovo meridionalismo"
Il piano di privatizzazione dell'Iri ha riportato dopo molti anni al centro del dibattito politico nazionale la drammatica situazione economica del mezzogiorno italiano. Come dicevamo all'inizio di questo nostro lavoro, la proposta di Rifondazione Comunista di trasformare l'IRI in un'Agenzia per lo sviluppo del meridione, pur essendo osteggiata dalla stessa maggioranza di governo e dai sindacati, ha dato il via ad una serie d'interventi da parte di economisti e sociologi, i quali non hanno fatto altro che riproporre vecchie formule di sviluppo che la storia degli ultimi 40 anni ha puntualmente sconfessato.

Nei numerosi articoli apparsi in questi ultimi mesi sul quotidiano "Il Manifesto", i vari autori hanno tratteggiato i possibili scenari di sviluppo per il mezzogiorno. Nonostante la diversità di linguaggio e andando oltre le apparenze delle argomentazioni, le varie proposte di sviluppo possono essere sostanzialmente ricondotte ad unico filone di pensiero che riprende la vecchia formula dell'industrializzazione del mezzogiorno.

Il primo a rilanciare il dibattito sulla questione meridionale è stato l'economista Augusto Graziani, che facendo propria la proposta di Rifondazione Comunista, ha evidenziato la necessità di rilanciare nel sud un piano di investimenti pubblici. L'analisi di Graziani parte dalla semplice considerazione che la fine dell'intervento pubblico nel mezzogiorno ha determinato un peggioramento della condizione economica dell'intero sud. Lasciare alle sole forze del mercato la risoluzione del problema meridionale è stata una politica che si è dimostrata fallimentare. Per Graziani la ripresa economica del mezzogiorno e la risoluzione del dramma della disoccupazione devono passare obbligatoriamente attraverso il rilancio degli investimenti pubblici. Gli incentivi alle imprese, la fiscalizzazione degli oneri sociali, i contratti d'area, la flessibilità del lavoro, pur essendo giudicati necessari per attrarre gli investimenti in un'area depressa come quella meridionale, non sono sufficienti per dare una risposta concreta alla voglia di rinascita del meridione. Occorre quindi che il governo, dopo anni di continui tagli al bilancio pubblico, giustificati dal raggiungimento dell'obiettivo della moneta unica, appronti un piano straordinario d'investimenti attraverso il quale dare competitività all'intero sistema economico meridionale. Nel Graziani-pensiero, il ritorno degli investimenti pubblici dovrebbe svolgere la funzione di volano per l'intera economia meridionale. Ma a quali mercati dovrebbe rivolgersi il sistema economico meridionale, visto che il gap tecnologico rispetto alle imprese del nord è attualmente incolmabile? L'illustre economista supera in fantasia i migliori scrittori di favole e tra il serio e il faceto afferma: il mercato di riferimento per le imprese meridionali non può essere ovviamente quello europeo o statunitense, ma occorre penetrare nei paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo, ad esempio i paesi nordafricani e la Turchia. In quest'ottica il governo italiano si dovrebbe fare non solo carico degli investimenti nel meridione, ma dovrebbe agire sul piano della politica estera per favorire la nascita di un'area economica mediterranea caratterizzata da un basso contenuto tecnologico, nella quale le imprese del nostro sud potrebbero essere altamente competitive.

L'analisi di Graziani parte dalla giusta osservazione che il meridione italiano si è economicamente ulteriormente allontanato dal resto del paese e che le sole forze del mercato non possono dare un'adeguata risoluzione al dramma della disoccupazione di massa. Ma la ricetta proposta non fa altro che riproporre lo stesso schema dell'industrializzazione del mezzogiorno, che tanti anni d'intervento straordinario e migliaia di miliardi non sono riusciti ad innescare. Come è possibile ipotizzare l'industrializzazione del meridione nella fase discendente del ciclo di accumulazione del capitale, quando tale politica si è dimostrata fallimentare nella fase espansiva del ciclo? Riemergono come zombies le tesi tanto care al vecchio riformismo, in base alle quali il capitalismo è perfettamente conciliabile con uno sviluppo equilibrato tra le diverse aree economiche. La storia del capitalismo degli ultimi decenni ha dimostrato invece che le distanze economiche tendono inesorabilmente ad aumentare. La globalizzazione dell'economia, a differenza di quanto vuol far credere il pensiero borghese, non significa affatto riequilibrare le diverse aree del pianeta; nella realtà, grazie ai processi di globalizzazione, il capitalismo è ora in grado di soddisfare meglio la sua inesauribile spinta verso la concentrazione e centralizzazione dei mezzi produttivi e finanziari.

Nel recente dibattito sulla questione meridionale, la proposta di Augusto Graziani è stata osteggiata da alcuni economisti che hanno formulato un'ipotesi di sviluppo "alternativo". L'esponente di maggior spicco di questo secondo schieramento è il professor Becattini, che nei suoi interventi ha sottolineato come lo sviluppo del mezzogiorno non possa più passare attraverso il rilancio dell'intervento straordinario. Fra i maggiori "studiosi" dell'economia sommersa del meridione d'Italia, Becattini propone per il mezzogiorno un progetto di sviluppo simile a quello che si è dimostrato vincente nel nord-est del paese. La straordinaria vitalità delle imprese del nord-est del paese è avvenuta grazie alla nascita dei cosiddetti distretti industriali, aree economiche omogenee all'interno delle quali operano una miriade di piccole e medie imprese. L'idea di Becattini e di tanti altri economisti è quella di lanciare anche nel mezzogiorno d'Italia un vasto programma di sviluppo economico con il quale far emergere dal sommerso le micro-imprese, patria del lavoro nero e sottopagato, costituendo in tal modo un vero e proprio distretto industriale. Ma tale programma di sviluppo non può partire ancora una volta dall'intervento pubblico, dimostratosi fallimentare negli ultimi 40 anni, ma occorre spingere le stesse imprese del nord-est ad investire nel meridione d'Italia, anziché in paesi a bassi salari, come per esempio la Romania. Si potrebbe in tal modo innescare un circolo virtuoso in grado di far crescere anche nel meridione una fitta rete di piccole e medie imprese che, nel medio-lungo periodo, sarebbero in grado di reggere autonomamente la concorrenza dei mercati internazionali. Non più grandi opere faraoniche avulse dal contesto economico meridionale, ma crescita di piccole e medie imprese diffuse su tutto il territorio.

Nello schema di Becattini lo sviluppo economico del mezzogiorno passa attraverso lo spostamento di alcune fasi produttive dalle aree del nord-est verso il sud. Se andiamo ad analizzare lo sviluppo di un'area come il nord-est italiano, possiamo osservare come anche le proposte di Becattini siano mistificanti e lontane dal poterle applicare con successo anche nel mezzogiorno. La nascita e lo sviluppo dei distretti industriali del nord-est sono avvenuti grazie ai trasferimenti in queste aree di molteplici fasi della produzione che in precedenza si svolgevano esclusivamente all'interno della grande fabbrica.

Nel corso degli anni settanta, grazie ai processi di ristrutturazione del sistema produttivo e al radicale cambiamento dell'ambiente di lavoro, le grandi fabbriche del nord hanno trovato più conveniente trasferire alcune fasi della loro produzione nelle regioni del nord-est, contribuendo in maniera considerevole a far sviluppare in quelle regioni un tessuto industriale fino al quel momento abbastanza limitato. Il tanto osannato miracolo del nord-est e dei distretti industriali è il prodotto del trasferimento in queste aree di importanti segmenti produttivi. Le imprese del nord-est, per le loro origini e soprattutto per il fatto di rimanere ancorate alle commissioni della grande impresa, non possono avere un proprio autonomo sviluppo, ma rimangono sempre nell'orbita della grande fabbrica capitalistica.

Basta che le grandi fabbriche del nord trovino più conveniente rivolgersi in altre aree per avere la subfornitura dei materiali e il miracolo del nord-est svanisce in breve tempo. Oggi sta accadendo proprio questo. La globalizzazione dell'economia permette al grande capitale di trasferirsi senza grossi costi aggiuntivi in paesi dove i salari degli operai sono decine di volte più bassi che nelle aree avanzate del capitalismo. Questa minaccia incombe anche su quel nord-est tanto osannato da Becattini, che rischia di essere travolto dai nuovi fenomeni di globalizzazione del capitale. Proprio in questi fenomeni trovano una risposta le spinte reazionarie della piccola e media borghesia del nord-est dell'Italia, la quale percepisce che le sta venendo meno il terreno sotto i piedi.

In un tale contesto, pensare ai distretti industriali del nord-est come lo strumento per far partire lo sviluppo del mezzogiorno d'Italia è una corbelleria che purtroppo rischia di illudere ancora una volta i milioni di disoccupati meridionali. Infatti, come si può ipotizzare un trasferimento nel meridione italiano di alcune fasi della produzione finora svolte nelle imprese del nord-est, quando le stesse rischiano di essere scavalcate dai processi di delocalizzazione dell'apparato produttivo? Esistono paesi che offrono garanzie da un punto di vista della stabilità sociale, delle infrastrutture e della cultura industriale che presentano un costo della forza-lavoro nettamente inferiore a quello delle regioni meridionali. Per quale motivo dovrebbero affluire al sud gli investimenti quando esistono paesi che offrono condizioni più vantaggiose ai processi di accumulazione del capitale? E' evidente che lo sviluppo del meridione basato sull'industrializzazione della sua economia, sia essa di natura pubblica che "distrettuale", fermo restando gli attuali rapporti di produzione capitalistici, non può dare una risposta significativa ai problemi dei disoccupati del mezzogiorno, ma si continua a spargere fumo nelle già offuscate coscienze proletarie.

Conclusioni
Dopo anni di totale silenzio sulla sua crisi, il sud torna "protagonista" nei dibattiti della borghesia italiana. La ripresa della discussione è come sempre dettata da precisi interessi della classe borghese, i quali sono in totale contrasto con i reali problemi sociali ed economici del proletariato meridionale. Come abbiamo più volte sottolineato su questa stessa rivista, gli attuali processi di globalizzazione dell'economia si concretizzano sostanzialmente in una continua riduzione del costo della forza-lavoro. In un quadro economico nel quale si fanno sempre più pressanti le spinte verso la riduzione del costo del lavoro, il sud diventa un primo cavallo di troia con il quale imporre a tutto il proletariato italiano un peggioramento delle proprie condizioni salariali. Le proposte avanzate durante il recente dibattito sulla questione meridionale partono tutte dalla considerazione che l'unica strada percorribile per dare al meridione uno sviluppo duraturo è quella di una drastica riduzione del costo del lavoro. Sia nella proposta di Graziani che in quella Becattini sono presenti attestati di stima e d'incoraggiamento verso quei provvedimenti del governo che mirano a ridurre i salari nel meridione. Tutte le forze politiche, Rifondazione Comunista compresa, economisti e intellettuali concordano nel considerare la riduzione dei salari la panacea di tutti i mali del meridione, attraverso la quale si può finalmente dare lavoro ai milioni di giovani disoccupati.

La sperimentazione di nuovi meccanismi contrattuali, come i contratti d'area, l'elevazione da ventiquattro a trentasei mesi del periodo di durata per i contratti di formazione-lavoro, le borse-lavoro, sono solo alcuni degli strumenti con i quali la borghesia italiana tenta di ridurre drasticamente i livelli salariali. I contratti d'area siglati nei mesi scorsi da padronato e sindacati, con il sostanziale consenso di Rifondazione Comunista, per le aree di Manfredonia e Crotone, nella realtà non hanno creato un solo posto di lavoro aggiuntivo. Malgrado la propaganda sindacale, tali contratti non sono serviti per creare nuovi posti di lavoro, ma solo ed esclusivamente per abbattere il costo del lavoro di quei pochi operai ancora rimasti all'interno del mondo produttivo.

Se fosse vero il presupposto che l'unica strada percorribile per rilanciare l'occupazione nel meridione è la riduzione del costo del lavoro, nel sud dovremmo già avere una situazione di pieno impiego; infatti, senza considerare gli ultimi accordi capestro, la forza-lavoro nel mezzogiorno presenta un costo inferiore al 30% rispetto a quello del centro-nord. Ma gli attuali processi di globalizzazione dell'economia mettono in competizione lavoratori i cui salari presentano differenze enormi. Se il costo del lavoro fosse l'unico elemento valutato dal capitalista nello scegliere le aree nelle quali investire, dovremmo assistere ad una vera fuga degli investimenti verso quei paesi il cui costo della forza-lavoro e inferiore non del 30% ma addirittura del 90% rispetto alle aree a capitalismo avanzato. In questo contesto per il mezzogiorno italiano non esiste alcuna possibilità di sviluppo economico e quindi di una ripresa dell'occupazione.

La "sperimentazione" dei contratti d'area non serve quindi a rilanciare l'occupazione, ma prepara il terreno per un attacco generalizzato al costo del lavoro ed alla contrattazione collettiva. Le politiche salariali sperimentate al sud confermano la tendenza verso l'individualizzazione del contratto di lavoro e la consequenziale possibilità offerta alla borghesia di abbattere in ogni momento i minimi contrattuali attualmente in vigore. Se in passato la regolamentazione del rapporto di lavoro su un piano collettivo era una condizione imprescindibile dell'organizzazione fordista e della programmazione del costo del lavoro, i cambiamenti in atto nel sistema produttivo impongono alla borghesia di individualizzare il rapporto di lavoro. Grazie ai processi di globalizzazione, la contrattazione collettiva, da condizione imprescindibile nella programmazione del processo produttivo, si è trasformato in una camicia di forza non può sopportabile per la voracità di accumulazione del capitale. La sperimentazione al sud dei contratti d'area non solo apre alla borghesia italiana la possibilità di abbattere i minimi contrattuali, ma rappresenta un primo passo con il quale individualizzare il rapporto di lavoro; rompere l'unità del mondo del lavoro rappresenta per la classe dominante un ulteriore tassello con il quale potrà imporre al proletariato, in un prossimo futuro, condizioni salariali e di lavoro impensabili fino a qualche anno addietro.

In questo senso, l'agitarsi della questione meridionale è da parte della borghesia strumentale ai propri interessi di classe; infatti, contemporaneamente alla firma dei contratti di Manfredonia e di Crotone, con i quali non solo i salari sono stati ridotti di un buon 35% ma sono stati introdotti criteri di flessibilità impensabili fino a qualche anno fa, l'Unione industriale di Torino ha proposto che le stesse condizioni fossero applicate sul territorio piemontese. Quando la borghesia italiana chiede gli sconti salariali al sud non pensa di tenerli confinati in quelle aree, ma spera di poterli ottenere in brevissimo tempo anche nel resto del paese.

Da sempre la questione meridionale ha rappresentato per la borghesia italiana un argomento funzionale ai propri interessi di classe e qualsiasi tentativo della classe dominante di risolvere il dramma del sottosviluppo meridionale ha avuto delle conseguenze nefaste sulle condizioni di vita del proletariato. I nuovi meccanismi di accumulazione che si stanno affermando nell'ambito del sistema capitalistico su scala internazionale sono destinati ad aggravare ulteriormente la questione meridionale. Pensare di dare lavoro ai milioni di giovani disoccupati del sud, fermo restando l'attuale modo di produrre capitalistico, significa ancora una volta spargere a piene mani illusioni e preparare il terreno per nuovi e pesanti attacchi a tutto il proletariato italiano. Per questo è indispensabile rilanciare in ogni luogo la critica proletaria alle mistificazioni della borghesia e preparare il terreno politico per una ripresa della lotta di classe che faccia dell'anticapitalismo il momento unificante di tutte le battaglie della classe operaia del meridione italiano come di quella internazionale.

Lorenzo Procopio


[1] Gramsci: La questione meridionale - Editori Riuniti.
[2] Gramsci: La questione meridionale - Editori Riuniti.
[3] Prometeo, anno III N° 12 - Il preteso feudalesimo nell'Italia meridionale.
[4] Prometeo, anno IV seconda serie N° 1.



Lotte operaie e questione meridionale

Le lotte operaie che negli ultimi due anni hanno visto protagonisti i lavoratori del Sud sono l'esempio più evidente di come la contraddizione tra capitale e lavoro sia oggi più che mai centrale nella società capitalista. Purtroppo le concezioni prevalenti dall'ultimo congresso hanno indebolito il Partito, che negli ultimi anni ha voltato le spalle al movimento operaio, proprio mentre esplodeva il conflitto sociale. Da questa linea politica scaturisce una sostanziale assenza di intervento sui luoghi di lavoro e nelle mobilitazioni operaie ed un atteggiamento del tutto passivo nel sindacato. È questa almeno la nostra esperienza nelle recenti lotte in Calabria: dalla Polti sud al polo tessile in crisi, il partito è stato drammaticamente assente dal campo del conflitto

In ambienti "radical chic" e sempre più spesso anche nel partito, si propongono come via per lo sviluppo del mezzogiorno le teorie sul reddito di cittadinanza, dei bilanci partecipati, del turismo itinerante, ecc. Crediamo invece che la questione meridionale rimane parte indispensabile della lotta della classe operaia. Attraverso il protagonismo di una classe operaia che ha mostrato la sua capacità di lotta e di egemonia nella società meridionale può risorgere un programma di autentico sviluppo del mezzogiorno, partendo da necessità basilari quali un serio piano infrastrutturale e di difesa del territorio (esemplare al riguardo la lotta dei forestali), servizi sanitari e scolastici dignitosi, la lotta alle consorterie politico-mafiose e soprattutto la difesa del lavoro attraverso la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende in crisi, spesso finanziate con denaro pubblico.

Le contraddizioni del capitalismo sfociano sempre più spesso in conflitti radicali che rompono con la dinamica di riflusso durata oltre vent' anni. Nel Sud Italia le contraddizioni che si accumulano sono sempre più esplosive e le lotte esemplari degli ultimi periodi sono solo un'anticipazione di ciò che potrebbe avvenire nel prossimo futuro. La crisi del capitalismo non lascia alcuna via d'uscita alle masse meridionali e lo scontro frontale e di massa contro la borghesia (compresa quella mafiosa) diventerà inevitabile. Guardando alle lotte di Termini Imerese, di Melfi, della Polti o la mobilitazione dei forestali in questi giorni, l'innegabile comune denominatore che emerge è la necessità degli operai di difendere i diritti e di conquistarne nuovi. Questa generazione di lavoratori si affaccia per la prima volta sulla scena politica e riscopre le "vecchie" armi del conflitto, lo sciopero ad oltranza, i picchetti, le occupazioni, ecc.

Comincia a capire, rompendo con la vecchia logica clientelare, che questa è l'unica strada percorribile per opporsi alle politiche di lacrime e sangue imposte dai padroni.

La stessa cosa si può dire per le rivolte di Scanzano ed Acerra dove alle masse popolari appare evidente che al danno (la difficile situazione economica e sociale del Sud) si unisce la beffa (le scelte politiche che vorrebbero definitivamente trasformare queste aree in pattumiere).

Come non accorgersi che, per la prima volta dopo 24 anni, i metalmeccanici di Melfi rientrano in fabbrica con la consapevolezza che i loro sacrifici sono serviti a qualcosa e come non vedere che i forestali calabresi, attraverso la mobilitazione, riescono a far tornare indietro il governo di destra su una finanziaria che appariva intoccabile? Nasce una nuova consapevolezza: dopo la stagione della concertazione a tutti i costi la classe operaia non sta più a guardare impassibile e risponde agli attacchi della borghesia con una forza che solo qualche tempo fa sembrava perduta per sempre. Proprio dalle mobilitazioni operaie del Sud ci viene un grande insegnamento: sono i lavoratori che fanno funzionare questo sistema sociale e sono loro che giocheranno un ruolo fondamentale nel costruire un altro mondo possibile, un mondo che noi vogliamo socialista.

EMIGRAZIONE E QUESTIONE MERIDIONALE


L'insieme di tutto quel complesso di situazioni sorte con la unione delle regioni meridionali al resto dell'Italia , pose le fondamenta di quell'ampio problema che viene identificato con il termine "Questione Meridionale".

Dopo l'euforia prodotta dall'impresa del Risorgimento, politici ed intellettuali cominciarono a domandarsi e a considerare il giovamento prodotto da tale azione. L'Italia, appena unificata, cominciò a dividersi in due correnti d'opinione, entrambe sotto l'egida di una risposta sostanzialmente negativa: gli intellettuali meridionali non poterono fare a meno di considerare l'inasprimento insopportabile del gravame tributario, la rigidezza amministrativa irriguardosa di mentalità e tradizioni, la legislazione complicata e spoliatrice; gli intellettuali settentrionali furono pronti ed espliciti nel ribadire e manifestare la loro delusione e la quasi irritazione nel vedere aggiunto al loro territorio, come un "peso morto", una massa di popolazione povera , misera, e soprattutto in condizioni impressionanti di arretratezza civile.

La questione meridionale comincia ad essere "documentata " sin dal 1861, P. Villari, napoletano e formatosi alla scuola del liberalismo inglese, inviava al quotidiano lombardo "La perseveranza" corrispondenze in cui documentava attraverso le miserie e l'abominevole sofferenza della popolazione a lui familiare, l'assenteismo e le deficienze del nuovo regime statale

A questi scritti, raccolti in un opuscolo dal titolo "Prime lettere meridionali", ne seguirono altri "Le seconde lettere meridionali" del 1875, in cui l'interesse morale e sociale era accentuato.

Lo studio critico del Villari è diretto ai rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato con particolare riferimento alla funzione di stasi che le nuove istituzioni avevano assunto nel Mezzogiorno. Ritiene che nel Mezzogiorno manchino le condizioni essenziali per la realizzazione di un libero sviluppo, dal momento che si è giunti all'Unificazione dell'Italia con una rivoluzione politica che non è scaturita dalla trasformazione sociale derivante dalla presa coscienza delle reali condizioni in cui versavano le masse popolari e dal conseguente desiderio di modificare le situazioni, per cui il Meridione pur avendo cambiato governo e amministrazione , restavano immutati gli antichi privilegi che immobilizzavano l'ordinamento sociale perseverando negli atavici costumi semifeudali (1).

P. Villari fa notare che il governo costituzionale era sostanzialmente costituito dalla borghesia: "La classe dei proprietari, in mancanza d'altro divenne la classe governante" (2), indifferente e disinteressata nei confronti delle classi sociali meno abbienti; richiama l'attenzione sulla necessità di una riforma iniziata e diretta dal governo al fine di evitare sommosse popolari e superare il sentimento di opposizione che andava crescendo nelle province Meridionali, riforma indispensabile al progresso civile dell'Italia intera (3). Le "Lettere meridionali" rendono atto dei problemi del Mezzogiorno e stimolano la conoscenza della realtà al fine di comprendere i bisogni e cercare i rimedi dell'evidente disagio delle popolazioni.

I primi a parlare della precaria condizione delle popolazioni lucane dopo l'Unità di Italia, certificandola con dati, furono L. Franchetti e S. Sonnino che effettuarono una inchiesta sulle condizioni di miseria, esponendo in modo realistico le cause dell'arretratezza meridionale contro la sommaria conoscenza ed i pregiudizi della classe politica.

Già nell'autunno 1874, Franchetti nei suoi "Appunti di viaggio, Calabrie e Basilicata" rende nota la deplorevole condizione di disagio socio-economico dei contadini: malnutriti, malvestiti, male alloggiati e il più delle volte indebitati per far fronte alle spese di messa a coltura di un fondo che garantisse la speranza della sussistenza (4). Nello status di debitore perpetuo, generalmente verso il proprietario del suolo coltivato, e di dipendenza assoluta da questi per il vitto giornaliero, è facile dedurre il ruolo personale di assoggettamento che il contadino stabilisce col proprietario (5).

Unica reazione a questa situazione di brama esistenza è la possibilità di emigrare, il Franchetti attesta: "Nel 1872 emigrarono in Basilicata 5.545 persone, di cui 5.150 per l'America. Degli emigranti, 1.579 erano artigiani. 3.685 contadini. Nel 1873 emigrarono 3.891 persone, delle quali 3.634 per l'America, 815 erano artigiani, 2.561 contadini. La popolazione della provincia è di 510.543 abitanti"(6). E domandandosi se, riguardo all'emigrazione, sono maggiori i danni o i vantaggi riferisce che i contadini considerano l'emigrazione un bene, e quasi tutti i proprietari " ...malgrado la loro antipatia non dissimulata per l'emigrazione e i loro lamenti per i danni che ne ricevevano, mi hanno confessato che la maggior parte dei contadini tornati d'America dopo 3 o 4 anni, han riportato economie: in generale dalle mille alle quattromila lire..." (7).

Egli nota che gli emigranti ritornati in paese riattano prima di tutto la casa, o la comprano se non l'hanno, comprano qualche volta un pezzetto di terra, quando il prezzo non è troppo esorbitante, e poi, speso ritornano in America a guadagnare nuovi denari.

Ritiene vantaggiosa l'emigrazione "...perché le braccia che tornano non lavorano più per conto dei proprietari se non a condizioni migliori, e se non le ottengono, preferiscono tornare in America. D'altra parte, le braccia rimaste disponibili, meno numerose di prima, hanno pure modo di farsi pagare meglio" (8). E conclude sollecitando il governo a non impedire l'emigrazione ma a tutelarla con opportune garanzie dal momento che l'emigrazione è fonte di benessere per chi emigra e strumento di sviluppo sociale per l'intera popolazione, dal momento che potenzia i fattori della produzione e rende consapevoli delle proprie capacità (9).

Nel 1870 venne svolta un'indagine sul ruolo di stimolo all'emigrazione da parte degli agenti di navigazione, accusati di proclamare di villaggio in villaggio l'esistenza di un luogo, l'America, dove era possibile rifugiarsi per sfuggire alla fame e alla miseria, dove vi erano ricchezze ad ogni passo e lavoro per tutti, dove esisteva la possibilità di diventare ricchi. L'indagine confermò la funzione fomentatrice degli agenti di navigazione. Si giunse alla distinzione tra emigrazione "artificiale", provocata da "eccitatori" e pertanto da scoraggiare, ed emigrazione "spontanea", da tollerare o favorire. Nel 1872, la Sinistra meridionale, avvalendosi dei deliberati delle Camere di Commercio di bari, Catanzaro e Foggia, e dei deliberati delle Camere Agrarie di Vallo Lucano, Sala Consilina e Lagonegro, fa dello spopolamento delle campagne, del fiscalismo esasperante e della delinquenza dilagante il suo programma politico di battaglia contro la Destra (10).

La Circolare Lanza, del 1873, dava istruzione ai Sindaci affinché negassero il nulla osta all'espatrio ai giovani di leva, ai militari senza congedo assoluto, agli inabili e a chi era sprovvisto di mezzi (11).

L'attacco del Franchetti contro l'azione di impedimento all'emigrazione effettuata dal Governo viene ribadito, con maggiore enfasi, nella conclusione di un libro in cui espone i risultati di osservazione dell'indagine scaturita dal suo viaggio, nell'autunno 1874, dagli Abruzzi alla Calabria(12): si chiedeva che cosa avesse fatto , sino ad allora, lo Stato in quella parte d'Italia, e rispondendo alla domanda scagionava lo stato dalla responsabilità della mancata trasformazione economico e sociale delle province meridionali, ma lo riteneva responsabile di non avere usato tutti i mezzi che poteva usare per dare la prima spinta ai miglioramenti e per aiutarle. Aggiungeva che se lo stato aveva delle colpe, le divideva con tutto il rimanente della nazione che aveva fatto affidamento sulla concezione che la libertà e il progresso risanassero da ogni male.

Comunica che l'intendo delle le sue indagini era quello di attirare l'attenzione del Governo e delle Nazioni sulle province meridionali, di voler stimolare la conoscenza diretta di quei luoghi, affinché la presa d'atto delle condizioni socio-economiche delle popolazioni innescasse, nell'opinione pubblica, la percezione della gravità del problema e ne stimolasse la ricerca e l'attuazione dei possibili rimedi (13).

Intanto, il problema dell'emigrazione assume sempre maggiore rilevanza a livello nazionale.

Il governo sensibile alla crescente ondata di espatri decise di dare il via ad un'associazione per il patronato degli emigranti, sull'esempio di altri paesi europei interessati al fenomeno dell'emigrazione. Venne fondata a Roma il 15 dic. 1875 la Società di patronato per gli emigranti italiani (14).

Intenzione primaria, per il governo, era quella di tutelare gli emigranti dall'attività speculativa degli agenti di emigrazione diffusi soprattutto nelle aree più povere del mezzogiorno.

Franchetti si adoperò, insieme con Sidney Sonnino, per svolgere una vera e propria inchiesta in Sicilia nel 1876, che mise a fuoco in modo realistico le cause dell'arretratezza meridionale contro la sommaria conoscenza ed i pregiudizi della classe politica (15).

Scrive il Sonnino, nel 1879, che chi si opponeva al libero corso dell'emigrazione cedeva dall'altra parte alle pressioni dei contadini che chiedevano lavoro ai municipi, incoraggiando così il socialismo, minando l'ordine pubblico e gonfiando le spese improduttive e il disordine economico, mentre imperversavano pellagra e idee sovversive.

"L'emigrazione è uno dei pochi mezzi efficaci, se non a togliere, almeno ad allontanare i pericoli sollevati dalla questioni delle nostre plebi agricole che ingigantisce dinanzi a noi e dinanzi alla quale chiudiamo gli occhi. L' emigrazione migliora gradatamente le condizioni fatte ai lavoratori della terra per la diminuita concorrenza delle braccia, e, quando ben diretta, può inoltre procurare al paese nuovi capitali, se gli emigranti ritornano, influenza gli sbocchi commerciali all'estero, se si stabiliscono definitivamente nel luogo di emigrazione" (16).

Lo stesso parere viene espresso attraverso l' "Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola" promossa dal Parlamento nel 1877 e pubblicata nel 1884 da S. Jacini, presidente della Giunta (17).

Franchetti e Sonnino non divulgarono solo attraverso studi, scaturiti dai loro viaggi d'inchiesta, le misere condizioni del Mezzogiorno ma la fondazione della Rassegna Settimanale diede risonanza nazionale ai problemi del Mezzogiorno. Alla rivista collaborò con le sue corrispondenze sociali da Napoli, G. Fortunato, lucano.

Il Mezzogiorno diventa il baricentro dal quale dipartono e convergono tutte le tematiche del suo pensiero politico.

Essendo lucano non poté fare a meno di considerare le condizioni reali della sua terra.

La Basilicata appariva come una provincia spopolata situata in un territorio formato da valli paludose e malariche e da altipiani sterili e selvaggi, senza infrastrutture e priva di industrie e di commerci, racchiusa nell'alpestre corona delle sue montagne simboleggiava l'estremo limite della vita sociale.

Comunicava che il Mezzogiorno costituiva: "... quello che ne ha fatto la natura ingrata e la sorte avversa: una gran causa di debolezza, politica ed economica, per tutta quanta l'Italia, il cui destino è quindi riposto nella resurrezione del Mezzogiorno" (18).

L'emigrazione agricola risulta il principale sintomo di questa debolezza (19) e dopo averne documentato le cifre allarmistiche sollecita l'attenzione governativa al problema (20). G. Fortunato in modo coraggioso ed aperto rivolgeva una critica continua alla classe della borghesia possidente cui egli stesso apparteneva. Alla ricerca delle cause sociali della miseria del Mezzogiorno rivolge un sostanziale addebito di colpevolezza alla borghesia, responsabile della mancanza del sentimento sociale e dell'interesse alla trasformazione agraria; essendosi privata del capitale circolante con l'acquisto dei beni ecclesiastici e costretta a ricorrere all'ipoteca e all'usura per far fronte ai pagamenti viveva in condizioni di penuria. Le ristrettezze di questa classe si proiettavano di riflesso sulle classi meno abbiente costrette a ricercare la sussistenza verso altri lidi (21). Il Fortunato esprime la necessità di " uno studio minuto sulle cause e su fenomeni dell'emigrazione che ha bisognoso di essere guidata e ordinata" (22).

Nel programma presentato agli elettori di Melfi (22 MAGGIO 1880) per la sua prima candidatura alla Camera dei Deputati,così prospetta il problema della "questione meridionale" : "...è sempre vero uno degli ultimi sagaci detti dal conte di Cavour, ossia, che armonizzare il nord con il sud della penisola è impresa più difficile che aver da fare con l'Austria e con la Chiesa; perché la nota caratteristica della nuova Italia è sempre quella di un paese di grande povertà naturale, con popolazione soverchiamente abbondante; perché la miseria domina nei ceti rurali, non più rassegnati, non più sommessi alla borghesia, o incosciente o curante solo dell'utile proprio, e il carico delle imposte non equamente ripartito, isterilisce per i meno agiati e le provincie più grame, che son le nostre, ogni fonte di risparmio" (23).

Riprendendo il discorso qualche mese dopo, al II Congresso delle Società Cooperative di Credito, tenutosi a Bologna il 18 ottobre 1880, al quale, per la prima volta, parteciparono due delegati meridionali in rappresentanza della banche mutue popolari di Rionero in Vulture e di Nereto degli Abruzzi , precisò e sottolineò l'esistenza di "due Italie in una": la più popolata era misera e priva di capitali, sconosciuta ai partecipanti del Congresso (24).

La "questione lucana" assurgeva a notorietà di pubblico tramite pubblicazioni su riviste e quotidiani e in sede parlamentare a seguito delle interpellanze di Mango e Ciccotti, e soprattutto di Torraca del 20 giugno 1902 (25), fece sì che il Presidente del Consiglio bresciano Giuseppe Zanardelli, volendo di persona rendersi conto delle così gravi realtà denunziate, decidesse di visitare la regione.

Il problema giunge a chiarezza di coscienza e di definizione, iniziandone la discussione in termini politici e storici, fino a farla riconoscere come la questione massima dello Stato italiano unitario(26).

La questione meridionale deve al Fortunato l'affermazione e la messa in discussione, anche come deputato alla camera dal 1880, di "due verità": quella delle "due Italie" fisicamente diverse e quasi opposte e consequenzialmente diverse nel processo della loro storia; e quella, contrastante in pieno con la leggendaria magnanimità della natura mediterranea culla della Magna Grecia e della sua splendida civiltà, della infelicità produttiva di gran parte del suolo del Mezzogiorno, geologicamente dissestato e climaticamente soggetto a un regime di aridità e di incostanza ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche.

Il Mezzogiorno come fulcro del pensiero politico del Fortunato riceve massima espressione nel libro "La quistione Meridionale e la riforma tributaria", pubblicato nel luglio del 1904 (27). Ribadisce la sproporzione che esiste tra il Nord e il Sud della penisola "nel campo delle attività umane , nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione..." (28).

L'inferiorità del Mezzogiorno è dovuta soprattutto alla sua geografia, un paese che condizioni climatiche, pedologiche e topografiche condannano alla miseria: "La questione meridionale è quella, puramente e semplicemente, di un paese che dalla geografia e dalla storia fu per secoli condannato alla miseria ..." (29). Ai fattori fisici, si aggiungevano ancora cause storiche e politiche: l'Italia meridionale era rimasta organizzata feudalmente, le cause e gli effetti dei fattori naturali si legarono inestricabilmente con le sorti politiche, la grande quantità di imposte abbattutasi sul Sud limitava ulteriormente la produzione." sistema tributario e regime doganale: ecco le due grandi pregiudiziali della questione Meridionale..." (30). Come rimedio alle naturali calamità Fortunato invocava la riforma tributaria, mediante "riduzione di imposte ed aumento del capitale circolante" (31), nella speranza che l'agricoltura, unica fonte di reddito meridionale, potesse tornare allo splendore del passato risolvendo il problema della miseria che non scaturiva dall'assenza di una equa distribuzione ma da una deficiente produzione della ricchezza; la miseria scaturiva dall' impossibilità di ripartire quello che non c'era (32). Allo stato egli chiedeva soltanto una politica di giustizia e di onestà che correggesse la condizione di sperequazione tributaria stabilitasi dopo l'unificazione tra il Nord, in prevalenza industrializzato, e il Sud esclusivamente e miseramente agricolo (33); chiedeva la revisione dei patti di economia protezionistica ricadenti in ultimo a totale discapito della classe contadina meridionale: "Tutti gli elementi della vita economica sono appena sufficienti nel mezzogiorno a contrastare il trionfo della morte" (34).

Rende atto che da ciò derivano le ragioni vere dell'emigrazione transoceanica: "Se non ci fosse l'America, se i nostri contadini non le chiedessero pane e lavoro, che sarebbe di noi? E se un giorno cessasse cotesto benefico flusso emigratorio...?"(35).

Solo dopo aver risolto il problema tributario lo stato avrebbe potuto cimentarsi con la soluzione dei singoli problemi che articolavano e complicavano la questione meridionale: sistemazioni idrogeologiche, malaria, viabilità, specialmente ferroviaria. Ma la soluzione a questi problemi non poteva scaturire da "le cosi dette leggi speciali di favore, goffe raffazzonature, le quali hanno solo un'attenuante, che è quella di essere ineseguibili, meno che nello sperpero..."(36).

Il problema dell'emigrazione riceve un posto di grande rilievo nella letteratura meridionalistica.

Sulle pagine della Rassegna settimanale appare un interessante contributo di G. Fortunato: "L'emigrazione e le classi dirigenti" a difesa dell'emigrazione e in risposta contraddittoria alle tesi pronunciate dall'onorevole Antonibon nella seduta della Camera del 12 febbraio 1879. Scrive Fortunato: "L'on. Antonibon deplora il 'morbo morale' dell'emigrazione , ma non risulta chiaro dal suo discorso quali siano gli elementi che determinano in essa il carattere morboso...lamenta questa 'diserzione' per la quale i contadini 'abbandonando le campagne improvvisamente, il paese perde braccia e capitali fruttiferi, si rompono i patti colonici, si stralciano i debiti con i proprietari, e, peggio ancora, la svogliatezza nel lavoro e la insubordinazione si manifestano in tutti i paesi dove si è infiltrata questa febbre'. Dall'altro lato egli si duole nel vedere che i contadini 'emigrano e non conoscono in che condizione si troveranno, poiché credono alle promesse degli agenti di emigrazione e chiudono l'occhio ad ogni osservazione di chi li invita sulla via di riflettere e di sapere che fanno' " (37).

Da queste parole si evincono, secondo Fortunato, le vere ragioni che sostengono le tesi contro l'emigrazione: la conservazione di particolari interessi di classe. L'abbandono delle campagne, la rottura dei patti colonici, l'introduzione nelle campagne dell'insubordinazione e della svogliatezza, in sintesi: la rottura degli equilibri di sfruttamento medioevale, sostenuti a proprio abuso e vantaggio dai proprietari terrieri e avallati dalla classe dirigente. Fortunato non può fare a meno di far notare che l'emigrazione non può in nessun caso essere attribuita all'ingenuità dei contadini "tratti in inganno" dall'operato degli agenti di navigazione e quanto meno dall'ingordigia di guadagni e di altri bisogni fittizi indotti. Causa dell'emigrazione è la povertà: le condizioni di estrema miseria in cui si trovano relegati i contadini. Ed è proprio questa analisi attenta e la considerazione di alcuni principi giuridici ed etici connessi alla libertà individuale nonché gli effetti positivi che l'emigrazione esplicherebbe, che motiva Fortunato a ritenere che l'intervento dello Stato debba essere di guida, di sostegno e di orientamento (38). Oltre che come antidoto alla povertà che caratterizzava la vita di quelle "popolazioni ignoranti, sofferenti e rinchiuse entro i confini di una patria ingrata" (39) e quale prospettiva di riscatto sociale per migliaia di contadini che lasciavano la loro terra, l'emigrazione andava difesa per i suoi effetti positivi sulla nazione nel suo complesso, sulle singole province e sulla popolazione che restava.

I contadini che restavano traevano vantaggio dall'emigrazione per via degli aumenti dei salari determinati dalla carenza di manodopera e dalla minore concorrenza .

Gli effetti positivi per la nazione nel suo complesso e per le singole province andavano individuati nelle ingenti rimesse economiche e nelle relazioni commerciali che si andavano a stabilire con i paesi di destinazione, a ciò andava aggiunto la funzione di ammortizzatore sociale che l'emigrazione svolgeva nel contenere e limitare i rischi di sommosse sociali ed il relativo risparmio per investimenti devoluti al ripristino dell'ordine pubblico.

La concezione del Fortunato a proposito dell'emigrazione viene sintetizzata e rimarcata da una sua esplicita formulazione: "l'emigrazione ci ha purgati della vergognosa piaga del brigantaggio... e, in tutti i casi, un male, direi quasi provvidenziale, se esso ci libera, com'è innegabile, da guai anche maggiori." (40).

La reazione politica all'emigrazione, in un primo momento si orienta verso la tolleranza, concependo l'emigrazione un surrogato della carità pubblica e uno strumento per liberarsi della zavorra sociale. L'implicita "via libera" data dalla classe dirigente italiana a una emigrazione di massa fu innanzitutto una operazione di immediato risparmio economico (41).

Se G. Fortunato per amore della sua terra natia fu il primo ad esprimere la volontà di rinnovamento morale e civile di quelle regioni, un altro lucano né seguì le orme Francesco Saverio Nitti.

Suo maggior merito, riconosciutogli dallo stesso Fortunato, nel volume "La quistione agraria e riforma tributaria" fu quello di aver demolito la leggenda secondo cui il Sud pagava poche imposte e conteneva grandi ricchezze. Dimostrò, tra le altre cose, che la Basilicata aveva più espropriati per debiti di imposte che tutta l'Italia del Nord e quella centrale (42). La concezione del Nitti a proposito della questione meridionale fu di grande importanza prima ancora che per il contenuto delle soluzioni da lui auspicate, per il metodo con cui affrontò unitariamente i problemi del Mezzogiorno come aspetti particolari, ma collegati, del grande problema dello sviluppo economico e della trasformazione industriale dell'intera nazione. La sua indagine valuta condizioni obiettive e realistiche della società, e la questione sociale assurge a nucleo del paradosso dei dislivelli economici nazionali.

Con i suoi scritti dimostra che l'arretratezza del Mezzogiorno, non dipende da mali antichi scaturenti dal secolare intreccio di condizioni geografiche avverse , come affermava il Fortunato, ma è direttamente correlata ai fenomeni economici e finanziari sviluppatesi con il processo di Unificazione (43). Nel volume Nord e Sud (1900) Nitti svolge un esame attento del bilancio dello Stato italiano degli anni successivi all'unità. La sua oggettiva concretezza gli fece intuire che la soluzione dei problemi nazionali era da ricercarsi nella prospettiva di una politica economica fondata sul principio di una migliore distribuzione del reddito nazionale.

Proclamava che l'esistenza del povero era di per sé l'insidia al ricco e non per ragioni morali bensì politiche.

Egli era fermamente convinto che non si potessero fondare le condizioni di grande sviluppo dell'economia nazionale se il Mezzogiorno non diveniva parte attiva di sviluppo. La questione meridionale veniva percepita come causa ed effetto del mancato sviluppo dell'Italia intera.

Egli sosteneva che la trasformazione economica del Nord non era dovuta a particolari meriti, ma frutto e conseguenza di condizioni storiche e geografiche: vi era maggiore cultura e vi era la pratica del governo rappresentativo.

Egli aveva accertato che al momento dell'unione l'Italia meridionale aveva tutti gli elementi per trasformarsi: possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, ciò che le mancava era ogni educazione politica; ciò che bisognava fare era educare le classi medie e formare, soprattutto, l'ambiente politico. Era necessario ricostruire il territorio, fermando il flagello della frana rifacendo il bosco, utilizzare le acque. Ma, soprattutto educare l'uomo del Sud poiché alla sua incoscienza dei suoi stessi mali, è dovuto anche in parte, l'abbandono del Mezzogiorno; bisognava formare la coscienza collettiva, eliminare quanto di antisociale persisteva, non per innata retrività ma per colpa della miseria, dell'isolamento, dell'oscurantismo in cui queste popolazioni sono state forzatamente immerse (44). Con le sue analisi statistiche riuscì a dimostrare che quasi tutte le Regioni meridionali , in proporzione alla loro ricchezza, pagavano più tasse delle Regioni Settentrionali e ricevevano meno in termini di sussidi e aiuti statali

Il suo Meridionalismo non era una battaglia contro la povertà delle province del sud, ma per la ricchezza di tutto il paese, per l'equilibrio dei fattori produttivi, per la maggiore produttività della stessa agricoltura meridionale.

Anche per Nitti il problema meridionale era un problema nazionale, egli sosteneva che la politica italiana non poteva rinnovarsi fino a quando l'atteggiamento del governo verso il Mezzogiorno non sarebbe stato diverso.

La stessa legge per la Basilicata era l'effetto di una improvvisazione e soprattutto di una scarsa conoscenza dei problemi della regione; egli era dell'avviso che non si potessero fare delle leggi speciali per una parte della popolazione, ma si dovevano modificare le leggi generali in guisa da eliminare le ingiustizie più gravi e limitare le cause presenti di depressione nel Mezzogiorno.

Nitti intravide nella scoperta dell'elettricità la soluzione del problema della miseria italiana. I terreni scoscesi, accidentati e le frequenti cadute di acqua erano proprio ciò che occorreva per creare ingenti forze idrauliche. L'energia delle acque, apportatrice di morte e rovina si sarebbe trasformata in energia elettrica trasformando l'Italia in un grande paese industrializzato. Ecco cosa lo Stato avrebbe dovuto compiere per sollevare le sorti del Mezzogiorno: sfruttare le sue risorse idriche per creare grandi centrali elettriche. Il problema delle acque, univa, condizionandoli, i vari problemi delle bonifiche, della malaria, dei rimboschimenti, della sistemazione dei fiumi e torrenti: perseguendo una politica per la produzione dell'energia idroelettrica, tutti gli altri problemi sarebbero venuti meno e si sarebbero create le basi all'industrializzazione del Mezzogiorno, facendo tornare le regioni interessate allo splendore di un tempo.

Non più quindi, una visione fatalisticamente pessimista, ma quella di uno Stato propulsore, attivo teso a mutare il volto del Sud.

La questione meridionale secondo Nitti non si risolveva solo ed esclusivamente risolvendo una questione economica di carattere generale, ma anche e soprattutto facendola diventare una questione di educazione e di morale. La questione meridionale si sarebbe risolta "cambiando i meridionali".

Nitti auspicava che il nostro paese si trasformasse da esportatore di uomini, in esportatore di merci; che esso diventasse cioè un grande paese industriale (45).

Nel 1888 dedica un libro a G. Fortunato dal titolo emblematico: "L'emigrazione italiana e i suoi avversari"; avvalendosi delle considerazioni sull'argomento già evidenziate dal Fortunato (46), Nitti si dichiara favorevole all'emigrazione e passa in rassegna, confutandole, le maggiori considerazioni dei cosiddetti avversari.

Il libro assume una valenza politica attestandosi come contrapposizione sia al disegno di legge speciale sull'emigrazione presentato il 15 dic. 1887 dal Presidente del Consiglio, nonché Ministro dell'Interno, on. Crispi e sia alle argomentazioni sfavorevoli all'emigrazione sostenute da Carpi, Florenzano, Ferrara ed altri secondo le quali l'emigrazione avrebbe comportato effetti negativi e sarebbe sorta per cause fittizie alimentate dagli agenti di navigazione.

L'intervento di Nitti confutava principalmente l'art. 5 del disegno di legge presentato da Crispi che appariva una aperta violazione alla libertà individuale concedendo al Ministero dell'Interno, quando riteneva esagerata l'emigrazione di una provincia, di non concedere licenze agli agenti, e, vietando gli arruolamenti, sotto qualunque pretesto, arrestare l'emigrazione.

Egli ritiene che gli effetti negativi che erano stati attribuiti all'emigrazione non trovavano alcun riscontro nella realtà, la negatività scaturiva da analisi del problema non adeguate e ispirate da idee preconcette poste a difesa di specifici interessi di classe, e ciò era confermato anche dalla demagogia che veniva impiegata ricercando le cause del fenomeno emigratorio (47).

Le istanze demografiche circa lo spopolamento del territorio, quelle economiche circa l'abbandono e la svalutazione dei terreni, quelle umanitarie circa le cattive condizioni degli emigranti all'estero, quelle giuridiche circa i disegni legislativi europei, vengono prese in considerazione per essere sistematicamente smentite alla luce di dati reali.

Nitti dimostra che i timori legati allo spopolamento erano del tutto infondati in quanto in Italia vi era un alto tasso di fecondità ed un basso tasso di mortalità. Questi due fattori in concomitanza al rientro di molti emigranti avrebbero concorso a garantire l'equilibrio demografico.

Quanto poi ai danni economici, all'aumento dei salari e alla svalutazione dei terreni, Nitti dichiarava che nessuna documentazione o atteggiamento reale rilevava questa situazione.

In riferimento alla constatazione che l'emigrazione non riusciva di fatto a migliorare la condizione degli emigranti che spesso erano costretti a vivere all'estero gravi situazioni di marginalità economica e sociale, Nitti faceva notare che ciò poteva essere accaduto negli Stati Uniti dove vi era la grande concorrenza degli emigrati irlandesi, inglesi e tedeschi, ma non era così per gli italiani emigrati nell'America del Sud o in altri territori dove la concorrenza lavorativa era minore.

Contrariamente a quanto veniva affermato o supposto riguardo alla legislazione delle maggiori regioni europee, Nitti faceva notare che tale legislazione era favorevole all'emigrazione e perfettamente aderente ai principi giuridici, politici ed etici connessi con la libertà individuale.

Alla ricerca delle cause dell'emigrazione e per confutare le idee preesistenti, Nitti esplicita la sua concezione causale ascrivendo lo stato della situazione alle condizioni economiche, politiche, al rapporto tra le classi, all'assetto ed alla distribuzione fondiaria.

Ed è proprio agli interessi dei proprietari terrieri che va attribuita, secondo Nitti, in sintonia con le conclusioni di Fortunato, la lotta politica compiuta contro l'emigrazione.

Egli vede nell'emigrazione una "una potente valvola di sicurezza contro gli odi di classe"(48).

Secondo Nitti l'emigrazione non è altro che una reazione dei contadini all'azione di sfruttamento e alle condizioni di generale e diffusa precarietà. Una reazione spontanea, non indotta dagli agenti di navigazione , ma piuttosto provocata e stimolata dal persistere di rapporti di dipendenza personale all'insegna del feudalesimo. Una reazione inevitabile e inderogabile: "per molte province dell'Italia meridionale l'emigrazione è una necessità, che viene dal modo come la proprietà è distribuita...volerla sopprimere o limitare... è atto ingiusto e crudele...perché dove grande è la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate dalla fortuna, è legge triste e fatale: o emigrati o briganti" (49).

Nitti afferma che l'emigrazione italiana dopo una flessione avutasi negli anni dal 1860 al 1867, dato che dimostrerebbe che il brigantaggio attirò, in questo periodo di massima espansione, molti di coloro che sarebbero stati costretti a sopravvivere lasciando la patria con l'emigrazione, aumentò rapidamente e notevolmente dopo la repressione del brigantaggio.

Vietare l'emigrazione sarebbe stato un'attribuzione di colpa verso lo Stato, una testimonianza di insensibilità, un'assumersi la responsabilità e farsi carico delle condizioni esasperanti della miseria dilagante e della reazione violenta della popolazione, prevedibile e sanguinaria: il brigantaggio. E' questa la formulazione più espressiva ed efficace del Nitti a proposito dell'emigrazione. "O emigranti o briganti", è la sintesi di tutta la sua concezione sull'argomento: l'emigrazione non può essere impedita perchè ad essa l'unica alternativa di sopravvivenza è il brigantaggio, essa è "una necessità ineluttabile" e per arginare la situazione poco proficue risultano le azioni di bonifica del territorio per ampliare i fondi coltivabili, i programmi di modernizzazione per aumentare la produttività dell'agricoltura che procedono in maniera lenta e non sono opere brevi, "e intanto la nostra popolazione cresce e il disequilibrio aumenta....la sola , la grande valvola di sicurezza è l'emigrazione"(50).

Le concezioni e le prese di posizione argomentate in "L'emigrazione italiana e i suoi avversari" furono riprese e sostanziate dalle ricerche sul campo svolte per l'"Inchiesta parlamentare del 1907 sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia". Nitti fu il relatore per la Basilicata e la Calabria ed ebbe modo di proporre l'alleanza del grande capitale del Nord con i disoccupati del Mezzogiorno.

L'Inchiesta testimonia il dispiegarsi di un nuovo interesse per il Sud. L'acquisita documentazione tramite l'intervista diretta con contadini proprietari e amministratori consente a Nitti di approfondire e allargare il tema dell'emigrazione.

"In queste provincie l'emigrazione è il fenomeno che sovrasta tutti gli altri: Non vi sono che poche leghe, non vi sono scioperi, non vi sono forme di lotta industriale. Chi è scontento, se può, va in America; se non si rassegna a soffrire" (51).

Nitti non può fare a meno di notare che il contesto sociale del Mezzogiorno era diviso tra la grande miseria dei braccianti, costretti perciò ad abbandonare il proprio paese, e il parassitismo redditiero delle classi dirigenti, il quale diventa il bersaglio polemico che permette di considerare l'emigrazione un bene, poiché essa, benché causata dalla miseria, rappresentava un fattore di trasformazione e di miglioramento delle condizioni di vita testimonianza dello spirito di intraprendenza all'insegna della diffusione della civiltà, seppure tra grandi sofferenze (52).

L'agricoltura del Mezzogiorno necessita del sostanziale intervento dello Stato per accrescerne la produttività: rimboschimento, lotta alla malaria, nuova politica tributaria, ricostruzione dei demani comunali e istruzione pubblica, ma in attesa dell'auspicato intervento dello stato è intervenuta spontaneamente una causa modificatrice: l' emigrazione (53).

Le modifiche più importanti erano rappresentate dalla diminuzione della manodopera disponibile con conseguente diminuzione della disoccupazione e crescita dei salari con consequenziale miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, il ribasso dei canoni di fitto delle terre, l'agevolazione delle trasformazioni agricole con la decurtazione delle rendite della proprietà non coltivatrice, l'abbandono delle terre meno fertili e meno accessibili e la formazione, dovuta all'investimento dei "capitali americani", di una piccola proprietà contadina. Queste cause modificatrici compensavano i mali, i pericoli e i travagli dell'emigrazione .

Già il 21 novembre del 1896 parlando a Portici sulla "Nuova fase dell'emigrazione italiana" Nitti riferiva che da più parti l'emigrazione italiana era considerata una perdita nazionale, ed economisti facevano complicati calcoli per determinare la perdita di capitale, in termini di persone, subita dal Paese a causa dell'emigrazione.

Ma Nitti faceva notare l'emigrazione non solo non è un male " è una necessità ineluttabile... è una scuola potente, è l'unica, la grande salvezza di un paese privo di risorse e ferace di uomini... Questi milioni d'ignoti, che solcavano e solcano l'oceano infido, hanno tracciato le vie dell'avvenire." (54).

L'emigrazione percepita per molti anni come causa di debolezza dev'essere orientata e diretta per lo sviluppo nazionale (55).

Il governo ha considerato l'emigrazione dal punto di vista della pubblica sicurezza, ma ha trascurato l'aspetto economico e sociale dell'emigrazione, i mali denunciati e verificati "sono un nulla di fronte al grandissimo bene che n'è venuto alla Nazione" (56). Alla domanda se l'emigrazione dev'essere ostacolata fa notare che la maggioranza degli intervistati ha espresso un parere negativo. Fermo nella sua convinzione che la ricerca empirica avvicinasse alla verità e che i giudizi scaturiscono dai fatti , afferma: " Il mondo è libero, diceva il povero contadino di Lagonegro. Ed è la libertà che, determinando questo immane esodo di uomini è stata insieme ragione di duro tormento e di profonda rinnovazione" (57).



Concorde con gli studi divulgati dal Nitti sull'emigrazione, per taluni aspetti, è l'argomentazione di Ettore Ciccotti, primo deputato socialista del Mezzogiorno, che espresse le sue considerazioni in "L'Emigrazione" (1912).

Percepita come un fenomeno "centrale della vita meridionale"(58) l'emigrazione, vista da Ciccotti, appare come "sciopero immenso, colossale..." (59).

Ciccotti parlava di ".piccoli artigiani e contadini soprattutto, i quali, per sentimento proprio e nella considerazione altrui, si ritenevano quasi legati alla gleba e che non concepivano, si può dire, un orizzonte più largo di quello delimitato e chiuso dai monti onde era circoscritto il proprio Comune; improvvisamente...si son dati a varcare il mare ignoto, verso paesi ignoti, senza una visione, comunque concreta, di ciò che potessero o dovessero fare." (60).

Nell'esame dell'emigrazione tende a focalizzare la sua attenzione sulla condizione dei contadini: "...a spingerli verso quell'ignoto, avevano concorso, insieme, la scarsa produttività del suolo... le ricorrenti crisi agrarie, i sistemi tributari gravi pel peso...gli intollerabili sistemi amministrativi...compenetrati di usi ed abusi feudali; la malaria, e forse anche l'inconsapevole spirito d'imitazione e di attrazione..."(61).

L'emigrazione appare un fenomeno sociale che accanto ai suoi lati sfavorevoli, rappresentati principalmente dal fatto che il paese d'origine non si libera solo delle forze eccedenti l'esubero della forza lavoro, ma con l'emigrazione viene privato delle energie migliori suscettibili di essere impiegate in patria, testimonianza ne sono "le lunghe distese di campi incolti e abbandonati" (62).

Per quanto riguarda l'effetto economico Ciccotti riconosceva all'emigrazione un effetto positivo in quanto canale finanziario che diveniva strumento di lotta all'usura, e degli effetti negativi in quanto il rialzo dei salari e il conseguente miglioramento di vita limita "l'impulso e la forza a quella reazione contro l'ambiente arretrato che più di tutto potrebbero costringerlo a rinnovarsi"(63); le stesse decantate rimesse, sulle quali viene fatto affidamento per lo sviluppo produttivo "non servono in buona parte che ad alimentare le donne, i minorenni, i vecchi, tutti gli elementi improduttivi della famiglia rimasti in Italia e resi inattivi dall'assenza del capo famiglia; o vanno semplicemente a ingrossare quel fondo delle casse di risparmio postali" (64).

Altri effetti negativi venivano identificati nelle deplorevoli condizioni di vita degli emigranti nei paesi esteri, condizioni che compromettevano irreversibilmente il decoro nazionale; le loro condizioni di vita li posizionavano nelle stato inferiore della popolazione, esercitando i lavori più umili e faticosi (65). Gli emigrati si recavano nei paesi esteri con attitudini professionali tali da non permettere di svolgere ruoli prestigiosi e remunerativi, così restavano collocati in status marginali che non permettevano l'integrazione sociale e di conseguenza il miglioramento degli atteggiamenti civili e culturali dovuti al contatto con una società industrializzata e ricca (66). Malgrado la presenza di questi aspetti compromettenti del decoro nazionale, dei quali è mancata al governo la presa coscienza e di conseguenza non adeguata è stata l'azione legislativa, lo Stato non deve vietare l'emigrazione ma deve far sì che "questa emigrazione si realizzi come un fenomeno fisiologico e non patologico; riversandosi all'estero quando non trovasse un impiego utile in patria o quando lo trovasse più utile" (67). Lo Stato non deve vietare l'emigrazione ma deve propendere per la sua limitazione, favorendo in Patria l'elevazione del tenore di vita tramite lo sviluppo della produzione e il progresso civile stimolato dall'istruzione generale e tecnica.

Purtroppo lo scarso interesse delle classi dirigenti e dello Stato fanno restare l'emigrazione "uno sforzo puramente impulsivo, disordinato, puramente individuale, con cui il popolo più umile...abbandonato a sé stesso ha cercato -sotto forma di adattamento divergente- un rimedio" (68). Nonostante le degenerazioni negative del fenomeno, lo Stato, a parere di Ciccotti non aveva il diritto di negare l'emigrazione, ma semmai, in concordanza a quanto affermava Nitti, il dovere di sostenere ed orientare gli emigranti.

La polemica sull'emigrazione che aveva assunto in Nitti toni particolarmente drammatici, proprio per l'assenza di posizioni pietistiche e per il suo stringato realismo, la sua discussione esplicata attraverso studi che si avvalsero dell'analisi dei fatti e furono elaborati alla luce dei dati economici partendo da premesse acquisite nel corso della polemica post-unitaria, proiettandole nel contesto unitario dello Stato italiano e riproponendole su un quadro organico dello sviluppo economico, sociale e civile del Paese: il produttivismo (69) immerso in una struttura di mercato liberale, costituì la base e il sostegno concettuale di molta parte delle analisi sull'emigrazione. Concezione che diventa un vero e proprio elemento ideologico caratterizzante e riceve continuità e sviluppo nella rivista "La Basilicata nel mondo", fondata e diretta da Giovanni Riviello e ispirata al pensiero dello statista lucano. I riferimenti a Nitti soprattutto nel primo numero sono ricorrenti.

"La Basilicata nel mondo" pubblicata (dal 1924 al 1927) in un periodo storico di transizione fra il declino della democrazia e l'ascesa del regime fascista, offriva una determinante documentazione dei rapporti fra gli emigranti lucani e l'America che li ospitava.

Nacque come tentativo di diffondere una identità regionale produttiva: il lavoro dei lucani all'estero, specie negli Stati Uniti d'America. Vengono riportati, a volte quasi mitizzati, il protagonismo di imprenditori, di finanzieri, artigiani e braccianti, le significative vicende americane degli imprenditori edili e dei banchieri lucani; valorizzando la loro intelligenza, la tenacia, la perseveranza, rimaste o riuscite improduttive nella loro terra nativa povera e inospitale. Contrapponeva all'immagine dei lucani emigranti poveri ed incolti, una immagine che evidenziava e metteva in risalto la capacità imprenditoriale (70).

L'emigrazione è considerata ricerca di benessere economico, ma un benessere individuale che poco influisce nella determinazione del benessere sociale e territoriale della Regione d'emigrazione ed è quasi dannosa per lo sviluppo sociale, non consentendo il mutamento che scaturisce dalla rivendicazione di condizioni di vita migliori che con la contestazione portano alla demolizione di strutture lavorative preesistenti e alla conseguente istituzione di rapporti nuovi, i quali richiedendo l'adeguamento lavorativo alle nuove situazioni crea la coscienza del rispetto dei propri diritti (71).

Il fulcro della rivista era costituito dalla vita degli emigranti lucani nelle Americhe: il mondo che lavorava, produceva e teneva alta l'immagine della Regione all'estero. G. Riviello tese a fare della rivista l'organo di questa emigrazione, divulgando interessi e idealità di quella emigrazione, contro le frequenti ed esasperate denigrazioni che gli emigrati erano costretti a subire dalle teoriche demagogie del tempo. Precisa che il movimento emigratorio si può distinguere in due fasi: nella prima fase emigrano contadini analfabeti con una gran forza di volontà e disponibilità al lavoro, ma incapaci di adattarsi alla civiltà e all'industria americana; nella seconda fase si distinguono persone capaci di adattarsi all'ambiente di ricezione e professionalmente preparate che con la loro genialità e il loro spirito d'iniziativa danno un contributo proficuo al decoro Regionale e al paese che li ospita (72). G. Riviello attraverso i suoi articoli cerca le motivazioni che spingono i lucani ad emigrare, dalle sue considerazioni emerge che l'emigrazione non è giustificata da condizioni di miseria esasperata e tantomeno da ragioni demografiche essendo il territorio a bassa densità di abitanti (73), ognuno avrebbe potuto trovare il modo di sostenersi in patria, ma l'aspirazione a migliorare le proprie condizioni di vita e lo spirito d'imitazione sospingeva schiere sempre più numerose verso le Americhe, divenendo una necessità di vita: " è necessario emigrare per conquistare l'agiatezza o la ricchezza" (74).

Dopo tre anni di pubblicazioni, le considerazioni sull'emigrazione del direttore della rivista dimostravano che l'ispirazione nittiana, presente alla fondazione della rivista, si andavano dissolvendo.

"La Basilicata nel mondo" cessò le sue pubblicazioni nel 1927.

L'epoca delle denunce dei meridionalisti: dalle "Lettere Meridionali" di P. Villari, alle pagine di G. Fortunato, di F.S. Nitti, di E. Ciccotti, offrono della Basilicata un quadro storico che si profila con chiarezza delineando sempre maggiore consapevolezza delle reali condizioni del Mezzogiorno ed approda in pieno neorealismo e dopo la II° guerra mondiale, al "Cristo si e' fermato ad Eboli" di C. Levi. Un libro pubblicato nel 1945, ma riferito al periodo di confino in Basilicata (1935-1936).

Levi raccontando l'esperienza del suo relazionarsi con un civiltà diversa, "altra" rispetto alla sua: quella dei contadini del Mezzogiorno, sembra voler suggerire la chiave dei problemi economici, politici e sociali del Meridione.

Descrive con appassionato interesse il volgere della vita, suggellata da una deprimente e inumana miseria, nei paesi Lucani in cui è confinato: Grassano e Gagliano.

Osserva che la vita politica non riesce a trovare spazio, si fa ogni giorno più lontana, cade in oblio dinanzi alle esigenze della sussistenza, sempre più difficile a soddisfare date le estreme condizioni di povertà e le distanze con lo Stato e dallo Stato si fanno sempre più grandi e incolmabili, lo Stato viene percepito come un male inevitabile e ad esso si reagisce con rassegnazione e soprattutto con incomprensione visto che lo stato si esprime con provvedimenti non confacenti e poco utili al miglioramento della vita dei contadini (75).

Sentito e profondo è il problema dell'emigrazione: "Gagliano ha milleduecento abitanti, in America ci sono duemila gaglianesi. Grassano ne ha cinquemila e numero quasi uguale di grassanesi sono negli Stati Uniti. In paese ci restano molte più donne che uomini" (76).

Gravosi sono gli effetti dell'emigrazione in termini di destrutturazione sociale e di riflessi sulla morale: ".Gli uomini mancano e il paese appartiene alle donne. Una buona parte delle spose hanno il marito in America. Quello scrive il primo anno, scrive anche il secondo, poi non se ne sa più nulla, forse si fa un'altra famiglia laggiù, certo scompare per sempre e non torna più. La moglie lo aspetta il primo anno, lo aspetta il secondo, poi si presenta un'occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli sono illegittimi: l'autorità delle madri è sovrana" (77).

La speranza del riscatto e d'integrazione sociale è rappresentata dall'America: "L'altro mondo è l'America.Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una" (78).

Levi riferisce che i contadini giunti in America continuano a fare vita grama per risparmiare la maggior quantità di danaro possibile, poi spinti dalla nostalgia di rivedere parenti e amici rientrano in Patria col proposito di soffermarsi poco, ma spesso si presenta l'occasione di acquisto di un pezzo di terra, e la prospettiva di cambiare status li spinge ad acquistare il terreno, fermarsi e sposarsi nel paese natio. L'investimento porta via tutti i risparmi, la terra produce pochissimo e le tasse sono esose e così in breve tempo si ritorna nelle misere condizioni degli anni precedenti alla partenza. Con la miseria torna l'atavica rassegnazione amareggiata dal rimpianto di un paradiso perduto: ".questi americani non si distinguono più in nulla da tutti gli altri contadini.Gagliano è piena di questi emigranti ritornati: il giorno del ritorno è considerato da loro tutti un giorno di disgrazia" (79). Scarso è il progresso portato dall'emigrazione in questi luoghi e la civiltà contadina resta immobile nei suoi retaggi di povertà assoluta, ma la rivolta è latente e temibile ne è la ferocia prevista: "La civiltà contadina è una civiltà senza Stato e senza esercito.sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà.Il brigantaggio, guerra contadina ne è la prova e quello del secolo scorso non sarà l'ultimo." (80).

Le leggi speciali, le opere pubbliche, le bonifiche non avevano risolto il problema Meridionale; lo scritto di Levi, ispirato dal diretto contatto con la miseria più profonda, denunciava in tutta la sua nudità la parte dolente di un'Italia ancora immersa nell'ingiustizia sociale e sottoposta all'indifferenza politica.

Il fascismo, attraverso i discorsi del Duce, aveva esaltato il primato della Lucania ma gli interventi pratici non avevano contribuito a modificarne le reali condizioni di esasperata miseria:" La Lucania ha un primato che la mette alla testa di tutte le regioni italiane: il primato della fecondità, la quale è la giustificazione demografica e quindi storica dell'Impero. I popoli dalle culle vuote non possono conquistare un Impero. Hanno diritto all'Impero i popoli fecondi , quelli che hanno l'orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra. I problemi che interessano la vostra terra sono già conosciuti. Si è fin troppo scritto e poco operato. Molto si è fatto durante questi 15 anni, ma la realtà vuole che si aggiunga che moltissimo resta ancora da fare e sarà fatto" (81).

La guerra d'Etiopia rese di trascurabile importanza il problema del Mezzogiorno, e le sue condizioni restarono immutate.

Ma Levi propone una soluzione: "Il problema meridionale si risolverà. se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno. ma soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento"(82).

La civiltà contadina descritta da Levi evidenziava e poneva in risalto una condizione contadina la cui storia convergeva in una situazione di disperata miseria, identificata, attraverso la Questione Meridionale, nelle formulazioni di marginalità scaturite dall'isolamento, dalla malaria, dalla fame, dalla lunga permanenza in condizioni di miseria.

Il libro di Levi diviene espressione di un meridionalismo in cui la Basilicata sembrava simbolizzare la nozione di Mezzogiorno arretrato e diveniva, quindi, metafora dell'intero Mezzogiorno.

I dati demografici registrati ne facevano, in un certo senso, la Regione "tipica" del Mezzogiorno: essa aveva un'alta percentuale di popolazione occupata in agricoltura ed era profondamente interessata, tra il 1871 ed il 1936, alle ondate emigratorie, l'emigrazione assorbiva un'alta percentuale di popolazione e nonostante gli elevati tassi di natalità interi paesi si spopolavano.

Il "Cristo si è fermato ad Eboli" esprimeva all'opinione pubblica la reticente immagine di una realtà che risultava essere un'interferenza non funzionale allo sviluppo nazionale e tendeva a risvegliare energie latenti che non si rassegnavano ad essere consegnate ad un fatalismo non gradito: il determinismo geografico.

Si prendeva coscienza dell'azione che doveva rendere attori non spettatori delle proprie condizioni. Era una presa coscienza che stimolava all'azione sostenuta dalle inchieste e dagli studi che nonostante la loro prodigalità nel denunciare e annunciare soluzioni poco avevano contribuito a risolvere il problema.

Le proposte dei meridionalisti e le esigenze di giustizia sociale delle masse popolari furono infatti a lungo impedite dalle condizioni politiche prevalse durante il fascismo. Anche se fu in questo periodo che avanzava l'ipotesi di un intervento per la Bonifica e per il risanamento delle zone incolte e malariche, quasi a voler realizzare i vecchi programmi di ispirazione fortunatiana e nittiana e a voler riconoscere il persistere dei mali individuati e denunciati dai primi studiosi della questione meridionale.

NOTE


EMIGRAZIONE E QUESTIONE MERIDIONALE.


(1)". Un popolo libero è un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo. colla quale si sono mutati il governo e l'amministrazione. Le spese sono ad un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari.Molte amputazioni abbiamo fatto col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue.Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni."

P. VILLARI, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze 1878. In: R. VILLARI (a cura di) Il sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale. Vol. I, Ediz. Laterza, Bari 1975, pagg. 110,111.


(2) Ivi, pag. 114.


(3)".Oggi il contadino che va a morire nell'Agro Romano, o che che soffre la fame nel suo paese, e il povero che vegeta nei tuguri di Napoli, possono dire a noi ed a voi: dopo l'Unità e la libertà d'Italia non avete più scampo; o voi riuscite a rendere noi civili, o noi riusciremo a rendere barbari voi. E noi uomini del Mezzogiorno abbiamo il diritto di dire a quelli dell'Italia superiore e centrale: la vostra e la nostra indifferenza sarebbero del pari immorali e colpevoli" Ivi, pag. 117.


(4)" .Insomma, sotto qualunque forma, il contadino deve in generale dare tutto il lavoro che comporta la sua forza fisica e il genere di coltura del terreno, e riceve in cambio lo stretto necessario per vivere il peggio che sia possibile, in un paese dove la vita materiale , poco comoda per tutte le classi a cagione della mancanza di civiltà e di commercio, è ridotta, per le classi inferiori, a tutte le privazioni compatibili col durare dell'esistenza.Vi è una cosa che parifica la condizione di tutti i contadini proletari, ed è l'usura. Una fatalità pesa sulla loro esistenza, e fa si che, qualunque somma guadagnino, la guadagnano troppo tardi, hanno già dovuto, in un momento di bisogno, farsene imprestare una spesso molto minore, ed il loro guadagno non basta o basta appena a restituire il capitale e l'interesse".

L. FRANCHETTI, Viaggio in Basilicata, collana La Basilicata nella storia d'Italia, Calice editore, Rionero in Vulture (PZ), 1996, pagg. 37 e 43.


(5)"... Il contadini ha di fronte al proprietario la sottomissione assoluta, l'abiettezza del servo... e fa si che si perpetuino i costumi dei tempi feudali" Ivi, pag. 45


(6) Ivi, pag. 58


(7) Ivi, pag. 59


(8) Ivi, pag. 64


(9)" ...L'emigrazione è un bene pei contadini e per l'universo... I mezzi, in terra e in capitale, di accrescere la produzione e di migliorare la distribuzione della ricchezza ci sono, l'emigrazione, per mezzo del rincarimento della manodopera, deve servire a costringere questi mezzi ad operare ciò di che sono capaci... Il governo avrebbe dunque ogni interesse... a non impedire l'emigrazione e a circondarla di tutte le garanzie possibili contro gli abusi e le frodi. Ciononostante, il governo, per ragioni che è difficile apprezzare o combattere, giacché non le espone al pubblico, dà istruzione ai suoi agenti di frapporre tutti gli impedimenti possibili all'emigrazione; si cercano tutti i mezzi possibili per poter rifiutare i passaporti agli emigranti" Ivi, pag. 70


(10)E. SORI, L'emigrazione italiana dall'unità alla seconda guerra mondiale, ed. Il Mulino, Bologna 1979, pagg. 255, 256.

(11) P. VILLARI (a cura di), Il sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale, Vol. I, Ediz. Laterza, Bari 1961, pag. 173.


(12) L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, 1875


(13)"... Vorrei che molti, e per conto dello Stato e per conto proprio, le girassero, le visitassero, le studiassero; che nascesse un movimento nell'opinione pubblica a loro riguardo; che si discutessero per tutta l'Italia coi fatti alla mano le loro condizioni e i rimedi che vi si possono applicare... Le province Napoletane andrebbero curate con quella sollecitudine, con quella tenere preferenza che ha la madre per il figlio rachitico e malaticcio... Noi invece abbiamo trattato quelle provincie come ragazzi forti e ben costituiti. Colle tasse abbiamo preso quel poco che avevano, ed in ciò abbiamo agito giustamente giacché si faceva altrettando per le altre, ma le abbiamo lasciate a se stesse e poi le abbiamo trattate male perché non sapevano camminare da sé".

L. FRANCHETTI, Viaggio in Basilicata, collana La Basilicata nella storia d'Italia, Calice Editore, Rionero in Vulture (PZ) 1996, pagg. 106 -107.


(14) L.PILOTTI, l'Ufficio di informazioni e protezione dell'emigrazione italiana di Ellis Island, Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale dell'emigrazione e degli Affari Sociali, Archivio Storico Diplomatico, Istituto Poligrafico e zecca dello Stato, Roma 1993, pag.22.


(15)"... ora noi siamo invece profondamente convinti che, perché i mali delle varie Regioni d'Italia possano curarsi, è assolutamente indispensabile che vengano prima ben conosciuti e dalle Regioni che ne sono rispettivamente afflitte e dall'Italia intera...è sommamente vantaggioso al paese che i risultati di queste indagini vengano pubblicati... Crediamo dunque che nell'interesse dell'Italia non tocchi ai ricercatori di fermarsi nelle indagini... ma alle persone ben disposte delle Provincie Meridionali di fare ogni sforzo per sottrarsi alla prepotente influenza dell'ambiente..."

SALANDRA, La questione sociale in Italia , dalla " Rassegna settimanale" 22 sett. 1879, in: R. VILLARI (a cura di), il Sud nella storia d'Italia. Antologia della Questione Meridionale, Vol I, Laterza, Bari 1961, pagg. 142,143


(16) S. SONNINO, L'Emigrazione e le classi dirigenti , in R. VILLARI (a cura di) , Il Sud nella storia d'Italia, . Antologia della Questione Meridionale, Vol I, Laterza, Bari, 1961, pag. 179


(17)"...L'emigrazione in certi casi è una soluzione plausibile d'una difficoltà sociale. Quando sopra una determinata superficie , un complesso di cause antiche e recenti ha avuto per effetto di agglomerare una popolazione numericamente affatto sproporzionata alle risorse del paese, è inevitabile che una parte di questa popolazione sia ridotta alla miseria...l'emigrazione di una parte della popolazione in contrade spopolate e ricche di risorse... è una legge di natura. A siffatta legge contrastano due pregiudizi molto divulgativi. Il primo è quello di coloro che reputano l'emigrazione in massima come una calamità nazionale perché priva la patria delle braccia di molti suoi figli... Il secondo pregiudizio è quello d'esagerare il rispetto della libertà individuale , fino al punto di negare allo stato ogni ingerenza nella scelta della meta e del modo di trasferirvisi ai propri cittadini... Se tutti gli emigranti fossero colti e sufficientemente agiati , un tale scrupolo si potrebbe comprendere ; ma, quando invece essi sono sprovvisti di istruzione e di educazione , e sono spinti fuori di paese dalla fame , quello scrupolo degenera in egoismo dottrinario imperdonabile, sotto l'influenza del quale ebbe luogo appunto quella deplorevole emigrazione italiana in Brasile... Non è dunque l'emigrazione per se stessa che lo Stato deve proporsi di impedire ... Ciò che spetta allo Stato si è di disciplinarla. "

S. JACINI, I risultati della inchiesta agraria (1884 La situazione dell'agricoltura e dei contadini italiani dopo l'Unità, collana Piccola Biblioteca Einaudi Testi, Einaudi. Torino 1976, pagg.133,134,135


(18) G. FORTUNATO, Corrispondenze Napoletane, Edizioni Brenner, Cosenza 1990, " La emigrazione delle campagne" - Sala Consilina 22 sett. 1879 - pag. 47.


(19) "La causa prima del fatto può essere indagata in una ragione o, per meglio dire, in un complesso di ragioni d'indole economica" Ivi, pag. 44.


(20) " L'esodo dei contadini non ha né limiti né misura.... Dal primo gennaio al trentuno agosto sono emigrati 1555 lavoratori, per nove decimi contadini...In media più di 6 persone al giorno, tutte fornite di regolare passaporto: E dire che, nell'ufficio della Sotto prefettura, si ha motivo di credere, che un altro migliaio, almeno è andato via clandestinamente nel breve spazio di 8 mesi! ... Com'è facile vedere, il caso... merita la pubblica attenzione." Ivi, pagg 42, 44.


(21) "...La borghesia, cioè l'unica classe dominante... da essa appunto provengono i guai maggiori che hanno afflitto i nostri contadini; da essa hanno origine la gravezza dei patti agrari, il socialismo a rovescio nelle imposte comunali... da essa insomma i soprusi e le angherie... Il meglio loro i nostri possidenti riposero nell'acquisto dei beni ecclesiastici, per i quali non solo si privarono di risparmi precedenti, ma si obbligarono contemporaneamente per molte e gravose rate annuali da realizzarsi con le entrate delle vecchie proprietà e col frutto delle nuove... per far fronte ai pagamenti promessi, ricorrere all'usura e all'ipoteca. Così le strettezze della borghesia servirono, anch'esse, ad accrescere il movimento, già cominciato nel 1865 dell'emigrazione del circondario per i lontani lidi degli Stati uniti e dell'America meridionale" Ivi pag. 46.


(22) Ivi, pag. 47.


(23) G. FORTUNATO, Galantuomini e cafoni prima e dopo l'Unità, Scritti scelti a cura e con introduzione di G. CINGARI, Casa del libro, Reggio Calabria, 1982, pag. 37


(24) "Ci son , senza dubbio due Italie in una; ma quella di essa che numera nove milioni di napoletani e tre di siciliani , è un ennima, un mistero per voi ...è una guerra acerba quella che si combatte laggiù , per l'esistenza: la nostra società stessa, sconvolta per tanti secoli ,non ancora e stabilmente assestata; essa è ancora all'inizio della sua formazione, con tutte le violenze - mal celate dalle forme di un epoca civile - delle società primitive; con tutto l'urto irresistibile - per quanto sordo e latente - delle passioni irrefrenate. E una sorte comune adegua tutti, proprietari e proletari, borghesi e contadini, galantuomini e cafoni: l'assoluta mancanza di capitali, nel vero senso della parola, assoluta fino né minuti risparmi dell'azienda domestica de' meno disagiati... Laggiù quasi non è, non può essere ancora, questione di ripartizione della ricchezza: male si può ripartire ciò che non ancora è stato prodotto " Ivi, pagg. 38, 39, 40.


(25) Il deputato Michele Torraca così parlò, il 20 giugno 1902, alla Camera dei deputati: ".Sicchè la mia è una provincia che rimarra una landa deserta; un provincia per la quale non è una frase dire che si spegne. Se torrenti e fiumi, devastando e infestando, producono la miseria, la miseria produce l'emigrazione, e l'emigrazione raddoppia la miseria; e l'imposta poi la triplica e la quadruplica" cit. in D. D'ANGELLA, Storia della Basilicata, vol. II. Ed. E. Liantonio, Matera 1983, pag. 668.


(26) "Giolitti il 1° dicembre del 1903, presentando alla Camera il nuovo Ministero, annoverava fra i problemi , che maggiormente incombono su la vita del paese, e primo fra essi la riforma tributaria, uno, che non soltanto e di necessità pubblica, ma di dovere nazionale: quello di rialzare le condizioni economiche del Mezzogiorno, La questione meridionale veniva quel giorno ufficialmente riconosciuta". G. FORTUNATO, Che cosa è la Questione Meridionale?, collana piccola biblioteca meridionalista, Calice editori, Rionero in Vulture (PZ) 1993, pag. 44.


(27) ripubblicato con un titolo ricavato dalla sua prima riga: G. FORTUNATO, Che cosa è la questione meridionale?, collana piccola biblioteca meridionalista, Calice editori, Rionero in Vulture (PZ) 1993.


(28) Ivi, pag. 11


(29) Ivi, pag. 23.


(30) Ivi, pag. 37.


(31) Ivi, pag. 94.


(32)"... Laggiù quasi non è, non può essere ancora, questione di ripartizione della ricchezza: male si può ripartire ciò che non ancora è stato prodotto."

G. FORTUNATO, Galantuomini e cafoni prima e dopo l'Unità, Scritti scelti a cura e con introduzione di G. CINGARI, Casa del libro, Reggio Calabria 1982, pag. 40.


(33) " Perché un punto non è più dubbio, dopo le sicure analisi e i minuti raffronti della grande indagine statistica, compiuta da Nitti: il Mezzogiorno, comparativamente alla sua ricchezza, sopporta un onere tributario assai maggiore di quello che grava l'alta e la media Italia" G. FORTUNATO, Che cosa è la questione meridionale?, collana piccola biblioteca meridionalista, Calice editori, Rionero in Vulture (PZ) 1993, pag. 59.

(34) Ivi pag. 66.


(35) Ivi pag. 67.


(36) Ivi pag. 92 .


(37) G. FORTUNATO , L'emigrazione e le classi dirigenti, in: R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale, Vol I, Laterza, Bari 1961, pag. 174.


(38) Scrive: "Se si tratta degli interessi dei proprietari l'emigrazione dovrà impedirsi; se di quello dei contadini, dovrà essere diretta ed aiutata" Ivi pag. 175.


(39) Ivi, pag. 179.


(40) G. FORTUNATO, Il mezzogiorno e lo Stato Italiano, Discorsi politici (1880-1910) Vol. II, Laterza, Bari 1911. - Senato del regno, tornata del 30 giugno 1909, nella discussione generale del bilancio del Ministero degli affari esteri per l'esercizio finanziario 1909-10.- pagg. 501, 504.


(41) "...Al bilancio dello Stato l'emigrazione costava poco in termini di strutture amministrative e assistenza ed il costi gravavano sul "fondo emigrazione " costituito dai prelievi sull'importo del passaggio in nave degli emigranti. Quasi nullo fu lo sforzo del governo per seguire con strutture consolari la mutevole geografia dell'emigrazione italiana e, forse, qualche cosa di più costò il rimpatrio a spese dello Stato di quei disperati che si incagliavano senza denaro in qualche luogo dell'Europa e dell'America meridionale... e si cercò di scaricare l'onere o sul "fondo emigrazione" o sulle società di beneficenza costituite presso le comunità italiane all'estero..."

E. SORI, L'emigrazione italiana dall'unità alla seconda guerra mondiale, ed. Il Mulino, Bologna 1979, pag. 120


(42) " Vi sono regioni che quasi non conoscono le espropriazioni e altre che ne vedono ogni giorno in grandissimo numero: La Basilicata, che per popolazione rappresenta appena il ventunesimo dell'Italia settentrionale, ha da sola un numero di espropriati tre volte superiore"

F.S. NITTI, Nord e Sud, collana Piccola Biblioteca Meridionalista, Calice editore, Rionero in Vulture (PZ) 1993, pag. 109.


(43) "Per quarant'anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord: Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale: E il Mezzogiorno...ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per l'industria del Nord" F.S. NITTI, Scritti sulla Questione Meridionale, Edizione Nazionale delle Opere, Vol. I, Laterza, Bari 1968, pag. 138.


(44) Napoli diviene la città esemplificativa della condizione denunciata: "Napoli... La grande città, la capitale politica di un regno, o la capitale storica e intellettuale di una regione, è l'anima stessa della vita di ogni collettività ...Dopo il 1860, perduta la corte, perduta la numerosissima amministrazione centrale dei Borboni, non rimaneva a Napoli che trasformarsi in un paese industriale. Ma mancava l'educazione... Mancò soprattutto la possibilità. Le imposte, mitissime sotto i Borboni, vennero alcune raddoppiate, altre triplicate improvvisamente; molte vennero aggiunte. La vendita tumultuosa dei beni demaniali ed ecclesiastici sottrasse da una parte la moneta, dall'altra determinò il trasferimento di quantità notevole di ricchezza dal Sud al Nord... Più tardi non pochi governi considerarono il Mezzogiorno, che non aveva ancora formato la sua educazione alla vita liberale, come un paese adatto a formare maggioranze ministeriali: dopo il 1876 fu dato... in preda alle clientele elettorali che bisognava combattere... Donde invece di venire un miglioramento nell'amministrazione, venne quella condizione di cose che a tutti è nota e che impedisce ogni sviluppo di vita industriale. Le tariffe del 1887, diminuendo la potenza di consumo di tutto il Mezzogiorno, fecero il resto" Ivi, pagg. 111, 112 .


(45) ".Per la Basilicata e la Calabria sono all'incirca un milione di ettari da espropriare e rimboschire, basterebbe iscrivere in bilancio una spesa di venti milioni ogni anno. Quale afflusso di vita nuova! I proprietari riceverebbero capitale circolante... prepareremmo una grande impresa finanziaria, poi che in definitiva lo stato farebbe un ottimo affare. Si tratta di una trasformazione di capitali...Noi dobbiamo preparare il grande Demanio dello Stato, delle acque e dei boschi, che ci renderà più facile lo sviluppo industriale".

F.S. NITTI, Discorso alla Camera dei Deputati del 28 giugno 1908, in: Scritti sulla questione Meridionale, Edizione Nazionale delle Opere, Vol. IV Tomo I., Laterza, Bari, 1968 pag. 20


(46)"Secondo ciò che il Fortunato nelle sue bellissime 'Corrispondenze napoletane' alla 'Rassegna settimanale' , e il Franchetti nel suo capolavoro sulle 'Condizioni economiche ed amministrative dell'Italia Meridionale' han dimostrato, tutti o quasi tutti gli emigranti, quando tornano in patria, ritornano provvisti di una certa agiatezza, mentre erano partiti miserabili, e, tranne per pochi possidenti il risultato dell'emigrazione non è esiziale"

F.S. NITTI, Scritti sulla questione meridionale, Edizione Nazionale delle Opere vol. I, editori Laterza, Bari 1968, pag. 364.

(47) "Gli avversari dell'emigrazione mostrano , come ho detto, una così grande ignoranza dei fatti sociali, una conoscenza così incompleta della vita italiana e della vita delle campagne, da poter credere che una semplice retoricata a sangue freddo possa far breccia nell'animo di una persona, che forse la sola emigrazione salva dal diventare un malfattore .entrate nei paesi dove grande è l'emigrazione, girate un po' quei tristi villaggi di Basilicata, della Calabria, del Salernitano, dove famiglie intere emigrano dopo lunghe lotte per raccogliere le poche centinaia di lire necessarie al viaggio, e parlate di Patria a quei disgraziati, che la fame costringe ad abbandonare il proprio paesello."

Ivi, pag. 365.


(48) Ivi, pag. 382.

anche in F. S. NITTI La nuova fase della emigrazione d'italia, discorso pronunziato per l'inagurazione solenne delll'anno accademico nella R. Scuola superiore di agricoltura in Portici il 21 nov.1896, premiato stabilimento Tip. Vesuviano, Napoli 1897, pag. 6


(49) F.S. NITTI Scritti sulla questione meridionale, Edizione Nazionale delle Opere vol. I, editori Laterza, Bari 1968, pag. 364.


(50) Ivi, pag. 381.


(51) F.S. NITTI (Relazione di), Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini delle Provincie Meridionali e della Sicilia, vol. V, Basilicata e Calabria, tomo I, Tipografia G: Bertero, Roma 1910 , pag. 87.


(52) Un contadino di Monteleone " I contadini se ne vanno in America perché qui non si può campare... i padroni sarebbero buoni, ma sono anch'essi disperati: trattano i contadini come cani" Ivi, pag.90

Un proprietario di Nicastro " La gente non pensa che di andare in America... Ho portato i salari fino a 3 lire, eppure la manodopera manca.." Ivi, pag.92.


(53)" Bisogna riconoscere che l'emigrazione ha agito assai più rapidamente e profondamente di qualsiasi riforma legale. L'emigrazione ha fatto sparire gran numero di coloro che un tempo accettavano i patti angarici , ha indebolito e modificato questi patti a favore di quelli che sono rimasti in patria, trasferendo ricchezza dal proprietario al coltivatore non già a credito ma in proprietà; essa ha infine cominciato a far rifluire quel capitale circolante che rappresentava la prima condizione di fatto per la moderazione del tasso d'interesse" Ivi, pag. 151.


(54) F. S. NITTI, La nuova fase della emigrazione d'Italia, discorso pronunziato per l'inaugurazione solenne dell'anno accademico nella R. Scuola superiore di agricoltura in Portici il 21 nov.1896, premiato stabilimento Tip. Vesuviano, Napoli 1897, pag. 6


(55)" Avvertito il danno della scomposizione demografica, ed il vantaggio della capitalizzazione monetaria, è derivato negli ultimi anno un movimento di attenzione pubblica da parte dello Stato...Ora è innegabile che l'emigrazione, se si saprà intenderla ed utilizzarla, costituirà il più possente fattore di rinnovamento interno, e di più saldi rapporti internazionali con quei paesi verso cui si avviano in massa gli italiani"

F.S. NITTI (Relazione di), Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini delle Provincie Meridionali e della Sicilia, vol. V, Basilicata e Calabria, tomo I, Tipografia G: Bertero, Roma 1910, pag. 200.


(56) F.S. NITTI Scritti sulla questione meridionale, Edizione Nazionale delle Opere, Vol. I, Laterza, Bari 1968, pag. 383.

(57) Ivi, pag. 206.


(58) E. CICCOTTI, L'emigrazione, in:S. M. ROMANO (a cura di), Storia della Questione Meridionale, Pantea. Palermo 1945, pag. 292.


(59) Ivi, pag. 293.


(60) Ivi, pag. 291.


(61) Ivi, pagg. 291, 292.


(62) Ivi, pag. 293.


(63) Ivi pag. 293.


(64) Ivi, pag. 294.


(65)"lavori.che spesso deprimono e avviliscono chi li esercita...e la posizione quasi servile degli emigrati, surrogati in molta parte agli antichi schiavi, si riflette, come una caratteristica d'inferiorità, sul paese d'origine" Ivi, pagg. 294, 295.


(66) "non poter esercitare che il mestiere dello spazzino, del lustrascarpe, del terrazziere, del rivenditore ambulante: E quando tornano in patria, dopo avere, a furia di sforzi deprimenti, tesaurizzate le loro economie spinte fino all'inverosimile,... si trovano di non essersi nulla assimilato dell'ambiente superiore ove sono vissuti.. restano poi in uno stato di disagio..." Ivi, pag. 296.


(67) Ivi ,pag. 296.


(68) Ivi, pag. 297.


(69)" Per l'Italia meridionale, e soprattutto per la Calabria e la Basilicata, il problema più importante è aumentare la produzione" F.S. NITTI Scritti sulla questione meridionale, Edizione Nazionale delle Opere, Vol. I, editori Laterza, Bari 1968, pag 212.


(70) "Riteniamo doveroso dare risalto ed illustrare quei nostri uomini che, nello sforzo tenace della volontà e del lavoro, della rettitudine e della costanza, sono riusciti a formarsi all'Estero posizioni sociali ed economiche di prim'ordine. Preghiamo costoro di mandarci le loro fotografie... deve dare a tutti l'esempio e la dimostrazione di quello che possano il lavoro, la volontà e lo spirito d'iniziativa della gente lucana"

La redazione, Anno I - N° 3-4, Nov. Dic. 1924, pag. 252 in: LA BASILICATA NEL MONDO, Rivista regionale illustrata, annate 1924-1925-1926-1927. Ristampa anastatica in 4 volumi. Editrice BMG, Matera 1984.



(71) "Lo spostamento demografico, che si compendia nel fenomeno dell'emigrazione, non è che spostamento di lavoro... è semplicemente una massa di lavoro che si sposta sotto il predominante impulso - cosciente o non cosciente - del tornaconto economico... Occorre rilevare che da parecchie decine di anni la facilità di emigrare ha impedito... che i lavoratori esasperati...divenissero turbolenti e insofferenti, fino ad assumere aspetti tempestosi di ribellione... Forse da questo punto di vista, l'emigrazione ha influito negativamente rispetto allo sviluppo sociale del Mezzogiorno; perché avendo in parte eliminato le cause di un dissidio che sarebbe sorto, sotto la specie di interesse economico, nell'animo del lavoratore meridionale, ha impedito che in questi penetrasse la coscienza dei propri diritti nazionali, fino a farsi artefici... della rinascita del Mezzogiorno"

E. LATRONICO, Riflessi sociali delle restrizioni migratorie ,anno II, N° 7, Nov- dic. 1925, pag. 389 in: LA BASILICATA NEL MONDO, Rivista regionale illustrata, annate 1924-1925-1926-1927. Ristampa anastatica in 4 volumi. Editrice BMG, Matera 1984


(72) G. RIVIELLO, Le colonie Basilicatesi negli Stati Uniti D'America, Anno III, Sett.1926, N° 4, pagg. 217 -220 in: LA BASILICATA NEL MONDO, Rivista regionale illustrata, annate 1924-1925-1926-1927. Ristampa anastatica in 4 volumi. Editrice BMG, Matera 1984.


(73) "... se tutti si contentassero di vivere del pane dell'oggi, quasi tutta la nostra gente, che emigra, potrebbe vivere in patria , aiutandosi con l'esercizio del mestiere e con le piccole rendite rurali... Miseria vera, insomma, in Basilicata quasi generalmente non v'è..." G. RIVIELLO, Aspetti generali della nostra emigrazione , Anno III,Ott.1926, N° 5, pag. 321 in: LA BASILICATA NEL MONDO, Rivista regionale illustrata, annate 1924-1925-1926-1927. Ristampa anastatica in 4 volumi. Editrice BMG, Matera 1984.


(74) "...L'ansia del divenire continuo della vita ha preso, quasi inconsapevolmente, l'anima più profonda del nostro popolo... Avevano prima sentito dire di un paese lontano... poi qualcuno di essi lo aveva veduto. Era andato, era tornato: aveva comprato case e terreni, e viveva una vita diversa da quella di prima. Faceva il proprietario e il signore. Sulla testimonianza, sulla fede, sull'esempio dei pochi, che furono i primi, i molti presero, volta a volta, la propria determinazione di emigrare" Ivi, pag. 321.


(75) ".( i contadini) non erano fascisti, come non sarebbero stati liberali o socialisti o che so io , perché queste faccende non li riguardano , appartengono a un altro mondo, e non avevano senso. Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque, sono "quelli di Roma". C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili . Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza! Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché stà sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire."

C. LEVI, Cristo si è fermato ad Eboli, Mondadori, Cles (TN) 1976, pag. 71.


(76) Ivi, pagg. 91, 92.


(77) Ivi, pag. 91.


(78) Ivi, pag. 108.


(79) Ivi, pag. 109.


(80) Ivi, pagg. 122, 209.


(81) discorso pronunziato da Mussolini a Potenza il 27 agosto 1936 in: R. VILLARI (a cura di) , Il Sud nella storia d'Italia. Antologia della questione meridionale, Vol. II, Laterza, Bari 1961, pag. 612.

(82) C. LEVI, Cristo si è fermato ad Eboli, Mondadori, Cles (TN) 1976, pag. 210.

CARLO LEVI E LA QUESTIONE MERIDIONALE

Formazione e giovinezza

Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell'autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.

Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo  Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso   l'ordine nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell'ex capitale subalpina negli anni venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell'industria meccanica e automobilistica.

Puntarono, insomma, su  Piero Gobetti come un riferimento Levi e  i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia,  sia agraria che urbana,  che  secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere.

"Dovremo diventare una generazione di storici" scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto  una controrivoluzione preventiva rispetto  a una rivoluzione  proletaria che non ci fu.

In un articolo  apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti , nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione  liberale e dedicato ai "Torinesi di Carlo Felice", possiamo verificare .il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società  anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà.

O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti che riguarda la figura dell'ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua  mentalità conservatrice, l'assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini.

Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente   nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino "Voci di officina " che esce  nel 1930 e nei "Quaderni di G. e L." pubblicati a Parigi da Carlo  Rosselli  che il giovane medico- pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell'Italia e dell'Europa.

In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità  di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall'altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento.

C'è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di  Giustizia e Libertà  che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l'oppressione fascista. 

Tra il 1939 e il 1940, durante la fase ambigua della sospensione della guerra , prima della grande avanzata nazista in Occidente, Carlo Levi scrive un saggio di grande impegno e originalità intitolato PAURA DELLA LIBERTA' pubblicato da Einaudi nel 1945 e ristampato l'anno scorso negli "Scritti politici" a cura di David Bidussa sempre editi da Einaudi che a me pare decisivo per capire la maturazione politica del torinese e gli scritti del periodo successivo tra cui è centrale il romanzo -saggio CRISTO SI E' FERMATO AD EBOLI uscito nello stesso anno e destinato a un grande e duraturo successo tra i lettori di tutto il mondo.

In " PAURA DELLA LIBERTA'", Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Battaille, dei grandi autori della psicoanalisi Freud e  Jung, interpreta l'oppressione totalitaria degli anni trenta e quaranta come l'espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal  passato dell'uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società.

Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive    pagine di grande lucidità sulle difficoltà  mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva  e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell'espressione.

 Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere.


2. CRISTO e il suo significato

Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura.

Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo,il "CRISTO" segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale .

Soprattutto perché guarda alla società contadina del mezzogiorno , e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista.

Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza.

Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che  non immaginava potesse esistere nell'Italia del Novecento.

Occhi che assomigliano a  quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato.

Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei  politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la  lotta democratica.

Il "CRISTO" è un classico nella  misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori,    anche quelli   non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale.

Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l'opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo .

Egli ha un'altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come  "Le parole sono Pietre" ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi   sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo.

Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell'opera di  Carlo Levi, ed  è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti.

Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche  negli ultimi anni della sua vita la vedrà  sempre di più come il simbolo di  una questione destinata a rimanere tale nell'era della globalizzazione economica e culturale.

Questione meridionale


Con  Questione meridionale,  si definisce nel linguaggio storico-politico, sia le differenze socioeconomiche tra il Sud e il resto d'Italia, sia l'insieme degli studi che hanno messo a fuoco la condizione e i problemi del Mezzogiorno italiano. La questione meridionale ha origine nello svantaggio accumulato dalle regioni del Sud in rapporto a quelle del Centro e del Nord, sottolineato dagli indicatori economici, culturali e civili dello sviluppo. La permanenza nel tempo di un profondo divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno non ha tuttavia impedito che quest'ultimo subisse profonde trasformazioni e recenti modernizzazioni, analoghe a quelle che hanno interessato le altre aree dell'Italia. Ma anche in questo caso gli studiosi parlano di ''Modernizzazione priva di Sviluppo'' priva cioè di un tessuto economico competitivo. Nei fatti significa che in queste regioni trovi tutti gli elementi del consumismo moderno ma poche industrie, con tutte le contraddizione che ciò comporta.

Primi a cogliere i sintomi dell'arretratezza meridionale furono gli illuministi meridionali del XVIII secolo. Fu soprattutto Gaetano Filangieri a indicare nel predominio sociale ed economico del feudalesimo, con la corrispettiva debolezza della forza etica e istituzionale dello Stato, la causa fondamentale del ritardo del Sud, riconoscibile nella diffusione del latifondo scarsamente produttivo, nella miseria delle popolazioni contadine e nella mancanza di un moderno ceto agricolo. Il problema però si pose solo ad unificazione avvenuta anzi per molti osservatori si aggravò. Ricordiamo poi che le Regioni Settentrionali non erano molto più ricche, anzi se confrontate al resto d'Europa le differenze si attenuavano, esitevano indubbiamente degli elementi più dinamici meno Feudali. Insomma il problema nasce con la Unificazione

Questa problematica è da intendere come una questione Nazionale  e non locale, il sostanziale Protezionismo economico cui furono soggetti  gli Agrari meridionali accentuò in modo catastrofico la Questione. Si venne a creare in pratica una alleanza tra Borghesia settentrionale e ceti Agrari del sud. Per cui il Capitalismo Italiano  tra il  19..mo e il 20...mo secolo si presentava con una doppia faccia(Nord moderno e sud Arretrato) ma nazionalmente organica(molti Agrari erano Senatori del Regno di nomina Regia e sempre filo governativi).

Allora come oggi c'erano alcuni osservatori razzisti che attribuivano l'arretratezza del Sud ad una sostanziale inferiorità dei Meridionali, in particolare uno studioso , Nicefaro, parlava di ''Palla al Piede'' riferita al Sud. Ma queste posizioni a livello di studi seri e di spessore non ebbero grande seguito (non così nelle opinione comune corrente)

Tutti i più grandi studiosi Meridionalisti (Fortunato,Salvemini,Villari, Dorso...) indicarono invece in modo diverso nei fattori politici il sottosviluppo del Mezzogiorno, erano tutti studiosi di grande cultura e raffinatezza i primi a condurre delle Inchieste che oggi chiameremo ''Sociologiche'' .

Levi conosceva queste problematiche attraverso la rivista di P.Gobetti ''Rivoluzione Liberale'' che pubblicò il saggio di un grande Meridionalista G.Dorso (La Rivoluzione Meridionale)  ,nel 1922 poi C.Levi pubblica un articolo su questi argomenti in particolare su A.Salandra .

Protezionismo vuol dire che le colture spesso arretrate del Latifondo meridionale venivano protette dalla concorrenza internazionale impedendo ogni innovazione e favorendo così una rendita parassitaria.(Rendita si oppone a Profitto e indica un guadagno spesso privo di ogni produttività e innovazione ).Un poco come se oggi alcune leggi proteggessero nostre produzioni di tipo meccanico arretrate rispetto alla Tecnologia più avanzata.

La questione meridionale emerse compiutamente dopo l'unità d'Italia nell'analisi condotta, a partire dal 1970, da studiosi liberali come Pasquale Villari (Lettere meridionali, 1861), Giustino Fortunato, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti. La denuncia delle origini sociali del problema, insieme alla ricerca delle soluzioni, dimostrarono come non fossero sufficienti gli strumenti approntati dallo Stato unitario, tanto meno quelli meramente repressivi adottati per sconfiggere il brigantaggio. Da queste analisi scaturiva l'appello a interventi positivi che colmassero o almeno riducessero il divario Nord/Sud, frazionando il latifondo e favorendo la piccola proprietà.

Tra il 1874 e il 1876 gran parte dei collegi elettorali del Sud furono conquistati dai candidati della sinistra storica, i quali richiedevano maggiori investimenti pubblici nelle infrastrutture (strade, ferrovie, scuole), ma che, una volta insediatisi nei posti di governo locale e nazionale, non si discostarono dai loro predecessori nella gestione clientelare della cosa pubblica.

Tali pratiche furono stigmatizzate dall'inchiesta sui contadini meridionali che Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti portarono a termine nel 1877 . All'inizio del XX secolo i governi presieduti da Giovanni Giolitti furono i primi ad approvare leggi straordinarie con cui furono finanziati grandi lavori pubblici in Puglia, a Napoli e in Basilicata, ma che tuttavia non si rivelarono efficaci alla prova dei fatti; contemporaneamente, l'emigrazione di milioni di contadini si configurava come la reazione fisiologica alla miseria delle campagne meridionali. La politica giolittiana, basata sulle leggi speciali, sulle agevolazioni pubbliche, sugli sgravi fiscali, inaugurava peraltro una modalità di intervento dello Stato destinata a riprodursi nei decenni a venire, con risultati controversi. Ricordiamo che almeno la prima parte del periodo Giolittiano viene considerata di crescita economica eppure questa modernizzazione conviveva non solo con il Latifondo arretrato meridionale che spesso Giolitti difendeva, ma con processi migratori proprio dalle Regioni del Sud verso gli Stati uniti. E' un esempio storico del mezzogiorno come problema nazionale, tenuto conto che queste regioni erano organicamente ormai da decenni parte della Nazione ma essenzialmente come mercati di consumo per prodotti spesso creati al nord,stesso discorso per le ''Rimesse'' degli Emigranti che rientravano poi nel circuito finanziario nazionale  .

Nel secondo dopoguerra la questione meridionale tornò al centro della discussione parlamentare e della lotta politica. I partiti e le organizzazioni di sinistra guidarono le lotte contadine, particolarmente aspre in Puglia e in Sicilia, che riproponevano l'antico problema della proprietà della terra. Al tempo stesso un gruppo di meridionalisti di formazione laica (Mario Rossi Doria) trovò convergenze con i meridionalisti di formazione cattolica (Pasquale Saraceno), influenzando le scelte governative a nuovi interventi pubblici nel Sud, quali l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 e la riforma agraria, intrapresa nel medesimo anno.

Le leggi di riforma agraria portarono all'esproprio e alla redistribuzione di una vasta estensione di terre (circa 700.000 ettari) che accompagnò e incentivò un più ampio processo di trasferimento di terre a piccoli proprietari contadini.IL Blocco Agrario venne a disgregarsi ( significa che gli Agrari decadono, Blocco sta ad indicare un insieme di Allenze sociali, di gruppi sociali).

Gli Agrari furono spesso sostitutiti da una Borghesia con la stessa cultura, legata alle commesse statali e agli interventi dello stato attraverso la Spesa pubblica (costruzione di strade, infrastrutture...)

Negli anni Sessanta prese slancio la seconda fase della politica di intervento per il Meridione collegata ai governi di centrosinistra, che sfociò nella creazione di diversi poli industriali, come a Napoli (Alfa Sud di Pomigliano), a Taranto (siderurgia), a Gela (petrolchimico) e in alcuni centri della Sardegna.Prive sempre però di un contesto economico moderno generale (Cattedrali nel deserto venivano chiamate queste costruzioni)

Le potenzialità di questi interventi vennero rallentate dalle congiunture internazionali, dalla mancanza di un tessuto industriale diffuso e dall'intreccio tra politica e criminalità organizzata In tempi recenti le problematiche connesse ai ritardi economici delle regioni meridionali ha dato occasione alle rivendicazioni dei movimenti autonomistici e secessionistici del Settentrione che hanno ripreso spesso vecchie tematiche ''alla Niceraro della Palla al piede'' se non addirittura di un sud Antopologicamente inferiore .

L a Questione Meridionale è quasi sparita dall'Agenda politica malgrado esploda periodicamente addirittura con nuovi fenomeni migratori (E.Pugliese).

Bisogna anche dire che l'Insistere nei decenni passati sulle differenze nord sud ha comportato una lettura nella opinione pubblica meno informata anche molti equivoci l'idea che esiste sempre un sud e un nord e che quest'ultimo e avanzato mentre il secondo è ''zoticone'' e parassitario. A parte il fatto che esistono realtà geografiche dove le coordinate  sono invertire  come il caso della Gran Bretagna ove è il Nord un poco più poverello ,almeno storicamente. in Realtà dalla fine degli anni 70 gli studi più avvertiti hanno sottolineato che il territorio italiano da un punto di vista socio- economico non si divide in sud e nord. Troviamo infatti diverse aree economiche come quella Adriatica ad esempio o quella centrale o il Nord-ovest con caratteristiche proprie .Nello stesso Meridione esistono molte differenze tra zone costiere e zone interne. Fermo restando che Storicamente per alcuni aspetti ''La Questione Meridionale '' è un problema non risolto della nostra Storia e in parte rimosso



































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