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Decadentismo ed Estetismo Il Dandy: tra Narcisismo di Vita e Narcisismo di Morte

sociologia
















Decadentismo ed Estetismo



Wilde iniziò il suo giro di conferenze in America parlando del "Rinascimento Inglese"; del testo di tale conferenza non rimangono che poche parti, ma sappiamo che andava predicando una rinascita dell'Inghilterra, rinascita, naturalmente, sotto l'insegna dell'estetismo. Mobilio, arredo, carte e stoffe dovevano armonizzarsi tra loro, creando un tripudio dell'estetica wildeiana (che non era altro che una rivisitazione delle idee di Ruskin e Pater), effetto molto lontano dai pesanti arredi pseudo-barocchi e stupidamente elaborati interni vittoriani. Le conferenze stesse, e tutto quanto seguì, i racconti, il Dorian Gray, le poesie, le pose, tutto era, a dir la verità, improntato su un "anti-vittorianesimo" di fondo. Wilde non sopportava l'ipocrisia e la philistia della classe borghese che non ammetteva di conoscere il vizio, predicava l'ipocrisia e il messaggio morale, presente ovunque nella società dell'epoca, era a dir poco nauseante.
Wilde non lo sapeva (lo avrebbe scoperto molto più tardi), ma il messaggio che lui lanciava in America e poi in Inghilterra come "Rinascimento Inglese", circondarsi di begli oggetti estetizzando così la propria vita, era in realtà lo stesso atteggiamento verso l'arte che in Francia, a Parigi, Joris-Karl Huysmans, Maurice Rollinat, Jean Lorraine, Paul Verlaine, Edmond Goncourt, ed altri ancora definivano malato ma estremamente piacevole. In ordine, gli autori citati espressero la propria adesione al decadentismo con: "Controcorrente" (la vera Bibbia dei decadenti), "Les Névroses", una raccolta di poesie fortemente simili a quelle di Baudelaire, "Modernité" apparso in "Le Chat noir" del 1882 e "Bathylle" sulla stessa rivista, "Art poétique", un trattato sulla poesia in cui Verlaine liquidava tutti i versi non musicali e non sfumati come mera letteratura, "La Faustin" e "Manette Salomon" di Goncourt. Tutti questi poeti, scrittori, critici e dandies sostenevano le medesime cose che Wilde aveva pressappoco espresso durante le sue tournée. Inizialmente Wilde si fece trasportare dal turbinio malato ed incessante dei decadenti, ma presto si risollevò e mutò (di poco, in verità) il suo atteggiamento verso l'estetica, inserendo qua e là del senso pratico, ma rimando pur sempre un decadente, nonostante i suoi sforzi per non apparire tale.
L'atteggiamento del decadente verso la vita è lo stesso che può avere un dandy; al contrario, un decadente, come un esteta, può non essere un dandy, come nel caso di Huysmans che, nonostante tutto il suo predicare l'estetismo, finisce comunque per giudicarlo malvagio e pericoloso; Huysmans si farà cattolico, dopo essere passato dal realismo di Zola, al simbolismo dei decadenti con "Controcorrente" o "A ritroso" (1884), a seconda delle traduzioni italiane del testo. Il personaggio principale, anzi, l'unico personaggio del romanzo, è Des Esseintes, un dandy oppresso dallo spleen, depresso e desideroso di staccarsi completamente e per sempre dalla volgarità che lo circonda. Huysmans non ha però in simpatia il proprio personaggio: ogni capitolo è una parabola di un piacere consumato, per i libri, i profumi, i gioielli o i piaceri sessuali. Des Esseintes predispone la sua villa fuori città come un tempio dell'estetismo, considerando i colori, i quadri e gli arredi come visti al buio, essendo intenzionato a vivere principalmente di notte; dà ordini precisi ai domestici, ai quali raccomanda di non mostrarsi mai a lui, se non in casi strettamente necessari; assume per l'ultima volta uno squadrone di sarti, istruiti sulle sacre leggi del dandismo, incaricati di confezionargli in breve tempo tutto l'elegante guardaroba di cui avrà bisogno. E, finalmente, si chiude in casa. Des Esseintes passa così il tempo diviso tra i ricordi della sua vita passata, tra le sofferenze e i bisogni che una vita di clausura gli impone, a leggere Platone, Orazio, Ovidio, Petronio, Dante, Baudelaire, Poe; ad ammirare i suoi quadri preraffaelliti. I pensieri scorrono tranquilli e rilassati inizialmente, ma si faranno presto malati, spasmodici, da incubo.





Des Esseintes inizierà a soffrire, ad ammalarsi, ma sarà sempre più felice di essersi ritirato per sempre dalla vita rozza e volgare che lo circondava; ma peggiorerà, e rischierà la vita, finché il medico gli ordinerà di tornare immediatamente alla vita cittadina, tra la gente viva e le distrazioni. Des Esseintes, per non morire di spleen, sarà costretto ad accettare.
A metà del maggio del 1884 uscì il romanzo decadente per antonomasia. Whistler si era precipitato l'indomani stesso a congratularsi con Huysmans per il suo "libro meraviglioso"; Bourget, in quel periodo amico intimo di Huysmans come di Wilde, ne rimase affascinato; Paul Valéry lo definì "la sua Bibbia, e tale divenne anche per Oscar Wilde che dichiarò al Morning News: "Questo ultimo libro di Huysmans è uno dei più belli che io abbia mai letto". Lo si recensiva ovunque come la guida del decadentismo. Il suo eroe, Des Esseintes, era dandy, raffinato, erudito, i suoi desideri e i suoi piaceri raffinati oltre qualsiasi esempio; Des Esseintes "aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel secolo decimonono tutte le passioni e i costumi che appartenevano agli altri secoli, e di ria 323g63d ssumere in sè tutte le esasperazioni attraverso le quali era passato lo spirito del mondo, prediligendo per la loro artificiosità le stesse rinunce che gli uomini hanno stoltamente chiamato virtù, oppure le spontanee ribellioni che gli uomini saggi si ostinano a definire peccati". In altre parole, era un libro "velenoso".
Al terribile romanzo di Huysmans si ispirarono numerosi scrittori, e moltissimi altri gli resero omaggio esplicitamente o implicitamente, come nel caso di "Il piacere" di d'Annunzio, o "Il ritratto di Dorian Gray", in cui Lord Henry fa leggere a Dorian un misterioso libro che sconvolge totalmente il protagonista (dice il romanzo di Wilde: "il protagonista del libro, il meraviglioso giovane parigino... divenne per l'immagine simbolica di un precursore. E il libro finì per apparirgli come la storia della sua vita, scritta prima ancora che egli l'avesse vissuta"), convertendolo ancora più a fondo ai dogmi estetico-decadenti che pervadono tutto il romanzo di Oscar Wilde. Tuttavia, l'autore di Dorian Gray non si ispira solo a "Controcorrente", ma tratti caratteristici del libro letto da Dorian Gray riconducono facilmente anche a "Il Rinascimento" di Walter Pater, un'altro testo chiave del dandismo wildeiano.


























Cronologia



E' importante, fin dal principio di questo percorso, essere a conoscenza dei "periodi" del dandismo, puramente ipotetici ma basati sui singoli fatti biografici della vita dei dandies nelle varie epoche storiche, per poter meglio comprenderne i personaggi e le ideologie.

. PERIODO DI BRUMMEL (dalla seconda metà del Settecento, alla prima metà dell'Ottocento)
Questo periodo coincide con l'invenzione e con lo stabilirsi della schiera dei dandy in Inghilterra ad opera di George Bryan Bummel (detto il "Beau"), fino ad allora definiti come cicisbei o, per l'appunto, beaux, che sono i più stretti parenti dei dandies. Qui il dandy convive con la moda neoclassicista, lo "stile Impero" che condizionò dalla pittura alla musica, dalla scultura alla moda, adottando come baluardo la cravatta bianca inamidata e la giubba-frack blu (rigorosamente 'wigh') dai bottoni d'oro; è l'epoca del dandy classico - se così si può dire -: spesso ricco, ma mai ricchissimo, questi non lavora assolutamente, e non è né pittore né musicista, né poeta. Non fa altro che mostrarsi in società ed ostentare il proprio fascinoso senso estetico. Il periodo comprende tuttavia anche Stendhal, Alfred de Vigny, lord Gordon Byron, Eugène Delacroix ed altri ancora: dandies dei quali ci è rimasta una traccia precisa per via delle loro opere. Infatti Barbey d'Aurevilly ne nomina decine d'altri nel suo trattato George Brummel e il dandismo (di cui sotto): membri dell'aristocrazia e della borghesia inglese che potevano permettersi di non essere ricordati se non per la loro sola e stravagante esistenza. In questo periodo Brummel fonda il celebre Club Watier assieme ai dandies lord Byron, lord Alvanley, Mildmay e Pierrepoint, una associazione in cui si riunivano i cultori della buona tavola.

. PERIODO DI BAUDELAIRE (dalla seconda metà dell'Ottocento alla fine dello stesso secolo)
Questo secondo periodo è caratterizzato dalla teorizzazione della filosofia dandistica post-romantica ad opera di Barbey d'Aurevilly e da Charles Baudelaire; dall'Inghilterra, in cui si stava sviluppando un forte movimento antidandy, il dandismo passa il Francia, dove viene lievemente condizionato dal romanticismo. La 'divisa' estetica di Baudelaire affascina i contemporanei, fatta da abiti tutti rigorosamente neri e larghi papillon scuri. Altrettanto scandalizzanti furono i panciotti scarlatti di d'Aurevilly. Il dandismo baudelariano, benché teorizzasse gli stessi principi del dandismo classico di Brummel, si fa più poetico e più impegnato; ora il dandy diventa l'esponente di una cultura dell'apparenza e della diversità che rivela forti connessioni con i movimenti artistici e letterari dell'epoca (simbolismo, post-romanticismo, ...). Baudelaire scrive Il pittore della vita moderna, e d'Aurevilly pubblica George Brummel e il dandismo.

. PERIODO DI WILDE (dalla seconda metà dell'Ottocento ai primi decenni del Novecento)
Il terzo, ipotetico, periodo dandistico (inizialmente contemporaneo al secondo, ma differentemente da questo, più inglese che francese), ha come figura protagonista Oscar Wilde e le sue teorie estetiche o, tra i più recenti, Walter Pater e John Ruskin; notiamo tra i suoi numerosi discepoli l'ironico Max Beerbohm e l'illustratore Aubrey Beardsley. Altrettanto importante è il pittore ed esteta McNeill Whistler, americano, 'nemico' di Wilde ma divulgatore degli stessi principi estetici - ed il suo pupillo, il pittore Walter Sikert. In Francia abbiamo il conte di Montesquiou, Marcel Proust, ed in Italia, altro emulo di Oscar Wilde, Gabriele D'Annunzio, poeta e dongiovanni. Questo è il dandismo della Decadenza, fastoso e piuttosto eccentrico, rivoluzionario nei confronti del potere borghese vittoriano; i temi sono sviluppati particolarmente nei romanzi Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, Controcorrente di J-K. Huysmans, Il Piacere di D'Annunzio. Il dandismo si fonde in questo periodo con l'estetismo; diventa di moda tra i letterati e gli artisti "fare i dandies".


. PERIODO DI COCTEAU (dai primi anni del Novecento agli anni Sessanta circa)
Questo è il periodo al quale numerosi scrittori fanno da riferimento come ultimo periodo dandistico. Dopo gli orrori della guerra, il dandy depone le temporanee armi della fastosità decadente per tornare a più discreti e raffinati abiti. Jean Cocteau, discepolo del conte di Montequiou, scrive romanzi e realizza film e provocatoriamente neoclassici e barocchi che molti critici continuano a definire "di pessimo gusto"; assieme a lui si fanno portavoci del nuovo dandismo Drieu La Rochelle e Jacques Rigaut che teorizzano l'annullamento totale della personalità come intimo traguardo di ogni dandy. Louis Aragon, Jacques Vaché, André Malraux ed altri assieme a loro si fanno portavoce delle nuove avanguardie artistiche, prime fra tutte il dadaismo di Tristan Tzara ed il surrealismo di André Breton. In Italia, Curzio Malaparte, Filippo de Pisis ed altri ancora combattono velatamente coi loro atteggiamenti estetizzanti il fascismo, senza conoscersi l'uno con l'altro. D'Annunzio, ancora in vita, è in un primo tempo un accanito sostenitore di Mussolini, ma perde poi la sua fiducia nel regime quando il duce lo costringe in una specie di esilio sul lago di Garda, dove perirà lasciando una romantica immagine di sè, quale "poeta esiliato". In America si fa strada il dandismo adolescenziale di Francis Scott Fitzgerald, coi romanzi Il grande Gatsby e Al di quà del paradiso, intrisi di quella particolare atmosfera che è tipica degli anni '20: il jazz, le corse in automobile, le feste da ballo notturne. Negli ultimi anni il dandismo vede un certo ritorno al classico color grigio o nero che era stato di Baudelaire, unito sempre più all'invisibilità come accessorio essenziale dell'eleganza. I dandies moderni passano inosservati tra la folla, e, incontrandosi, si riconoscono, e si levano il cappello.

. ETA' MODERNA E CONTEMPORANEA (dagli anni Sessanta fino ad oggi)
Ma le 'manifestazioni' di dandismo non svaniscono negli anni Sessanta. Questo è il periodo di un certo dandismo eccentrico, da spettacolo, portato avanti dallo scrittore Tom Wolfe, americano, e dall'italiano Carmelo Bene, famoso teatrante, fiero e malinconico. E' possibile riconoscere una lieve nota di dandismo nei membri dell'associazione di vieveurs del Cavalleresco Ordine dei Guardiani delle Nove Porte. Oltre ad una non ben precisata schiera di dandy attaccati alla più pura regola del dandismo: l'invisibilità.






















"Eterna superiorità del Dandy. Ma cos'è il Dandy?"

(C. Baudelaire, Scritti intimi)


Il dandy, uomo e letterato, è una figura complessa e molto intrigante. Lo scrittore si propone, con ogni mezzo, di suscitare nel lettore emozioni rare, forti e sconvolgenti. La letteratura estetica si distingue soprattutto in base alla forma: la parola poetica è una rivelazione delle energie interne e ha la funzione di eccitare l'animo del lettore, di accarezzare l'orecchio con la sua musicalità, di comunicare immagini attraverso il suono. Il verso, la rima, la ricercatezza stilistica sono spesso il fine stesso del comporre, che presuppone una sensibilità e un gusto del tutto eccezionali.

E fuori dal comune, superlativo e brillante deve essere l'artista, che anela a raggiungere e a identificarsi con il bello.

L'uso di stupefacenti non è disdegnato: l'alcool e l'oppio sono certamente dei vizi, ma esistono per ragioni estetiche. Il dandy è convinto che il senso della vita non sia nella realtà, ma nell'immaginarla; il sogno è più bello di qualsiasi realtà banale e mediocre, essendo la bellezza non intrinseca all'oggetto, ma all'immagine che ci colpisce e che ci trasmette emozioni. Di qui nasce la ricerca del piacere e la convinzione dell'esteta che la sua salvezza risieda proprio nel vizio.

Egli intraprende una lotta contro la virtù, non quella vera, ma quella che appare tale, che si fa credere e lodare come virtù: combatte il fariseo, l'ipocrita, l'ingiusto che sembra giusto. Non gli resta che contrapporre alla società della falsa virtù il peccato vero, eccezionale, eroico, che s'imponga all'attenzione dei falsi benpensanti e moralisti.

Si possono distinguere due forme diverse di intendere l'estetismo: la vita come piacere e la vita come bellezza. Entrambi richiedono una sensibilità raffinata e molto acuta, ma proprio le sensazioni più complicate sono quelle migliori.

Alla bellezza, per essere tale, è necessario il vizio, il ripugnante, l'orrido. Amare la vita significa renderla unica, perfetta, sovrumana, fino all'esasperazione delle perversioni sadiche che procurano l'estremo e crudele piacere.

Per l'edonista il piacere estetico e quello sensuale sono la realizzazione dell'uomo, ma pochissimi individui sono capaci di raggiungere l'ideale. Esteta non è colui che gode semplicemente delle situazioni della vita, ma chi è in continua ricerca di sensazioni ed esperienze nuove. Egli s'innamora di tutto ciò che passa e non dura, ed è proprio il passare di quel di cui s'innamora che gli garantisce la sua libertà: quando si attacca a qualcosa non vuole compromettersi.

La donna, che tanta parte ha nei suoi pensieri, spesso non è altro che cavia di esperimento, una fonte di piacere mutevole e di sensazioni straordinarie. Quando la sua bellezza è sfiorita, o ha perduto qualcosa, egli procederà ad una sostituzione di persona. Il matrimonio non può essere accettato, in quanto è antiestetico: è un impegno deprecabile che uccide la bellezza e il piacere, un rifugio per i deboli, una condanna al tedio.

Edonista, colto, amorale, insoddisfatto ed egoista: così si presenta l'esteta, che in fin dei conti non fa altro che evadere dalla vita per rifugiarsi in un'inerzia e in un disimpegno dalla politica, dagli affari, dal mondo. È anche questo un modo di protestare contro la società capitalista, industriale e commerciale dell'Ottocento.

Il dandy fugge dal mondo degli affari e delle macchine, della produzione e del denaro, delle lotte politiche e sociali. Egli pertanto se ne disinteressa e se ne sta col suo ideale di arte e di bellezza, per il quale è pronto a sacrificare la vita. A nulla valgono la fede scientifica e gli imperativi della morale, né tanto meno va presa in considerazione l'ipocrisia della religione.

La sua è una nobiltà che spesso trova la sua legittimazione nell'autoconservazione più che nella genealogia, che si manifesta in primo luogo con l'eccentricità nel vestire, nell'atteggiarsi e nello spirito di provocazione, ovvero nel dandysmo.

Tuttavia questo modo di vivere presenta dei limiti: l'incompatibilità del suo modo di sentire e il passare di tutte le cose che catalizzano la sua attenzione proiettano questo tipo umano nella più profonda e irrimediabile solitudine. Il concentrarsi esclusivamente sull'attimo, sul piacere immediato fa si che l'impossibilità di rivivere le situazioni passate si trasformi in un insolubile problema esistenziale. Il dramma dell'esteta sta appunto nell'invecchiare, nel perdere il prestigio e la considerazione conseguiti nella sua tumultuosa e sregolata giovane età.





































Dandy - Narciso



Il dandy è narcisista. Anzi, è Il Narcisista per eccellenza. Diversi aspetti della sua personalità possono, infatti, essere ricondotti, nel bene e nel male, a quella che possiamo definire la patologia narcisistica. Il rapporto con la donna prima di tutto, ma anche l'esagerata cura del proprio aspetto, la malinconia, la solitudine, la rabbia, il sentimento di superiorità e inaccessibilità che lo caratterizzano sono fattori da ricondurre alla malattia da cui è afflitto: il Narcisismo.

Volendo, quindi, esplorare la personalità dell'esteta possiamo far riferimento alla teoria narcisistica di Freud e a quella dello psicanalista A.Green.





Freud: "Introduzione al narcisismo"


"Introduzione la narcisismo" si presenta come un densissimo lavoro scientifico incentrato su un tema squisitamente teorico della psicoanalisi: la libido.

Il termine "libido" indica l'energia corrispondente all'aspetto psichico della pulsione sessuale ed è pertanto distinta dall'eccitazione sessuale puramente somatica.

La libido non esaurisce la dimensione pulsionale dell'individuo: difatti, in una prima fase del pensiero freudiano essa viene distinta dalle pulsioni di autoconservazione e in una seconda fase caduta la suddetta distinzione viene contrapposta alle pulsioni di morte. La libido può investire un oggetto esterno all'individuo, la donna nutrice o l'uomo protettivo ("libido oggettuale") o l'individuo stesso, ciò che egli era o che vorrebbe essere ("libido narcisistica" o dell'Io); quanto più aumenta la libido narcisistica tanto più diminuisce la libido oggettuale e viceversa.

Freud ha rilevato che il narcisismo (ossia, con riferimento al mito di Narciso, l'innamoramento della propria immagine corporea) non è un fenomeno sporadico che si osserva soltanto nella costellazione amorosa degli omosessuali, ma è invece uno stadio evolutivo necessario alla transizione dall'autoerotismo all'amore oggettuale.

La libido è sempre inizialmente narcisistica, nel bambino parliamo di "narcisismo primario" e solo successivamente si trasferisce su oggetti esterni; in molti stati psicotici la libido oggettuale si ripiega interamente sull'Io e in questo caso si parla di "narcisismo secondario".

Così, se da una parte un primitivo narcisismo infantile è ipotizzato come stadio necessario e universale delle vicissitudini libidiche umane, e tale da prefigurare uno dei modi tipici con cui gli uomini sogliono attuare le loro scelte amorose, dall'altra il riapparire  di una collocazione narcisistica della libido in età adulta è visto da Freud come l'indice di una estrema regressione della personalità; è grazie a questa regressione che gli psicotici sono soliti attuare il loro patologico rifiuto delle cose e delle persone del mondo esterno.









A. Green: "Narcisismo di vita Narcisismo di morte"



Secondo la classificazione dello psicanalista Andrè Green, teorizzata nell'opera "Narcisismo di vita Narcisismo di morte", il narcisismo si struttura su tre diversi livelli, applicabili alla figura del dandy:

  • un narcisismo corporeo: il corpo è padrone assoluto, il piacere e la perfezione estetica sono gli unici obiettivi da raggiungere. Il narcisismo corporeo del dandy si traduce nel conferire al proprio corpo l'attenzione con cui si è soliti trattare un oggetto sessuale, compiacendosi cioè di contemplarlo fino a raggiungere il pieno soddisfacimento. Il dandy sottrae la libido dal mondo esterno per dirigerla sul proprio Io dando origine al comportamento narcisistico. Sviluppato fino a questo punto il narcisismo corporeo ha la stessa valenza di una perversione sessuale.
  • un narcisismo intellettuale, che richiama l'illusione del dominio attraverso l'intelletto. E' una forma di autosufficienza e valorizzazione solitaria che, con il dominio e la seduzione intellettuale, il che si traduce nella fede nella virtù magica delle parole, il dandy, infatti, è un abilissimo oratore.
  • un narcisismo morale il cui progetto è di liberarsi dalle vicissitudini del legame all'oggetto appoggiandosi sulla "morale" e di ottenere così, attraverso questo mezzo indiretto, la liberazione dagli obblighi legati al rapporto oggettuale per dare all'Es ed all'Io il modo di farsi amare da un Super-Io esigente e tirannico. Il narcisista morale per essere amato dal Super-Io deve essere puro, senza macchia. In "L'uomo Mosè e la religione monoteistica" Freud scrive: "Quando l'Io offre al Super-io una rinuncia pulsionale si aspetta in compenso di ricevere più amore.". Si tratta dunque di essere solo, di rinunciare al mondo, ai suoi piaceri come alle sue sofferenze (è questo il tentativo di fuga di Des Essaint che si ritira in solitudine). Il narcisista cerca di impoverire sempre di più le sue relazioni oggettuali per portare il suo Io al  minimo vitale oggettuale e condurlo così al suo trionfo. Questo tentativo è però costantemente fatto fallire dalle pulsioni che esigono che la soddisfazione passi per un oggetto, che non è il soggetto.






















Il Culto del Bello


Il dandy non è attratto dal successo fine a se stesso, dal denaro, dal potere. Che cos'è che lo smuove? Cos'è che lo porta a vestire camicie di seta, ad ondularsi i capelli artificialmente, a disprezzare la borghesia come l'aristocrazia, ad amare l'eleganza contro la comodità, il lusso contro il comfort, a trasgredire le regole e nello stesso tempo a rispettarle sempre? La risposta è una sola: la Bellezza. L'intera sua vita è dominata da un sublime desiderio di essere sempre proiettato verso la Bellezza. Le pose innaturali, le ricercatezze, le raffinatezze, gli occasionali snobismi, le illogicità, gli eroismi, le piccole nevrosi e tutto il resto non servono a perseguire altro scopo.
Il dandy insegue una bellezza platonica, esclusivamente contemplabile, rifiutando l'utilitarismo del filisteo e attestando il proprio disinteressato egoismo estetico. E cerca di fare di sè stesso un'opera d'arte, in tutti i sensi. Amore della Bellezza? Non senza sapere che "la voluttà unica e suprema dell'amore riposa nella certezza di fare il male" (Baudelaire). Infatti "Non vi è nulla di sano nel culto della bellezza. Esso è troppo stupendo per essere sano" (Wilde).
Ma intanto, come definiscono i dandies stessi la "bellezza"?
Wilde dà una spiegazione interessante, ironica, e concisa: "La bellezza è tutto ciò che non piace ai borghesi." Qualcun'altro invece generalizza: "E' bello ciò che non piace agli altri." Dalla prima, wildeiana massima, intuiamo il disprezzo del dandy verso quella classe borghese che, fin dai tempi della Rivoluzione francese premeva per avere il potere sull'aristocrazia e il clero. Ora, conoscendo il rapporto che il dandy ha coi religiosi, possiamo ben intuire che il suo disprezzo per i borghesi s'è acuito ancor di più, quando la borghesia ha deciso di tenere la Chiesa sul suo piedistallo, sbattendo invece giù la nobiltà colta e estetizzante dal suo, per farci salire la grettezza, il farisaismo, lo sciocco puritanesimo, l'amore per i soldi e l'ipocrisia della classe borghese. Nonostante poi Baudelaire abbia avuto una importante parte nei moti rivoluzionari della post-restaurazione nel 1848, si placherà quasi subito, capendo che le rivoluzioni non sono mai servite a nulla, e, anzi, scriverà che il solo governo che funzioni è quello di tipo monarchico (ma da qui vi mando alla pagina sulla politica).
La seconda massima è facilmente applicabile al dandismo d'oggi, in quanto consiste nel praticare ancora un certo tipo di atteggiamenti e nell'utilizzare un certo vestiario non più alla moda, sorpassati; non trendy, non casual, non pratici, non comodi, e quindi, per tutte queste cose, giudicati dalla massa o brutti o, come anche ieri, esagerati. Ma è ovvio: l'atteggiamento del dandy, il suo stile nel vestire, è certamente "esagerato". Lo dicevano i borghesi romantici a Baudelaire, lo dicevano i vittoriani a Wilde... negativamente. Le ideologie che controllano completamente una persona ne condizionano tutti i gusti, tutte le opinioni.
"Poichè l'arte è fatta per la vita, e non la vita per l'arte" sentenzia ancora Wilde. La Bellezza si veste allora con le ricche o ascetiche vesti dell'Arte, per avvolgersi e ricoprirsene completamente. I dandies diventano così amanti del lusso (che non va confuso col comfort); chi più sfrenatamente, alla D'Annunzio, con la sua villa sulle rive del lago di Garda straripante di ammennicoli preziosi e meno, porcellane cinesi, mobili antichi, quintali di argenteria, una ragguardevole quadreria, e giardini immensi, ricolmi di rose d'ogni specie; l'insorgere della società di massa costringe il dandy del XX secolo a interiorizzare sempre di più la sua eleganza.

Secondo gli ultimi esteti e l'intenzione del dandismo moderno è "la realizzazione dei massimi risultati con i mezzi meno bizzarri"; e, al suo occhiello oramai spoglio, la gardenia sfavilla per la sua assenza. Questa è la morte che coincide con la bellezza; ma per il dandy non è una novità: già Dorian Gray si accorse come le due cose coincidevano pericolosamente, lasciandogli ben poco spazio per respirare; ma in fondo è questo il vero obbiettivo: mettere a repentaglio la vita con il culto smodato del Bello. Il dandy ama il rischio quasi quanto ama se stesso.



XVII. La Bellezza


Io sono bella, o uomini, come un sogno scolpito,



e tutti v'ho sfiancato sulla mia carne quieta,

ma l'amore che so ispirare al poeta

è, al par della materia, tacito ed infinito.


Sfinge velata in soglio, su nel cielo m'esilio;

nel mio petto di cigno un cuor di neve dorme;

aborro il movimento che scompone le forme,

né mai ad una lacrima né ad un riso m'umilio.


I poeti, dinanzi alle mie grandi pose,

di cui rubo alle statue l'esemplare superbo,

spenderanno la vita in fatiche studiose.


Io, per stregarli e farmene docili amanti, ho in serbo,

specchi ove senza macula ogni cosa discerno,

gli occhi, i miei larghi occhi dal lume sempiterno!


(C. Baudelaire, "I fiori del male")











Natura e Artificio

"Ogni secolo capace di produrre poesia è stato, sinora, un secolo artificiale, e l'opera che ci sembra il prodotto più semplice e naturale del suo genere è probabilmente il frutto dello sforzo più premeditato e consapevole. perchè la natura è sempre in arretrato sui tempi. Solo un grande artista può essere completamente moderno." (O. Wilde)
"Egli [Swinburne] si sforza di parlare con il respiro del vento e delle onde... E' il primo poeta lirico che abbia tentato una rinuncia assoluta alla propria personalità, e ci sia riuscito. Abbiamo il canto, ma non sappiamo mai chi sia a cantare... A parte il tuono e lo splendore delle parole, non ci dice nulla. Abbiamo spesso udito interpretazioni della Natura ad opera dell'uomo; ora sappiamo come la Natura interpreta l'uomo, e stranamente essa ha ben poco da dire. Forma e libertà sono il suo vago messaggio. Ci assorda con il suo clangore." (O. Wilde, in un articolo sulle nuove poesie di Swinburne).
Nonostante le massime citate provengano dalla feconda penna di Oscar Wilde, che tratta lo stesso argomento più specificatamente nel saggio "Declino della menzogna", è importante sapere che tutti i dandies, chi in modo più accentuato, e chi più nascostamente, disprezzano la Natura e le sue leggi. Essa non è artisticamente compiuta, e per compiere una tale opera di correzione si ha bisogno della misurata ed ispirata mano di un artista. A chi faccia notare ad un dandy la bellezza delle stagioni, delle varie foggie degli alberi e dei fiori, otterrà come risposta: sì, ma essa non può far altro; (al giornalista che chiedeva a Wilde cosa ne pensasse delle cascate del Niagara, il poeta rispose che le aveva trovate terribilmente noiose e per nulla stupefacenti; le avrebbe trovate di un qualche interesse se l'acqua, che cadeva incessantemente nella stessa direzione, avesse all'improvviso cambiato corso...).

Persino i fiori, che il dandy ama profondamente - egli li preferisce incrociati, studiati e rielaborati a regola d'arte.

Così scrive Huysmans in "A ritroso": "Dopo i fiori fittizi che imitavano i veri, voleva adesso dei fiori naturali che imitassero i falsi". "Ve ne erano alcuni straordinari, rosati, che sembravano tagliati nella tela cerata, altri imitavano lo zinco, parodiavano pezzi di metallo stampato, tinti in verde imperatore, chiazzati da gocce di pittura a olio, coperti da uno strato di verde bronzo sul quale scivolavano riflessi d'argento. Erano il capolavoro dell'artificio."
Il primo dovere del dandy è quello di essere il più artificiale possibile. Da qui i gesti assurdamente misurati, le pose esagerate, le frasi stravaganti, e, non ultimo, il vestiario: non è pudore quello del dandy, che lo costringe a nascondere il proprio corpo con stoffe raffinate, bensì i dogmi estetici "Niente deve rivelare il corpo se non il corpo"; "Fa la tua vita come si fa un'opera d'arte"; non lasciare quindi al caso, alla Natura, il compito di decidere l'andamento dell'esistenza; non lasciare che sia lei a controllare i bisogni del corpo, ma che sia la volontà stessa dell'artista a comandarli, a suo piacimento, e a regola d'arte. Da qui anche la 'diffidenza' del dandy per la donna (e viceversa), che Baudelaire definisce "naturale, e quindi il contrario del Dandy".



"Un bel fiore all'occhiello è l'unica cosa che collega l'arte alla natura."

Oscar Wilde

Lo scottante tema, riproposto da tutti i dandies nel corso dei secoli, del rapporto tra Arte, Natura e Vita, è sempre stato in grado di suscitare grandi polemiche e critiche, come il seguente saggio di Charles Baudelaire, facente parte del libro "Il Pittore della vita moderna", in cui il poeta si fa cantore della Bellezza, dell'Arte, e, certamente, del Dandismo:


C. Baudelaire "ELOGIO DELLA TRUCCATURA"

C'è una canzone, talmente triviale e stupida che non si può citare in un lavoro che ha qualche pretesa di serietà, ma che traduce benissimo, in stile da vaudelville, l'estetica della gente che non pensa. La natura abbellisce la bellezza! E' presumibile che il poeta, se avesse potuto parlare in francese, avrebbe detto: la semplicità abbellisce la bellezza! Il che equivale a questa verità affatto inattesa: il nulla abbellisce ciò che è. La maggior parte degli errori relativi al bello provengono dalla falsa concezione che il secolo decimottavo ha della morale. La natura fu considerata in quel tempo come base, sorgente e tipo di tutto il bene e di tutto il bello possibile. La negazione del peccato originale non ebbe parte nell'accecamento generale di quell'epoca. Se tuttavia acconsentiamo a riferirci semplicemente al fatto visibile, all'esperienza di tutte le età e alla gazette des tribunaux, vedremo che la natura non insegna nulla, o quasi nulla, cioè che essa costringe l'uomo a dormire, e bere, a mangiare e a garantirsi, bene o male, dalle ostilità dell'atmosfera. E' proprio la natura che spinge l'uomo ad uccidere il suo simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; poiché, appena usciamo dall'ordine della necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, vediamo che la natura non può consigliare che il delitto. Appunto questa infallibile natura ha creato il parricidio e l'antropofagia, e mille altri orribili delitti che il pudore e la delicatezza ci impediscono di nominare. La filosofia invece (parlo di quella buona), la religione, ci ordina di nutrire i genitori poveri e infermi. La natura (che è solo la voce del nostro interesse) ci comanda di ucciderli. Passate in rassegna, analizzate tutto quello che è naturale, tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale, non troverete che orrori. Tutto ciò che è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo. Il delitto, di cui l'animale umano ha attinto il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale, soprannaturale, giacché, in tutti i tempi e in tutte le nazioni, ha avuto bisogno di divinità e di profeti per essere insegnata all'umanità, e l'uomo, da solo, sarebbe stato incapace di scoprirla. Il bene è sempre il prodotto di un'arte. Tutto quello che dico della natura, come cattiva consigliera in fatto di morale, e della ragione come vera redentrice e riformatrice, può essere trasformato nell'ordine del bello. Così sono incline a considerare l'ornamento come uno dei segni della primitiva nobiltà dell'anima umana. Le razze che la nostra civiltà, confusa e pervertita, tratta volentieri da selvagge, con un orgoglio e una fatuità veramente ridicoli, sanno comprendere, come sa comprendere un fanciullo, l'alta spiritualità della toeletta. Il selvaggio e il bambino attestano, con la loro ingenua aspirazione a tutto ciò che brilla, alle piume variopinte, alle stoffe cangianti, alla grandiosa maestà della forme artificiali, il loro disgusto pel reale, e dimostrano cos'è, a loro insaputa, l'immaterialità della loro anima. Guai a chi, come Luigi XV (che fu il prodotto non d'una vera civiltà ma di un ricorso di barbarie), spinge la depravazione al punto di non gustare che la semplice natura.
Si deve dunque considerare la moda come un sintomo del gusto dell'ideale che affiora nel cervello umano sopra tutto ciò che la vita naturale vi accumula di volgare, di terrestre e di immondo, come una sublime deformazione della natura, o piuttosto come un saggio permanente e successivo di riforma della natura. Così si è fatto giustamente osservare (senza scoprirne la ragione) che tutte le mode sono graziose; graziose, cioè, in una maniera relativa, giacché ognuna è uno sforzo nuovo, più o meno felice, verso il bello; un'approssimazione qualunque d'un ideale il cui desiderio solletica senza tregua lo spirito umano non soddisfatto. Ma le mode, se si vogliono gustare bene, non si debbono considerare cose morte; tanto varrebbe, allora, ammirare le spoglie appese, losche e inerti, come la pelle di san Bartolomeo, nell'armadio di un rigattiere. Bisogna figurarsele vive, vivificate dalle belle donne, che le portarono. Solo così se ne comprenderà il senso e lo spirito. Dunque se l'aforisma: Tutte le mode sono graziose, vi sembra troppo assoluto, dite, e sarete sicuri di non ingannarvi: Tutte le mode furono legittimamente graziose.
La donna è, nel suo diritto, e compie addirittura una specie di dovere, studiandosi d'apparire magica e soprannaturale; bisogna che stupisca, che affascini; idolo, deve dorarsi per essere adorato. Deve dunque chiedere a tutte le arti i mezzi per elevarsi sopra la natura, per meglio soggiogare i cuori e colpire le menti. Poco importa che l'astuzia e l'artificio siano conosciuti da tutti, se il successo è certo e l'effetto irresistibile. Il queste considerazioni l'artista filosofo troverà facilmente la legittimazione di tutte le pratiche usate in ogni tempo dalle donne per consolidare e divinizzare, per così dire, la loro fragile bellezza. L'enumerazione di esse sarebbe infinita; ma, per limitarci a quello che il nostro tempo chiama volgarmente trucco, chi non vede che l'uso della cipria, così scioccamente stigmatizzata dai candidi filosofi, ha lo scopo e l'effetto di far scomparire dalla pelle tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente seminate, e di creare un'unità astratta nella grana e nel colore della pelle, la quale unità, come quella prodotta dalla maglia, accosta immediatamente l'essere umano alla statua, ad un essere, cioè, superiore e divino? Quanto al nero artificiale che cerchia l'occhio e al rosso che colora la parte superiore della guancia, quantunque l'uso deriva dal medesimo principio, al bisogno di superare la natura, il risultato viene a soddisfare un lato del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la vita, una vita soprannaturale ed eccessiva; quel cerchio nero rende lo sguardo più profondo e singolare, dà all'occhio un'apparenza più decisa di finestra aperta sull'infinito; il rosso, che accende i pomelli, accresce lo splendore della pupilla ed aggiunge a un bel volto femminile la passione misteriosa della sacerdotessa.
Così, se non mi fraintendete, il ritocco del viso non deve essere usato allo scopo volgare, inconfessabile, d'imitare la bella natura e di rivaleggiare con la giovinezza. Abbiamo osservato che l'artificio non abbellisce a bruttezza e non può servire che alla bellezza. Chi oserebbe assegnare all'arte la sterile funzione d'imitare la natura? Il trucco non deve nascondersi, non deve evitare di farsi vedere; può, anzi, mostrarsi, se non con affettazione, almeno con una specie di candore.
Concedo volentieri a quelli che per la loro austera gravità non possono cercare il bello nelle sue più minute affermazioni, di ridere alle mie riflessioni e di riconoscerne la puerile solennità; il loro austero giudizio non mi riguarda punto; mi accontenterò di appellarmi ai veri artisti e alle donne che hanno ricevuto nascondendo una scintilla di quel fuoco sacro del quale vorrebbero essere tutte accese.
(C. Baudelaire, tratto da "Il pittore della vita moderna").


Ma attenzione; l'innaturalità, l'operazione di maquillage, l'artificio di Baudelaire e di Wilde non serve a nascondere la natura, ma a nascondere l'artificio per dare al pubblico un'idea di natura. Nasconde cioè il processo di separatezza, e la maschera non è un travestimento, ma un trucco per mostrare la separatezza: l'unità di arte e vita sta nella maschera. Il poeta è il dandy e il dandy è il poeta. Il dandy è un comportamento e il comportamento del dandy è la maschera immobile dell'impassibilità assunta come natura.










L'Elegante

"Il dandismo non è neppure, come sembrano credere molti sconsiderati, un gusto sfrenato del vestire e dell'eleganza materiale. Per il dandy perfetto tali cose sono unicamente un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito." Baudelaire, "Il pittore della vita moderna"  "Una delle prime qualità dell'abbigliamento è la sua espressività" Oscar Wilde. L'eleganza del dandy non è che un mezzo di espressione: egli ricerca la bellezza, a tutti i costi - e cerca di esprimere la sua inimicizia con la moda e la società. L'abito del dandy è l'ornamento al suo Se; l'abito vuole mostrare chi lo porta e la bellezza di chi lo indossa.
L'eleganza del dandy è sottilmente démodé. Il disprezzo del dandy per il gusto e le idee vittoriane si traduceva in un guardaroba devoto ai dettami della moda del 1830. Wilde, dopo le eccentricità del periodo estetico, si era tramutato in un dandy fastosamente démodé; riproducendo uno stile passato, Wilde voleva opporre al peso crescente del futuro, il fascino malinconico del passato, la filologia compita della frivolezza, il lusso di non farsi trascinare dalla moda, la moda che uguaglia, uniforma, livella.
Anche Baudelaire aveva adottato questo una divisa nera, il suo tocco di colore era dato dai guanti: primula, rosa, gialli. E da una sciarpa oltraggiosamente rossa, che metteva solo ai funerali. I suoi papillon erano fatti su misura, seguendo un suo preciso disegno, tanto per sbeffeggiare inconsapevolmente, e in anticipo, la mania dell'abito in serie. Un dandy ottocentesco oggi, vedendo una giacca moderna, oltre a notarne la scandalosa bruttezza, noterebbe migliaia di difetti che oggi non saremmo neanche più capaci di individuare.
Il dandy non subisce mai la moda, anzi, a volte si diletta ad esserne il fiero assassino.





















L'Eccentrico


"Così, una delle conseguenze del dandismo, una delle sue principali caratteristiche - per meglio dire, la sua caratteristica più generale - è quella di produrre l'imprevisto, ciò che una mente abituata al giogo delle regole non potrebbe a rigor di logica mai attendersi. Anche l'eccentricità, questo altro frutto della terra inglese, produce l'imprevisto, ma in modo diverso, sfrenato, selvaggio, cieco. E' una rivoluzione individuale contro l'ordine costituito, talvolta contro la natura, che sfiora spesso la follia. Il dandismo, al contrario, si fa beffe delle regole e al tempo stesso le rispetta ancora. Ne soffre e se ne vendica pur continuando a subirle; si richiama ad esse mentre le sfugge; volta a volta le domina e ne è dominato: duplice e mutevole carattere! Per giocare a questo gioco, bisogna poter disporre di tutti gli artifici che creano così la grazia, così come le sfumature del prisma, riunendosi, formano l'opale." Così Barbey d'Aurevelly, in un passaggio del suo "George Brummel e il dandismo", pubblicato nel 1884, descrive perfettamente la 'necessità' che ha il dandy di stupire.
Il dandismo non è sinonimo di eccentricità. La maggior parte dei dandies, soprattutto quelli novecenteschi ha come scopo principale quello di non voler farsi notare, e, come giustamente dice lo stesso Brummel, "La vera eleganza deve far passare inosservati". O quasi; certamente Baudelaire, coi suoi guanti rosa e i boccoli biondi, non passava inosservato tra la folla parigina; tanto meno Wilde, che, in gioventù, preferiva un abbigliamento fatto di sete e velluti colorati che non erano certo di moda all'epoca (abbigliamento divenuto famoso come "divisa da esteta").
Ma allora, oltre all'assai astratto desiderio di provocare meraviglia, stupore, che tutti i dandies, chi più chi meno, soddisfavano, ma in modo diverso dagli eccentrici, che cos'è che ci permette di riconoscere con certezza un dandy da un volgare eccentrico? Senza considerare il "carattere dandy", cioè il suo modo di pensare e di guardare il mondo, eguale per tutti i dandies esistiti ed esistenti, è certamente quel suo portamento regale, freddo, e quella sua apparente serietà, quell'aria comunque da "ragazzo per bene", che lo contraddistingue. Ho citato prima Baudelaire come involontario eccentrico, ma basti sapere quello che i suoi contemporanei dicevano di lui: l'assistente di Poulet-Malassis, suo editore, incontrandolo per la prima volta, non nota che i suoi modi "squisitamente classici", da ragazzo ben educato e di buona famiglia, del tutto in contrasto con la fama di perverso mostro che i giornali e i giudici avevano messo in giro dopo la travagliata uscita de "I fiori del Male".




















Lo Snob


E' importante marcare bene i confini che esistono tra lo snob e il dandy. Il primo è, come dice la parola, un falso aristocratico, un sine nobilitate (di cui la parola snob è l'accorciamento). Il termine entrò nel vocabolario comune all'inizio dell'Ottocento, in Inghilterra, volto a designare i giovani rampolli studenti delle famiglie borghesi benestanti.
Lo snob è un opportunista privo di consapevolezza individuale, desideroso di ascendere la scala sociale spacciando ruolo, rango e competenze al di sopra delle proprie limitate prerogative. Lo snob è un arrampicatore sociale, che disprezza i suoi simili credendo così di elevarsi ad un rango superiore. Si prende gioco dei potenti, confida nel progresso e nella politica, diventa, per autoingannarsi, manichino indossante abiti all'ultima moda; al contrario del dandy, lo snob veste ciò che è nuovo, sia brutto o no - dato che ha i gusti personali congelati dal trendy - mentre il dandy preferisce conciliare la bellezza con la moda, creando quel giusto miscuglio di originalità e classico che ritiene necessario per non sforare nell'eccentricità o nello stupido trendy dello snob della domenica.
Il dandy seduce e adora "far piaceri"; lo snob "non guarda in faccia nessuno". Lo snob è cugino primo di quel borghese puritano contro cui Baudelaire e compagni si schieravano; oggi il borghese è in decadenza, o, a seconda dei punti di vista, si è evoluto nello snob, una sanguisuga che serve il potere e, appena ne ha l'occasione, maltratta i più deboli.
E, quando lo ritiene necessario, tenta di imitare il dandy, ma inutilmente. Crede di assomigliargli ostentando freddezza e distanza, mostrandosi superiore come la donna-sfinge di Wilde: enigmatica ma assolutamente priva di segreti. Ma il dandy, nonostante tutti gli sforzi dello snob per somigliargli, è al di sopra di lui e al di sopra di quelli davanti ai quali lo snob si umilia sperando, un giorno, di sostituirli. Il dandy vive sempre nel passato e, a volte, nel futuro; lo snob si arrabatta nel presente.


























Il rapporto di coppia



Il dandy, in un certo senso, è una donna: ama i profumi, i fiori, i bei vestiti, le buone maniere, l'eleganza formale; ha sentimento, spesso dipinge o scrive poesie, ascolta musica melodica e predilige la calma di un buon libro agli hobby maschili.

C'è però da sfatare immediatamente un mito: il dandy non è sempre omosessuale o bisessuale. Wilde lo era, Montesquiou lo era, Proust anche. Ma la raffinatezza del dandy non è esclusivo sinonimo di preferenze sessuali fuori dal comune. Certo è che il dandy non ama autodefinirsi come la virilità in persona, ben sapendo che tra l'uomo detto "virile" e lui, c'è un profondo abisso di differenza.

La regressione omosessuale è governata dal narcisismo, che cerca a tutti i costi di ritrovare l'identico (o il simile omosessuale), come se il cambiamento d'oggetto comportasse il rischio della perdita dell'oggetto omosessuale come quello che soddisfa l'esigenza narcisistica.

Il fine ultimo del narcisismo è la cancellazione delle tracce dell'Altro nel desiderio dell'Uno; dunque l'abolizione della differenza primaria quella tra l'Uno e l'Altro. La posizione eterosessuale è quindi di difficile assunzione, si scontra con un ostacolo troppo grande da superare: l'oggetto eterosessuale è inassimilabile perché straniero, definitivamente altro.

Ciò non significa che il dandy non possa amare una donna. Per il narcisista l'essenziale è che la combinazione degli affetti e della rappresentazione dei due partners della coppia metta a capo a una perfetta totalità, all'immagine della perfezione sferica il cui centro è dappertutto, la circonferenza da nessuna parte, liscia e impeccabilmente tonda, senza la minima asperità o irregolarità. Il che equivale a dire che il soggetto cerca di ritrovare nella donna la madre ideale, perfettamente adatta ai bisogni dell'infante, con cui essa non fa che uno.

Solo così il dandy può amare sinceramente una donna, basti pensare a Baudelaire che si ritrova ad amare follemente la dama mulatta Jeanne Duval, attrice, soffrendo terribilmente durante la separazione alla quale questa, con le sue terribili maniere, lo aveva costretto ad arrivare.

Resta comunque che il dandy non ha poi così bisogno di amare ma piuttosto di essere amato e si compiace delle donne che soddisfano questa sua esigenza.

E' quindi anche probabile e frequente che, al dandy, la donna interessi solo a fini sessuali o come oggetto decorativo.

Scrive O. Wilde in "Il ritratto di Dorian Gray":

"Mio caro ragazzo, nessuna donna è un genio. Le donne sono un sesso decorativo. Non hanno nulla d dire; ma lo dicono con grazia. Le donne personificano il trionfo della materia sullo spirito, così come gli uomini personificano il trionfo dello spirito sulla morale."

E come non nominare D'Annunzio? Quale amatore latino più famoso di lui? Moderno Don Giovanni - è, in un certo senso, un dandy - straripava di passione per le sue giovani amanti che riusciva a tenere sospese come un equilibrista. E, arrivando al primo di tutti i dandies, troviamo il 'Beau' Brummel attorniato da sedicenti dame aristocratiche, borghesi, serve, sguattere, che facevano la coda per attrarre l'irresistibile Beau il quale, lungi dal diventare un volgare donnaiolo, sceglieva calmo tra le spasimanti quella che più lo interessava, facendo il tutto in gran riserbo.
Ma l'amore del dandy non è certo rose e fiori. Egli non si vuole assolutamente accontentare di essere un romantico alla ricerca della donna "giusta": Baudelaire, prima, durante e dopo la relazione con Jeanne Duval fu un assiduo frequentatore di bordelli, preferendo assai le prostitute ad una relazione stabile; D'Annunzio che, come già detto prima, era famoso per le sue innumerevoli relazioni con donne carpite grazie ad entusiasmanti lettere d'amore, non si accontentava di tenerne una per volta: il Vittoriale diventava così un luogo d'incontro tra il Poeta e le sue innumerevoli donne, le quali erano invitate a rimanere solo una mattinata, perchè poi, alla loro partenza, ne sarebbe arrivata un'altra, ed un'altra ancora. Tom Antognini ricorda, nel suo "Vita segreta di Gabriele D'Annunzio", non senza una punta di malizia, gli errori negli inviti che a volte commetteva il malcapitato Vate, che si ritrovava a ricevere ben due amanti per volta, le quali naturalmente passavano ore a contenderselo.

In quel caso D'Annunzio fingeva l'aria più dispiaciuta che gli era possibile, e se ne stava in un angolo ad osservare interdetto lo svolgersi della vicenda in cui era lui, in fondo, il soggetto principale, e badava d'intervenire solo se la discussione s'accendeva di toni più violenti.
Il dandy generalmente non ha una grande stima per la donna. Più spesso egli lusinga, corteggia e seduce solo per vedersi all'azione; più che il fine, al dandy interessa il preambolo, la seduzione; seduzione fatta di sguardi, parole, gesti. Il dandy è più un Don Giovanni che un Casanova. La differenza sostanziale tra i due seduttori per eccellenza è che il primo è un ammaliatore, il secondo è un ammaliato. Casanova cerca e ama le donne che lo hanno sedotto, Don Giovanni deve fuggirle, per non esserne sommerso. In fondo, Don Giovanni è un esteta, un dandy che però si attacca troppo al sesso femminile. E' ancora l'estetica che più interessa al vero dandy, e non la sostanza vera e propria dell'amore. Le epistole d'amore di D'Annunzio non gli sono altro che splendidi esercizi di retorica dove, per meglio essere sicuri della loro carica artistica, è necessario 'provarli', per attenderne gli effetti. Soren Kierkegaard, il filosofo, sarebbe stato un ottimo dandy se si fosse fermato al supporre un "vita estetica", oltre quella "vita etica" e "vita religiosa" che sono l'esatto opposto dell'essenza dandistica. Teorizzando il famoso "Don Giovanni", e cioè l'uomo estetico, libertino, amante dei piaceri e della vita, Kierkegaard non fa che descrivere una sorta di dandy; e nel famoso "Diario di un seduttore", il filosofo abbozza la figura dell'esteta-erotomane, crudele e affascinante allo stesso tempo, in grado di sedurre innumerevoli donne sempre tenendole sospese, in bilico tra la passione e il dubbio, senza aver mai pronunciato loro una sola parola d'amore. In questi casi le fanciulle non potranno mai dare ad altri la colpa delle loro sofferenze se non a loro stesse, le quali credono di essersi immaginate tutto, o chi fra loro, più perspicace, come la giovane Cordelia, s'accorge dell'inganno diabolico, si tormenta l'animo confessando al suo stesso seduttore d'essere comunque innamorata follemente di lui, ed allo stesso temo lo odia con un'intensità fuori dal comune. Perchè in fondo il vero dandy rimane freddo ed impassibile, calcolatore, anche di fronte alle situazioni in cui normalmente si richiederebbe passione ed esaltazione dei sentimenti umani.
Lo stesso discorso vale per ogni dandy reale: negli scritti, nelle poesie, il dandy tiene più a descrivere i suoi astuti corteggiamenti che a descrivere i sentimenti della donna corteggiata. Ella può sì attirarlo per la sua bellezza (certo deve essere singolare), o per una sua predisposizione alla toeletta, o per il suo considerevole patrimonio o, più raramente, per la sua intelligenza. Ma ciò che sempre ripugna il dandy nella donna è quel suo essere naturale, sentenzia Baudelaire: "La donna è il contrario del dandy. Dunque, deve fare orrore. La donna è naturale, cioè abominevole".

Le donne sono magicamente attratte dal dandy: è accertabile con evidenza che il narcisismo di una persona suscita una grande attrazione su tutti coloro i quali, avendo rinunciato alla totalità del proprio narcisismo, sono alla ricerca di un amore oggettuale. Il fascino e l'attrattiva del dandy poggiano in buona parte sul suo narcisismo, sulla sua autosufficienza e inaccessibilità, "qualità" sviluppate in coerenza narcisistica, per cui sanno tenere lontano tutto ciò che potrebbe rimpicciolire il loro Io.



XV. Don Giovanni all'Inferno


Quando Don Giovanni scese all'onda sotterranea,
pagato l'obolo a Caronte, un mendicante,
triste, dall'occhio fiero come Antistene,
afferrò i remi con braccio vendicatore e forte.

Mostrando seni penduli tra le vesti aperte,
donne si contorcevano sotto il nero firmamento
e come un grande armento di vittime immolate,
dietro lui lanciavano lunghi muggiti.

Sganarello rideva e reclamava la sua paga;
Don Luigi con il dito tremolante
indicava a tutti i morti vaganti sulle rive
l'audace figlio che derise le sua bianca fronte.

La casta e magra Elvira, tra i brividi, in gramaglie,
vicina a quel perfido sposo che pure fu suo amante,
sembrava implorargli un ultimo sorriso
in cui brillasse la dolcezza del primo giuramento.

Dritto nella sua armatura, un grande uomo di pietra
stava al timone fendendo i neri flutti:
ma l'eroe calmo, curvo sulla sua spada,
guardava la scia sdegnando tutto il resto.

(C. Baudelaire, da "I Fiori del Male")














Il Denaro e il Lavoro




Il dandy, a proprio agio nel lusso come nella povertà, disprezza immensamente il denaro. Può sembrare certo una contraddizione, ma, analizzando a fondo si troveranno ben due imponenti contraddizioni. Iniziamo con il considerare che il dandy non disprezza il denaro in sè, ma il denaro come fine. Per lui i soldi non sono che un mezzo, un tramite per avere qualcosa di ben più prezioso: la bellezza.

Il dandy non desidera il denaro per averlo, come certo è proprio di molte persone, ma per poterlo spendere. In questo, come per altro, parlando di dandismo, bisogna eliminare il "buon senso" tradizionale, borghese, per abbandonarci al ben più lieto e vivace "buon senso" del dandy; se questi desidera il denaro esclusivamente per spenderlo, ciò nonostante non significa che farà qualche cosa di impegnativo per ottenerlo. Non lavorerà. O, perlomeno, tenterà di non lavorare. Chi andava a far visita a Baudelaire non ricorda di averlo mai visto scrivere, o di aver visto sui tavoli gli attrezzi del letterato.
Per definire il rapporto del dandy col denaro, può senza dubbio valere la definizione "con le mani bucate"; e questo credo riassuma perfettamente ciò che intendo dire. Secondo Baudelaire, al dandy basterebbe una rendita indefinita; a Wilde era indispensabile il superfluo. L'apparente contraddizione di queste posizioni non deve trarci in inganno: il minimo e l'eccesso sono i lati opposti del medesimo profilo, riassunto da D'Annunzio con: "Habere non Haberi".

Ancora, quando Morand dovette rimandare una visita al Vate italiano, si vide venire incontro una barca, sul nero lago di Garda, recante un dono del poeta: un tagliacarte d'oro, con incisa la scritta: non posseggo che quel che dono.
Un dandy non deve essere necessariamente ricco. Però esserlo lo aiuterebbe. Il dandy ricco - e questo è il caso di Baudelaire e di Wilde - è ovviamente più facilitato per il raggiungimento del suo scopo, per coltivare il proprio Io nel lusso. Ma nessuno di loro lavorò mai o, se lo fece, certo per brevi periodi, nascondendolo. Il lavoro in quanto tale è denigrato dal dandy, come complicità con la classe al potere, come degradazione dell'individuo, come utilizzo del tempo noioso e ripetitivo. "Ercole senza impiego" (dice Baudelaire) egli non ha altra occupazione se non coltivare la propria eleganza.

La rinuncia a qualsiasi occupazione non è esente però da grosse ambivalenze: appare chiaro che, nella maggioranza dei casi, prima della scelta queste prese di posizione sono state in qualche modo imposte; imposte da quella civiltà che, assieme al "barbaro" e al "selvaggio", mette al margine anche il dandy, perchè non conforme alle sue regole. Così che l'ostentazione come, su altri piani, il disincanto e il disgusto, sono piuttosto a copertura di un malessere.













La Politica


Il dandy si caratterizza per il rifiuto di quei valori borghesi sui quali si è edificata la cosiddetta 'civiltà': l'utile, il denaro e il lavoro. Il dandy può contrapporsi alla democrazia proclamando la sua appartenenza a una sorta di "nuova aristocrazia" (Baudelaire), poiché possiede facoltà che non è dato comprare.

La nobiltà sprigionata della minoranza, e quindi dalla sconfitta, è fonte d'inesauribile piacere per ogni dandy. Si pensi alla grande sconfitta di Oscar Wilde: dopo anni di duro lavoro nelle carceri inglesi, ne era uscito certamente distrutto, ma i primi fra i suoi amici ad incontrarlo a Parigi lo descrissero per nulla cambiato (se non nel fisico): come già nella sua epoca d'oro, il dandy irlandese amava romanzare le sue più piccole avventure.

Il dandy, disinteressato a vibrare all'unisono con la storia, cerca negli sconfitti un riflesso della propria virtù che più ama: il distacco da ogni interesse, l'ebbrezza d'esser in minoranza, il gusto del gioco e della morte. Il dandy non è mai per qualcosa, ma sempre e soltanto contro qualcos'altro.

Ogni dandy, chi più, chi meno, chi nient'affatto, è stato per un certo e breve periodo della sua esistenza impegnato politicamente.

Baudelaire, nei moti rivoluzionari francesi del 1848 s'infiammò per la causa e, impugnando un fucile, incitava i compagni rivoluzionari a fucilare il colonnello Jacques Aupick, suo odiato patrigno. Presto, però, si spense quella fiamma che ardeva nel petto del giovane dandy, ed egli finì per abbandonarsi definitivamente all'arte, tralasciando la politica e le rivoluzioni, definendole in più occasioni inutili.

D'Annunzio divenne un personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione favorevole all'intervento italiano nella prima guerra mondiale: Il celebre discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, fu come una scintilla che percorse tutta l'Italia ed infiammò i giovani alla lotta. Quando l'Italia entrò in guerra, D'Annunzio aveva 52 anni, ma partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di Novara, poi in marina e quindi in aviazione. Compì molte imprese eccezionali, dalla beffa di Buccari al volo su Vienna. Alla fine della guerra non fu soddisfatto della cessione di Fiume alla Jugoslavia e perciò occupò la città dalmata costituendovi un governo.

















La Morale


Privo di ogni particella di umiltà, intellettuale e/o sentimentale il dandy non riconosce alcuna scala di valori universale. Rispetta solo la propria legge mettendo in discussione tutte le altre.

Il dandy è lo "spirito libero" di Nietzsche, sottratto al dominio della religione, della morale, della metafisica. Egli è il grande scettico: non crede ciecamente alla ragione ma diffida e pone interrogativi; non ha soggezione né rispetto verso tutto ciò che gli "spiriti vincolati", ovvero la massa, accettano e venerano; ha la gaiezza e l'audacia di chi non indietreggia davanti a nulla.

Il suo mondo è libero dall'ignoranza, la sua etica è del coraggio e del rischio.

Il Dandy "spirito libero" è prezioso almeno quanto fastidioso. Perché aderendo con entusiasmo ad un modello creato da sé stesso, umilia un'umanità che ad ogni angolo eleva idoli e templi per poi di fatto ignorarli.

Il dandy non è un prepotente, ma un uomo che si affida esclusivamente al proprio giudizio.    Che non è utile a se stesso, né agli altri, perché al di fuori di ogni legame, insomma un uomo così squisitamente solo da risultare inquietante.

Il dandy non arriva alla realizzazione estrema dello spirito libero, ovvero il superuomo. Infatti, mentre questo ultimo si fa inventore e portatore di nuovi valori, l'esteta rimane chiuso nel suo piccolo mondo, non agisce, non si impone. Si accontenta di vagheggiare la bellezza in un universo solitario risultando un essere sterile e impotente.

E' superbo e antidemocratico. Non gli interessa sentirsi superiore per le proprie scelte, perché si sente tale per nascita e cultura, si considera eccezionale; disprezza l'uomo comune e la massa mediocre; non presuppone nessuna pietà per i deboli, i quali sono inevitabilmente destinati a soccombere. Se al superuomo è affidato, in nome del rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari, la funzione di "vate" con una propria politica di opposizione, riforma e tra svalutazione dei valori, ancora una volta il dandy è passivo. Il disprezzo per la massa si traduce in indifferenza, il dandy non si impone a favore della creazione di un'èlite dominante perché si sente già padrone, vincitore.

Nonostante l'indiscutibile ostilità esiste un legame biunivoco tra società e dandy: pur rifiutandosi a vicenda, essi si influenzano, quasi si creano reciprocamente.

Noi vediamo infatti nel Dandy non solo l'eccezione che è, ma anche quella che in qualche modo vogliamo che qualcuno rappresenti. Accade così che chi vive solo per sé stesso sia l'unico che viva per tutti, che il sacerdote del superfluo rappresenti una necessità.


















La Religione


"Anche se Dio non esistesse, la Religione sarebbe ancora Santa e Divina", dice Charles Baudelaire nei suoi "Scritti Intimi"; e ancora: "Il prete è incommensurabile perchè fa credere a una quantità di cose strabilianti". Il rapporto del dandy con la religione e assai ambiguo, e, per parlare di ciò, si deve viaggiare nell'inespresso dei dandy ottocenteschi che, da terribili "mangiapreti", sono passati alla vita evangelica come niente fosse. Forse perchè, abituati al culto di se stessi, non cambierebbe per loro il culto di una divinità non troppo diversa da loro medesimi?
Wilde uscito di prigione, assai malridotto, si convertì al cristianesimo, come per tener fede ad una sua affermazione fatta anni prima: "Posso credere in qualsiasi cosa purché sia incredibile. Per questo voglio morire da cattolico. Ma da cattolico non vivrei: il cattolicesimo è una religione così romantica, ha santi e peccatori. La religione anglicana ha solo persone rispettabili che credono nella rispettabilità. Fa i vescovi non in base alla fede, ma all'incredulità!".

Baudelaire aveva un rapporto assai strano con Dio: egli infatti confessa di parlargli, di pregare, ma subito dopo dice di non credere nella sua esistenza; dà del "cuistreuse" ai preti, ma poi li dice 'incommensurabili' e degni del miglior rispetto; fa anche un calcolo a favore dell'esistenza di Dio: "Non esiste nulla senza scopo. Quindi la mia esistenza ha uno scopo. Quale scopo? Lo ignoro. Non sono stato dunque io ad averlo fissato. E' stato dunque qualcuno che ne sa più di me. Bisogna dunque pregare questo qualcuno d'illuminarmi. E' il partito più saggio." ("Scritti intimi" - "Il mio cuore messo a nudo").
Chiaramente il dandy ha un rapporto ambiguo e contraddittorio colla religione. Credendo in Dio e, si badi bene, non adorandolo, egli vuole però esprimere col suo comportamento e il suo stile di vita il suo disprezzo per esso; casomai, il dandy si sente molto più vicino al diavolo: un escluso dalla società costituita; innamorato della bellezza e del lusso e, in amor di questo, colpevole di aver vestito abiti raffinati e intrapreso le mali arti della seduzione. La veste, l'involucro, l'arte del dandy diventano allora quell'abito che, se "fa il monaco", fa, a maggior ragione, il diavolo.

Il superbo. L'antagonista. L'orgoglioso. Il fratello del Verbo. L'ispiratore. Il tentatore. Il serpente. Ma è anche il gentleman.

Si può credere all'esistenza del dandy (e alla sua inesistenza) quanto a quella del diavolo; anche se, suppone Baudelaire, la maggior astuzia del diavolo "sta nel far credere di non esistere". O di stare dove non è.
Il dandy non pretende di esorcizzare il dolore e il disagio; non crede al paradiso in terra, al buonismo, al politically correct; ma solo all'apparenza della propria differenza dandone testimonianza. Procedendo a caduta libera come l'angelo decaduto; come un solitario ricercatore, un amante senza desiderio: conscio che l'offerta da pagare al Dio senza cuore - al quale, per mancanza di avidità, non ha mai chiesto niente - sarà la propria dannazione. Una dannazione che è l'unica, possibile, vera opera di poesia.









I Paradisi Artificiali



Il disegno riportato qui di fianco è un autoritratto di Baudelaire eseguito con molta probabilità attorno al 1844, data in cui il poeta, ancora in giovane età, aveva lasciato la famiglia per trascorrere una vita fatta di piaceri dissoluti, dispendiosa e raffinata, insomma una vita da dandy.

Pochi sanno però che l'acquarello in questione fu eseguito dal poeta in una condizione ben particolare: egli, infatti, era stato invitato a casa di un conoscente a provare uno stupefacente orientale, l'hascish. L'acquarello fu eseguito sotto l'effetto della droga.

Presto il poeta si diede all'oppio, che secondo lui "dilata quel che non ha limiti, prolunga l'illimitato, approfondisce il tempo, sviscera la voluttà, e riempie l'anima oltre ogni limite di piaceri neri e cupi"; il suo lungo saggio sui "Paradisi artificiali" è un lungo elogio seminascosto alle sostanze, vino, hascisc e oppio, i cui effluvi avranno in futuro una buona parte nella paralisi mortale del poeta.

D'Annunzio era invece affezionato alla cocaina, sua "polvere folle", che prendeva volentieri assieme ad un'amante per passare le lunghe giornate al Vittoriale.

La droga è la cultura che aiuta la natura, il paradiso finto che surroga l'Eden perduto, la protesi mediante la quale l'esule nel tempo ritrova l'eternità e si astrae meglio che nel sonno e nel sogno, scrive Baudelaire: "Siete seduto e fumate; credete di sedere nella vostra pipa e che la vostra pipa fumi voi e voi siate esalato sotto forma di nuvole azzurrastre.Eccovi divenuto albero che urla al vento e narra alla natura vegetali melodie. Ora, vi librate nell'azzurro del cielo immensamente allargato".

E' un'esperienza da praticare fino in fondo? Serve veramente?

Il rapporto del dandy con la droga è apparentemente contraddittorio, la corteggia e la rinnega insieme; egli da un lato, conscio della volgarità e stupidità del mondo, è tentato di rifuggere nei paradisi artificiali; dall'altro non sopporta più di tanto d'essere schiavo di qualcosa, e giunge quindi per lui il momento d'eliminare la dipendenza creatasi.

Così stupefacenti e liquori si riveleranno "non solo uno dei più terribili e sicuri mezzi di cui dispone lo spirito delle Tenebre per arrolare e asservire la deplorevole umanità, ma una delle sue più perfette personificazioni.".















XLIX. Il Tossico


Il vino sa vestire d'un prodigioso lume

la stamberga peggiore,

e fabbricare portici di fiaba con le spume

del suo rosso vapore,

come un occiduo sole che splenda fra le brume.


L'oppio all'illimitato più vasti spazi dà,

nuovi confini adempie,

dilata il tempo e aguzza il piacere, di empie

e nere voluttà

fino all'orlo, e più ancora, il cuore ci riempie.


Tutto questo non vale il tossico versano

le tue verdi pupille,

laghi ove rispecchia le tremule postille

l'anima mia riversa,

gorghi amari ove a bere scendono i sogni a mille.


Tutto questo non vale il tremendo prodigio

dell'acre tua saliva,

che, senza più rimorsi né forze, alla deriva,

su onde di vertigine,

immemore mi spinge alla funerea riva.


(C. Baudelaire, "I fiori del male")




















Il Vizio e Il Gioco


Il dandy è solito frequentare luoghi di vizio e perdizione: bordelli, locali in cui si gioca d'azzardo.

Luoghi in cui l'aria è pesante, i soffitti sono polverosi, la luce è bassa e l'atmosfera è decadente: luoghi di passione e frenesia. Qui il dandy spreca la proprio talento, per civettare grottescamente, pur di fuggire all'ennui.





XCVI. Il gioco


Su lisi canapè cortigiane decrepite

- cera smorta, occhi fatui e fatali, bistrate

sopracciglia - che ammiccano e mandano uno strepito

di pietre e di metallo dalle orecchie affilate;


curvi sul gioco visi che labbra più non hanno,

labbra senza colore, mascelle senza denti,

e dita ossute, in preda a un infernale affanno,

che frugan tasche vuote e corsetti frementi;


lividi globi in fila e lampadari immani,

da sozze volte penduli, ricingono di luce

le fronti tenebrose dei poeti sovrani

che qui a vendersi l'anima una furia conduce.


questa la fosca scena che in un sogno notturno

io vidi dinnanzi ai miei sagaci occhi disporsi:

freddo, muto, in un angolo dell'antro taciturno,

coi gomiti sul tavolo, me stesso anche vi scorsi,


che invidiavo a ciascuno quell'assillo testardo,

a quelle vecchie ganze la funebre gaiezza,

quel loro far mercato, tutti, senza riguardo,

l'uno del vecchio onore, l'altra della bellezza!


E in cuor tremai, scoprendo che invidiavo chi corre

Anelando alla bocca d'abisso avida e brulla,

chi, ubriaco del suo sangue, non esita a preporre

il dolore alla morte, la dannazione al nulla!


(C. Baudelaire da "I fiori del male")






La Malinconia


Si è detto spesso che il dandy è infelice. Non è vero, o almeno non lo è fino in fondo. Si può pensare che ciò che lo fa apparire infelice agli occhi del mondo è una delle sue abitudinarie pose. Ma non sempre è così; la malinconia del dandy, lo spleen - parola che Baudelaire e Huysmans utilizzano spesso, come anche il termine francese ennui - è data innanzitutto dal suo inevitabile senso d'inappartenenza. I dandies sono esseri volti a crearsi un Io raffinato e unico, a sè; il loro stesso modo, particolare o talvolta originale, di vestire, e in egual modo agire e vivere, senza badare alla meraviglia e allo scherno degli sciocchi, è sempre, in piccolo, segno di libertà di spirito. Uomini che procedono nella vita guidati soltanto dalla fantasia e dal culto della differenza contro il sistema dell'uniformità e della scontatezza.

Il dandy "parla" una specie di lingua straniera, minoritaria perchè fondata sulla ricerca di uno stile peculiare, assolutamente solitario e indisponibile a far scuola. Il voler crearsi tutto ciò, recitare, trasformarsi, è sinonimo di pura arte di vivere. E l'Io romantico del dandy è in grado di farsi strada solo attraverso la malinconia; la malinconia, a differenza della gioia, è un sentimento multiforme, sfaccettato, a volte ambiguo. E' enigmatica - è il labirinto dell'Io in cui s'aggira tutta l'arte moderna, governata dalla "mistificazione", dagli "atti gratuiti": due tra i riti essenziali del dandismo, dice Sartre a proposito di Baudelaire.

La folla e la follia del mondo non conoscono il piacere conturbante della malinconia, prerogativa esclusiva del dandy. Il dandy è malinconico perchè solitario, ma non dimentichiamo che malinconia non è tristezza. Paradossalmente, il dandy è fiero e felice d'essere malinconico. La tristezza esclude il pensiero, la malinconia se ne alimenta. Pensiamo a quante forme la malinconia ha preso nella storia della cultura; il nichilismo, sorta di movimento letterario, filosofico e condizionatore dei modi di vivere di coloro che se ne sentivano far parte, ha avuto tra i suoi illustri pensatori molti frivoli e malinconici dandies.
E' possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte? La disperazione, "condizione normale dell'esistenza", può giustificare la speranza. A sua volta la speranza può dare più profondità alla stessa malinconia, può rendere "intelligente" la disperazione, favorendo un'ebbrezza della mente che apre all'invenzione artistica.
Il dandy si compiace della sua esistenza come se fosse uno spettatore esterno a se stesso, come se stesse leggendo un romanzo il cui protagonista è sempre lui; egli vive, secondo Kierkegaard, in un perenne stato di esaltazione intellettuale e perciò deve necessariamente esistere fuori se stesso. Deve potersi osservare, continuando a divertirsi leggendo il suo romanzo personale.


"Fin de siécle", mormorò Lord Henry.
"Fin du Globe", rispose il suo ospite.
"Vorrei che fosse fin du globe" disse Dorian con un sospiro, "la vita è una grande delusione". 

Oscar Wilde, "Il ritratto di Dorian Gray"





La Depressione



Il dandy è portatore di tratti e comportamenti, l'attaccamento a una sofferenza portata come una divisa e apparentemente compensata dallo slancio irrigidito verso il successo, l'eroismo in negativo, da vittima sacrificale ma indomabile di un mondo che non lo comprende che, in senso lato, possono essere definiti depressivi.

La depressione del dandy è mascherata da atteggiamenti esteriori di plateale autonomia, benessere, disponibilità alle relazioni, vissute con senso di superiorità. Tali atteggiamenti sono però come intrisi di quella rabbia che è spesso negazione della sofferenza.

Per questo possiamo parlare, nel dandy narcisista, di una depressione rabbiosa. Essa si declina come sentimento di vuoto e di insignificanza, scontentezza, noia, superficialità nei rapporti interpersonali.
In contraddizione a questi stati d'animo si sovrappone un atteggiamento volontaristico ed efficientistico, volto all'affermazione, al successo, al potere.





LXXVIII. Spleen


Quando il ciel basso e greve pesa come un coperchio

sull'anima che geme, da lunghi tedi oppressa,

e colma l'orizzonte, abbracciandone il cerchio,

s'un lume bigio, triste più della notte stessa;


quando si fa la terra un chiuso umido speco

dove va la Speranza, sbattendo negli assiti

con l'ali sue ritrose di pipistrello cieco,

o picchiando la testa contro i tetti marciti;


quando la pioggia stende i suoi sbiechi ricami,

imitando le grate d'un' immensa pastiglia,

e una torma silente di tarantole infami

in fondo ai nostri cerebri mille reti aggroviglia;


d'un tratto furibonde campane si scatenano,

e contro il cielo levano un cupo urlo di morte,

come anime al bando, raminghe anime in pena,

che senza requie gemano dietro le nostre porte.


E lunghi lenti feretri m'attraversano l'anima

senza un rullo, una musica; singhiozza prigioniera

la Speranza; l'Angoscia sul mio riverso cranio



pianta, essa e feroce, la sua nera bandiera.


(C. Baudelaire, "I fiori del male")



La Morte


La vita del dandy è, per certi versi, un continuo gareggiare contro la morte. E' probabile che la Nera Signora, con quel lungo mantello nero, il cappuccio che le dà un vago sapore monacale, l'eleganza dei suoi movimenti e la raffinatezza delle sue danze macabre, attiri non poco il dandy - per la sua semplice eleganza e quella certa dose di mistero che sprigiona al suo passaggio; il lungo bastone da passeggio della Morte, - la sua falce affilata, che, come le occhiate del dandy, risaltano per il luccichio, ma anche per la spietata ironia, che leggera taglia ed affonda in ferite letali, i prescelti.
Ebbene, nonostante la fascinazione estetica della morte, ma anzi, proprio per questo, egli non desidera altro che fare a gara con essa; egli la guarda, ne studia l'eleganza e la raffinatezza e decide di tenerla da parte, "in serbo per dopo". Quindi, ogni volta che ella si presenta in casa sua, troverà il dandy a tenere banco ad una lunga tavolata nel suo giardino, intrattenendo i commensali, oppure lo sorprenderà in salotto, languidamente seduto sulla poltrona, a fumare e a sorseggiare liquore, in compagnia di una non ben precisata signorina, o ancora non lo troverà affatto in casa: ma piuttosto fuori, dal sarto, a provare l'ultimo gessato blu scuro, o ad acquistare una morbida cravatta di seta, o a sognare davanti ad una vetrina di camicie di seta su misura.
Dal canto suo, il dandy non vedrà miglior cosa da fare che sbeffeggiarla come meglio può: vivendo, e nel miglior modo possibile. Ma non la dimenticherà mai: un grosso teschio di porcellana sarà sempre presente sulla lunga tavolata da pranzo in casa del dandy (un teschio è l'oggetto d'amore che si scambiano Elena Muti e Andra Sperelli nel "Piacere"), e una lugubre "danza macabra" non mancherà di essere esposta sulla parete del salotto foderato di broccato rosso. Ma il dandy sa bene, nonostante le apparenze, che la sua sfida è già perduta in partenza; si accontenta allora di gustare la propria sconfitta, che, se non arriverà da sè, sarà allora lui stesso a scegliere il momento che giudicherà opportuno per porre fine alla propria esistenza, con la maggior grazia possibile.

Il dandy saprà gustare la propria decadenza così come prima aveva assaporato la propria dolce ascesa e, forse, saprà dare alla prima un'impronta stilistica addirittura migliore (per concludere in bellezza!) che alla seconda.
Da non dimenticare la simbolica fascinazione del dandy per il Viaggio, metafora della vita, e dell'attesa. Baudelaire, in "Spleen e ideale", racconta un suo fantastico viaggio attraverso il mare, per giungere ad una terra promessa, ricca di felicità, quanto di mistero; egli trova così dolce e piacevole la lunga attesa, che al momento di attraccare, domanda sconsolato se il viaggio è "Già finito?".
Il dandy preferisce spesso far terminare da sè la propria esistenza, piuttosto che ricorrere alle leggi naturali che lui tanto aborrisce. Molti optarono, chi in un modo, chi in un altro, per il suicidio; chi in modo violento e breve (la canna di una pistola), chi in modo più dolce (l'oppio, il gas).
Baudelaire, quando venne a sapere del suicidio di un amico, non gli rimproverò affatto il gesto, quanto la scelta del mezzo; sentenziò che l'impiccagione era un metodo troppo brutale, e gli rimproverò di non aver scelto un veleno ("...oggi esistono in commercio una miriade di veleni profumati!").
Al funerale di Wilde, tra i pochi fiori, spiccava una corona dal suo ultimo albergatore: "Al mio inquilino". Sulla prima, modesta lapide dell'illustre esteta, gli amici avevano fatto incidere un versetto del libro di Giobbe: "Non osavano aggiungere nulla alle mie parole e su di loro stillava goccia a goccia il mio discorso".







La Madre "Morta"


Il dandy è, quasi sempre, orfano di madre. Si tratta di una morte psicologica, di una madre assente o anaffettiva. Come è stato osservato a proposito di pazienti depressi figli di madri distruttive il problema del dandy è spesso quello di non riuscire ad emergere dall'identificazione inconscia con la madre e di smettere di partecipare alla rabbia e alla tristezza di lei. Si potrebbe dire che il tentativo di oggettivare la tristezza e di farne un sintomo senza referente allude, al di là delle intenzioni del soggetto, al fatto che essa non gli appartiene, quanto meno nella forma in cui si dà. Però indica anche che sta tentando una operazione di risparmio. Egli vorrebbe allontanare la depressione, per così dire ingenuamente, ma non ricondurla nell'utero materno così la porta sulle spalle come un peso quasi insopportabile.
Si può allontanare soltanto ciò che ci è vicino: il dandy non coglie il paradosso consistente nel volersi liberare di qualcosa che egli vive come lontano (cioè non suo), di qualcosa che dunque egli non riesce a toccare.





XCVII. Danza macabra
Fiera, come un vivente, del suo nobile portamento,
con il gran mazzo di fiori, il fazzoletto e i guanti,
ha la noncuranza e la disinvoltura
d'una gran dama dalle arie stravaganti.

Si è mai vista a un ballo una figura più snella?
la veste esagerata, nella sua regale ampiezza,
casca abbondantemente su un piede secco, serrato
in una scarpetta col fiocco, graziosa come un fiore.

La gala che scherza intorno alle clavicole,
come un ruscello lascivo che si strofini sulla roccia,
difende pudicamente dai lazzi ridicoli
le funebri grazie che tiene a celare.

I suoi occhi profondi son fatti di vuoto e di tenebre,
e il suo cranio, artisticamente acconciato di fiori,
oscilla mollemente sulle gracili vertebre.
Oh, fascino di un nulla follemente acconciato!

Alcuni ti chiameranno una caricatura,
poichè non comprendono, amanti ebbri della carne,
l'eleganza ineffabile dell'umana armatura.
Tu rispondi, grande scheletro, al mio gusto più caro!

Vieni forse a turbare, con la tua smorfia possente,
la festa della Vita? o qualche vecchio desiderio,
che ancora sprona la tua vivente carcassa,
ti sospinge, credula, al sabba del Piacere?

Al canto dei violini, tra le fiamme delle candele,
speri di scacciare il tuo beffardo incubo,
e vieni a domandare al torrente delle orge
di rinfrescare l'inferno che ti fiammeggia nel cuore?

Inesauribile pozzo di stoltezza e di colpe!
Eterno alambicco dell'antico dolore!
Attraverso il curvo intreccio delle tue costole
io vedo, ancora errante, l'insaziabile aspide.

A dir il vero, temo che la tua civetteria
non trovi un premio degno dei tuoi sforzi;
quale di questi cuori mortali, comprende la celia?
Gli incanti dell'orrore non inebriano i forti!

L'abisso dei tuoi occhi, pieno d'orrendi pensieri,
esala la vertigine, e i ballerini prudenti
non contempleranno senza nausee amare
il sorriso eterno dei tuoi trentadue denti.

Eppure, chi non ha stretto tra le sue braccia uno scheletro,
e chi non si è nutrito di cose della tomba?
Che importa il profumo, l'abito e la toeletta?
Chi fa lo schifiltoso mostra di credersi bello.

Baiadera senza naso, irresistibile sgualdrina,
dì dunque a questi ballerini che fanno i turbati:
"Fieri piccini, malgrado l'arte delle ciprie e del rossetto,
tutti puzzate di morte! O scheletri muschiati,

Antinoi avvizziti, dandies dalla faccia glabra,
cadaveri verniciati, seduttori canuti,
la ridda universale della danza macabra
vi trascina in luoghi che non son conosciuti!

Dai freddi quais della Senna alle rive ardenti del Gange,
l'armento mortale salta e gode, senza vedere
in un buco del soffitto la tromba dell'Angelo,
sinistramente spalancata come un fucile a trombone nero.

In ogni clima, sotto ogni sole, la Morte t'ammira
nelle tue contorsioni, risibile Umanità,
e spesso, come te, profumandosi di mirra,
mescola la sua ironia alla tua insania!"

(C. Baudelaire, tratta da "I Fiori del Male")

In this paper, which is based on Oscar Wilde's "The Picture of Dorian Gray" (1891), I shall explore the literary figure of Dorian Gray as "the dandy". The aim is threefold. Firstly, I want to show how the dandy is related to two of the most potent archetypal images: Dionysos and Apollo. Secondly, I want to demonstrate that the Wildean dandy is profoundly afraid of life, and that his interest in form and aesthetic proportion rests on a principle of "evasion". Thirdly, I want to demonstrate that the characters of the novel are extensions of Wilde's own personality.



The Principle of Evasion

The novel can be defined as a symbolic representation of a dialectic between two aspects of Wilde's personality. Dorian is an archetypal image whose behaviour symbolizes Wilde's unconscious attitudes. Dorian is characterized by his evasiveness and his obsession with art's objects. For example, when Basil comes to console him about Sibyl's death, he is unwilling to discuss the matter. He does not want to admit the possibility that his behaviour was reprehensible. He tells his friend: "If one doesn't talk about a thing, it has never happened. It is simply expression, as Harry says, that gives reality to things". Later, after murdering Basil, he again seeks to avoid acknowledging what he has done: "He felt that the secret of the whole thing was not to realize the situation".   Dorian escapes from every unpleasant realization by turning his attention to other things. Unwilling to admit that his actions have moral implications, he seeks refuge in art. On hearing of Sibyl's death, he accepts an invitation, for that very evening, to go to the opera. He learns to see life only from an aesthetic perspective. He reflects: "Form is absolutely essential to it. It should have the dignity of a ceremony, as well as its unreality, and should combine the insincere character of a romantic play with the wit and beauty that makes such plays delightful to us." The consequence of this attitude is that he finds himself increasingly "stepping outside" his experiences in order to observe them from a distance. Instead of living his experiences more intensely, he finds himself observing them, as in a theatre. He confesses to Lord Henry, with reference to Sibyl's suicide: "I must admit that this thing that has happened does not affect me as it should. It seems to me simply like a wonderful ending to a wonderful play. It has all the terrible beauty of a Greek tragedy, a tragedy in which I took a great part, but by which I have not been wounded." He tells Basil: "To become the spectator of one's own life, as Harry says, is to escape the suffering of life". Some eighteen years later, Dorian no longer even feels part of his own drama. He has become only a spectator, and what he sees is a projection of the grotesque shape that his own personality has assumed. He coldly watches Basil as the latter reacts to his now hideously deformed painting: "The young man was leaning against the mantelshelf, watching him with that strange expression that one sees on the faces of those who are absorbed in a play when some great artist is acting. There was neither real sorrow in it nor real joy. There was simply the passion of the spectator, with perhaps a flicker of triumph in his eyes". He is no longer watching himself only. He is watching another person's reaction to the cruelty which he does not want to recognize in himself. Throughout the novel, the mechanism whereby involvement is translated into aesthetic perspective is associated with fear. The Wildean dandy is content with philosophic contemplation. He is afraid of the power that an individual -- any individual -- is potentially capable of exercising over him. He does not involve himself in the worries of his friends, for worry signals suffering, and the Wildean dandy will do everything possible to avoid suffering. He blocks off any realization that might pain him. He is afraid of his own unacknowledged desires. He is afraid to live the kind of life that so fascinates him. His wit is just one of his means of defence. It is a way of evading the obligation to respond to the demands and individuality of another person. For example, when Dorian first meets Lord Henry, to distract him from the latter's words, he turns to observe a bee: "He watched it with that strange interest in trivial things that we try to develop when things of high import make us afraid, or when we are stirred by some new emotion for which we cannot find expression, or when some thought that terrifies us lays sudden siege to the brain and calls on us to yield." He has been granted the means to enjoy life to the full, but paradoxically he is afraid of life. Consequently, he seeks refuge in a pseudo-aestheticism. For example, when he shows Alan Campbell into the room where Basil's murdered body lies, he is suddenly afraid that he will have to see the consequence of what he has done: "There he stopped, feeling afraid to turn round, and his eyes fixed themselves on the intricacies of the pattern before him". His subsequent passion for art's objects, so lengthily described in chapter XI, is simply a way "by which he could escape, for a season, from the fear that seemed to him at times to be almost too great to be borne". He is afraid of that side of his own personality for which he is not prepared to accept responsibility. Dorian is the Wildean dandy for excellence. He is what both Basil and Lord Henry would like to be. It is worth noting that Wilde wrote of the characters in his only novel: "Basil Hallward is what I think I am: Lord Henry what the world thinks me: Dorian what I would like to be -- in other ages, perhaps". Dorian personifies a conflict between Dionysian and Apollonian elements particularly fascinating to his creator. He has a passion for "the colour, the beauty, the joy of life", but avoids becoming involved with any experience for fear of it causing him possible pain. Basil's and Lord Henry's fascination with him represents Wilde's obsession with a young dandy whose evasiveness and pseudo-aestheticism symbolize his own unconscious fears.









Apollo and Dyonysos

"The Picture of Dorian Gray" revolves around Dorian's dual nature. On the one hand, he is the young hero whose adventures the novel records; on the other, he is a painted image of "extraordinary personal beauty." When Lord Henry tells him that his exceptional looks will not last, the young man prays that he be allowed to remain as he is in Basil's portrait of him. Dorian wants to enjoy his youth for ever. His "mad wish" is a key to the archetypal factors which condition the novel, for the quality of "eternal youth" is a primary attribute of Dionysos.  That Dorian is invested with the attributes of Dionysos is, however, corroborated in the novel. The morning after he cold-bloodedly turns his back on Sibyl Vane, he checks to see whether Basil's portrait has really altered. It has and he immediately understands what this signifies for him: "Eternal youth, infinite passion, pleasures subtle and secret, wild joys and wilder sins -- he was to have all these things. The portrait was to bear the burden of his shame: that was all." The young man who realizes this has known only the passions of an adolescent's dreams. In other words, he believes that, under normal circumstances, such pleasures would stain him, not only morally, but physically. And so he prays that he may enjoy every pleasure which life can offer him, and yet remain unmarked by his experience. Such passions as those he wants to enjoy are associated with Dionysos. This is confirmed toward the end of the novel, when Lord Henry, following their discussion of Basil's murder, says to Dorian: "You have drunk deeply of everything. You have crushed the grapes against your palate. Nothing has been hidden from you." The vine belongs to Dionysos. Dorian as eternal youth incarnates Dionysian life. It is for this reason that Sibyl calls him "Prince Charming !". The novel begins with Dorian praying that he be granted the "eternal youth" proper only to a god. To seek to appropriate a god's attributes signals psychological inflation. Not coincidentally, central to the novel is another myth whose subject is psychological inflation. It is introduced in an analogy toward the end of the novel, while Dorian is playing the piano. Lord Henry remarks: "What a blessing it is that there is one art left to us that is not imitative ! Don't stop. I want music tonight. It seems to me that you are the young Apollo, and that I am Marsyas listening to you." For his portrait gradually assumes the aspect of a "hideous old satyr" (157). When he tries to destroy it, he kills himself, and the portrait reverts to its original Apollonian perfection. By virtue of his "mad prayer," Dorian appropriates the attributes of both Dionysos and Apollo. He is a symbolic personification of both Dionysian intoxication and Apollonian form; of Dionysian involvement and Apollonian unapproachability. He is able to enjoy the Dionysian pleasures to which he wants to abandon himself, but at an Apollonian distance.

"The Picture of Dorian Gray" begins with Basil describing his fascination with Dorian, and ends with his masterpiece reverting to its original splendour. He describes his reaction to Dorian in these words: "When our eyes met, I felt I was growing pale. A curious sensation of terror came over me. I knew that I had come face to face with some one whose mere personality was so fascinating that, if I allowed it to do so, it would absorb my whole nature, my whole soul, my very art itself."    Such a reaction is not a reaction to another human being. It signals an intimation of something super-human. The word "fascinating" comes from fascinum, which means "spell." A fascination is caused by unconscious factors. It grips us; it holds us in its power; it acts upon us. The expression "face to face" suggests an image of a "god". Dorian as both Dionysos and Apollo corresponds to a god-image, a mixture of opposites to represent any kind of totality. Basil lives only for his art. He is afraid of life, because it is capable of exerting an influence over him which he feels as threatening. He is afraid of Dorian, because Dorian personifies the Dionysian side of his own personality which he has repressed. He needs Dorian, because only through Dorian can he feel that he is alive. The contrast between them is suggestive. Basil is fascinated by what he himself is not. The attributes which he finds so fascinating stand in "compensatory" relation to him. But, instead of seeing his fascination as symbolic of a need to develop the Dionysian side of his own personality, he seeks to perpetuate his experience through art. The novel may begin in Basil's studio, but its story is triggered by Lord Henry, who is equally fascinated by Dorian. Lord Henry is a dandy who has elaborated a theory of Individualism. He advises Dorian to enjoy life to the full, to give way to every temptation, to realize his every fantasy but not to allow any experience to arrest the pursuit of his pleasure. He watches Dorian's progress closely, half aware that he is experimenting on himself. Dorian has what he values most, and feels he has lost: youth. In other words, Lord Henry is also fascinated by what he is not. He is captivated by Dorian, because Dorian lives the life he would like to live. Instead of seeing Dorian as symbolizing his need to involve himself in life, he contents himself with "philosophic contemplation". He too represses his Dionysian side. He feels it sufficient to experience this through Dorian.


Wilde's Personality

Basil and Lord Henry personify two different aspects of Wilde's personality. Basil's fascination with Dorian anticipates Wilde's fascination with Lord Alfred Douglas. For example, in the novel, Basil says that Dorian is "absolutely necessary" to him: "my life as an artist depends on him". And he tells Dorian "You became to me the visible incarnation of that unseen ideal whose memory haunts us artists like an exquisite dream". A few years after writing this, Wilde wrote to Lord Alfred Douglas "I can't live without you", and "you are the atmosphere of beauty through which I see life. You are the incarnation of all lovely things" (Letters). Basil confesses his idolatry of Dorian. Similarly, Wilde, in a letter to Douglas, writes "I shall be eternally grateful to you for having always inspired me with adoration and love" (Letters). The fact that the fiction antedates life suggests that the unconscious perceives more than consciousness. Similarly, Lord Henry never says a moral thing, and never does a wrong thing. He lives only through his conversation. He is too concerned with the promotion of his own views to be able to respond to those of any one else. His relationship with his wife ends in divorce as Wilde's did. He is also the carrier of Wilde's extravagant personality and wit. Basil is an artist whose best work stems from a passion for a young man whom he sees as a "Prince Charming". Lord Henry is a conversationalist who cuts life to pieces with his epigrams".


 






BIBLIOGRAFIA




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