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Il gusto in Italia e Spagna dal '400 al 700'

psicologia





Il gusto in Italia e Spagna dal '400 al 700'


Ogni lingua sceglie le proprie metafore , ma la metafora del gusto sembra scavalcare qualsiasi confine Per gusto s'intende il sapore di un cibo o di una bevanda, ma allo stesso tempo il gusto ci pone in contatto con la bellezza e con l'arte in generale.

Estraneo alla lingua greca, il concetto di gusto, comincia a prepararsi in antichità in quella LATINA, attraverso l'idea di un giudizio che non opera per conoscenza tecnica o razionale, ma avverte al mondo del senso. Tale idea si esprime nel "de oratore" di Cicerone mediante l'opposizione di senso e arti. Lo stesso Cicerone nell' "orator" mette ancora in contr 313e42d asto il senso con il giudizio affermando che il giudizio rispetto al senso è molto difficile da conoscere. Il contributo del Medioevo latino alla futura fissazione del concetto di gusto consiste soprattutto nell'accentuazione del nesso tra sapere e sapore, che troviamo negli scritti di Virgilio di Tolosa.

Un'altra tradizione importante nell'epoca medioevale, è rappresentata dal senso MISTICO della parola gusto, ossia quello che, interpreta la tipica conoscenza che possiamo avere di Dio non come un conoscere discorsivo, intellettuale, ma come un contatto diretto assimilabile al rapporto col gusto. Il medioevo romanzo insiste invece sull'analogia tra il sapore e il diletto.



E mentre in Italia già in Dante è attestato l'uso del termine gusto inteso come preferenza soggettiva. In Spagna invece l'accezione dialettale "sabor" è spesso sinonimo di diletto.L'accostamento di diletto e sapore prepara evidentemente quello di piacere e gusto, molto diffuso nel 500 spagnolo. Nel 1534 Boscàn realizza la traduzione del "cortigiano" di Castiglione. In questa versione la parola gusto viene utilizzata + volte in senso di piacere estetico. X questo Boscàn può essere ritenuto l'inventore del gusto in senso moderno. Il gusto (con la nascita dell'estetica moderna) giocherà un ruolo centrale e in esso verrà riconosciuta la capacità giudicativa autonoma non riducibile ne al giudizio intellettuale ne a quello di uno dei sensi esterni.

Con il passaggio al 17° sec il sinonimo "Gusto" sembra affinarsi con un senso più tecnico che comincia a muoversi verso il concetto moderno (Bueno gusto). Sempre in questo periodo si diffonde l'idea della varietà del gusto, dice Lope infatti che "ci sono 1000 odi di gusto",mentre Ponzalo fissa la formula "il gusto non è discutibile".

Baltasar Gracian è il primo che(gesuita spagnolo vissuto tra il 1601 e il 1658) sviluppa in riferimento non soltanto e non tanto alle opere d'arte e alla bellezza, quanto alla condotta in società e in politica, un concetto del gusto come capacità di giudizio non riconducibile a regole intellettuali, ma legata a una facoltà autonoma di orientamento, che si configura come un'abilità o un dono. In Gracian il gusto è soprattutto capacità di scegliere, e come tale è una delle caratteristiche salienti del discreto, dell'uomo capace di comportarsi in ogni circostanza in modo opportuno. Ma saper scegliere è uno dei doni più preziosi della natura , un dono che viene elargito a pochi. Incapacità di scegliere significa difetto di gusto (tutto riesce loro infelicemente non conseguono ne stima ne ammirazione). Saper scegliere presuppone la conoscenza di tutte le circostanze richieste per la decisione individuale. Il gusto è dunque vario, e questa varietà è il principio fondamentale che Gracian vuole fissare <i gusti sono tanti e vari quanti sono i volti>. La varietà dei gusti non è legata però solo alla varietà degli individui, ma anche a quella dei tempi e dei luoghi. Di qui la regola fondamentale di "non urtare i gusti altrui". Tale varietà non impedisce al gusto di essere una facoltà fondamentale della mente umana. Gracian è anzi esplicito nel porre il gusto accanto al genio, all'ingegno, al giudizio, ovvero accanto alle doti essenziali che regolano il comportamento e la cultura. Attraverso la diffusione delle opere di Gracian in Francia, e in particolare attraverso la trasposizione dell'ideale del <discreto> la parola e il concetto del gusto passeranno, nel corso del XVII secolo, nella cultura francese in riferimento alle belle arti.

Con il passaggio alla problematica delle belle arti tra 600 e 700 non assistiamo alla nascita di un nuovo concetto, come avviene nel caso di altri concetti affini, per esempio quello del "non so che", il nuovo ambito di riferimento non annulla affatto i caratteri emersi in quelli precedenti, anzi si rivela come quella capacità di giudicare che non decide sulla base di regole logiche. La provenienza spagnola del concetto di gusto fu notata quasi subito, ma Croce e Farinelli, ricordarono che il concetto di gusto era già presente nella trattatistica italiana del 500 e della prima metà del 600.

In infatti Italia già nel 500 gli impieghi della nozione di gusto in relazione alle arti e al giudizio su di esse non sono ne scarsi né isolati;già nell'Orlando Furioso Ludovico Ariosto adopera la metafora del buon gusto.In Leone Ebreo invece troviamo la presenza dell'aggettivo buono e il riferimento esplicito alla poesia. Anche nelle Rime di Michelangelo compare la parola "gusto" , anzi Buon gusto, di gusto si parla anche nel mondo della scultura con Vasari e Cellini, ma anche in quello della moralistica si può citare la Civil-conversazione del Guazzo. Però solo nei primi decenni del Seicento emergono alcuni testi di grande importanza, che testimoniano un uso riflesso e consapevole del termine gusto,si tratta dei testi di Campanella e di Zoccolo.

Mentre nelle altre nazioni nel XVIII sec si assiste a un approfondimento riflessivo delle intuizioni del sec precedente, in Italia e in Spagna la riflessione teorica sul tema del gusto si fa + scarsa, si ha dunque un'involuzione, un fenomeno di disinteresse e di regresso. Il primo libro italiano a recare nel titolo la parola Gusto è il trattato del padre Camillo Ettorri "Il buon gusto né componimenti rettorici" stampato a Bologna nel 1696, esso accoglie senza problemi il traslato dal gusto del palato al gusto letterario e allarga il suo impiego a tutte le arti; nonostante ciò quando si tratta di definire il gusto mostra di non aver ancora chiaro quel che individua la novità del concetto. La definizione di Ettorri restringe il gusto nell'ambito dell'intelletto, facendogli perdere ogni relazione con la sfera della sensibilità e del sentimento. Il gusto x lui non è altro che "giudicio regolato dall'arte e che la natura e l'ingegno non servono dove l'arte manchi". In una sua opera l'Ettorri passa a determinare il Gusto come prodotto dell'attività concomitante de l'ingegno, il giudizio e l'intelletto. Neppure Muratori nei suoi scritti sul gusto riesce a dare un vero approfondimento sul gusto. Il buon gusto x lui consiste nel saper giudicare in teoria e in pratica ciò che è bello e ciò che è deforme; saper giudicare significa saper bene applicare le regole del bello. Muratori non esce quindi dall'intellettualismo, ma tuttavia in un aspetto la sua riflessione appare + feconda. Egli sembra infatti cogliere anche se in senso normativo un barlume della dialettica tra "gusto particolare di ciascuno" e "buon gusto universale". Proprio da questa riflessionedel Muratori trasse spunto Feijoo realizzando così "Ragion del buon gusto"

Lo scritto sul Gusto più interessante di tutto il 700.Egli esordisce attaccando accanitamente l'assioma "De gustibus non est disputandum", pronto a sostenere che si possono <dare ragioni> pro e contro il gusto.Il gusto di cui egli discute è essenzialmente quello del palato, e già nelle sue asserzioni possiamo notare una prospettiva sensualistica. Feijoo dice infatti che tutti i gusti sono buoni gusti, allora in che senso si può discutere dei gusti? Se ne può disputare perché è possibile dare motivazioni del gusto, indicarne le ragioni. Le quali sono riducibili a due: il temperamento (ossia la peculiare conformazione del soggetto senziente) e l'apprensione (ossia il rapporto che si instaura tra colui che gusta e la cosa gustata), se per la prima affermazione è difficile trovare un punto di discussione, in quest'ultimo caso (apprensione), il gusto è un fatto di assuefazione. La discutibilità del gusto si riduce x Feijoo nella correzione di una determinata assuefazione favorendo in sua vece un assuefazione diversa: (<se qualcuno guarda con disdegno infastidito qualche cibo, o perché non è usato nel suo paese o per via del suo basso prezzo è facile convincerlo mediante argomenti e quel disdegno è mal fondato>.) A Feijoo resta dunque preclusa la sfera artistica del gusto, ed egli inoltre non vede affatto la funzione conoscitiva delgusto.

Tornando all'Italia, dobbiamo segnalare che c'è almeno un episodio della teorizzazione sul gusto che si mostra all'altezza del dibattito europeo. Si tratta delle lettere che uno studioso provinciale, il Conte Pietro di Calepio, scambiò sul concetto del gusto con il suo corrispondente svizzero, J. Bodmer.

Qualche anno più tardi Bodmer pubblicherà un libricino nel quale accanto alla traduzione di larghi estratti dalle lettere di Calepio, riportava le proprie lunghe risposte. Il libro ebbe poca o nessuna eco, anche perché gli originali delle lettere del bergamasco sembravano perduti. A causa di questi accidenti territoriali le lettere furono pubblicate soltanto nel 1964 e il significato delle lettere di Calepio per lo sviluppo delle idee sul gusto è stato colto di rado.

Già nella lettera del 7 gennaio 1729 (la 2° del carteggio), Calepio alle perplessità manifestate da Bodmer circa l'impiego del termine gusto, replica asserendo che il gusto estetico è un sentimento e non un giudizio intellettuale: <per gusto si esprime il sentimento che riceve l'animo per opera della elocuzione, e per buon gusto quel discernimento che con l'aiuto della ragione conosce le perfezioni e i difetti della medesima>.

Dunque il gusto è un sentire; un sentimento che agisce tuttavia <con l'aiuto della ragione> ; e questo sentire non scompagnato dalla riflessione è l'unico giudice dei fatti estetici. X contro il gusto x Bodmer deve basarsi su raziocini corretti. Le 2 linee opposte tra Calepio e Bodmer genera 2 partiti sul gusto:quello degli intellettualismi e quello dei sensualisti. Ed è proprio su queste 2 linee che si muoverà il dibattito sul gusto di tutto il 700.



Il Gusto in Francia

E' difficile sottrarre la nascita del gusto in Francia a quella che è stata chiamata l'internazionalità del cuore. A ciò si aggiunge la centralità della querelle tra "Antichi e Moderni" episodio che permette di accostare fattori di sensibilità soggettiva alla progressiva crisi delle regole classiciste e delle utopie oggettiviste. In questo quadro così complesso il gusto è ancora all'interno della nozione progenitrice di "non so che"e soprattutto è all'interno di un orizzonte caratterizzato da numerosi problemi:in primo luogo, si ha il quadro problematico generale rappresentato dai dibattiti aperti dalla querelle e dalle eredità sociali e culturali. In secondo luogo il gusto è quasi un pretesto x discutere sulle questioni dell'ordine, della ragione, del sentimento, della critica e del giudizio ad esso correlato. Tuttavia in terzo luogo il tema del gusto è una questione sociale che si rapporta alla vita di corte e, in generale, alla capacità di un uomo raffinato e colto di costruire un'arte della conversazione che abbia nel gusto la sua guida. E' visto come un valore essenziale ma che non ha nulla d'assoluto. Particolarmente significativo è il lavoro di Gombaud che

in corrispondenza con Pascal, afferma che "la delicatezza del gusto è necessaria per conoscere il giusto valore delle cose": per ben indirizzare questo dono è indispensabile fare del buon gusto una scienza, un'abitudine. Il gusto da espressione figurata si trasforma in oggetto di discussione. Questi orizzonti filosofici e sociali hanno tuttavia un punto di sintesi comune, che può essere espresso nel biennio 1687-88, anni in cui sia prende avvio la querelle sia vengono pubblicate l'opera di Bouhours e di La bruyère. Le premesse di entrambi si ritrovano in Pascal e nei cosiddetti "moralisti" oltre che ai richiami del "non so che".

A Pascal si deve infatti l'affermazione sull'esistenza di un modello di bellezza, che consiste in un rapporto fra la nostra natura e la cosa che a noi piace. Tutto ciò che è costruito seguendo tale modello provoca piacere alle persone di "buon gusto".

Sui gusti La Bruyère sostiene invece che si può disputare, e il terreno della disputa si ha quando si va alla ricerca del punto di perfezione dell'arte. Chi sente tale punto ha il gusto perfetto. La Bruyère sarà un modello x il percorso teorico del gusto nella cultura francese: dai suoi pensieri si comprende infatti che il gusto non è esclusivamente la facoltà di giudizio dell'arte bensì un più generale "modo di sentire". Inoltre egli osserva che fra il buon senso e il buon gusto c'è la differenza che intercorre tra causa ed effetto. E all'interno di questi stessi temi che si pone l'opera di Bouhours connettendo non so che e gusto a un "bel esprit". Vi è infatti un'esaltazione naturalistica del piacere di cui il gusto è un'espressione. Da un lato infatti si evoca la naturalità del piacere estetico ma dall'altro si cercano regole in grado di manifestare quel "non so che" che l'uomo di buon gusto deve afferrare. Buon gusto che diviene per Bouhours, una sorta di istinto della giusta ragione. X questi autori moralisti il gusto vive dunque in riferimento a una sorta di luce spirituale connessa a una ragione divina. In altri autori(es Evremonol)vive un'altra visione:una visione che vede il gusto come un valore essenziale che non ha nulla di assoluto, non è né dono divino né facoltà metafisica, e non rivela alcuna trascendenza, apparendo piuttosto come il frutto di una superiorità concreta di certe persone, frutto di un equilibrio individuale. Il legame genetico tra "non so che" e gusto caratterizza questo periodo francese ed è proprio Bouhours il divulgatore di tale parentela e del suo progressivo superamento. Egli identifica il gusto non con un "rapporto oggettivo" ma con un'affinità empatica, vivente e attiva, con l'oggetto stesso.Si entra così nel secondo tema: Bouhours non è infatti assimilabile alle posizioni del classicismo ed è proprio questo spostamento del buon gusto classicistico verso l'indistinzione del "non so che" e di quest'ultima verso una specifica facoltà di giudizio qualitativo a far comprendere il problema all'interno del quale i pone la querelle tra gli antichi e i moderni. La querelle nasce ufficialmente nel 1687 e vede appunto 2 fronti contrapposti:antichi e moderni.Rappresentanti della visione moderna sono: La Motte, Fenelon, Fontanelle e Perrault ed è proprio di quest'ultimo la posizione iniziale.Egli infatti afferma che noi oggi abbiamo una conoscenza delle arti e della scienze + perfette di quelle del passato poiché anche se la natura è statica ed immutabile, muta il rapporto che l'uomo ha con essa. A difendere la tradizione classica è Nicolas Bouleau : egli afferma che se la bellezza è un'imitazione della natura, i suoi canoni sono statici, immutabili e già stabiliti dagli autori dell'antichità;e che se i moderni non colgono le bellezzezze dell'antichità è solo x le loro manchevolezze e xchè sono ciechi e privi di gusto. Questa argomentazione costituirà un topos di riferimento x l'intero partito degli antichi. Molti anni dopo verrà ripresa da Madame Dacier che, contro la Motte, scrive Cause della corruzione del gusto, individuando 3 cause principali: la cattiva educazione, l'ignoranza dei maestri, la pigrizia dei giovani. La risposta di La Motte, coglie il punto debole dell'argomentazione, comprendendo come le accuse degli antichi in relazione al "gusto" dei moderni costituisse un'indiretta adesione alle opinioni dei moderni stessi, x i quali è importante soltanto "che si renda giustizia a tutti i tempi, che si senta il bello dovunque esso è, senza eccezione di secolo". Questa fase della querelle si chiude dunque con un importante paradosso,in quanto i moderni sostengono l'oggettività del gusto, mentre gli antichi la fondano su basi sensualiste, legate alla tradizione del "non so che" presente in Bouhours e nei moralisti. Oltre alla parte regolistica della querelle vi è pure una disputa sulla definizione del rapporto tra gusto, sensibilità, natura e bellezza. Il problema di fondo è quello del piacere: sia antichi che moderni sono consapevoli che il gusto non può + adeguarsi ai canoni classicisti ma deve volgersi a comprendere il senso dell'espressività, dunque della bellezza naturale e artistica, sino al raggiungimento di una bellezza ideale. Se Perrault influenzato da Cartesio, ritiene che il gusto debba cogliere l'essenza del bello e non le sue apparenze sensibili,non tutti i moderni la pensano così. Vi sono infatti posizioni più sfumate: Fontanelle scrive nel 1683 che, se cambiano i costumi, non muta affatto il cuore e "tutto l'uomo è nel cuore", in quanto "l'ordine della natura segue una legge costante". In altri casi è invece il sospetto nei confronti del naturale a caratterizzare il gusto dei moderni: il gusto è qui il riconoscimento di una misura tra il "naturale" dell'opera e la natura che è nell'uomo e nelle cose. Con ciò tendono a dimostrare il particolare razionalismo dei moderni, che intende "utilizzare la ragione x difendere l'integrità della natura". E su questo terreno, naturalistico e antropologico, che i moderni incontrano gli antichi. All'interno di tali posizioni, gli antichi costruiscono una tradizione maggiormente legata alla vita delle arti plastiche, agli insegnamenti o sui legami tra l'emozionalità e le pratiche delle costruzioni artistiche. Al di là delle dispute e delle tradizioni, si vuole ormai imporre un'idea di gusto sottratta ai vincoli formalistici di un "esprit" regolato e manierato. Posizione che in Rollin è già chiara nel 1725, quando egli definisce il gusto come incontro di istinto e di ragione. La + articolata teorizzazione di tale incontro è quella di Du Bos; egli delinea un nuovo odo x avvicinarsi al tema del gusto. Gusto che x Du Bos si presenta come la specifica modalità giudicativi attraverso la quale il sentimento manifesta un sapere che precede le regole e la categorizzazione critica:un sapere che, è comunicabile. Attraverso l'analisi del genio e del gusto, Du Bos non cerca di determinare la natura oggettiva della bellezza, bensì l'effetto che alcune realtà sensibili espressive generano sulla nostra sensibilità. La correlazione tra genio artistico <derivato dalla felice unione della qualità del sangue con la corretta disposizione degli organi>e l'emozione<ricettiva e produttiva> va riferita al pubblico che è il vero e proprio soggetto del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto è un"senso comune", il senso di una sensibilità che coglie il valore espressivo delle opere indipendentemente dalla conoscenza delle regole e degli stili:il sentimento dice Du Bos<dice molto di + sull'impatto che l'opera ha su di noi>. Il ragionamento deve intervenire solo in seconda istanza x spiegare la "decisione del sentimento". Il pubblico x Du Bos è una realtà sociale e culturale che riflette e giudica in quanto dotato di "gout de comparaison". Quest'ultimo è un sesto senso che decide il contenuto espressivo ed emotivo presente sia nell'oggetto imitato sia nell'imitazione artistica. Pur mancando in Du Bos una descrizione degli elementi essenziali del gusto, nel momento in cui lo si articola in quanto comparativo e comunicativo lo si trasforma in un modello, e in un punto di avvio, x la tradizione estetica, non solo francese. A partire dal tema del gusto, Du Bos segna la tardiva vittoria del partito degli Antichi, infatti i suoi argomenti sono costantemente ripresi e discussi. L'essai sur le beau di Yves Marie André è il più rilevante segnale di questa nuova e comune attenzione teorica verso tale problema. Andrè stigmatizza che x giudicare il bello, ancora si ricorra all'antico principio del "non so che". Ciò comporta che, accanto al sentimento, di cui si colgono i limiti giudicativi, si cerchi il senso intrinseco della bellezza:segno, appunto, del convivere, oltre alle visioni estetico-morali del Gran Secolo, di una metafisica razionalista della bellezza. Andrè fa comprendere che anche i tentativi "razionalisti" di determinare la natura della bellezza prendono le mosse dalla questione del buon gusto, dal tentativo di definire "oggettivamente" il "non so che" e il suo correlato giudicazione. Il giudizio estetico non è dunque solo una questione di opinioni critiche o di moralismo nostalgico ma apre un problema gnoseologico: problema che, pur impegnando la ragione, non dimentica la sfera del cuore. Il programma filosofico di Andrè ha in Voltaire il suo maggior divulgatore. Voltaire ha in sé tutti quei valori che caratterizzano l'uomo di gusto. L'elenco di attributi che Voltaire presenta nel Temple du gout è dunque l'immagine perfetta di quel che un francese della prima metà del secolo intendesse con la parola gusto. Questa valenza comunicativa-sociale-conoscitiva del gusto è particolarmente viva e ricca di spunti, oltre che di storia, in quegli autori che, come Voltaire, Montesquieu, d'Alembert, Condillac o Dierot, danno vita alla cosiddetta filosofia dei "Lumi".Ed è proprio Le temple du gout il primo vero e proprio manifesto in cui chiaramente risaltano le qualità del gusto: <semplicità,nobiltà,misura negli ornamenti,necessità intrinseca del proprio oggetto, "naturalità" dell'arte, soddisfacimento dell'occhio,grazia,ammirazione,severità,buon senso, si oppongono a un "falso gusto"che è figlio dell'arte, falsità che si evidenzia x il suo essere stracarico di orpelli e forbito nel linguaggio>. Gli aspetti + filosofici del problema si colgono invece nella parte della voce "Gusto" firmata da Montesquieu. X egli il gusto è il risultato di un incontro e di un equilibrio tra i "diversi piaceri dell'anima". Sono infatti tali piaceri che formano gli oggetti del gusto, come x es.il bello,il buono,il "non so che",il sublime. In questa pluricategorialità dell'universo della bellezza, il gusto è una mediazione comunicativa che stabilisce la necessità di una legislazione:come accade nella sua opera maggiore , l'espris des lois.In quest'opera il gusto è "la capacità di scoprire, con finezza e prontezza, la misura del piacere che ogni cosa deve procurare agli uomini". Questo punto di vista è simile a quello di Voltaire:ma Montesquieu aggiunge la volontà di un generale sguardo legislatore, che si esplicita nella distinzione tra un gusto "naturale" e uno "acquisito". Il gusto naturale, è l'applicazione pronta e squisita di regole che neanche si conoscono:ma è soltanto al gusto acquisito che può rivolgersi la teorizzazione e la descrizione.L'ultima definizione della voce gusto dell'enciclopedia che si deve a d'Alembert, prosegue, quasi come fosse una volontà di ricercare, attraverso il gusto e la sua definizione una mediazione tra ragione e natura che non dimentichi la centralità conoscitiva del "sentire". D'Alembert interviene solo molto raramente su temi critico-estetici ribadendo come la nozione di gusto sia utile x porre una giusta misura agli eccessi di lode eccitate agli Antichi o ai Moderni, permettendo una produttiva comunicazione tra la passione e la ragione. Di conseguenza alcune bellezze, x loro intrinseche caratteristiche, colpiscono tutti immediatamente, altre invece, quelle che richiedono educazione, cultura e progresso sociale, sono il vero e proprio "oggetto" del gusto, che può dunque venire definito come "il talento di distinguere nelle opere d'arte ciò che deve piacere agli animi sensibili e ciò che deve offenderli". D'Alembert inoltre evidenzia che in quel sapere chiamato gusto è connaturata la presenza di un "non so che". In tal modo il gusto si trasforma quindi in un fondamentale carattere dell'enciclopedista.L'impostazione del problema di Montesquieu e di d'Alembert è ben diversa da quella di Voltaire e dei classicisti: se x questi ultimi il gusto è essenzialmente una metafora che unisce tra loro i vari e raffinati gusti particolari,x d'Alembert è parte di quella generale scienza filosofica dei principi che è compito degli enciclopedisti instaurare, al di là di particolarismi fattualistici ed eruditi. D'Alembert, come Hume, ritiene sia necessario stabilire alcune regole metodologiche intorno alle quali possa istituirsi un nucleo filosofico x le ricerche sul bello e la sua ricezione. In queste affermazioni, egli è influenzato da un'opera del 1746 di Charles Batteux, un lavoro che, pur dedicato a quell'insieme di sapere che coinvolgono le arti, la bellezza, la bella natura e le loro specifiche facoltà di riferimento, sul piano metodologico non è distante dai presupposti di d'Alembert:ridurre cioè all'unità di un principio fenomeni complessi, costruire un "sistema" che non sia viziato da un'astratta "sistematicità" ma segua piuttosto gli insegnamenti di una filosofia sperimentale, acquisendo e discutendo i risultati precedenti delle varie tradizioni filosofiche empiriche o razionaliste. Batteux rappresenta al di là del suo intrinseco valore filosofico, sul quale a lungo Dierot ironizza, un punto d'arrivo che compie i discorsi francesi sul gusto. Infatti dopo la metà del secolo e sino alla Rivoluzione, gli scritti dedicati ai problemi estetici tendono a farsi ripetitivi. L'opera di Batteux si realizza su una strada che non solo separa il gusto dal piacere, ma lo presenta anche come una specifica facoltà dell'intelletto umano. Il gusto è inoltre presentato da Batteux sempre in connessione con il genio: è, nell'interpretazione espressiva della bella natura, la guida stessa del genio, la facoltà che permette di ordinare e disporre le parti che,nella loro varietà, danno origine all'unità dell'opera. Se apparentemente l'orizzonte tematico di tale sapere sono le arti, in verità esso è rivolto alla natura ed ad esse solo in quanto imitazioni espressive della bella natura. Tra le "leggi generali" del gusto il primo posto spetta infatti, x Batteux, alla necessità di <imitare la bella natura>. Come abbiamo accennato è nota l'ironia di Dierot nei confronti della "bella natura"di Batteux:egli ritiene infatti che la natura in sé non è mai né bella né brutta dal momento che è un organismo omogeneo e in costante movimento. Il bello, il piacevole o il brutto dipendono solo da una interpretazione qualitativa ed espressiva dei loro intrinseci rapporti e da come questi rapporti sensibili sono percepiti. Sempre secondo Dierot criticando Hutcheson e implicitamente i francesi, è privo di significato,parlare di sesto senso o senso della bellezza in riferimento al gusto. Dierot sceglie dunque x il gusto un metodo genetico che cerca di completare le teorie fatte sino a quel momento da Batteuz,Andrè e dagli inglesi. Egli non scrive uno specifico saggio sul gusto,ma nella voce dell'encyclopedie che dedica al bello, egli cerca di dare una definizione che vede il bello come percezione di rapporti. Anche in questo caso, siamo di fronte a una duplicità. Da un lato, infatti, con il termine percezione,si rimanda alle questioni del gusto così come erano state intese in un concetto empiristico; dall'altro con la parola rapporti si rinvia a un ordinato contesto oggettivistico. La conclusione è che si può chiamare <bello fuori di me>tutto ciò che risveglia nell'intelletto l'idea di rapporti, mentre si nomina bello<in relazione a me>ciò che suscita l'idea stessa di rapporto.



Il gusto in Inghilterra

Vi sono due correnti di pensiero:quella dei trattatisti che rivendicano l'istinto del cuore,come facoltà che coglie ciò che, in un'opera d'arte, trascende la bellezza frutto delle regole e della ragione; l'altra è una linea + propriamente filosofica che vede il gusto come facoltà della mente. Lungo questa seconda linea si configura una nozione di senso che porterà al concetto di gusto nell'accezione Hutchesoniana del termine.

Nel de Veritate Herbert aveva postulato l'esistenza di sensi interni che, sulla base di principi innati iscritti dalla provvidenza nella natura dell'uomo,apprendono intuitivamente senza l'aiuto della ragione. Non diversamente in una prospettiva che privilegia l'ambito etico, i platonici di Cambridge avevano parlato di un senso della virtù innato che consiste nel godimento e diletto di ciò che è moralmente buono.

Shaftesbury è l'erede di questa tradizione. Anch'egli sostiene che nell'essere umano sono inscritti gli istinti o i principi di quello che lui chiama "senso comune" il quale è la ragione allo stato naturale. In forza di tali principi che costituiscono il

corredo della mente, questa è in grado di percepire, attraverso sensazioni interne, il valore degli oggetti dell'esperienza senza l'aiuto della ragione. I valori etici ed estetici non sono separati: la sensazione che percepisce il valore del pulchrum (la bellezza di un oggetto) è la stessa che percepisce il valore dell'honestum (la bontà morale). Shaftesbury sostiene che a bellezza non appartiene ai corpi, ma esiste soltanto nella ragione che la percepisce. Vi è una duplice lettura di questo, una soggettivistica, nella quale il termine bellezza non designa una qualità dell'oggetto, ma un'idea del soggetto che viene imputata all'oggetto, ma per shaftesbury, che usa una lettura oggettivistica, la bellezza è oggettiva, principio della mente divina che si riflette nella bellezza del cosmo. Essa è anche un archetipo della mente umana, che per suo tramite può vedere la bellezza delle cose naturali da un lato e, dall'altro, produrre quelle cose a loro volta belle che sono le opere d'arte. Di gusto Shaftesbury parlerà soltanto nelle ultime opere ma ne parlerà in chiave socio-culturale, il taste come requisito dei gentleman e regola di una società di gentlemen. Gusto è quindi in Shaftesbury un termine che designa un temperamento e un atteggiamento. Inoltre è certamente vero che la "sensazione interna" di Shaftesbury sembra anticipare il senso interno di Hutcheson ma si tratta solo di un'analogia poiché Shaftesbury afferma si l'esistenza di "un senso naturale e comune del sublime e del bello"che è una sorta di "occhio e orecchio"della mente a cui compete la percezione delle qualità etico-estetiche delle cose ma parla sempre di bellezza morale e soprattutto perché incerta rimane in lui la nozione di senso o sensazione interna.

Opposta alla posizione di Shaftesbury,la posizione soggettivista di Locke, per cui la bellezza è un'idea complessa un'idea "di modo misto" che la mente crea combinando insieme idee semplici (come il piacere) che provengono dalla sensazione e dalla riflessione. La bellezza non esiste al di fuori della mente e il termine bello designa non una qualità dell'oggetto ma una qualità che il soggetto attribuisce all'oggetto. Chi compie il passo decisivo verso l'enunciazione di un concetto di gusto inteso come specifica facoltà intellettuale è Hutcheson. Prima di trattare Hutcheson, però, è necessario menzionare un altro autore che costituisce x così dire il trait d'union fra Locke e Hutcheson,si tratta di Joseph Addison.

Addison parte dal parallelismo fra gusto sensibile e gusto mentale, definendo quest'ultimo quella qualità che discerne bellezze e difetti. Il gusto viene identificato con l'esercizio dell'immaginazione, che è il potere della mente di percepire le qualità degli oggetti che sono fonte di un piacere chiamato "piacere dell'immaginazione". L'immaginazione è vista come una facoltà che si limita ad elaborare il materiale fornitole dai sensi. A una concezione platonica dell'immaginazione se ne sostituisce una empirica.Bello non è ciò che corrisponde all'archetipo della bellezza ma ciò che produce un certo effetto sulla mente di chi lo guarda.

Hutcheson, come abbiamo già accennato pone il passo decisivo verso l'enunciazione di un concetto di gusto in senso oggettivistico, inteso come facoltà intellettuale. Egli identifica il gusto con un senso interno che definisce "il nostro potere di percepire la bellezza della regolarità, ordine, armonia" degli oggetti dell'esperienza. Ne attribuisce la percezione ad un particolare "senso del bello" . Il senso interno diventa una facoltà puramente ricettiva, passiva.

Parlando della bellezza "assoluta ed originale", non intende una qualità supposta essere nell'oggetto che sarebbe in se stesso bello, senza relazione con la mente che lo percepisce, perché "bellezza" denota la percezione di qualche mente; così caldo, freddo, amaro sono sensazioni delle nostre menti, di cui forse c'è somiglianza negli oggetti che ce li suscitano. Il termine "bellezza", dunque, designa un'idea che esiste solo nella mente del soggetto, ma nell'oggetto esiste qualcosa che la produce, una particolare struttura formale che ha il potere di generare nella mente l'idea di bellezza, la quale viene poi proiettata sull'oggetto, qualificandolo come "bello".In tal modo la bellezza ha uno statuto soggettivo radicato in qualcosa di oggettivo. A partire da qui, questo scarto fra Hutcheson e Locke è facile individuare 2 linee di sviluppo nella storia dell'estetica britannica settecentesca. Da un lato quella di un soggettivismo che ridurrà tutte le qualità estetiche a stati mentali;dall'altra quella di un oggettivismo che non cesserà di rivendicare la materialità di quelle stesse qualità.

Vent'anni dopo questa battaglia contro la riduzione delle qualità estetiche in stati mentali fu ripresa da Hogart e Burke.

I principi che Hogart pone a fondamento del gusto ( varietà, semplicità.) vengono identificati con altrettante qualità inerenti le cose stesse, da un lato a quelle naturali e dall'altro a quelle artistiche. E' il piacere procurato alla mente da un oggetto a rendere legittimo per esso il nome di "bello". La bellezza è un costrutto mentale ma la sua causa è rappresentata da quelle qualità dette prima. L'idea di bellezza si radica quindi nella realtà oggettiva e materiale delle cose.

Burke intende per bellezza le qualità dei corpi per cui essi destano amore o qualche passione simile. Determinate qualità dei corpi (la forza, la vastità, .) sono "cause" della sublimità.

Thomas Ried rivendica la validità del senso comune in tema di giudizio estetico. Quando noi diciamo che una cosa è bella, intendiamo che essa è bella, non che abbiamo nella nostra mente l'idea della bellezza. Reid nota anche un parallelismo fra senso interno e senso esterno; nel primo, ragione e riflessione ci permettono di distinguere fra la sensazione che proviamo dentro di noi e la qualità reale dell'oggetto. Nel secondo dobbiamo distinguere l'emozione che l'oggetto bello suscita in noi e la qualità, la bellezza appunto, che è causa di quell'emozione. Hanno dunque torto i filosofi moderni che riducono tutto a sensazioni, idee interne alla mente senza lasciare nulla al di fuori. Al di fuori ci sono le varie specie di bellezza e sublimità che costituiscono le qualità reali degli oggetti, che a un primo livello, istintivo, di esercizio del gusto vengono sentite senza conoscerle nei loro effetti, ad un secondo livello, razionale, le conosciamo nella loro natura.

Hume definisce la bellezza una disposizione di parti di un oggetto adatti a dare all'anima piacere e soddisfazione. La bellezza formale di un oggetto dipende dalla relazione e dalla disposizione delle sue parti, ma aggiunge senza mezzi termini che essa non è una qualità dell'oggetto, bensì nell'effetto che la sua figura di tale oggetto produce sulla mente dello spettatore. Nulla è bello o brutto in sé, perché sono i sentimenti umani a rendere tali.

Non si sa cosa hume intenda esattamente per "sentimento", rilevanti nel suo discorso sono tre concetti:

I)       La "sensazione interna" di Hume corrisponde al "senso interno" di Hutcheson,ovvero una facoltà che raccoglie le impressioni secondarie che gli oggetti producono nella mente.

II)     La sensazione interna di Hume equivale al senso riflesso di hutcheson e di Locke prima di lui, il cui target sono non le qualità degli oggetti ma le loro idee;

III)      A differenza di Hutcheson e Locke, le sensazioni interne di Hume sono non idee ma emozioni di piacere, ma mentre Hutcheson e Locke, pur riconoscendo che la percezione della bellezza è accompagnata da una sensazione di piacere, tengono le due cose distinte concentrandosi sulla prima, Hume fa coincidere l'impressione della bellezza con quella del piacere, configurando l'intera esperienza estetica in termini di feelings, di emozioni, che sono la forma attenuata delle passioni. La percezione di un oggetto bello è l'attivazione di uno stato emotivo piacevole nel soggetto.

Ciò conduce al fatto che il bello non è oggettivo, ma soggettivo. Ne deriva che se ogni mente percepisce una diversa bellezza, allora qualsiasi cosa può apparire bella a qualcuno ed essere, di conseguenza, definita tale.

Hume afferma ancora che la bellezza deriva dall'utilità di un oggetto, ad esempio nulla rende più bello un terreno della sua fertilità.

Arcibald Alison nei suoi saggi parla di "treni di idee", intendendo con ciò che ogni idea, al momento in cui si presenta alla mente, innesca una reazione a catena costituita dall'associarsi ad essa di altre idee già depositate nella mente stessa. Ciò che distingue i treni ordinari da quelli estetici sono due caratteristiche:

I)       mentre le idee che formano i treni di idee ordinari sono per lo più "indifferenti", cioè non accompagnate da alcuna emozione, i treni di idee estetici suscitano una serie di emozioni.

II)     Nei treni di idee ordinari le idee non sono connesse fra loro da alcun vincolo predominante, mentre nei treni di idee estetici vige un "principio di connessione generale" dato dalla natura dell'emozione che per prima è stata suscitata, che comanda l'intera catena suscitando emozioni simili.

Dunque, a determinare le associazioni di idee è il loro tenore emotivo. Tutto può essere occasione di esperienza estetica.



La decostruzione del gusto

Negli Ultimi anni del settecento, il gusto si presenta per il filosofo soltanto come una ovvietà che segue il concetto di bellezza in primo luogo artistica.Il gusto perde il suo originario significato ontologico e si ritiene esaurita la ricerca fenomenologia sulle sue caratteristiche strutturali: la sua presenza è segnata piuttosto dalla ricerca dei fattori estrinseci che ne determinano i mutamenti,come per esempio,il formarsi di vari "gruppi sociali",la comparsa degli editori,e il ruolo di forze "conservatrici"come le scuole e le università. A conferma di ciò in Francia dopo la rivoluzione del 1789, gli studi sulla ricerca filosofica del gusto tendono a scomparire. Dall'Inghilterra invece vengono meno contributi rilevanti x originalità o spessore teorico. E' ovviamente alla cultura tedesca,con Kant, che si deve la "risemantizzazione" del gusto. Ma nel XIX secolo gli studi relativi al sentire, al gusto, al genio, alle belle arti tendono a scomparire dalle università, così come scompare dai programmi accademici la retorica "madre" dell'estetica.Emblema di questa decadenza del gusto è senza dubbio l' "estetica" di Hegel, nella cui introduzione Hegel intende definire il concetto del bello artistico. Hegel, difendendo la serietà scientifica dell'estetica, vuole allontanare le nozioni psicologiche che ne disturbano il ruolo spirituale e la funzione conoscitiva.Di conseguenza Hegel dichiara che la spiritualità del bello è inaccessibile al gusto, poiché il senso del sentimento del bello è rimasto nel '700 esteriore ed unilaterale, ovvero mancava di principi generali, e quando andava alla loro ricerca non era in grado di uscire dall'indeterminato. Questa critica è nata da una precisa consapevolezza filosofica della necessità di risignificare l'estetica, mettendo in primo piano una nozione capace di acquisire un senso ontologico, ormai vietato al gusto. Nozione che Hegel, e non solo lui, nei primi anni dell'800,identifica con il genio, che attesta la volontà poietica che anima lo spirito attraverso il gesto dell'artista. Il gusto, scrive Hegel, sente avanzare il genio e di conseguenza non è più padrone di sé, indietreggia di fronte alla potenza spirituale della costruzione poetica. Sulla stessa linea di Hegel, Schegel affermerà che "il genio differisce dal gusto per un grado maggiore d'attività". Ciò significa che "tra osservare e produrre non c'è differenza".

Dopo il settecento, il termine "gusto" svanisce, ucciso dalla purità dei linguaggi artistici e filosofici.

Negli scritti sull'arte, Baudelaire afferma che il gusto non è affatto scomparso ma diventa un tutt'uno con la parola "bello": indica la presenza di esso, invece di un ineffabile "non so che". Non è più disputare filosoficamente su di un gusto sceso nelle strade, fra la folla. La moda. Osserva Baudelaire, deve considerarsi come un sintomo del gusto dell'ideale che galleggia nel cervello umano al di sopra di tutto ciò che la vita umana vi accumula di volgare e di immondo.

Kant nella critica del giudizio sostiene che se l'arte bella mostra la sua eccellenza nell'offrire belle descrizioni di cose che in natura sarebbero brutte o spiacevoli, vi è soltanto una specie di bruttezza che non si può rappresentare secondo natura, senza distruggere ogni piacere estetico. Vi è un oggetto che impone un godimento che si vuole respingere, che con la forza costringe a tenere unito quel che invece deve essere distinto se si vuole ottenere un piacere estetico connesso alla rappresentazione artistica dell'oggetto stesso.





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