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Introduzione al pensiero di Martin Heidegger - Biografia e Opere

filosofia




Introduzione al pensiero di Martin Heidegger







Biografia e Opere


Martin Heidegger, nato da famiglia cattolica nel 1889, si iscrive nel 1909 all'Università di Friburgo, frequentando dapprima i corsi di teologia e successivamente, a partire dal 1911, i corsi tenuti dal neokantiano Rickert, laureandosi nel 1913. Divenuto, due anni dopo, libero docente, insegna dal 1915 al 1923 a Friburgo, dove dal 1916 ha una cattedra anche Husserl. Heidegger familiarizza, così, con il metodo fenomenologico. Insegna poi a Marburg, dal 1923 al 1928. Del 1927 è il suo capolavoro, Essere e tempo, che viene dedicato a Husserl e pubblicato sulla rivista filosofica di questi. Husserl, però, nel 1931 dichiarerà il proprio dissenso dalla filosofia dell'esistenza heideggeriana. Nel 1929 Heidegger pubblica altre tre opere fondamentali: Kant e il problema della metafisica, L'essenza del fondamento e Che cos'è la metafisica?. Nel 1933 viene nominato rettore dell'Università di Friburgo (e pronuncia un discorso considerato di adesione al Nazismo), ma si dimette un anno dopo. Per diversi anni condurrà un'esistenza appartata e riprenderà l'insegnamento solo nel 1952. Una svolta nella sua riflessione si era, comunque, verificata già a partire dall'inizio degli anni '30. Di essa sono espressione numerosi scritti, fra cui citiamo Sentieri interrotti, Hölderlin e l'essenza della poesia, Lettera sull'umanismo e Introduzione alla metafisica. Muore nel 1976.






Parte Prima: scopo della ricerca di Heidegger. Il problema dell'essere.


Il pensiero di Heidegger si contraddistingue per il tentativo di riproporre nell'età contemporanea un problema che nell' antichità fu il centro dell' indagine filosofica: il problema dell'essere.


Martin Heidegger si impone all'attenzione del mondo filosofico con l'opera Essere e Tempo (Sein und Zeit, 1927). Già nell'epigrafe di quest'opera l'Autore chiarisce con estrema puntualità il suo programma di ricerca: chiarire il senso della domanda sull'essere. La prima pagina di Sein und Zeit riporta infatti un passo del Sofista di Platone, nel quale si dice che, nonostante l'apparente ovvietà del concetto, il termine "ente" (essente, ovvero: ciò che è) costituisce in realtà un problema[1]. Il problema sta nel fatto che, a ben vedere, difficilmente si riesce ad attribuire a questo termine un concetto chiaro e definito. Secondo Heidegger anche ai giorni nostri, come ai tempi di Platone, è necessario riproporre la questione sull'essere: anche per noi la nozione ed il significato di essere è solo apparentemente ovvia. Heidegger ci porta infatti a constatare che domande come: "che significa esserci?", "come si deve intendere il problema dell'essere?", "perché c'è qualcosa piuttosto che il nulla?", "che cosa costituisce il mio essere?", sono ancor oggi di difficile soluzione e, in effetti, non hanno ancora trovato una risposta chiara e convincente. Anzi: tali domande sono state per così dire "dimenticate" dalla ricerca filosofica o, peggio, considerate come ovvie e quindi non interessanti. "Benché la rinascita della 'metafisica' sia considerata una conquista del nostro tempo, tuttavia il problema dell'essere è purtroppo dimenticato". Così inizia Essere e tempo. Sempre nell'apertura di Essere e Tempo, Heidegger scrive inoltre: "Abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente consideriamo essente? Per nulla. E' dunque necessario riproporre il problema del senso dell'essere". Non diamo forse per scontato il significato della parola "essere" nei suoi molteplici impieghi linguistici, quando per esempio diciamo: "questa cosa è", "il cielo è azzurro", "ora è mattino"? L'apparente elementarità dell'interrogativo che Heidegger solleva - «che cos'è l'essere?» - ci pone di fronte al fatto che non solo manca oggi una risposta a questo interrogativo, ma che il suo stesso senso ormai ci sfugge. Non riusciamo quindi non solo a darci una risposta più o meno convincente, ma nemmeno più a comprendere il senso stesso della domanda sull'essere. Se noi siamo senza risposte, afferma Heidegger, è perché nell'epoca attuale, dominata dai problemi settoriali del sapere e dai successi della tecnica, non avvertiamo neppure il bisogno di porre tale domanda . E questo, denuncia opportunamente Heidegger, costituisce senz'altro una forma di rinuncia o dimenticanza della filosofia nei confronti dei suoi compiti più genuini (la ricerca sull'essere).


Lo scopo dichiarato dell'interesse, della ricerca di Heidegger è dunque fin dall'inizio quello di costituire un'ontologia, ovvero una riflessione sull'essere, una dottrina dell'essere, che includa in se stessa tutte le condizioni e le determinazioni necessarie per la sua fondazione assoluta, che non dipenda cioè da altro. Primo compito di tale ontologia "fondamentale" sarà dunque quello di fornire il senso della domanda ontologica sull'essere. Tale senso potrà essere colto interrogando, prima di tutto, l'ente interrogante, cioè l'essere dell'uomo. Heidegger imposta la questione del problema dell'essere - che considera "oscura e aggrovigliata" -, indagando e analizzando prima di tutto "quell'ente che noi che cerchiamo, già siamo". Una tale ontologia rigorosamente fondata non può in altre parole gettarsi alla cieca sulla questione dell'essere dimenticando se stessa, senza interrogarsi preliminarmente sulle condizioni in cui l'essere può venir effettivamente cercato, interrogato e trovato. L'essere può infatti venir cercato e interrogato solo a partire dall'ontologia e nell'ontologia. Ed il protagonista di questa ricerca ontologica non può che essere l'uomo. Cioè quell'ente che si interroga (costituzionalmente, per natura) sull'essere e che addirittura interroga direttamente l'essere e che con l'ontologia tenta di rispondere appunto ai suoi interrogativi, ponendosi in questo modo in un contatto diretto e speciale con l'essere stesso.


Naturalmente la Storia della Filosofia ed in  particolare la Metafisica classica ha visto molti tentativi di fondare una ontologia (o dottrina sull'essere) autonoma e definitiva, ma l'ontologia tradizionale, che rappresenta per l'appunto uno di questi tentativi, non giunge veramente all'essere ma piuttosto solamente agli enti o al loro carattere più generale ed astratto. Questa è l'intima convinzione dalla quale prende avvio la riflessione di Heidegger: il pensiero classico si è occupato del tema dell'essere ma lo ha posto in modo tale da rendere impossibile qualsiasi sviluppo . In altre parole la filosofia tradizionale ha pensato l'essere riducendolo come un "ente qualsiasi", perdendo quindi di vista la sua estraneità, la sua differenza (appunto: differenza ontologica, come vedremo in seguito) rispetto al mondo e agli enti di questo mondo. Per questo motivo l'indagine sull'essere ha portato a conclusioni incerte, quando addirittura non sia stata dimenticata.


Heidegger apre allora la sua opera con una amara considerazione. Sempre nelle primissime pagine di Essere e Tempo l'Autore si chiede infatti: "Ma siamo almeno in uno stato di perplessità per il fatto di non comprendere l'espressione essere? Per nulla. E' dunque necessario incominciare col ridestare la comprensione del senso di questo problema. Lo scopo di questo lavoro - scrive Heidegger - è quello della elaborazione del senso dell'essere"[4].






Riassumendo dunque questa prima parte possiamo ricordare che:


Heidegger si propone di riflettere sull'essere e sul senso della domanda stessa sull'essere.

Heidegger rifiuta l'impostazione della metafisica classica poiché essa inizia la sua riflessione con una equiparazione tra essere ed ente. Mentre invece, secondo Heidegger, essere ed ente vanno tenuti ontologicamente distinti (concetto di differenza ontologica).

La "metafisica classica" ha tradito il vero senso della domanda sull'essere perché, da Platone in poi, ha equiparato essere ed ente. Ed Heidegger, come vedremo, ritornerà con particolare insistenza su questo punto.

Ancora oggi deve essere riproposta la domanda sull'essere poiché restano ancora valide le perplessità intorno al problema dell'essere che venivano esposte nel Sofista di Platone



Parte seconda: cosa intende Heidegger per "essere"


Ora si deve notare che quello che Heidegger chiama "essere" deve essere inteso come il fondamento di tutto, e non è quindi rappresentabile come un oggetto qualsiasi, a meno che sia falsamente scambiato per un "ente", come appunto hanno fatto la filosofia e la metafisica tradizionali (almeno da Platone in poi). L'essere non va qualificato, per Heidegger, neppure come "Dio", perché il Dio tradizionale è senz'altro "essere", tuttavia concepito, appunto, come un singolo ente. L'essere va cercato, al contrario, attraverso gli enti (intendendolo cioè come "essere degli enti"), in particolare attraverso quell'ente che «esiste», cioè si stacca consapevolmente (perché riflette criticamente su di esso) dall'essere, ovvero l'uomo. L'essere va allora senz'altro cercato attraverso gli esistenti, appunto perché è sempre al di là o, meglio, al di sotto degli enti, come un loro fondamento che si manifesta solo nelle modalità del loro esistere. Il disvelarsi indiretto di questo essere è la "verità", che il pensiero non deve pensare come un oggetto qualsiasi, bensì lasciando "essere" l'essere. Questi pensieri sono consegnati da Heidegger a una forma linguistica (o portati al parlare, come egli dice) intraducibile, perché fatta di forme inventate o di richiami arbitrari rispetto all'uso comune. Heidegger lo fa naturalmente apposta, per staccarsi da un uso asservito alla pratica e risvegliare la «memoria» assopita dell'essere, che non può appunto presentarsi come un oggetto. Questo utilizzo particolare del linguaggio prelude inoltre alle conclusioni finali della proposta filosofica di Heidegger, volta ad identificare nel linguaggio la "casa dell'essere". Ma di questo parleremo in seguito. Per ora ritorniamo alla questione fondamentale: la domanda intorno al senso dell'essere.


Per Heidegger, dicevamo, si tratta di ridestare un problema autentico, importante, fondamentale, ma che è come sopito nella coscienza dell'uomo. Heidegger non manca di denunciare, in modo polemico, il fine nascosto del fraintendimento occidentale del senso dell'essere. Che cosa - si chiede Heidegger - ha fatto sì che venisse dimenticato il problema dell'essere? Heidegger risponde: la vita stessa, lo stile di vita dell'uomo occidentale, dominato dalla tecnica, dai miti del tempo, come il successo, il denaro, la produzione, il divertimento, e così via.. Viviamo tutti - denuncia Heidegger - rinviando l'esame dei problemi autentici della nostra esistenza, allontanandoli dalla nostra coscienza, non parlandone mai. Dimenticandoli. I nostri discorsi sono generalmente vuote chiacchiere, coprono il silenzio, divertono, servono a distrarre. Ma a distrarre da che? che cosa nasconde la paura del silenzio di cui ci rendiamo conto quando ricorriamo alle chiacchiere per non cadere nell'angoscia?


Fin da queste primissime osservazioni si intuisce allora come per Heidegger sia essenziale una riflessione che non tema di affrontare direttamente la questione dell'essere, ed in particolare a partire dall'essere dell'uomo: non della vita in generale, non della vita intesa come concetto, ma piuttosto della nostra vita: perché non c'è vita se non di un uomo singolo. Detto in altri termini, alla base della filosofia di Heidegger si pone dunque  l'intento di risalire alla radice del problema filosofico per eccellenza, che egli ritrova nell'interrogativo aristotelico intorno all'essere dell'ente. Sollevare la questione del senso dell'essere non significa per Heidegger porsi domande circa il "senso della vita", quanto chiedersi in riferimento a che cosa l'uomo comprende l'essere dell'ente, vale a dire l'essere di tutto ciò di cui noi diciamo "che è". Ne deriva che il problema del senso dell'essere va impostato anzitutto in relazione a quell'ente, l'uomo, che unico fra tutti gli enti si distingue per la sua comprensione del problema dell'essere (e proprio per questo si distingue anche per mettersi in rapporto con l'essere). In altre parole: l'uomo è l'unico ente che sente dentro di sé l'urgenza di rispondere alla domanda circa il senso dell'essere. Per ogni uomo l'essere costituisce un problema. Come direbbe Freud: inconsciamente oppure consciamente. E Heidegger affronta la questione dell'essere appunto a partire dall'uomo.


Ma come è possibile allora, secondo Heidegger, impostare questa riflessione sull'essere e sull'ente che pone l'interrogativo sull'essere (cioè l'uomo)? Come si può - come si deve - affrontare la questione dell'essere?


Partiamo da alcune semplici riflessioni. L'essere, osserva Heidegger, vive in noi. Ciascun uomo, come le cose, è un ente, qualcuno che c'è, che esiste. Anche dell'essere possiamo dire che c'è? No. Non possiamo. L'essere, propriamente, non c'è, non esiste allo stesso modo degli enti. Ci sono gli enti, le cose, l'uomo, non l'essere in sé. Ad una attenta analisi scopriamo insomma che l'essere non è un ente, che non lo possiamo pensare attribuendogli le caratteristiche, le qualità proprie degli enti, pena la riduzione dell'essere a cosa, ad ente. Ma l'essere, come dicevamo, non c'è così come c'è questo o quell'ente particolare. Per Heidegger non è quindi possibile, come osserva opportunamente M. Trombino, affrontare direttamente il problema dell'essere[5]. Dell'essere, secondo Heidegger, abbiamo insomma una comprensione vaga e mediata: sappiamo, o meglio intuiamo più o meno cosa significa quando si dice che qualcosa c'è. Ma se proviamo ad interrogarci su cosa significhi davvero l'essere delle cose e dell'uomo, su come questo essere si possa definire in sé scopriamo subito di non riuscire a dare una risposta precisa. Proprio come già Platone aveva avvertito nel Sofista. E' dunque necessario, secondo Heidegger, stabilire delle regole metodologiche che possano guidare questa ricerca dell'essere degli enti.




Riassunto della Seconda Parte.


Heidegger insiste sulla distinzione ontologica (differenza ontologica) tra essere e ente.

L'essere non è un ente qualsiasi. Lo si deve cercare non tra gli enti ma attraverso gli enti.

Affrontare, interrogare direttamente l'essere è impossibile. Occorre anzitutto interrogare l'ente che si pone questo problema sull'essere, e cioè l'uomo.




Parte Terza. Il problema metodologico della ricerca sull'essere.


Dicevamo che Heidegger sottolinea che non è possibile chiedersi direttamente cosa sia "l'essere" se non a partire da una situazione determinata, in cui e a partire dalla quale i diversi soggetti si interrogano. Ora, aggiunge Heidegger, tale situazione, da cui ed in cui la domanda sull'essere sorge, condiziona profondamente non solo l'uomo (che pone questa domanda sull'essere), ma anche la domanda stessa e, quindi, ogni possibile risposta. Dunque il problema metodologico della ricerca sull'essere riguarda anzitutto quale ente potrà essere scelto per condurre questa indagine. Le cose non si pongono il problema dell'essere. Solo l'uomo, unico tra gli enti, si pone questo problema. L'analisi del problema del senso dell'essere potrà quindi partire proprio dall'uomo, poiché egli è l'unico ente per il quale l'essere è un problema.


A questo proposito Heidegger distingue perciò in ogni domanda: 1) ciò che si domanda; 2) ciò a cui si domanda o che è interrogato; 3) ciò che si trova domandando. Nel caso specifico della domanda intorno all'essere, che rimane per Heidegger la domanda fondamentale, ciò che si domanda è appunto "l'essere stesso": ciò che si interroga è - per usare l'espressione heideggeriana - l'esistente, giacché l'essere è sempre "essere proprio di un esistente"; e ciò che si trova in questo caso è appunto il "senso" dell'essere[6].


In altre parole questo significa che il problema metodologico dell'ontologia è prima di tutto quello di determinare, capire qual è l'esistente che deve essere interrogato. A chi viene rivolta la domanda specifica sul senso dell'essere? Ora, osserva Heidegger, poiché questa domanda, con tutto ciò che essa implica (l'intendere, il comprendere, ecc.), è il modo d'essere di un determinato esistente, che è l'uomo, questo esistente acquista allora un primato sugli altri, in modo da far cadere su di lui la scelta.


In questo modo Heidegger arriva alla definizione del termine dasein (esser-ci): "Questo esistente che noi stessi sempre siamo e che ha tra le altre la possibilità del domandare, è ciò che noi intendiamo col termine Esserci (dasein)".


Fedelmente alle premesse, Heidegger osserva insomma che l'analisi del modo d'essere dell'esser-ci (dell'uomo) è essenziale e preliminare per l'ontologia; giacché solo interrogando questo particolare esistente (l'uomo che solo, unico tra gli enti, si pone la domanda circa il senso dell'essere) si può cercare che cosa è l'essere e trovare il suo senso fondamentale. Essere e tempo, come osservava G. Vattimo[7], comincia per questo motivo proprio con un'analisi dell'essere dell'uomo.


Il modo d'essere dell'esser-ci (cioè dell'uomo) è propriamente "l'esistenza" (la sua esistenza); sicché l'analisi di questo modo d'essere sarà definita un'analitica esistenziale. L'analitica esistenziale è allora la determinazione, il chiarimento della natura di quel particolare modo d'essere che è proprio dell'uomo. Particolare modo, unicamente all'interno del quale è possibile il sorgere della domanda sull'essere. Dunque la ricerca del senso dell'essere non esclude, anzi richiede, che si sottoponga all'analisi un ente specifico (l'uomo), perché la domanda stessa sull'essere è propria di questo ente.


In altre parole l'analitica esistenziale diventa così la scelta metodologica, il modo, il metodo della filosofia che ha per oggetto l'uomo (l'esser-ci), ente che va preliminarmente analizzato (da qui il termine analitica) per comprendere l'esistenza, cioè il fatto che per l'uomo proprio nel suo esser-ci, in qualche modo che non è ancora del tutto chiaro, è connaturata la domanda sull'essere.


Ricapitoliamo ancora una volta. Abbiamo detto che secondo Heidegger l'esistenza è il modo d'essere dell'esser-ci (cioè dell'uomo). Il suo primo contrassegno, il suo primo tratto distintivo, è che essa si pone necessariamente il problema dell'essere, e così si pone, in qualche modo, in rapporto con l'essere stesso. Il tentativo di rapportarsi all'essere, di comprendere l'essere, costituisce allora, per Heidegger, l'essenza dell'esistenza (dell'uomo). In questo modo Heidegger arriva alla centralità del "problema dell'essere" partendo dal rifiuto della nozione dell'essere inteso come semplice presenza immersa in una temporalità (cosa che per Heidegger corrisponde alla riduzione dell'essere ad ente). A questo proposito non sarà inutile ricordare ancora una volta che le difficoltà in cui si è arrestata la metafisica occidentale, secondo Heidegger, derivano dallo stesso concetto di essere, identificato con la nozione della presenza (in senso di obiettività).




Riassunto della Terza Parte.


Non è possibile porsi direttamente il problema sull'essere.

La ricerca sull'essere può svilupparsi solo a partire dall'uomo che appunto si interroga sull'essere.

La ricerca sull'ente che si pone la domanda sull'essere (l'uomo) prende il nome di analitica esistenziale.

L'esistenza dell'uomo, oggetto dell'analitica esistenziale, si risolve anzitutto nel porsi il problema sull'essere e quindi nel porsi in rapporto con l'essere.

L'analitica esistenziale, nel considerare l'esser-ci (l'uomo) sottolinea la differenza ontologica tra l'essere e l'ente e rifiuta l'idea dell'essere inteso come presenza obiettiva.




Parte Quarta. L'esser-ci (Dasein), l' essere-nel-mondo, la possibilità, il progetto, la cura.


Abbiamo detto che secondo Heidegger prima di considerare il problema dell'essere è necessario considerare l'esser-ci dell'uomo, ovvero l'orizzonte all'interno del quale prende corpo e senso la domanda sull'essere. Ma l'esser-ci dell'uomo è caratterizzabile anzitutto, secondo Heidegger, come essere-nel-mondo. L'essere-nel-mondo dell'ente chiamato uomo, ovvero la sua esistenza, secondo Heidegger, è costituita anzitutto dal suo tentativo di rapportarsi all'essere, ovvero dalla sua esigenza radicale di comprendere il senso dell'essere. L'uomo è caratterizzato quindi dal suo essere-nel-mondo. Questa espressione, come osserva M. Trombino, indica il fatto che nell'essere dell'uomo è implicito il rapporto con il mondo esterno. Il mio essere è un essere che sta nel mondo e non può stare né semplicemente in sé né altrove. Non esiste un presenza dell'uomo se non situata nel mondo delle cose e delle relazioni. La stessa coscienza di ogni uomo è sempre coscienza di qualche cosa: se la coscienza è quanto io ho di più mio (ha ragione Trombino quando scrive che "io in qualche modo sono la mia coscienza"[8]), essa ha sempre una direzione che va fuori rispetto al mio io. L'io è rivolto al mondo. Io vivo in un ambiente ben preciso, non posso non averne uno. Io mi definisco in rapporto al mondo. Io sono un professore o un ingegnere, un padre o uno zio, un credente, un ateo, ecc. Tutti i caratteri che contraddistinguono la mia identità, il mio Io, possono farlo solo attraverso un rapporto col mondo. Questo mondo nel quale vivo (il mondo nel quale ogni uomo vive) non è quindi separato dal mio essere. Per questo posso parlare di me come di essere-nel-mondo. Se voglio capire chi sono, devo capire che rapporto ho col mondo.

Ma il mio rapporto col mondo si definisce anzitutto a partire dai miei progetti: io vivo nel mondo in un continuo progettare. Studio per diventare professore o ingegnere, mi sposo per diventare marito, padre, lavoro per trasformare il mondo e vivere meglio, e così via. Secondo Heidegger l'uomo non può essere-nel-mondo senza progettare. La vita stessa della coscienza è tutto un fare progetti: anticipare il futuro (pro-gettare). E conformemente alla sua radice, l'esistenza (ex-sistere: venir fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità) si caratterizza principalmente per la sua indeterminazione, per la sua possibilità. La possibilità non è inferiore alla realtà (in questo caso siamo al di là della contrapposizione tra atto e potenza), ma sta più in alto di essa (Sein und Zeit). Di fronte a queste possibilità, l'uomo può o scegliere attivamente o lasciarsi andare ad esse così come capitano. Sarà, come vedremo, la differenza tra vita autentica e vita inautentica. Questo è un problema che si pone come faccenda privata del singolo uomo esistente, problema che dà luogo a quella che Heidegger chiama comprensione esistentiva od ontica, perché concerne l'esistenza di quel singolo ente che è un uomo. Ma si può anche proporre il problema della penetrazione teoretica dell'esistenza e delle sue possibilità, cioè cercare nella costituzione ontica dell'uomo le strutture fondamentali. Questa è la comprensione esistenziale od ontologica dell'esistenza stessa. Ma poiché l'esistenza è sempre individuata e singola, cioè non è mai l'esistenza di un uomo in generale o della specie uomo, ma sempre la mia, tua, sua esistenza, è evidente che la stessa analitica esistenziale si radica nella condizione esistentiva od ontica dell'uomo.




Riassunto della Quarta Parte.


l'esser-ci, il dasein, è secondo Heidegger caratterizzabile come essere-nel-mondo, ossia come presenza dell'uomo in un mondo di relazioni con gli altri enti.

L'essere-nel-mondo porta con sé le caratteristiche del progetto e della comprensione dell'essere.

L'esistenza, l'essere nel mondo, si caratterizza per la sua radicale apertura alle possibilità.

La scelta tra le varie possibilità determina le condizioni per la realizzazione di una vita autentica o inautentica.





Parte Quinta. I modi fondamentali dell'esser-ci: la situazione affettiva, il comprendere e il parlare.


Quali sono allora i "modi" fondamentali in cui l'esser-ci (Dasein) è nel mondo? Secondo Heidegger si possono ricondurre a tre: la situazione affettiva, il comprendere e il parlare. La situazione affettiva indica il nostro sentirsi e trovarsi emotivamente nel mondo: nei diversi stati d'animo (gioia, noia, paura, angoscia) l'uomo si "apre" emotivamente al mondo, avendone una prima esperienza di ordine immediatamente emotivo-affettivo. Nella situazione affettiva l'uomo, tuttavia, si trova a esistere senza sapere "donde" viene e "deve" va: il suo essere si rivela come un essere-gettato, come un puro fatto. Fra gli stati d'animo, collegati a questa percezione di essere gettati nel mondo, assume per questo particolare rilevanza l'angoscia: a differenza della paura (che è sempre paura di qualcosa), l'angoscia ha un carattere di totale indeterminatezza. Ma l'esser-ci è nel mondo soprattutto nella forma del comprendere, che è un volgersi dell'uomo al proprio essere come poter-essere. Se nella situazione affettiva predomina l'essere-gettato dell'esserci, che si scopre rinviato al mondo senza potersene dare ragione, nel comprendere prevale l'aspetto di iniziativa dell'esserci, vale a dire il suo protendersi "avanti a sé". Il comprendere assume pertanto un carattere di progetto delle possibilità di esistenza. Il progetto dà senso all'essere-nel-mondo dell'esserci e rende possibile l'interpretazione dei significati del mondo. Il parlare - il terzo modo dell'esserci - esprime e rende manifesto quanto compreso e interpretato. Si stabilisce così un rapporto di circolarità: comprensione e situazione affettiva sono infatti cooriginarie, così come cooriginario a esse è il parlare, che costituisce il fondamento esistenziale del linguaggio. Si capisce così come il conoscere non sia un lineare rispecchiamento dell'oggetto nel pensiero, quanto un'interpretazione che si muove all'interno di una pre-comprensione della totalità dei significati, in cui da sempre l'uomo è .


Ricapitolando il primo passo dell'analitica esistenziale dell'esser-ci è dunque la definizione dell'essenza dell'uomo inteso come esistenza, cioè come poter-essere. L'essere-nel-mondo dell'uomo consiste, concretamente, nel suo rapportarsi a delle possibilità. Concretamente questo rapportarsi alle sue possibilità significa per l'uomo un esistere concretamente in un modo di cose e di persone. Heidegger, come abbiamo già detto, utilizza qui il termine dasein, che in italiano si traduce letteralmente esser-ci. Questo termine esprime bene il fatto che l'esistenza non si definisce solo come oltrepassamento, superamento che trascende la realtà data in direzione della possibilità, ma che questo oltrepassamento è sempre oltrepassamento di qualcosa, è sempre cioè concretamente situato, ci è[10]. Esistenza, essere-nel-mondo, esser-ci, sono dunque sinonimi. Tutti e tre questi termini indicano che l'uomo è situato nel mondo sotto la forma del "progetto": è questo il modo tipico di esserci riferito alle possibilità che sono di fronte all'uomo nel suo esser-ci.


Ma allora per Heidegger l'esistenza è essenzialmente trascendenza. Heidegger definisce la trascendenza come oltrepassamento: è trascendente ciò che realizza questo oltrepassamento e si mantiene abitualmente in esso. In questo senso, la trascendenza non è per l'uomo un comportamento possibile in mezzo a tanti altri, ma piuttosto la sua costituzione fondamentale, ciò che fa l'essenza stessa della sua soggettività. Il termine verso cui l'uomo trascende è il mondo e la trascendenza può quindi essere definita come un "essere-nel-mondo". L'essere-nel-mondo dell'uomo si caratterizza anche per la cura. Sia che ci volgiamo all'esistenza autentica o a quella in autentica, l'essere dell'uomo appare sempre come cura. L'uomo vive "prendendosi cura" delle cose e "avendo cura" degli altri uomini. Con il termine cura Heidegger indica la totalità delle strutture esistenziali fin qui esaminate: il progetto, l'essere-gettato-nel-mondo, il rapporto col mondo e con le cose.




Riassunto della Quinta Parte.


l'uomo viene definito da Heidegger come esser-ci.

L'esserci (l'uomo) si rapporta agli altri enti in quanto esso è sempre in una situazione di apertura rispetto al mondo: il suo essere è un «essere-nel-mondo».

Heidegger prende le mosse dall'analisi del mondo più prossimo all'esserci (il mondo più vicino all'uomo), ossia del suo immediato mondo circostante. Ciò che circonda l'esserci (l'uomo) sono anzitutto le cose.

Questo rapporto, per come l'uomo vive nella quotidianità, non è da intendersi come un agire di tipo razionale, conoscitivo, ma come un prendersi cura. Le cose sono sempre nei confronti dell'esser-ci un mezzo: "servono a". Il modo d'essere delle cose è costituito dalla loro utilizzabilità.

L'uomo vive prendendosi "cura" delle cose e degli altri uomini.






Approfondimenti



La vita autentica e la vita in autentica

Ogni vita è una irripetibile singolarità. Ma di fronte ad essa si pone sempre la possibilità di scegliere un'esistenza autentica o, al contrario, un'esistenza mediocre, basata sulla distrazione e sulla menzogna, in altre parole: inautentica. La vita dell'uomo, essere-nel-mondo, può prendere insomma due diverse direzioni. La vita dell'uomo ha sostanzialmente due possibilità: diventare autentuica o inautentica. Per Heidegger la vita inautentica è la vita che si dimentica del senso dell'essere, tutta concentrata sulle cose di questo mondo. E' una vita impersonale, soggetta al "si fa", "si dice", "si pensa". La vita autentica è invece la vita che fugge dalla chiacchiera, che medita sulle cose per riscoprire in esse il loro vero valore. Valore che in ogni caso dipende dall'uomo e non è mai assoluto. Nella vita autentica acquista inoltre importanza fondamentale la dimensione della temporalità. Vivere pensando lucidamente (caratteristica della vita autentica) conduce alla consapevolezza che vivere è passare. Ciò che so del mio essere è nel tempo, dipende da esso. Ciò che io so del mio esser-ci è prima di tutto che io sono-nel-mondo, qui ed ora, in questo tempo. Non sono quindi un essere fuori dal mondo e fuori dal tempo, ma soprattutto e prima di tutto sono un essere che diviene proiettando in ogni istante se stesso nel mondo (attraverso i miei progetti di essere-nel-mondo). Il progettarsi come essere-nel-mondo esige la scelta tra le diverse possibilità che si offrono all'Io. "L'esistenza - scrive Heidegger - è sempre la sua possibilità"- Il mio essere, osserva Trombino, si rivela in questo progettare. La dimensione della temporalità è dunque il primo passo per arrivare alla comprensione del mio essere ed in particolare del mio essere-nel-mondo. Nella riflessione sull'essere e sul tempo l'uomo si rende conto anzitutto che non è possibile pensare l'essere senza il tempo. Io sono in quanto vivo e vivere significa precisamente proiettarsi fuori di sé in un mondo che diviene il mio mondo (attraverso la mia continua attività di progetto). Ma che cosa significa progettare se non agire sul tempo? Progettare significa precisamente pensare come trasformare le cose e se stessi. Il progettarsi è trasformazione, ma la trasformazione è sempre un divenire, ed il divenire si sviluppa solo nel tempo il mondo a cui l'uomo è legato dalla stessa struttura trascendente della sua esistenza è, in primo luogo, un mondo di cose. L'essere di queste cose, la loro vera e propria realtà, consiste nel servire come strumenti per l'uomo, nell'essere utilizzabili. L'utilizzabilità non è, secondo Heidegger, una qualità delle cose, distinta dalla loro esistenza: è lo stesso essere in sé delle cose del mondo (Sein und Zeit).


Riprendiamo ora il discorso sulla possibilità e sulla vita autentica-inautentica. In questa meditazione (propria della vita autentica) l'uomo si imbatte ben presto nel problema della morte. Problema non inteso in senso generale (la morte come concetto) ma esistenziale: la mia morte. La morte personale di ciascun uomo. Nella riflessione, propria della vita autentica, l'uomo si accorge che ogni istante della sua vita si dà nella possibilità della morte. Ed è proprio nella morte come possibilità, non come realtà, che l'uomo si imbatte nel meditare in modo autentico sulla sua vita. Essa, scrive Heidegger, è la possibilità più propria dell'esser-ci, nel senso che ogni istante vede l'uomo (l'esser-ci) come sospeso tra l'essere e il nulla. Da un momento all'altro l'uomo può non esserci più. Dal punto di vista della vita autentica, questa lucida considerazione genera angoscia. L'angoscia è quel particolare sentimento che proviamo di fronte alla consapevolezza del nulla che riguarda il nostro esser-ci. L'angoscia non è paura. La paura ha infatti un suo oggetto ben preciso: si ha paura di qualcosa, di un pericolo, reale o immaginario che sia. Ma sempre, in ogni caso, di qualcosa che c'è (a livello della realtà o dell'immaginazione). L'angoscia si genera invece nella considerazione lucida che il nulla è ciò che costituisce, caratterizza la mia esistenza intesa come possibilità (la prima possibilità che si pone all'uomo è, appunto, quella della fine del suo esser-ci, della morte). Per questo motivo è possibile riscontrare gli elementi caratterizzanti del nichilismo all'interno del pensiero di Martin Heidegger.


Ora, dal punto di vista della vita autentica, l'uomo ha la possibilità di anticipare la morte: cioè di vivere tenendo costantemente presente la situazione reale in cui vivo. La morte, secondo l'espressione di Heidegger, è oggi, non domani (ovvero: la morte è sempre data come possibilità che caratterizza il mio esser-ci, qui ed ora, in ogni istante della mia esistenza). Devo quindi ricordarmi della possibilità della morte nel presente, in ogni mio istante, in ogni mio progetto che faccio su di me e sul mondo.





I risultati conseguiti dall'analitica esistenziale, dall'idea di essere-nel-mondo, di dasein e di essere per la morte


Queste considerazioni iniziali di Heidegger non hanno tuttavia ancora risposto alla questione relativa al senso dell'essere. Per ora abbiamo soltanto compreso che non possiamo porre tale questione al di fuori della dimensione del tempo. Abbiamo inoltre visto come per Heidegger la questione relativa al senso dell'essere  non possa essere posta se non a partire dall'uomo, conducendo una attenta analitica esistenziale, analisi che porta alla determinazione di concetti quali dasein, essere-nel-mondo, essere-per-la-morte, progetto, cura delle cose, etc.


Un'idea centrale, come si è detto, è che la questione relativa al senso dell'essere non può essere posta a prescindere dal tempo. Per Heidegger infatti "il progetto di un senso dell'essere in generale può essere posto in atto solo nell'orizzonte del tempo" (Cfr. M. Trombino, op. cit., p. 609). L'ultima parte di Essere e Tempo, che aveva come scopo programmatico l'indagine sull'essere, non è però mai stata scritta. Sein und Zeit è rimasta infatti un'opera incompiuta. Nella parte pubblicata è possibile trovare quindi solo l'analitica esistenziale, mentre manca la parte finale dedicata propriamente all'ontologia. Alla fine, Heidegger non ha ritenuto che fosse possibile rispondere attraverso questa via al problema del senso dell'essere.


Come ricorda Trombino, a partire dall'opera "Introduzione alla metafisica" (1953) il pensiero heideggeriano subisce una svolta. La via di ricerca di Sein und Zeit non viene proseguita e Heidegger intraprende un percorso diverso, in cui giocano un ruolo primario il linguaggio e la poesia (Cfr. M. Trombino, op. cit., p. 609, ed in particolare "Il linguaggio e la poesia, p. 610).




Il linguaggio e la poesia


Dicevamo che Heidegger finisce col trovare nel linguaggio e nella poesia la dimensione più adatta per la sua riflessione sull'essere. Questo "rifugio" muove dalla consapevolezza secondo la quale il discorso sull'essere in quanto essere (una sorta di ontologia diretta) non può essere affrontato. Dell'essere si può parlare ma solo a partire dall'essere degli enti.. in modo dunque indiretto, mediato. Ma perché il discorso sull'essere in quanto essere, cioè un discorso puramente e direttamente ontologico-metafisico non può essere fatto?

Per rispondere a questa domanda - secondo Heidegger - è necessario prendere in esame lo sviluppo della filosofia greca, ed in particolare della tradizione metafisica. Fin da Platone, rileva Heidegger, l'essere è stato concepito come ciò che è, ossia ciò = un ente che esiste. E' insomma stato entificato, ridotto ad ente, pensato come un ciò. Ma l'essere - ripete Heidegger - non può mai essere trattato come se fosse un ente qualsiasi. L'essere, come si è detto, non esiste in un tempo specifico, ma si dà solo nella dimensione totale della temporalità. Ma come sarà possibile esprimere mediante il linguaggio filosofico il rapporto originario tra l'essere e il tempo?


Naturalmente, osserva Heidegger, il linguaggio tradizionale della filosofia (ed in particolare quello che ci viene consegnato dalla tradizione della metafisica classica) è assolutamente inadatto a questo scopo. Esso infatti, almeno da Platone in poi, è tutto basato sulla equiparazione tra essere ed ente. L'Occidente - denuncia Heidegger - ha costruito la propria riflessione filosofica (ma più in generale la propria storia culturale) mascherando il vero ed autentico problema dell'essere. Tanto che per Heidegger si può parlare oggi di oblio dell'essere.


Compito della filosofia è allora, come sostiene Heidegger, anzitutto quello di ridestare il problema del senso dell'essere.


Compito del filosofo è anzitutto quello di rivelare la natura ed il vero Destino dell'Occidente. Heidegger pensa in particolare alla tecnica, contro la quale assume una posizione radicalmente critica. Il dominio della tecnica sul mondo occidentale è stato reso possibile dalla scienza. Ma la scienza "funziona" perché prima di tutto concepisce l'essere come una cosa, come un ente: ovvero come qualcosa da dominare. Se l'uomo occidentale - osserva Heidegger - ha trovato la propria realizzazione in questo dominio, in questo modo è divenuto egli stesso un ingranaggio di questo sistema di dominio. E' vero, l'uomo oggi domina il mondo, la natura. Mediante la tecnica e la tecnologia (che della tecnica è l'espressione). Ma chi di noi oggi può fare a meno della tecnica? Chi può rinunciare a questo dominio? Chi - si chiede Heidegger - può fuggire oggi dalla logica del denaro? Chi può fuggire dalla identificazione tra il valore dell'uomo e ciò che possiede o sa o sa fare?


Ecco perché il cammino di ricerca della filosofia autentica deve evitare accuratamente gli inganni della metafisica classica, dai quali prende corpo la storia ed il destino dell'Occidente inteso come storia dello sviluppo della tecnica e della conseguente civiltà della tecnica o tecnologica che dir si voglia. Si tratta di un cammino ricco di difficoltà, il cui fine è quello della liberazione dalle false categorie della metafisica occidentale e dunque perfino del linguaggio che di tali categorie si fa portatore. Il primo errore, la prima falsità, come dicevamo, consiste nella identificazione tra essere ed ente operata dalla metafisica classica.


La ricerca filosofica deve insomma continuare per altre vie. Deve anzitutto smascherare il linguaggio, mostrarne le contraddizioni interne. Ma -ed è questo un punto sul quale è indispensabile fermare per un attimo l'attenzione - proprio in questo linguaggio, per quanto coperto da una maschera esso sia, l'essere stesso si rivela.



L'essere - secondo Heidegger - si rivela anche se in forma mascherata proprio, nel linguaggio. Il linguaggio nasconde insomma l'essere, ma proprio questo nascondimento lo rivela. Ma quale linguaggio - più di ogni altro - è in gradi di permettere il disgelarsi dell'essere?

Il linguaggio della filosofia, come abbiamo già detto, secondo Heidegger non è in grado di esprimere l'essere. Allora sarà il linguaggio dell'arte, della poesia, a rivelarsi il luogo privilegiato in cui l'essere si manifesta in maniera più chiara. Il linguaggio della poesia è il modo in cui più immediatamente l'essere può manifestarsi a noi stessi poiché nella poesia le impalcature della cultura sono meno presenti. Il linguaggio dunque assume nel pensiero dell'ultimo Heidegger un significato profondo. Il linguaggio diventa il luogo in cui l'essere si rivela. Heidegger sottolinea l'importanza che ha il linguaggio per l'uomo: l'interpretazione della realtà è possibile soltanto a partire dalle categorie del pensiero che vengono poi fissate nelle parole e nel linguaggio. Il pensiero è in fondo linguaggio. Ogni riflessione e qualsiasi interpretazione è possibile anzitutto a partire dal linguaggio. Ogni conoscenza che l'uomo ha del mondo dipende dal linguaggio. Le cose vengono conosciute anzitutto dando loro dei nomi. Attraverso linguaggio viene valutata più o meno consapevolmente ogni situazione, ogni singola cosa. Heidegger collega dunque la sua impostazione filosofica all'ermeneutica, ovvero alla disciplina che si occupa dei problemi legati all'interpretazione. A lungo Heidegger se infatti dedicato all'analisi del linguaggio, ed in particolare del linguaggio poetico. Hölderlin rappresenta per Heidegger il poeta in cui più chiaramente è possibile leggere i segni della manifestazione dell'essere. Secondo Heidegger in Hölderlin il linguaggio non è comunicazione da un uomo ha un altro uomo, ma la manifestazione, sia pur velata, dell'essere. La poesia, e in particolare la poesia di Hölderlin non considera uomini e cose come enti, come qualcosa da amministrare attraverso la tecnica, ma piuttosto come qualcosa che parla all'uomo che esprime il senso dell'essere. Nella poesia, non nella filosofia dominata dalla metafisica tradizionale, è possibile ascoltare la voce dell'essere e condurre la ricerca sul senso dell'uomo delle cose. Dobbiamo andare, con il poeta, alla ricerca di una parola originaria. Una parola che ci parli, innanzitutto, di noi: di ciò che noi siamo.


Naturalmente il riferimento di Heidegger alle problematiche del linguaggio conduce immediatamente al discorso sull'ermeneutica.




Linguaggio & Ermeneutica


Che cos'è e cosa si deve intendere per ermeneutica. L'ermeneutica è un termine che nella filosofia greca designa l'arte o la tecnica dell'interpretazione (hermeneutiké téchne). In seguito questo termine ha assunto un senso ed un significato più generale e via via sempre più consistente, sul piano teoretico, indicando nel pensiero moderno, vari tipi di teorie sull'interpretazione. Che cosa dobbiamo allora intendere per interpretazione (filosofica)? In generale, per interpretazione si intende l'operazione di collegamento tra significato e segno. L'interpretazione è anzitutto il risalire da un segno al suo significato.


Per quanto riguarda il discorso su Heidegger possiamo dire che in questo caso con ermeneutica si vuole indicare appunto l'arte o la tecnica dell'interpretazione e della comprensione, in riferimento sia ad un testo scritto, sia ad un'opera d'arte, sia più in generale, a ogni forma di linguaggio.


Con Heidegger, nel Novecento, abbiamo senz'altro uno dei momenti più significativi della riflessione sull'ermeneutica. Tale riflessione sarà poi ripresa in particolare da Hans Georg Gadamer (1980), discepolo e continuatore dell'impostazione heideggeriana..








Le "classiche" domande sul pensiero di Heidegger


Quali sono i principali contenuti del pensiero di Heidegger?


Heidegger può considerarsi uno dei maggiori filosofi del Novecento, se non addirittura il maggiore. Il suo pensiero è stato ed è oggetto di interpretazioni contrastanti: la filosofia heideggeriana è stata letta e interpretata come filosofia della disperazione e dell'annichilimento umano, come umanesimo esistenzialista, come filosofia della fondazione antropologica della storia, e così via. Ciascuna di queste interpretazioni presenta degli elementi di validità, anche una interpretazione "completa" ed "esaustiva" di Heidegger risulta ancor oggi particolarmente complessa e problematica. Vediamo ora i contenuti essenziali del suo pensiero. L'opera più famosa del filosofo tedesco, Essere e tempo scritta sul finire degli anni venti, pone il problema dell'essere, che è poi il problema fondamentale della metafisica, in una dimensione nuova e originale, cioè trasformandolo in quello del senso dell'esser-ci, ovvero del modo in cui l'esistenza umana, temporalmente definita e determinata, pone se stessa. Alla maggior parte degli interpreti sembrò, allora, che Heidegger avesse inteso porre al centro del suo Essere e tempo il problema dell'esistenza umana, del suo limite, dei suoi modi di essere. Ma Heidegger stesso sconfessò questa linea interprestativa: nucleo centrale e fondamentale del suo capolavoro filosofico non è l'esserci in quanto tale, cioè l'uomo, il che consentirebbe in effetti di trasformare la sua filosofia in discorso antropologico, bensì l'essere. Il progetto di Heidegger, detto in altri termini, rimane genuinamente ontologico. Se il tema non è l'uomo, ma l'essere, ci troviamo infatti di fronte a un'ontologia, non a un'antropologia. Movendo da questo presupposto, si può dire, che il lavoro filosofico di Heidegger vada in tre distinte direzioni tra loro convergenti, vale dire: a) critica della tradizione della metafisica occidentale da Platone a Nietzsche; b) considerazione della nostra epoca come età della dissoluzione della metafisica e della sua trasformazione (o meglio decadenza) in tecnica; c) ricerca-fondazione di una pratica filosofica in grado di de-costruire, de-strutturare il linguaggio della metafisica classica.



Quali sono i motivi principali di Essere e Tempo?


In Essere e tempo Heidegger vuole dimostrare fondamentalmente come ogni discorso sull'essere tende a riprodurre la struttura della metafisica classica che pensa l'essere come se fosse un oggetto, una pura presenza di fronte a un soggetto che ne deve fornire adeguata definizione, nozione. Questa indagine sull'essere ha lo scopo e il significato di rifare il cammino della metafisica che, credendo di interpretare e rappresentare l'essere in maniera razionale, in realtà lo dimentica. In questo senso la metafisica è oblio dell'essere. Il lavoro filosofico di Heidegger è stato opportunamente paragonato a quello di un teologo che si serve di un' idea negativa di Dio per delimitare, circoscrivere i contorni, i confini, della umana finitezza. Heidegger, in altri termini, sostituisce il Dio della teologia con l'essere dell'ontologia. L'essere heideggeriano, tuttavia, non ha ne la struttura né le caratteristiche dell'essere della metafisica, giacche non è immutabile statico, a-temporale. Al contrario, esso si manifesta nel tempo, è un campo di possibilità nel senso che crea situazioni, aperture di tipo epocale, delimitando i confini dell'esistenza umana entro ambiti storici finiti, ovvero le esperienze che ne scandiscono il reale accadere. Il pensiero dell'essere produce così la condizione della temporalità e del limite. Quello heideggeriano, in definitiva, è un essere senza metafisica: come tale non ammette e non può ammettere il salto del finito nell' infinito. Dal momento che l'esistenza, l'accadere storico è per Heidegger essenzialmente linguaggio, l'ontologia negativa del filosofo tedesco acquista la connotazione specifica di critica del linguaggio che finisce col riprodurre al proprio interno le abitudini della metafisica, ovvero quell'oblio dell'essere che si configura come mancato riconoscimento del tempo.



Che cosa bisogna intendere per essere, esser-ci, ente?


L'indagine intorno all'essere, secondo Heidegger, va rielaborata a partire da un altro punto di vista, rispetto a quello della metafisica classica. Tale indagine deve incentrarsi anzitutto sull'elemento che si pone il problema dell'essere, il vero soggetto-protagonista della metafisica, della ricerca ontologica, l'esserci, ovvero l'uomo. Per poter ritrovare l'essere, dunque, si rende indispensabile la fondazione di una analitica dell'esistenza (analitica esistenziale) o modo di essere dell'esser-ci (cioè dell'uomo). Martin Heidegger scrive così in Essere e Tempo: "Elaborazione del problema dell'essere significa dunque: render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, è anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall'essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l'altro ha quella possibilità d'essere che consiste nel porre il problema, lo designamo col termine Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell'essere richiede l'adeguata esposizione preliminare di un ente (Esserci) nei riguardi del suo essere".



Che cosa si intende per analitica dell'esistenza o modo di essere dell'esserci?


L'esser-ci, sostiene Heidegger, è sempre già nel mondo, il solo modo di essere dell'esser-ci è lo stare al mondo. In altri termini ciò sta a significare che ognuno di noi è immerso in un contesto sociale e storico. Lo stare al mondo, tuttavia, implica l'intrattenere relazioni con le cose. Le cose, a loro volta, non sono cose-oggetti, ma cose-strumenti: il mondo si può considerare una vera e propria strumentazione di oggetti che delimitano l'orizzonte dell'uomo cioè dell'esser-ci. Le cose-strumenti così intese indicano progetti, possibilità storicamente determinate di esistenza: così, ad esempio, una casa, un'automobile, o qualsiasi altro genere d'uso, stanno a indicare progetti possibili che si inscrivono nel mondo abitato dall'esserci.



Che cosa si intende per deiezione esistenziale?


L'esserci, cioè l'uomo, è un progetto gettato nel mondo (deiezione esistenziale). Il Mondo che accoglie l'esserci (cioè l'uomo) è il mondo sociale. Questo mondo è in realtà già orientato strumentalmente e linguisticamente. In definitiva si può dire allora che ciascun esserci (ciascun uomo) riflette, riproduce il mondo in cui è. In Essere e Tempo Heidegger scrive: "L'Esserci, in quanto comprensione, progetta il suo essere in possibilità. Questo comprendente essere per le possibilità, a causa del contraccolpo che le possibilità, in quanto aperte, hanno sull'Esserci, è un poter-essere. Il progettare proprio della comprensione ha una possibilità di sviluppo sua propria. A questo sviluppo del comprendere diamo il nome di interpretazione. In essa la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso".



Che cosa sono la cura e l'esperienza autentica?


Se il significato ultimo dell'esser gettato sta nell'adeguamento a questo mondo in cui tutto è già definito, in cui tutti i progetti sono già dati, tracciati, allora in questo caso l'esserci resta assorbito nella chiacchiera, vale a dire che egli parla il linguaggio che gli suggerisce un mondo del tutto esteriore, il mondo del 'si' impersonale. In altri termini l'esserci (l'uomo) accetta il mondo così com'è e vive immerso in esso senza riflessione, nella più totale impersonalità, senza provare a produrre da se stesso dei progetti originali, autentici, alternativi a quelli già dati. Tuttavia, secondo Heidegger l'esser-ci dell'uomo è sempre un farsi, un divenire, un essere-nel-mondo. L'essere-nel-mondo è di per sé un essere-gettato-nel-mondo (Heidegger utilizza in questo caso il termine deizione). La relazione che l'uomo si trova a dover vivere, come esser-ci, cioè come essere gettato nel mondo (deizione) comprende anche il prendersi-cura delle cose. Cioè il mettersi in relazione con le cose per la loro utilizzabilità (ecco perché l'esser-ci dell'uomo si risolve nel suo costante progettare-progettarsi in un mondo di cose e altri uomini). Nella cura, così come la definisce Heidegger, l'uomo ha la possibilità di scegliere. Esiste un atteggiamento passivo, nel quale l'uomo vive un'esperienza statica (l'essere-gettato-nel-mondo non riesce a passare al progetto, non è in grado di progettarsi) adeguandosi passivamente al già dato, a ciò che il mondo gli offre, vivendo insomma una relazione passiva col mondo di uomini e di cose nel quale è immerso. Questo atteggiamento passivo, rinunciatario, di assenza di progetto, si risolve alla fine in un'esistenza in autentica. Esiste però anche un'altra possibilità di scelta. Una scelta autentica. Questa consiste nel progettare autonomamente, nel produrre nuovi progetti, nel cambiare il mondo già dato, di uscire quindi dall'anonimato del "si", dell'impersonale, del "si dice". E' proprio in questo sforzo che si dà, secondo Heidegger, la possibilità di trascendere, oltrepassare (superare) la condizione di essere-gettato-nel-mondo (deizione). In Essere e Tempo Heidegger scrive: "Nell'impulso puro la Cura non si è ancora resa libera, benché sia essa a rendere ontologicamente possibile il sottostare dell'Esserci a impulsi provenienti dal suo essere. Nell'inclinazione, invece, la Cura è gia sempre fissata. Inclinazione e impulso sono possibilità radicate nell'esser gettato dell'Esserci. L'impulso "alla vita" non deve essere distrutto, l'inclinazione a lasciarsi "vivere" nel mondo non deve essere estirpata. Ma l'uno e l'altra, in quanto e solo in quanto si fondano ontologicamente sulla Cura, debbono esser modificati, in sede ontico-esistensiva, dalla cura autentica".



Che cosa significa essere per la morte?


La morte fa parte integrante della struttura dell'esserci, è un modo di essere del l'esserci, giacche lo determina come temporalità. Il pensiero della morte, in altri termini, mette l'uomo in condizione di valutare l'inadeguatezza della situazione di esser-gettato, di rimanere nella deiezione. Sotto l'incalzare della morte, allora, l'esserci è indotto ad assumere le possibilità che gli sono proprie, si fa carico di progettare. Ciò significa, in parole povere, scegliere, e la scelta è sostanzialmente rifiuto di ripetere i progetti già dati, già esistenti al mondo. La decisione, allora, si configura come evento temporale finito. La scelta della decisione, poi, si oppone alla causalità, mentre alla deiezione si contrappone, ora, il progetto di un'esistenza autentica come espressione della temporalità. Ciò dimostra, allora, come l'essere venga ridotto dalle metafisiche a semplice presenza e come sia l'esserci a porlo, allorché si interroga su se stesso, allorché cerca il proprio senso o significato (domanda sull'essere). In Essere e Tempo Heidegger scrive: "Soltanto l'anticipazione della morte elimina ogni possibilità casuale e provvisoria. Solo l'esser libero per la morte offre schiettamente all'esserci il fine e pone l'esistenza nella sua finitudine. La finitudine, una volta afferrata, sottrae l'esistenza all'indefinita molteplicità delle possibilità che si offrono immediatamente e porta l'esserci in cospetto della nudità del suo destino. Con questo termine noi designamo l'originario storicizzarsi dell'esserci riposto nella decisione autentica, storicizzarsi in cui l'esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata ma tuttavia scelta. Solo un ente che nel suo essere è essenzialmente avvenire tale che, libero per la sua morte, possa, poggiandosi su di essa, lasciarsi ribellare sul suo essere effettivo, cioè soltanto un ente che come avvenire è simultaneamente un passato, può, trasmettendo a se stesso la possibilità ereditata, assumere il suo proprio essere-gettato ed essere, nell'istante, per il suo tempo. Solo una temporalità autentica, che insieme sia finita, rende possibile qualche cosa come destino, cioè la storicità autentica".




Che cosa si intende per fine della metafisica?


La metafisica nasce secondo Heidegger addirittura con Platone, che pone "l'idea" come un'essenza statica, immutabile, atemporale, che trascende il sensibile; diviene, poi, presenza dell' essere in Aristotele, fondamento dell' essere neI Medioevo, subendo una radicale trasformazione in epoca moderna, allorché Cartesio definisce i contenuti della sua filosofia critica. Merito di Cartesio è l'aver dichiarato reale solo ciò che è certo: l'essere dell'ente viene così riportato al suo fondamento soggettivo, il che sta a significare che la metafisica è una costruzione del soggetto. Sarà il pensiero nietzschiano, tuttavia, a segnare una vera e propria svolta sul terreno della metafisica a giudizio di Nietzsche, infatti, non conta il luogo, sia esso il soggetto o l'oggetto, in cui la metafisica cerca il fondamento dell' essere: ciò che ha valore e conta effettivamente, al contrario, è che il ragionamento metafisico circa il fondamento dell'essere si configura come argomentare della volontà soggettiva. Sulla base di queste considerazioni Heidegger giunge alla conclusione che la storia della metafisica è caratterizzata da un costante e continuo porre il problema dell'essere in modo tale che esso cada in oblio, nella dimenticanza. Ciò è verificabile sul piano temporale e storico, più che su quello conoscitivo. La scoperta dell' essenza della metafisica diviene possibile allorché essa giunge a compimento in Nietzsche. Il nichilismo nietzschiano, che si concretizza nell'espressione l'essere non è più nulla, segna di fatto il compimento del discorso metafisico inteso come valore posto dal soggetto per la propria crescita vitale. Ciò sta a significare che il soggetto riscopre se stesso, dopo aver dimenticato l'essere creando metafisiche. Nietzsche, a giudizio di Heidegger, è l'ultimo rappresentante della metafisica occidentale giacche, al posto dei valori tradizionali, colloca la volontà di potenza, ultima e più compiuta espressione della metafisica L'essere viene tematizzato come volontà, cioè scompare a vantaggio dell'ente. Nasce l'epoca dell'organizzazione totale del mondo. "Quando la metafisica pensa l'ente nel suo essere come volontà di potenza, essa pensa necessariamente l'essere come ponente valori. Essa pensa ogni cosa nell'orizzonte dei valori: del volere i valori, del venir meno dei valori, del capo volgimento dei valori. La metafisica del Mondo Moderno inizia e risolve la sua essenza nella ricerca dell'assolutamente indubitabile, del certo, della certezza. (Cartesio) [.] Secondo Nietzsche la certezza, quale principio della metafisica moderna è propriamente fondata sulla volontà di potenza: sul presupposto che la verità è un valore necessario e che la certezza è la forma assunta dalla verità nel Mondo Moderno Ciò rende chiaro in qual senso la dottrina nietzschiana della volontà di potenza come "essenza" di ogni realtà conclude la metafisica moderna della soggettività" (Da Sentieri interrotti).



Quali sono le critiche che Heidegger muove alla civiltà?


L'epoca moderna è caratterizzata per Heidegger dall'oblio dell'essere ovvero da una perdita di controllo, di dominio, per così dire, dell'essere sulle operazioni dell'ente. Così l'uomo è portato a ridurre ogni cosa a strumento per le proprie realizzazioni. Ciò sta a significare che l'epoca moderna fa registrare il dominio della tecnica, che riconduce tutto nuovamente sotto il proprio controllo: in questo senso la tecnica prende il posto della metafisica, si sostituisce alla metafisica ormai dissolta. Rispetto a Nietzsche, però, Heidegger non crede al rovesciamento dei valori: al posto dei valori Nietzsche pone l'aggressività gioiosa della vita, il che, Heidegger, è un illusione di tipo umanistico. Ciò sta a significare che la crisi della civiltà, il senso di decadenza e di perdita che la caratterizzano, è interpretata da Heidegger come destino La metafisica, infatti, sta a indicare il modo con cui ci rapportiamo all'ente. Gli uomini, rapportandosi sempre all'ente, ristabiliscono questo rapporto in differenti metafisiche. La metafisica in quanto storia dell'essere ci svela il modo in cui l'essere ha prodotto le situazioni dell'esser-gettato.



Che cosa sostiene Heidegger a proposito del linguaggio? E qual è il rapporto tra metafisica e linguaggio?


La riflessione sull'essere consente a Heidegger di giungere alla considerazione che il modo di accadere dell'essere è il linguaggio. Più che uno strumento a nostra disposizione, il linguaggio è un mezzo potente per disporre di noi. Attraverso il linguaggio, infatti, noi confermiamo un mondo, siamo per così dire orientati verso un progetto di cui non abbiamo consapevolezza.


La metafisica, a giudizio di Heidegger, non ha e non può avere il problema del linguaggio: la metafisica ragiona di cose, il suo è un linguaggio che stabilisce rapporti necessari e gerarchici. Attraverso il linguaggio la metafisica vuole possedere l'essere in maniera totale, assoluta. La filosofia che si trova ormai nell'epoca della fine del la metafisica intende, invece, il linguaggio come ascolto: essa, cioè, è ermeneutica, commento. La filosofia è, dunque, produzione di linguaggio che tende ad alterare, a trasformare quello esistente senza sopprimerlo e senza recepirlo, interiorizzarlo. In questo sta il senso dell'ermeneutica, nel creare differenze, aperture, verità. In questo, inoltre, risiede lo stabilire un incontro con il linguaggio, il rispondere al linguaggio. Appello e risposta acquistano, così, nella terminologia heideggeriana, la connotazione di identico. Il pensiero dell'essere, agendo in maniera terapeutica nei confronti del linguaggio assoluto, totale delle metafisiche, crea i presupposti per stabilire un'apertura finita nel tempo, ovvero un' esperienza autentica.



Che cosa ha scritto Emanuele Severino circa la concezione heideggeriano del tempo? E come Severino interpreta il concetto heideggeriano di differenza ontologica?


Il tempo. Sappiamo che secondo Heidegger non è possibile pensare l'essere a prescindere dalla dimensione del tempo né il tempo a prescindere dalla dimensione dell'essere. A questo proposito Emanuele Severino aveva osservato che "l'esistenza dell'uomo è dunque un ente, ma è quell'ente che decide e sceglie se stesso, ossia non è qualcosa di concluso, di già dato e compiuto, non è una semplice presenza o "realtà", ma è "poter essere", rapporto alla possibilità e quindi è storicità, temporalità, divenire. Nell'intuizione fenomenologica l'uomo non si presenta come espressione di un'essenza che regoli e prestabilisca il divenire umano; e non è presente nemmeno una qualche essenza immutabile diversa dall'uomo, con la quale l'uomo si ponga in rapporto. L'esistenza è un ex-sistere, cioè un portarsi oltre, un "trascendere" che oltrepassa ciò che si è, in direzione di qualcosa che non è già reale, ma è possibilità pura e quindi novità radicale. (...) Heidegger avverte cioè che il carattere storico-temporale dell'esistenza non può venire alla luce indipendentemente dall'ontologia, cioè dall'analisi del senso dell'ente e di ciò per cui l'ente è ente: l'essere. [...]


La differenza ontologica. Heidegger rileva che da Parmenide a Hegel, sino allo stesso Nietzsche, la metafisica definisce l'essere come "presenza" (nel senso in cui si dice che in un luogo "è presente" un oggetto), ossia come ciò che, invece di ex-sistere, sussiste, in-siste, si dà come forma, è visibile e può quindi essere incontrato e in qualche modo afferrato - qualcosa dunque di oggettivo. Concepito come presenza oggettiva, l'essere irrigidisce e cancella il divenire storico. (...) Per salvaguardare la storicità dell'esistenza - questa è la tesi fondamentale di Heidegger - non si deve dunque intendere l'essere come ciò che è comune a ogni ente, ma come differenza da ogni ente."


[Cfr. E. Severino, La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano, 1986, pp. 245-262.].



Antologia





L'essere-per-la-morte


Introduzione al testo

Abbiamo visto che la metafisica si presenta nel primo Heidegger come analisi dell'Esserci, cioè di quell'essere, appunto, "che noi stessi già siamo, e che ha, fra le altre possibilità, quella del cercare". Come viene detto in questo passo, l'Esserci è caratterizzato, nel suo essere-nel-mondo, dall'essere-per-la-morte. Se l'Esserci è definito dalla possibilità di essere, la morte gli si presenta come il limite e la negazione di questa possibilità e gli chiede di accettare l'essere per la morte come "orizzonte in cui si iscrive la sua vita". Il "Si muore" cerca di esorcizzare l'angoscia davanti alla morte, di tranquillizzare gli uomini, ma Heidegger considera inautentico questo approccio all'essere-per-la-morte, che, invece, richiede all'uomo di progettarsi sapendo quale è la possibilità estrema che gli appartiene. Sapendo che non può solidificarsi su nessuna delle situazioni esistenziali raggiunte.



La morte sovrasta l'esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta.

Ma all'esserci, come essere-nel-mondo, sovrastano molte cose. Il carattere d'imminenza sovrastante non è esclusivo della morte. Un'interpretazione del genere potrebbe far credere che la morte sia un evento che s'incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. Un temporale può sovrastare come imminente; la riparazione d'una casa, l'arrivo d'un amico, possono essere imminenti; tutte cose, queste, che sono semplici-presenze o utilizzabili o compresenze. Il sovrastare della morte non ha un essere di questo genere.

[...] La morte è una possibilità di essere che l'esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l'esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l'esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l'esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l'esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell'esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l'estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l'esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. [...]

Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l'esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l'esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. [...]. L'esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia. Un'angoscia davanti alla morte è angoscia davanti al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. [...] L'angoscia non dev'essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di 'depressione', contingente, casuale, alla mercé dell'individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell'esserci, essa costituisce l'apertura dell'esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale dei morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisce la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e all'esperienza vissuta dei decesso. [...]

Un'interpretazione pubblica dell'esserci dice: "Si muore"; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. [...] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un "caso" che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già "accaduto", coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità. Con quest'equivoco l'esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo se-Stesso più proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l'essere-per-la-morte più proprio.

Questo movimento di diversione dalla morte coprendola domina a tal punto la quotidianità che, nell'essere-assieme, "i parenti più prossimi" vanno sovente ripetendo al "morente" che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà far ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. Questo "aver cura" vuol così "consolare il morente". Ci si preoccupa di riportarlo nell'esserci, aiutandolo a nascondersi la possibilità del suo essere più propria, incondizionata e insuperabile. Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte. In realtà ciò non vale solo per il "morente" ma altrettanto per i consolanti. [...] Il Si non ha il coraggio dell'angoscia davanti alla morte. [...] Nell'angoscia davanti alla morte, l'esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile. Il Si si prende cura di trasformare quest'angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà. Un'angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sé non deve conoscere.

[...] Un essere-per-la-morte è l'anticipazione di un poter-essere di quell'ente il cui modo dì essere è l'anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l'esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter essere più proprio significa poter comprendere se stesso entro l'essere dell'ente così svelato: l'anticipazione dischiude all'esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte.


[tratto da Martin Heidegger, Essere e tempo, UTET, Torino 1978











La critica della metafisica della presenza


Introduzione al testo

Nella dottrina platonica della verità, Heidegger indica il senso della svolta epocale che Platone ha operato nel campo della metafisica e che ha influito sui quadri concettuali che hanno caratterizzato l'intera cultura e civiltà dell'Occidente. Solo nella nostra epoca (come testimonia la critica di Nietzsche e la sua proclamazione della "morte di Dio") la metafisica ha mostrato di essere entrata in crisi. Platone ha ritenuto che la verità potesse essere "svelata" attraverso la visione delle idee. Eppure, proprio il fatto di aver fondato la verità sulla visione da parte del soggetto ha portato la metafisica a identificare l'essere con l'ente (sia pure come ente ideale), lo ha tradotto in una mera presenza dell'ente, quindi lo ha nascosto invece di rivelarlo.


Punti fondamentali del testo:


Secondo Heidegger annunciando la "morte di Dio", Nietzsche ha sottolineato la crisi della struttura di pensiero sottesa alla metafisica;

il fondamento della metafisica occidentale è quello platonico della visione delle Idee, nella quale l'essere viene però identificato con l'ente;

tale concezione ha portato nell'epoca moderna all'esaltazione della potenza della scienza e della tecnica, al loro dominio planetario;

così l'era moderna, l'era del dominio della metafisica, è stata quella dell'oblio dell'essere.



Risulta chiaro che l'affermazione di Nietzsche circa la morte di Dio riguarda il Dio cristiano. Ma è altrettanto certo, e da tener presente sin d'ora, che le espressioni "Dio" e "Dio cristiano" sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo sovrasensibile in generale, "Dio" è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali. Questo mondo del sovrasensibile vale da Platone - o meglio, dalla tarda interpretazione greca o da quella cristiana della filosofia platonica - come il mondo vero, l'autenticamente reale. In opposizione ad esso, il mondo sensibile è semplicemente il mondo di qua, il mondo mutevole, e perciò soltanto apparente, irreale. Il mondo di qua è la valle di lacrime, contrapposta all'eterna beatitudine ultraterrena. Se intendiamo, come fa ancora Kant, il mondo sensibile come mondo fisico nel senso più ampio, il mondo sovrasensibile diverrà il mondo metafisico. Così l'espressione "Dio è morto" significa che il mondo ultrasensibile è senza forza reale, non dispensa vita alcuna. La metafisica, cioè per Nietzsche la filosofia occidentale intesa come platonismo, è alla fine. Nietzsche intende la sua filosofia come il contromovimento della metafisica, cioè per lui del platonismo.[11]

Ma, in quanto semplice controcorrente, essa resta necessariamente conforme, come ogni "anti", alla natura di ciò contro cui si volge. L'antimetafisica di Nietzsche, in quanto semplice capovolgimento della metafisica, è un irretimento nella metafisica stessa[12].


[M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1986].



Il pensiero di Platone segue il mutamento dell'essenza della verità, quel mutamento che diventa la storia della metafisica, la quale, col pensiero di Nietzsche, ha iniziato il suo incondizionato compimento. La dottrina platonica della "verità" non è dunque qualcosa di passato. Essa è "presente" storico[13], inteso, però, non come "effetto remoto" di una dottrina, ricostruito con un'operazione storiografica, ne come un risveglio o un'imitazione dell'antichità, né, infine, come semplice conservazione di una tradizione. Quel mutamento dell'essenza della verità è presente come la realtà fondamentale della storia universale del globo terrestre che avanza verso la fase estrema dell'epoca moderna; si tratta di una realtà che, consolidata da tempo e per- ciò ancora non spostata, domina ogni cosa. [...] La storia narrata nel mito della caverna fa vedere ciò che ancora veramente accade nel presente e nel futuro dell'umanità occidentale: l'uomo pensa nel senso dell'essenza della verità come correttezza del rappresentare tutto ciò che è secondo "idee" e valuta ogni realtà in base a "valori". La sola cosa decisiva non è quali idee e quali valori vengano posti, ma il fatto che, in generale, il reale sia interpretato in base a "idee" e il "mondo" valutato in base a "valori". La svelatezza si rivela come il tratto fondamentale dell'ente stesso. [...] Concepita in senso platonico la svelatezza resta vincolata al riferimento al vedere , all'apprensione, al pensare e all'asserire. Seguire questo riferimento significa abbandonare l'essenza della svelatezza. Nessun tentativo di fondare l'essenza della svelatezza nella "ragione", nello "spirito", nel "pensiero", nel "logos" o in una qualche specie di "soggettività" potrà mai salvare l'essenza della svelatezza. Qui, infatti, quel che si tratta di fondare, l'essenza stessa della svelatezza, non è ancora stato nemmeno sufficientemente domandato. Viene sempre "spiegata" soltanto una conseguenza essenziale dell'essenza incompresa della svelatezza. Prima di tutto occorre apprezzare quanto vi è di "positivo" nell'essenza "privativa" dell'alétheia. Prima di tutto occorre che questo positivo sia esperito come il tratto fondamentale dell'essere. Prima occorre che sopravvenga la necessità in cui diventi degno di domanda non solo. come sempre, l'ente nel suo essere, ma una volta tanto l'essere stesso (cioè la differenza) . Ma poiché questa condizione di necessità deve ancora venire, l'essenza iniziale della verità riposa ancora nel suo-inizio velato.


[M. Heidegger, Dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987].



Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1980, p. 3 e seguenti. Il passo del Sofista recita: "E' chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l'espressione essente, anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz'altro, ma ora siamo caduti in perplessità".

Cfr. Ciuffi, Gallo et. al., Diàlogos, Bruno Mondatori Editore, 2000, p. 324

Cfr. N. Abbagnano, Storia della Filosofia, UTET, Torino, p. 674

Cfr. M. Trombino, La ricerca contemporanea, op. cit., p. 605.

Cfr. M. Trombino, La ricerca contemporanea, op. cit., p. 606 e seguenti.

Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, op. cit., p. 674

Cfr. Introduzione a M. Heidegger, op. cit. p. 18

Cfr. M. Trombino, op. cit., p.

Cfr. Ciuffi-Gallo-Luppi-Vigorelli-Zanette, Diàlogos, Bruno Mondatori Editore, p. 328.

Cfr. G. Vattimo, op. cit., p. 22

Nietzsche ha attaccato a fondo il Platonismo come espressione suprema della metafisica, cioè come visione della separazione netta fra mondo sensibile e mondo sovrasensibile, e come dominio di questo su quello.

Nietzsche, in effetti, non ha superato la metafisica, ma ne mantiene i tratti fondamentali. Anzi, dirà più oltre Heidegger, il nichilismo che lo caratterizza non è una dottrina qualsiasi, ma piuttosto "il movimento fondamentale della storia dell'Occidente", il cui corso "non potrà determinare che catastrofi mondiali", perché "ha il suo fondamento essenziale nella metafisica" e coincide con la potenza planetaria raggiunta dalla scienza e dalla tecnica moderna, basate su un pensiero "oggettivante" che ha de terminato - a partire da Platone - l'oblio dell'essere.

La dottrina platonica non è un residuato del passato, ma è attualissima, perché condiziona e fonda la metafisica, quindi gli schemi e i quadri mentali che hanno condotto all'era moderna.

Nella concezione platonica della caverna gli uomini si rivolgono dal buio e dalla confusione dell'esperienza sensibile alla rappresentazione del mondo delle idee come "vera realtà" e alla loro interpretazione come valori, cioè come idee universali, direttive della condotta.

In Platone si ha un "vedere" la verità delle idee che, col pretesto di "svelare" l'essere alla mente, in effetti lo nasconde, lo "vela", "spiega" razionalmente l'essere, ma in realtà lo confonde con l'ente, che è ciò che in effetti è presente alla visione razionale delle idee.

L'essere è differenza in quanto è sempre al di là della mera presenza obiettivata dell'ente, che la visione della ragione e la metafisica si prospettano. Lo stesso termine di a-létheia, che in greco significava verità, era composto da un a (alfa) privativo, equivalente a un non, e dal verbo lanthanein, che voleva dire nascondere. "Verità" era quindi svelamento di ciò che si ve- la, si nasconde: l'essere, appunto. Per cogliere e svelare non dobbiamo quindi utilizzare la "luce" e il "vedere" della ragione, ma porci nelle condizioni (ad esempio con un sapere non obiettivante come è quello della poesia) per cui l'essere si annunci a noi.




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