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Il filosofo - Verità ed evidenza

filosofia



Il filosofo. Si suole attribuire a C. il merito di aver dato inizio alla filosofia moderna, per il suo rifiuto

dell'impostazione scolastica. Se ciò è indubbiamente vero, non appare tuttavia sufficiente per

caratterizzare la complessa figura e il molteplice significato della sua filosofia. C. è al tempo

stesso iniziatore di una f 424b13e ilosofia radicalmente nuova e continuatore del tentativo tradizionale di

dare origine a una filosofia cristiana. La comprensione del suo pensiero è possibile solo se si

mantengono entrambi i termini. Per la prima volta con C., un filosofo cristiano si trova di fronte a

una forma di ateismo esplicito: il libertinismo, che sottoponeva a radicale critica la credenza



religiosa e dissolveva le teorie teologiche e metafisiche, spiegandole o come semplice residuo

storico o come affermazioni di ordine psicologico. C. deve quindi risolvere il problema di trovare,

sul piano sia filosofico sia religioso, una fondazione non psicologica della verità, un "metodo"

cioè per pervenire alla verità, che la garantisca da qualsiasi residuo di ordine psicologico

Il metodo. La prima fondamentale regola espressa nel celebre  Discours de la méthode(1637) è quindi: "Non

ammettere come vero nulla che non si sia riconosciuto con evidenza per tale: cioè evitare la

precipitazione e la prevenzione". L'evidenza implica chiarezza e distinzione, cioè presenza allo

spirito di una percezione e sua separazione da ogni altra. I termini che intervengono

nell'evidenza sono quindi l'esperienza nella sua trasparenza (la metafora visiva è quella di cui

C. si avvale per illustrare l'evidenza) e la libertà, come capacità dello spirito di separare la

percezione da ogni altra. Connesso con il criterio dell'evidenza è l'esercizio metodico del dubbio,

per il quale l'io decide di considerare come false tutte quelle verità che non siano state

dimostrate senz'ombra di dubbio (cioè che non siano evidenti). Il dubbio cartesiano infatti,

contrariamente al dubbio scettico, è un modo di affermare attraverso un atto di volontà

l'indipendenza del soggetto rispetto all'oggetto e una via quindi per superare ogni forma

d'incertezza psicologica. Esso è frutto di una scelta nella quale l'io rivendica la sua possibilità di

distinguersi dall'oggetto e la sua autonomia rispetto a esso. Di qui deriva il riconoscimento della

verità di quell'unica affermazione che si presenta come immediatamente evidente e immune da

qualsiasi possibilità di dubbio:  cogito ergo sum. Il pensiero infatti attesta da sé la propria

esistenza. Le altre regole del metodo sono: dividere ogni problema in tante parti minori (analisi);

ricomporre le nozioni semplici, servendosi di connessioni per sé evidenti (sintesi); rivedere ogni

passaggio fino alla certezza di non aver omesso nulla (enumerazione). Esse mostrano il

tentativo di ridurre, così come avviene in matematica, ogni atto di conoscenza a un'intuizione,

per cui ogni verità non è che una catena di evidenze. La matematica diviene così il modello del

metodo, non nel senso che ogni verità sia di tipo scientifico, ma nel senso che la matematica è

l'unica scienza in cui finora il metodo è stato correttamente impiegato.

Il problema morale. L'esercizio del dubbio è limitato da C. al problema della conoscenza. Per quanto riguarda il

comportamento dell'uomo, C., consapevole del numero limitato di verità su cui si può

inizialmente fare affidamento e timoroso di un esito scettico della sua filosofia, elabora alcune

regole di "morale provvisoria" (mai in seguito completate definitivamente), nelle quali afferma la

necessità di rimanere ancorati alla tradizione in tutti quei casi in cui sia impossibile stabilire con

certezza la verità di un'affermazione e ripropone il precetto storico del dominio di sé. Alla base

del metodo cartesiano sta non un razionalismo esasperato, né un soggettivismo radicale, né una

forma incoattiva d'idealismo, ma la dottrina della libertà. C. si era già cimentato con questo

problema a proposito della creazione divina delle verità eterne, concludendo che l'assoluta

libertà di Dio non lo costringeva al rispetto di alcun criterio precedente la creazione. Dio è

l'autore delle verità eterne; se avesse voluto che 2+2 facesse 5, così oggi sarebbe per noi. Ciò

che Egli ha scelto è divenuto per noi criterio di verità. Verità d'indifferenza e verità di elezione

pertanto coincidono in Dio. Non così nell'uomo, in cui la libertà si presenta in entrambi i gradi: "la

libertà consiste solo nel potere che noi abbiamo di fare una cosa o di non farla, cioè affermare o

negare, seguire o fuggire (libertà di indifferenza), o piuttosto nel fatto che affermando o negando,



seguendo o fuggendo le cose che l'intelletto ci presenta, noi agiamo senza avvertire alcuna forza

esterna che ci costringa (libertà di elezione)". La libertà d'indifferenza è per l'uomo il grado più

basso della libertà, che si manifesta pienamente solo nella libertà di elezione come capacità di

determinarsi in base alla forza interiore della ragione. Ed è anche a causa di questa capacità del

soggetto di distinguersi dall'oggetto, capacità che è frutto della libertà, che viene in luce in C. un

radicale dualismo: si apre infatti una profonda divisione tra me che penso (cosa di cui non posso

dubitare) e ciò che penso (della cui esistenza posso invece dubitare). Il dubbio pertanto si ripropone, poiché io né sono certo dell'esistenza di ciò che penso, né delle

stesse evidenze che penso, perché potrebbe sempre esservi un genio maligno che si diverte a

ingannarmi. In secondo luogo la mia stessa esperienza della libertà attesta in me una duplicità:

da un lato la "libertà d'indifferenza", in quanto capacità di essere ugualmente attratto dai contrari,

pone in luce la mia debolezza; dall'altro, la "libertà di elezione", come capacità di

autodeterminarmi razionalmente e quindi di trascendere la natura, prova l'esistenza in me di

un'idea d'infinito, d'infinita possibilità, idea che non posso aver coniato da solo, perché

infinitamente superiore alla mia limitatezza. L'ipotesi del genio maligno e l'esperienza della

libertà mi rimandano quindi a Dio

L'esistenza di Dio. Solo l'esistenza di Dio può vincere l'incertezza che il genio maligno getta su ogni conoscenza ed

è l'esperienza della libertà che mi conduce all'affermazione di tale esistenza. C. segue tre vie

per dimostrare l'esistenza di Dio. Le prime due muovono dalla mia imperfezione e dalla

presenza in me dell'idea di qualcosa di perfetto per concludere all'esistenza di Dio, mentre la

terza è una ripresa della prova "a priori" di Sant'Anselmo. La dimostrazione dell'esistenza di Dio

mi garantisce dunque contro ogni ipotesi di genio maligno, poiché Dio, in quanto perfetto, non può

essere menzognero. Egli pertanto non può ingannarmi quando io giungo all'evidenza, né può

ingannarmi popolando il mio pensiero di fantasmi fallaci. Io avverto in me la tendenza

irresistibile a considerare ciò di cui ho idea come esistente anche esistente in realtà. L'esistenza

di Dio garantisce anche questa mia tendenza naturale. Dio dunque è garante dell'esistenza del

mondo. Egli è garante della verità, nel senso cioè che la sua esistenza garantisce che ciò che è

stato colto una volta come vero continua immutabilmente a essere vero, indipendentemente dalla

mia capacità di ripercorrere quella catena di evidenze che mi aveva condotto all'affermazione

della verità. Dio dunque propriamente è garante della permanenza della verità.

Verità ed evidenza.

Sembra a questo punto, sulla base del metodo dell'intelletto finora elaborato, che ogni possibilità

di errore sia negata. L'errore è tuttavia possibile per la maggior estensione, per così dire, della

volontà dell'intelletto. La volontà infatti può precipitare il giudizio pronunciandolo prima che

l'intelletto sia pervenuto all'evidenza ( Principia philosophiae, 1647). Fu spesso rimproverato a C.

di essere caduto in un circolo vizioso fondando la dimostrazione dell'esistenza di Dio attraverso

il criterio dell'evidenza e giustificando successivamente tale criterio con la dimostrazione

dell'esistenza di Dio. In realtà questa accusa non è legittima, poiché Dio, come abbiamo visto,

non fonda propriamente la verità, ma ne garantisce semplicemente la permanenza. Inoltre il 

cogito e Dio non sono verità a cui si perviene secondo uno schema dimostrativo di tipo

sillogistico, ma evidenze, cioè verità che mi si impongono per la loro stessa forza, come in se

stesse trasparenti e indubitabili. A questo sono giunto attraverso il metodo; con lo sforzo di



attenzione che esso mi propone ho colto al tempo stesso l'indubitabilità di me che dubito e la

presenza dell'idea d'infinito in me; ho colto cioè me come essere pensante e Dio, e mi sono

aperto all'ammissione dell'esistenza reale di tutto ciò la cui esistenza si presenta al mio

pensiero come evidente. C. è pertanto riuscito nel proprio intento contro il naturalismo libertino e

il conseguente ateismo, trovando in Dio la garanzia dell'esistenza del mondo e realizzando

quindi una filosofia religiosa. La sintesi a cui egli è pervenuto si presenta nuova e antica. Nel

suo pensiero coesistono entrambe le componenti. Nuova, perché egli ha riproposto un pensiero

religioso su basi affatto differenti rispetto a quelle della Scolastica; antica, perché egli è rimasto

ancorato senza alcuna esitazione a una concezione di armonica cospirazione di ragione e fede,

quale si trova in San Tommaso. Tuttavia è proprio questa duplicità del pensiero di C. che

costituisce la sua grandezza e giustifica le divergenti interpretazioni che di lui sono state date.

Da un lato infatti egli sembra fondare la libertà dell'uomo, e quindi in ultima analisi la sua stessa

capacità di conoscere, sull'ammissione dell'esistenza di Dio, dall'altro egli sembra suggerire la

radicale autonomia dell'uomo, che è unico arbitro, attraverso il criterio dell'evidenza, della verità

Anzi è precisamente questo aspetto, per così dire, laico della sua filosofia, che nel corso dei

successivi sviluppi della storia del pensiero è stato più frequentemente ripreso; questa

ambivalenza del suo pensiero spiega come si sia potuto interpretare C. ora come filosofo

religioso, ora come scienziato, ora come iniziatore di una dottrina dell'autonomia e

dell'immanenza della ragione, che troverà il proprio compimento nell'idealismo.

Il mondo fisico. I risultati sin qui conseguiti consentono a C. di concepire in modo perfettamente penetrabile dal

pensiero l'intero universo. Al di là del cogito, come abbiamo visto, esiste un mondo indipendente.

Esso si presenta come indipendente dall'io non per le qualità sensibili (p. es. colori, sapori,

suoni, ecc.), la cui origine è riconducibile alla coscienza, ma per quella unica qualità, che

potremmo perciò definire primaria, che gli è propria: l'estensione. Ciò infatti che fa di un blocco di

cera un oggetto materiale è, indipendentemente dalle diverse forme che esso può assumere, la

sua estensione. La materia è dunque sostanza estesa e non vi è spazio se non vi è materia, né

materia se non vi è estensione. Si devono quindi negare sia il vuoto (cioè la contraddizione di

uno spazio, cioè di un'estensione non estesa) sia l'atomo (cioè la contraddizione di

un'estensione indivisibile). I mutamenti della materia sono dovuti al movimento iniziale che Dio

ha impresso al mondo. Tale movimento obbedisce ad alcune leggi fondamentali che si possono

riassumere nel principio d'inerzia e nella legge della costanza della quantità di moto. Tale

quantità può variamente distribuirsi fra i singoli corpi, ma si mantiene immutata nel suo valore

globale. Il movimento non è una proprietà intrinseca della materia, poiché essa ha solo le

caratteristiche geometriche della pura estensione. Nel tracciare la sua cosmologia C. ammette

perciò che all'inizio esisteva solo un universo esteso e inerte a cui Dio impresse una certa

quantità di movimento in tutte le direzioni. Non essendovi vuoto in cui muoversi, i corpi, distinti

solo per forma e grandezza, cominciarono a urtarsi fra di loro disponendosi in modo circolare e

formando vortici, di ogni grandezza e velocità. Sono questi vortici che trascinano i pianeti nelle

loro orbite. Lungo il confine dei singoli vortici le violente collisioni fra i corpi provocano uno

sfregamento da cui risultano per abrasione una sostanza tenue e fluida (materia prima) e globuli

rotondi e lucidi (materia seconda). I corpi soggetti a movimenti meno veloci e che risultano quindi

meno suddivisi e arrotondati possono aggregarsi formando le sostanze più opache e pesanti

(materia terza). Nei vortici il primo elemento tende a raccogliersi nel centro formando il sole e le

stelle. In tal modo C. cercò anche di conciliare l'insegnamento biblico con la teoria copernicana,

rilevando come la terra sia ferma entro il suo vortice che ruota attorno al sole. Ma soprattutto egli

si impegnò in una dettagliata interpretazione meccanicistica dei più importanti fenomeni naturali,

che ebbe una notevole importanza nel sorgere della scienza moderna






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