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FILOSOFIE DELL'ILLUSIONE E UTOPIE DELLA PERFEZIONE - Dalla Rettorica al Kitsch

filosofia



FILOSOFIE DELL'ILLUSIONE

E UTOPIE DELLA PERFEZIONE


1.Dalla Rettorica al Kitsch


Il 16 ottobre del 1910 uno studente goriziano della giovane età di ventitrè anni finisce la stesura della propria tesi di laurea, solo dopo avervi aggiunto delle "appendici critiche". La suddetta tesi recava il titolo "La persuasione e la rettorica".

La sua stesura fu alquanto problematica: Michelstaedter partito da un analisi dei concetti della persuasione e della rettorica in Platone e Aristotele, comprende che l'iniziale lavoro gli sfugge dalle mani e lo porta in una strada diversa dai presupposti da cui era partito.



Si allontana infatti dai concetti di persuasione e rettorica canonici e li utilizza come spunti necessari a sviluppare un profondo discorso sull' esistenza umana.

La persuasione e la rettorica è un testo filosofico che trova la sua forma attraverso la denaturalizzazione dei due concetti che compongono il suo titolo.

Una denaturalizzazione senza dubbio originale, ma che ha bisogno delle parole di Michelstaedter per essere perfettamente compresa:



"So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un ga 222f59c ncio e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poichè quant'è peso pende e quanto pende dipende.

Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. - Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, chè il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d'attrattiva non essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono: sempre lo tiene un ugual fame del più basso e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere.-

Che se in un punto gli fosse finita ed in un punto potesse possedere l'infinito scendere dell'infinito futuro- in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso.

La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente- ma fosse finito, perfetto: possedesse se stesso, esso avrebbe finito d'esistere. - Il peso è a sè stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sè stesso in ciò che non gli è dato soddisfarsi. Il peso non può mai essere persuaso.






Nè alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, che tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita".


E' in queste poche righe che si condensa il nucleo concettuale dell'opera e della filosofia michelstaedteriana: una filosofia che si nutre della lezione di Socrate, ma che intrattiene profondi legami anche con il pensiero di filosofi più vicini a noi: Schopenauer e, in particolar modo il Nietzsche dell' "eterno ritorno dell'uguale".

E' la rivelazione di una verità sconvolgente e terrificante, una verità che è "già stata detta tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole" come afferma lo stesso Michelstaedter nella prefazione.

La verità terribile è la rivelazione della natura dell'esistenza umana: l'impossibilità dell'uomo di possedere pienamente la sua vita.

E' quest' incapacità di sentire la vita vera dentro sè stessi  che determina come fisiologica conseguenza la necessità dell'uomo di rimediare a questa enorme deficenza attraverso l'appagamento del desiderio: un desiderio incessante che rivolge la sua attenzione verso infiniti obiettivi nel futuro, nella speranza, mai soddisfatta, di poter inghiottire la vita.

E sembrano risuonare i versi di Giacomo Leopardi quando leggiamo nelle prime pagine del testo di Michelstaedter:



" Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle.

Io salirò sulla montagna - l'altezza mi chiama, voglio averla - l'ascendo - la domino; ma la montagna come la posseggo? Ben son alto sulla pianura e sul mare; e vedo il largo orizzonte che è della montagna; ma tutto ciò non è mio: non è in me quanto vedo, e per più vedere non mai ho visto: la vista non la posseggo. - Il mare brilla lontano; in altro modo esso sarà mio; io scenderò alla costa; io sentirò la sua voce; navigherò sul suo dorso e..sarò contento.

Ma ora che sono sul mare, l'orecchio non è pieno d'udire, e la nave cavalca sempre nuove onde e un' ugual sete mi tiene: se mi tuffo nel mare, se sento l'onde sul mio corpo - ma dove sono io non è il mare; se voglio andare dove è l'acqua e averla - le onde si fendono davanti all'uomo che nuota; se bevo il salso, se esulto come un delfino - se m'annego - ma ancora il mare non lo posseggo: sono solo e diverso in mezzo al mare".







E' una verità ineludibile ed inoppugnabile: l'uomo desidera, proteso costantemente verso il futuro della speranza, dimentico di se stesso e del presente e tutti i suoi desideri risultano essere solo degli illusori surrogati del desiderio più grande: quello di possedere la vita, e come tali non possono non essere dei palliativi insoddisfacenti atti a medicare l'eterna condizione umana.

Nessuno di noi può sfuggire a questa condanna, giacchè se potesse farlo cesserebbe d'essere uomo come un peso cesserebbe d'esser peso nel momento in cui non desiderasse più scendere verso il basso.

Questo in sintesi il contenuto dell' illuminante metafora che da l'incipit all'opera.

Ma se da un lato tali palliativi risultano incapaci in definitiva di dare un senso alla nostra vita, è pur vero che dall'altro sono un fondamentale strumento per la nostra sopravvivenza: ci consentono di ignorare questa verità terribile, di proseguire in un futuro dove c'è posto solo per essi e dove la vita, come la morte passano inosservati.



" Così i luoghi per dove passa il viandante sono per lui luoghi comuni delle cose che sfiora, delle cose su cui poggia per proseguire, che cosa sa egli come vivano e che vogliano e che siano? Questo solo sa, se gli son dure o tenere, difficili o facili, favorevoli o nemiche; egli ignora ciò che è giusto altrui, usa delle cose e delle persone solo in quanto utili al suo andare.

Così piegandosi, aspettando, transigendo e, per non impegnarsi a fondo così da compromettere tutto il futuro in un punto, dimentico ed irresponsabile - l'uomo sociale trae la vita ignorandola".



L'uomo, assorbito com'è dagli accidenti attuali della vita deve limitarsi a guardare dove mette i piedi. Egli è obbligato dalla sua stessa natura a cercare di ignorare la sostanza della realtà, ad eludere il vero significato della vita, a rimanere in una superficie illusoria di un mare profondissimo e carico di dolore dove non potrebbe far altro che naufragare.

E' questa superficie illusoria, è l'insieme di tutti i nostri desideri, è il blocco degli accidenti attuali della vita ciò che Michelstaedter definisce rettorica: tutte quelle contingenze che persuadono l'uomo illusoriamente d'esser vita la qualunque vita egli vive.








E' l'apparato rettorico ciò che ci permette di sgominare (apparentemente) il dolore del vivere, la crosta di cartapesta di un mondo assolutamente incomprensibile, la stampella psicologica che ci consente di ignorare la morte e di esorcizzare lo sgomento che essa comporta.

Michelstaedter continua tratteggiandoci i contorni di una particolare divinità ed una religione ad essa connessa: non un dio pagano, nè un dio cristiano ci guida nel cammino della nostra esistenza.

La divinità di cui ci parla Michelstaedter non è un entità sovrannaturale, non ha alcun carattere di trascendenza, perchè nasce dentro di noi e che in questo suo essere prole della vita e non generatrice di essa ha il suo più grosso tallone d'achille.

Ed è proprio per questa sua caratteristica cifra ossimorica che potremmo definirla una controdivinità, una divinità che semba negarsi come tale



"Nella nebbia indifferente delle cose il dio da brillare la cosa che all'organismo è utile; e l'organismo vi contende come in quella avesse a saziar tutta la sua fame, come quella gli dovesse dar tutta la vita: l'assoluta persuasione; ma il dio sapiente spegne la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso; e l'animale sazio solo in riguardo a quella cosa, si volge dove gli appaia un' altra luce che il dio benevolo gli accenda; ed a questa contende tutta la sua speranza; finchè ancora la luce si spenga per riaccendersi in un altro punto...Non anche l'animale sente ogni volta deluso, interrotto il filo della sua esistenza, che senza tregua la luce riappare come il lampeggiar d'una notte d'estate; e in quella luce brilla tutto il futuro dell'animale: nell'inseguire un altro animale, la possibilità del mangiare, del dormire, del bere, del giacere; nel mangiare la possibilità del correre, del riposare, ecc.

Per tal modo adulando l'animale ogni volta con argomenti della sua stessa vita, il saggio dio lo conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa perch'egli possa continuare e non essere persuaso mai - finchè un inciampo non faccia cessare il triste gioco.-

Questo benevolo e prudente dio è il dio della philopsichìa (in greco nel testo) e la luce è il piacere".



L'ossimorico dio è il dio dell'amore per la vita e la sua religione è la rettorica.

Il dio della philopsichia insegna ad amare la vita e a nascondere dietro le quinte il timore della morte, la paura del dolore, l'incapacità di farsi carico delle proprie







sofferenze, la necessità di truccare la vita vera con una maschera fasulla e la viltà di chiamare questa fasulla maschera con lo stesso nome di ciò che essa realmente nasconde.

Il dio della rettorica genera la persuasione illusoria, la persuasione di vivere ciò che in realtà è un semplice succedaneo della vita: la vita di tutti i giorni, con le sue mete ed i suoi traguardi da raggiungere e tutto quell'insieme di quotidianità abitudinarie che ci fanno credere che vivere è tutto questo.

La rettorica è un intercapedine che sta tra noi e la vita, un' intercapedine la cui superficie tuttavia è opaca e che dunque, non ci consente di ignorare totalmente la vita vera, che ognuno di noi può vedere in trasparenza, e il dolore che scaturisce dalla nostra incompetenza del vivere.

Scrive infatti Michelstaedter


"Al di sotto della superficialità del suo piacere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua potenza e che trascende la sua coscienza. La trama nota (finita) dell'individualità illusoria che il piacere illumina, non è fitta così che l'oscurità dell'ignoto (infinito) non trasparisca. Ed il suo piacere è contaminato da un sordo e continuo dolore la cui voce è indistinta, che la sete della vita, nel giro delle determinazioni, reprime".



Ed è proprio l'inevitabilità del dolore che l' edificio rettorico non riesce tuttavia ad eliminare. La filosofia del piacere e dell'amore per la vita rivela la sua natura menzognera e la sua definitiva incompetenza: non riesce a placare l'inquietudine umana, non riesce a rispondere a tutte le nostre domande, non ci serve a vivere, ma a tirare avanti, a sopravvivere. E' qualcosa di conveniente per la nostra incolumità psicologica, come il nutrimento lo è per quella fisica.



"Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, essere nati non è che voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa certa loro la morte nel futuro si manifestano già morti nel presente. Tutto ciò che fanno e che dicono con ferma persuasione, per un certo fine, non è che paura della morte".



E' difficile ignorare le sottili corrispondenze tra le parole di Michelstaedter e






quelle di Milan Kundera ne "l'insostenibile leggerezza dell'essere".

Qui Milan Kundera ci parla di kitsch e lo fa in modo assolutamente rivoluzionario: il suo non è il punto di vista di uno storico d'arte, teso a delinearci i confini morfologici di ciò che distingue un oggetto kitsch dagli altri.

A dispetto di tutte le banalizzazioni e semplificazioni del concetto del kitsch che attualmente lo rendono sinonimo di "cattivo gusto" egli riesce a farci entrare dentro il suo nocciolo e a farci conoscere il kitsch non attraverso l'elenco di tutte le sue caratteristiche cifre morfologiche, ma dall'interno.

Kundera ci porta dentro il pianeta kitsch e ci mostra cosa bolle dentro, ci spiega insomma tutti i processi chimici che si svolgono nel suo nucleo e che determinano  poi le sue caratteristiche morfologiche superficiali.

Il kitsch che kundera ci descrive è intimamente legato alla nostra umanità, nasce e cresce dalla nostra debolezza, è figlio del nostro tremore nei confronti della vita e, come tale, sembra coincidere con ciò che Michelstaedter definisce rettorica.



La disputa tra coloro che sostengono che il mondo è stato creato da dio e coloro che invece sostengono sia sorto spontaneamente tocca qualcosa che supera il nostro intelletto e la nostra esperienza. Molto più reale è la differenza tra coloro che mettono in discussione l'essere così com'è stato dato all'uomo (non importa in che modo o da chi) da coloro che vi aderiscono senza riserve.

Dietro tutte le fedi europee, religiose e politiche , c'è il primo capitolo della genesi dal quale risulta che il mondo è stato creato in maniera giusta, che l'essere è buono e che dunque è giusto moltiplicarsi. Chiamiamo questa fede fondamentale accordo categorico con l'essere.

Se ancora fino a poco tempo fa nei libri la parola merda era sostituita dai puntini, ciò non avveniva per ragioni morali, a meno che non vogliate sostenere che la merda è immorale! Il disaccordo con la merda è metafisico. Il momento della defecazione è la prova quotidiana dell'inaccettabilità della creazione. O l'uno o l'altro: o la merda è accettabile (e allora non chiudetevi a chiave nel bagno!) oppure il modo in cui siamo stati creati è inaccettabile. Da ciò deriva che l'ideale estetico dell' accordo categorico con l'essere è un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama kitsch.

E' questa una parola tedesca nata alla metà del sentimentale diciannovesimo secolo e poi propagatasi in tutte le lingue. A furia di usarla, però, si è cancellato il suo significato metafisico originario: il kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.







Il kitsch come accordo categorico con l'essere semba un patto stipulato tra gli uomini che si accordano ad assegnare alla vita un valore positivo e che dunque sono costretti per non contraddire il principio di tale patto a negare, nascondere e occultare la merda, il negativo, l'insostenibile pesantezza del vivere, la morte.

Cos'è che spinge l'uomo a raccontarsi questa meravigliosa menzogna kundera non lo dice ma noi che abbiamo letto Michelstaedter sappiamo che il fine ultimo della rettorica del nostro e dell'accordo categorico con l'essere dello scrittore boemo è il medesimo: la necessità di sopravvivere all'insensatezza della vita.

Il kitsch e la rettorica sembrano coincidere dunque e tutto questo si palesa ancora più avanti nel testo di kundera quando scrive:



Il cammino dei tradimenti di Sabina continuerà e di tanto in tanto, dal suo intimo, risuonerà nell'insostenibile leggerezza dell'essere una canzone ridicola e sentimentale che parla di due finestre illuminate dietro le quali vive una famiglia felice.

Quella canzone la commuove, ma lei non  prende sul serio la sua commozione. Sa benissimo che quella canzone è una bella menzogna [...]

Nel momento in cui il kitsch è riconosciuto per la menzogna che è viene a trovarsi nel contesto del non-kitsch. Perde in tal modo il suo potere autoritario ed è commovente come qualsiasi altra debolezza umana



Se il kitsch dunque, come la rettorica da un lato costruisce le barriere necessarie alla sopravvivenza di un io contingente, banalizzando in maniera inautentica il nostro esistere, dall'altro anch'esso rivela, in definitiva la propria inefficacia nel camuffare la vita, una vita che con il vigore della sua incomprensibilità straborda spesso i margini di questa barriera fittizia e umana investendoci con violenza e procurandoci un profondo dolore.

Il kitsch e la rettorica: due modi diversi di designare forse il medesimo antidoto.

Due probabili sinonimi che nascondono lo stesso inganno: un inganno umano, troppo umano per dirla con le parole di Nietzsche e che proprio in virtù della sua umanità rivela la sua imperfezione e ci offre la possibilità di intravedere le proprie falle.

Ma se ad un primo sguardo la rettorica descritta minuziosamente da Michelstaedter ed la filosofia del kitsch di kundera possono apparire identici, leggendo con più attenzione la tesi di laurea dello studente goriziano è facile






notare come tale presunta identità sia riferibile solo ed esclusivamente alla globale finalità comune di questi due strumenti concettuali



Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare chiamano ragionare[...]

Come il bambino nell'oscurità grida per farsi un segno della propria persona, che nell'infinita paura si sente mancare; così gli uomini che nella  solitudine del loro animo vuoto si sentono mancare s'affermano inadeguatamente fingendosi il segno della persona che non hanno, "il sapere" come già loro in mano[...]così poichè niente hanno, e niente possono dare, s'adagiano in parole che fingano la comunicazione: poichè non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fingono parole che contengano il mondo assoluto, e di parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore; con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore - o rendersi insensibili al dolore: ogni parola contiene il mistero - e in queste s'affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all'oscurità[...]

Hanno bisogno del "sapere" e il sapere è costituito. Il sapere è per se stesso scopo della vita, ci sono le parti del sapere, e la via al sapere, uomini che lo cercano, uomini che lo danno, si compra, si vende, con tanto, in tanto tempo, con tanta fatica. Così fiorisce la rettorica accanto alla vita.  Gli uomini si mettono in posizione conoscitiva e fanno il sapere.



Dunque la rettorica di Michelstaedter è una sovrastruttura che ingloba in se ogni tipo di attività umana, ivi compresa la conoscenza ed il sapere, i nostri sforzi atti a rendere razionalmente comprensibile il mondo in maniera razionale, a ridurre la vita a un insieme di formule matematiche o di vuote parole in grado di eliminare tutti i misteri che alimentano le nostre paure.

Il sapere e la scienza sono parte della rettorica ma non sono da sole la rettorica: essa le ha generate e le tiene in grembo per nascondere solo particolari sfaccettature del nostro esistenziale timore della morte.

Come per la scienza, così si può ipotizzare per il kitsch:

Il kitsch non è la rettorica, ma solo uno dei membri della sua innumerevole progenie, fratello della scienza nel mandato globale di velare la morte e l'incomprensibilità dell'esistenza, ma entità unica e particolare nel nascondere a suo modo la verità terribile dell'esistenza. Il kitsch è rettorica, ma non è la rettorica.

Il kitsch ha infatti una propria specificità, una propria mansione particolare all'interno di quella fabbrica di menzogne che è la rettorica: esso punta dritto al







cuore degli uomini, ne mistifica i sentimenti e gli stati d'animo. Il kitsch è tutto ciò che l'uomo vorrebbe sentirsi dire dal suo cuore e al tempo medesimo tutto ciò che il suo cuore finge di dire: il kitsch occulta la merda per mezzo dello scintillio di un cuore dolce, troppo dolce per essere umano, troppo umano.

E, lo stesso kundera descrive questa sua peculiarità: caratteristica che lo rende parte della rettorica da un lato e che dall'altro ci ha permesso di smentire la presunta identità tra due oggetti concettuali rivelatisi l'uno il figlio dell'altra.

Scrive kundera:


Quando parla il cuore non sta bene che la ragione trovi da obiettare. Nel regno del kitsch impera la dittatura del cuore.



Lo scopo del kitsch è quello di dolcificare il mondo a tal punto da renderlo simile ad una sua copia di marzapane.Esso è il figlio della rettorica che si occupa della bellezza e dell'emozione.

Se kundera argomenta una sua compromissione col cuore, è possibile aggiungere che tale ingerenza si manifesta attraverso la menzogna della perfezione.

L'idea della perfezione ci è gradita, in essa si racchiude lo sfavillio che nega l'errore, il mascheramento del dolore, l'annullamento del negativo. 

Ma in  quest'ultima, utopica e irragiungibile dimensione (quella della perfezione) non possono che regnare caratteristiche che valicano le frontiere del possibile e superano le leggi della fisica abituale: dall'idea di perfezione nasce l' esigenza dell' eccesso come strumento necessario al compimento della magnifica utopia del perfetto. Ma su questo punto torneremo più avanti.

Per adesso è importante sottolineare un' altra cifra del kitsch, connaturata con la sua stessa essenza di  dolce impostore: esso è un tenero imbroglione che ha il dovere di raccontare a tutti le stesse bugie e che, per soddisfare tutti necessita dell'appoggio dei sentimenti più diffusi: le sue menzogne devono essere menzogne universali e hanno l'obbligo dunque di alimentare sentimenti popolari e condivisibili.



I sentimenti suscitati dal kitsch devono essere ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il kitsch non può dipendere da una situazione






insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria: la figlia ingrata, il padre abbandonato, i bambini che corrono sul prato, la patria tradita, il ricordo del primo amore.

Il kitsch fa spuntare una dietro l'altra due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che corrono sul prato!

La seconda lacrima dice: Com'è bello essere commossi insieme a tutta l'umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!

E' soltanto la seconda lacrima a fare del kitsch il kitsch.

La fratellanza di tutti gli uomini della terra sarà possibile solo sulla base del kitsch.



Il kitsch deve essere banale proprio perchè di esso si nutrono tutti gli uomini. Ognuno di noi ha bisogno del kitsch, nessuno può sfuggirvi perchè anche se lo rifiuta gli è necessario e dunque esso per poter essere efficace non può far altro che attingere al vasto serbatoio dei luoghi comuni dell'umanità e servirsi di essi per garantire l'effetto dei suoi propositi.

Per luoghi comuni non intendo solo ed esclusivamente quelli che Flaubert collezionò nell'ottocento e da cui ricavò l'omonimo dizionario (un enorme campionario di frasi fatte): i luoghi comuni dell'umanità sono tutto quello che ci rende possibile il senso di appartenenza alla comunità degli uomini, ciò che ci fa avvertire una fratellanza di fondo con gli altri esseri umani.

Il luogo comune dell'umanità è il luogo in cui risiede il fondamento della comunità degli uomini che, come afferma kundera nel brano sopracitato, fa del kitsch il kitsch.

Questo è il motivo per cui il kitsch è assolutamente inevitabile: a dispetto di tutte le nostre specificità che ci rendono particolari a noi stessi, che infondono noi ai nostri occhi quella dimensione auratica di individuo eccezionale ed irripetibile, ognuno di noi necessita dell' obbligatorio superamento della propria individualità e della propria solitudine. In ogni uomo si avverte l' esigenza di sentirsi uomo per non sentirsi solo e, su queste fondamenta si poggiano l'amore (il più popolare tra i luoghi comuni) e tutti i suoi colleghi e su di essi il kitsch fa valere la propria autorità.

Anche la Sabina di kundera, personaggio altamente caratterizzato nel romanzo dalla forte carica anticonformista e antistituzionale, non può far altro che assoggettarsi a questa legge universale









Per tutta la vita lei ha proclamato di essere nemica del kitsch. Ma non lo porta forse lei stessa dentro di sè? Il suo kitsch è l'immagine di un focolare tranquillo, dolce, armonioso, dove regnano una madre amorevole ed un padre saggio. Questa immagine si era formata in lei dopo la morte dei genitori.

Quanto meno la sua vita somigliava a quel dolce sogno, tanto più lei era sensibile al suo fascino e molte volte le erano salite le lacrime agli occhi vedendo alla televisione una storia sentimentale dove la figlia ingrata abbracciava il padre abbandonato e nel giorno morente brillavano le finestre della casa dove viveva la famiglia felice.



Sabina è così simile a tutti noi, a quelli che inorridiscono mentre un tg regionale diffonde le notizie di cronaca nera, quelli che si sentono marci dentro per aver tradito la loro fedele compagna, quelli che si commuovono alla vista di un bel bambino, quelli che scrivono lettere d'amore, quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche e tutte le domeniche si scambiano un segno di pace con il prossimo: tutti quelli che come noi, sono stati contaminati da un virus psicologico che si chiama kitsch e guariti da una medicina omonima.

























DAL KITSCH ALLA FIABA



E' possibile definire il kitsch come una singolare filosofia idealista: esso è rettorica, lo ripetiamo, in tutte le sue caratteristiche, ma non è da solo la rettorica.

IL kitsch è quell'oggetto che come parte della rettorica nacque dall'uomo, ma che, come la rettorica non nacque con l'uomo.

Esso potè esistere nel momento in cui l' umanità divenne consapevole di non potersi spiegare chi fosse e da dove venisse e fu da quel momento che essa lo pose al di fuori di se stessa ignorando che fosse una sua invenzione e fingendo che facesse parte della vita.

Fu così che il kitsch divenne parte integrante dell'arredamento psicologico dell'uomo che, infante, apprendeva le sue nozioni dal padre e dalla madre, per poi trasmetterle a sua volta al figlio:

Come l'uomo insegna al bambino a camminare, a dire le prime parole, a nutrirsi da solo senza essere imboccato così ammaestra sin da piccolo il bambino al kitsch: una filosofia idealista, lo ripetiamo, ma che si rivela non solo utile, ma addirittura indispensabile nella vita di tutti i giorni e che concilia dunque paradossalmente l'idealismo al pragmatismo.

In un saggio sui significati psicoanalitici delle fiabe dal titolo "il mondo incantato", bruno betteIheim scrive:



C'è un diffuso rifiuto a permettere al bambino di sapere che gran parte degli inconvenienti della vita sono dovuti alla nostra stessa natura: alla propensione di tutti gli uomini ad agire in modo aggressivo, asociale, egoistico, spinti dall'ira e dall'ansia. Noi vogliamo invece far credere ai  nostri bambini che tutti gli uomini sono intrinsecamente buoni, ma i bambini sanno che loro stessi non sono buoni e spesso, anche quando lo sono preferirebbero non esserlo. Ciò contraddice quanto viene detto loro dai genitori e quindi rende il bambino un mostro ai suoi stessi occhi[...] La cultura dominante preferisce fingere, soprattutto quando si parla di bambini, che il lato oscuro dell'uomo non esista e professa di credere in un ottimistica filosofia del miglioramento.



Riscontro una certa concordanza tra queste parole di Betthleim e altre di






Michelstaedter che non ho ancora volutamente citato solo perchè ho preferito aspettare il momento giusto per farlo:



Già ora nessun uomo nasce più nudo, ma tutti con la camicia, tutti già ricchi di ciò che i secoli hanno fatto per render loro facile la vita[...] La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell'affetto e dell'educazione civile. Poichè colla promessa di premi e la minaccia dei castighi che speculano sulla loro debolezza e colle carezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile [...] Più ancora la stessa fede, la stessa volontà del bene è sfruttata per l'utile alla società. La grande aspettazione d'un valore è via via adulata con la finzione di un valore nella persona sociale che gli si tiene sempre davanti gli occhi come quella che egli debba, imitando, in sè stesso educare. "tu sarai un bravo ragazzo come quelli che vedi là andare alla scuola".



Imitare ciò che è buono porta il bambino a nascondere la sua umana malignità, ad esporre il suo lato migliore. Insegna al bambino a vivere sotto la dittatura della rettorica e del kitsch: la società è il regno perfetto di un kitsch totalitario ove tutti sono buoni perchè i cattivi sono puniti.

Leggevo il libro di betthleim qualche giorno prima che Vittoria (una mia amica) ritrovasse nella cantina della sua casa un gran fascicolo di temi da lei scritti mentre frequentava le scuole elementari. Capitò per l'appunto che lei li portò a casa mia per farmeli leggere e ridere delle sue stupidaggini: ma fu proprio mentre leggeva che mi accorsi di aver trovato una dimostrazione scientifica alla tesi di betthleim sopracitata.

Uno di essi in particolare attirò la mia attenzione. Lo riporto qui per intero. Non mi limito a citare delle frasi prese qua e la: il tema mi appare infatti significativo in tutta la sua interezza.















Possiamo partire nella nostra analisi innanzitutto dal titolo: Come ti rendi utile in casa quando la mamma non c'è.

La maestra da buona insegnante non pone i suoi alunni avanti ad alcun bivio, non offre loro la possibilità di esercitare nessun libero arbitrio: quell' aggettivo utile, inserito ad hoc nel bel mezzo della frase serve a far comprendere ai bambini che esiste un' unica strada da seguire, un solo sentiero percorribile: quello del Kitsch.

E' per mezzo di questo aggettivo che la maestra pone gli alunni su un piatto d'argento la possibilità di palesare quanto sono buoni e bravi.

Ma c'è dell'altro. L' insegnante continua le sue precisazioni e conseguenziali limitazioni di contenuto: vuole sapere come i suoi alunni si rendono utili in casa  quando la mamma (termine sineddochico che condensa in se la figura generica di autorità) non c'è.

Se si è buoni quando la mamma non c'è allora significa che si è buoni veramente, che non ci si comporta bene solo per il timore di ricevere dei rimproveri o di essere presi a sculacciate: se si è buoni quando la mamma non c'è allora vuol dire, usando le parole di betthleim nel testo sopracitato, che si è intrinsecamente buoni  a prescindere dalla presenza del genitore.

Il titolo del tema presuppone dunque già in sè tutte le possibili risposte e queste non sono altro che strumenti nelle mani dell'insegnante per poter verificare si che il bambino ha appreso bene il lessico e la sintassi, ma che ha anche assimilato la lezione sul Kitsch.

Una lezione dunque che è stata impartita e della quale il titolo del tema ne è insieme parte e testimonianza, ma al tempo medesimo è il mezzo per misurarne l'apprendimento: è necessario dunque formularlo minuziosamente per non indurre il bambino in errore.

Un titolo simile ma epurato da tutte le precise indicazioni di percorso che abbiamo analizzato come Cosa fai quando sei a casa avrebbe potuto rivelarsi ambiguo e conseguenzialmente poco utile alla causa del Kitsch e dell'insegnante che lo propina.

Vittoria, da parte sua dimostra di essere stata attenta: è una scolara modello che finge di essere una perfetta figlia.

Innanzitutto sgomina il malvagio cane kira che la disturba mentre fa i compiti, poi: sistema la sua stanza, quella della sorella Sara e addirittura anche quella







dei suoi genitori, ma non si ferma qui: imbandisce la tavola per la cena, cucina

un primo, un contorno, sbuccia persino la frutta e la sistema in un portafrutta di cristallo e, per concludere non poteva far altro che preparare anche un dolce al cioccolato con la panna che si configura come una metafora perfetta del mondo che ci ha appena descritto e coronamento finale delle innumerevoli e melense bugie che si è inventata: il Kitsch è dentro di lei e l'insegnante sarà contenta di leggerne l'inconfutabile prova.

Vittoria sa, tuttavia che l'essere buoni intrinsecamente è impossibile e, come tutti i bambini, conosce dentro di se la sua umana malignità ed è consapevole che l'essere buoni richiede un grosso sforzo, uno sforzo che merita un premio: quegli scintillanti orecchini d' oro che la sua famiglia le diede in dono il giorno dopo aver dimostrato di essere una dolce bambina (e una perfetta colf).

Il premio è di fondamentale importanza per l'ammaestramento al Kitsch e, anche se in questo caso non si può certo scomodare il principio di condizionamento operante dello scienziato russo Pavlov, esso si rivela uno strumento efficace nell'adempiere alle proprie funzioni.

Infatti gli orecchini d' oro che Vittoria s'inventa sono una conseguenza di tutti i gelati reali che la mamma ed il papà le hanno comprato purchè non facesse la discola: affinchè capisse di dover nascondere il ciarpame della realtà e mostrare solo la sua faccia da piccola fatina in un mondo da fiaba in cui tutti vivono felici e contenti.

Questo è ciò che traspare dall' elaborato, il quale può essere considerato una sorta di piccola e rudimentale fiaba domestica che la bambina ha voluto raccontare a se stessa prima e alla propria insegnante poi.

Senza addentrarmi nelle complicate analisi sulla struttura della fiaba che vedono sicuramente in V.Propp la loro principale figura, mi limito a ipotizzare che in essa si ripresentano abbozzati alcuni stereotipi tipici della narrazione fiabesca: nel mondo perfetto ove i portafrutta sono di cristallo e gli orecchini d' oro c'è una bambina che corrisponde perfettamente allo stereotipo fiabesco di saggia fanciulla. (lo studioso russo Volkov in un saggio del 1924 inserisce "La saggia fanciulla" nell'elenco dei quindici possibili intrecci delle fiabe). Ella, rigo dopo rigo, viene sempre più a configurarsi come personaggio etico per eccellenza della narrazione e dopo aver subito "il distacco" dalla madre e "combattuto" come nelle fiabe canoniche con delle singolari forze del male rappresentate in questo caso dal suo cane kira che la disturba mentre fa i







compiti, riesce ad incrementare l'armonia di una famiglia che si riunisce in un lieto fine di una tavola imbandita di un perfetto focolare domestico.

Ovviamente Vittoria non conosce la morfologia della fiaba e i suoi stereotipi: non ha letto Propp, ma conosce sicuramente molte fiabe, e sono esse ad averla influenzata nella scrittura del proprio elaborato.

Scrive Betthleim:



Le fiabe offrono nuove dimensioni all'immaginazione del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell'impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono al bambino immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti.



Il legame tra il Kitsch è la fiaba sembra dunque palese: la maestra chiede sottovoce a Vittoria cos'è il Kitsch e Vittoria risponde inventando una fiaba.

Ma la fiaba è davvero Kitsch?E se si cosa la rende tale?

Bruno Betthleim sembra contraddirci. Se il Kitsch è eliminazione del male e del dolore allora la fiaba non può essere kitsch perchè:



Nelle fiabe il male è onnipresente come la virtù. Praticamente in ogni fiaba il bene ed il male s'incarnano in certi personaggi e nelle loro azioni, così come il bene ed il male sono onnipresenti nella vita e le inclinazioni verso l'uno e verso l'altro sono presenti in ogni uomo.



La fiaba appare dunque compromessa con la realtà più di quanto il pensiero comune possa sospettare. Lungi dall'essere semplicemente storie d'evasione che ci conducono in luoghi irreali ove tutto è possibile e dove ogni desiderio è realizzabile, le fiabe ci parlerebbero secondo la prospettiva di Betthleim della nostra vita di tutti i giorni, una vita in cui il male esiste e in cui il dolore non può essere negato nè occultato, ma deve essere affrontato con coraggio.



Le fiabe suggeriscono che una vita gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità.







La presenza del male nella fiaba è innegabile, ma la funzione che gli attribuisce

Betthleim è snaturata da ciò che rende la fiaba veramente tale: il lieto fine.

A differenza del mito, in cui il finale è quasi sempre tragico, nella fiaba esiste un luogo ove il male non può esistere e dove non c' è posto per alcun tipo di dolore né sofferenza: questo luogo è la meta finale verso cui tende la progressione narrativa del racconto fiabesco, è il suo necessario traguardo, è il kitsch che scorre sottopelle lungo tutta la narrazione che affiora definitivamente in superficie.

Ciò che rende la fiaba intrinsecamente kitsch è dunque questa tensione verso la definitiva e perentoria negazione della merda dopo averla sperimentata e combattuta, la sua necessità di rendere plausibile quell'utopia della perfezione che nella vita reale non può far altro che rimanere un desiderio irrealizzato.

La fiaba non insegna, in definitiva, che il male ed il dolore saranno sempre indissolubilmente legati alla nostra esistenza, non si fa portatrice di questa terribile verità, non persuade a portare addosso questo insostenibile fardello con le nostre forze, ma ci obbliga in maniera coatta a combatterlo per poterlo negare ed istilla in noi il germe illusorio della speranza di una sua definitiva eliminazione, di una sua negazione assoluta.

Non esiste fiaba senza lieto fine e non esiste lieto fine senza dolore.

Se il kitsch è negazione assoluta del male, non può prescindere da esso, la sua esistenza si rivela ad esso indissolubilmente legata.

La presenza del male nella fiaba è dunque funzionale alla filosofia del Kitsch che è ad essa immanente: il male ed il dolore si rivelano assolutamente indispensabili perché permettono al bene e alla felicità non solo di esistere, ma anche di apparire ai nostri occhi scintillanti e luminosi come il Kitsch esige che siano.






























































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