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COMMENTO AL CAPITALE

filosofia



COMMENTO AL CAPITALE

Dall'economia politica all'antropologia storica

Premessa

Il grande merito di Marx è stato quello di aver subordinato la filosofia alla politica; il grande torto quello d'aver subordinato la politica all'economia. Tuttavia, nel momento in cui riuscì a mettere a nudo i limiti di fondo, ontologici, dell'economia politica borghese, attraverso Il Capitale, Marx aveva aperto la strada, senza volerlo, alla fine del primato dell'economia sulla politica.

Infatti, proprio il fallimento della rivoluzione socialista in Europa occidentale aveva dimostrato che la fine del capitalismo non sarebbe potuta avvenire con il solo strumento della "critica dell'economia politica", ovvero sulla base della convinzione che la transizione verso il socialismo era non meno necessaria di quella dal feudalesimo al capitalismo.

Sarà Lenin a dimostrare che il superamento, pur necessario, del capitalismo, sarebbe potuto avvenire se anzitutto si fosse privilegiato lo strumento della politica (tattica, strategia, organizzazione del consenso, ecc.) La tesi del Capitale sulla necessità di superare la contraddizione antagonistica del capitalismo, poteva, in sostanza, realizzarsi affrontando il problema della transizione in maniera rivoluzionaria, privilegiando la sovrastruttura politica sulla struttura economica, senza aspettare che il capitalismo portasse a maturazione le proprie risorse.



La storia dell'umanità, con Marx e Lenin, ha compiuto dei progressi sostanziali. Per superare l'ideologia borghese bisognava cogliere l'uomo nella sua storicità, e Marx riuscì a farlo, ma bisognava coglierlo anche nella sua interezza, e l'economia politica, da sola, non poteva rispondere a questa esigenza.

Sotto questo aspetto, anche il leninismo va superato, poiché i limiti dell'economia politica e del sistema capitalistico se non si risolvono con la critica in sé -come fece Marx-, non si risolvono neppure con la rivoluzione in sé, come Lenin credette di fare, anche se nell'ultimo periodo della sua vita si accorse dell'errore, così come Marx, venendo a contatto col populismo russo, s'accorse d'aver sottovalutato l'importanza della comunità agricola fondata sull'autosussistenza.

La critica teorica è stato il primo passo, la rivoluzione politica il secondo: il terzo passo dovrà essere quello della riscoperta del primato dell'uomo sia sull'economia che sulla politica.

Marx ha trovato l'ontologia dell'economia, Lenin quella della politica, ora bisogna trovare l'ontologia dell'uomo.

Probabilmente la nuova scienza che dovrà preoccuparsi di cercarla sarà l'antropologia storica, cioè una scienza c 555d37f he da un lato valorizzi la storicità dell'uomo e dall'altro la sua globalità di espressioni vitali.

NOTA. Tutte le citazioni del Commento si riferiscono al volume unico di Marx, Il Capitale, a cura di E. Sbardella, prima edizione della Newton Compton, Roma 1976.

Breve analisi del Capitale - I vol.

Il primo libro del Capitale venne pubblicato da Marx nel '67 ad Amburgo. Il piano iniziale era quello di pubblicarlo come secondo fascicolo di Per la critica dell'economia politica, sulla Tribune, ma la collaborazione al giornale era stata sospesa. Il secondo e il terzo volume furono pubblicati da Engels. Il quarto volume, che sotto il titolo Teorie del plusvalore comprende un resoconto storico delle dottrine dell'economia politica borghese da Hobbes a Ricardo, venne dapprima pubblicato da Kautsky e poi, in un'edizione più accurata dall'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca dopo il 1920.

Marx inizia l'indagine del sistema capitalistico con l'analisi del concetto di merce. Nel capitalismo la forma commerciale del prodotto del lavoro è comune e non isolata o casuale come nelle società precapitalistiche. Marx scopre che nella merce ci sono due valori: Valore d'uso (quello che soddisfa un qualunque bisogno dell'uomo) e Valore di scambio (che è il rapporto quantitativo tra una merce e un'altra di diverso tipo: attraverso infiniti scambi si stabiliscono continuamente dei rapporti di equivalenza tra i valori d'uso più diversi).

Base del valore di scambio di due merci diverse è il lavoro. La produzione delle merci è un sistema di rapporti sociali in cui i singoli produttori creano prodotti di qualità diversa (in virtù della divisione sociale del lavoro) e tutti questi prodotti sono fatti uguali l'uno all'altro mediante lo scambio. Di conseguenza quello che tutte le merci hanno in comune non è il lavoro concreto di un determinato ramo della produzione, né il lavoro di una stessa categoria di prodotti, ma il lavoro umano astratto (in generale).

E' questo tipo di lavoro che dà il vero valore alle merci. La grandezza del valore è determinata dalla quantità (o tempo) di lavoro socialmente necessario per produrre una data merce, cioè non è determinata dal tempo "individuale" impiegato da un singolo produttore.

Nel capitalismo una merce non si scambia con un'altra merce, ma si scambia col denaro, che svolge il ruolo di equivalente universale (come prima l'oro). Ad un certo grado di sviluppo della produzione mercantile il denaro si trasforma in capitale. Prima la formula della circolazione delle merci era M (merce)- D (denaro)- M (merce). Ora diventa D-M-D' (ove D' è la somma di denaro originalmente anticipata più un incremento: il plusvalore). Ora si compra non per l'uso ma per la vendita, per il profitto.

Da dove viene questo profitto? Il plusvalore non può scaturire dalla circolazione delle merci, perché questa conosce solo lo scambio tra equivalenti, né può sorgere da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le perdite reciproche dei venditori e degli acquirenti si compenserebbero. Per ottenere plusvalore il possessore di denaro deve trovare sul mercato una merce il cui valore d'uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di altro valore. Questa merce è la forza-lavoro dell'uomo. Il capitalista non paga tutta la forza-lavoro dell'operaio, ma solo quella parte sufficiente all'operaio per riprodurla; contemporaneamente però il capitalista può disporre di questa forza-lavoro per un tempo superiore a quello necessario per riprodursi: è sulla base della differenza di questo tempo che il capitalista realizza il plusvalore. Ad es. in 6 ore l'operaio può creare un prodotto la cui vendita basta a coprire le spese del proprio mantenimento, ma siccome il capitalista gli ha offerto in anticipo un contratto sulla sua forza-lavoro complessiva, ne risulta che nel tempo di lavoro supplementare l'operaio non viene pagato, ma solo sfruttato, per cui il plusvalore non è che pluslavoro non retribuito.

Di per se stessi i mezzi di produzione non rappresentano "capitale", perché lo diventano solo quando servono a sfruttare lavoro altrui. Va inoltre sottolineato -dice Marx- che non è stato il capitalismo a scoprire il pluslavoro, poiché questo esisteva in tutte le società dove una piccola minoranza deteneva il monopolio dei mezzi produttivi. In queste società però non dominava il valore di scambio, ma il valore d'uso del prodotto e quindi, per il carattere stesso della produzione (che era per i bisogni locali immediati) non si aveva un illimitato bisogno di plusvalore.

Naturalmente perché l'operaio venga sfruttato, occorre che sia libero di accettare il contratto (non può quindi essere un servo della gleba o un artigiano nelle corporazioni), ma deve anche essere totalmente privo di mezzi di sussistenza (terra e mezzi produttivi). Cioè egli deve poter esistere solo vendendo forza-lavoro.

L'aumento del plusvalore è quindi possibile in due modi: 1) prolungando la giornata lavorativa (plusvalore assoluto) o 2) riducendo, con la razionalizzazione del lavoro o l'introduzione di nuova tecnologia, il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro (plusvalore relativo).

Marx analizza tre stadi storici nello sviluppo della produttività del lavoro in regime capitalistico: semplice cooperazione, manifattura e produzione meccanica. Quest'ultima ha assicurato la piena vittoria del capitalismo.

Caratteristiche fondamentali del capitalismo (concorrenziale):

  1. crisi di sovrapproduzione, cioè eccesso di beni prodotti, per realizzare profitti, che non possono essere consumati a causa dei bassi salari;
  2. nello stadio industriale avanzato si ha l'eliminazione dei piccoli capitalisti che producono a costi superiori e non riescono a tenere il passo con le innovazioni tecnologiche e la concentrazione dei capitali;
  3. l'accumulazione capitalistica esige l'allargamento della popolazione operaia, ma con l'estendersi della tecnologia si riduce l'impiego di lavoro e si crea una sovrappopolazione relativa, con cui il capitalista tiene bassi i salari degli occupati (quando questa sovrappopolazione diventa assoluta i capitalisti, nel timore d'essere espropriati, tendono a scatenare delle guerre);
  4. legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero il capitalista, essendo interessato a realizzare sempre maggiori profitti, cerca di introdurre nuovi macchinari, facendo notevoli investimenti: se a questo si aggiunge la difficoltà di piazzare le merci per le limitate capacità di acquisto degli acquirenti o per la concorrenza di altri capitalisti, di avere le materie prime a prezzi ridotti, di avere una classe operaia combattiva - si spiega il motivo per cui il saggio generale del profitto tende ad abbassarsi.

IL DENARO (III)

Nell'analisi di Marx il denaro rappresenta varie cose: anzitutto è misura dei valori (in tal senso decide anche la scala dei prezzi); in secondo luogo è mezzo di circolazione, che permette alla merce di subire una sostanziale metamorfosi; in terzo luogo è segno del valore, in quanto è capace di trasformarsi in carta moneta o in altri simboli, senza perdere il proprio valore; in quarto luogo è denaro in senso proprio, utilizzato per tesaurizzare, come mezzo di pagamento e come fondo di riserva in lingotti di metalli pregiati, che assicurano un valore al commercio mondiale.

1) Misura dei valori

"Il denaro, in quanto misura di valore, è la forma fenomenica necessaria della immanente misura di valore delle merci, del tempo di lavoro"(p.99), cioè è "incarnazione sociale del lavoro umano"(p.103). Esso "serve come denaro meramente immaginato, cioè ideale"(p.101), serve "a trasformare i valori delle merci in prezzi, in quantità immaginate d'oro"(p.103). Questa funzione specifica verrà ripresa in maniera analitica nel § 2b.

In quanto "scala dei prezzi", il denaro esprime il "peso determinato di un metallo", l'oro (ib.): esso "misura quelle quantità d'oro" immaginate (ib.). Questa funzione verrà ripresa nel § 2c.

Il prezzo -dice Marx- "dipende totalmente dal reale materiale del denaro"(p.101): oro, argento o rame, benché qui Marx presupponga, per semplificare, che solo l'oro sia la merce-denaro. Il prezzo è "esponente della grandezza di valore della merce, cioè del suo rapporto di scambio col denaro"(p.108).

Marx però afferma che il contrario non è vero, cioè che dal prezzo non si può risalire al valore, poiché nel capitalismo ha più importanza il primo che non il secondo. Infatti, se "la grandezza di valore della merce sta ad indicare un rapporto necessario, immanente al suo processo di formazione, con il tempo sociale di lavoro, tale rapporto necessario, trasformandosi la grandezza di valore in prezzo, appare come rapporto di scambio di una merce con la merce denaro che esiste fuori di essa"(p.109). Ovverosia, se si trattasse di uno scambio diretto di prodotti, il loro prezzo rispecchierebbe più facilmente il loro valore, ma siccome qui è in gioco il denaro, quale universale equivalente, ecco che il prezzo non corrisponde più al valore. "Rimanendo uguali i valori delle merci -dice Marx-, i loro prezzi cambiano col valore dell'oro stesso (materiale del denaro), e aumentano in proporzione al suo calare, e calano aumentando quello"(p.128).

Il valore di scambio, che aveva sostituito il valore d'uso, si trova a contraddire se stesso a vantaggio d'una forza estranea: il denaro. E così "la possibilità di una incongruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore, risiede nella stessa forma di prezzo. E questo non è un difetto di tale forma, anzi, ne fa al contrario la forma adeguata di un modo di produzione in cui si può imporre la regola solo come legge media della sregolatezza, che agisce ciecamente"(p.109). Questo perché nel capitalismo ciò che più importa non è -lo ripetiamo- il valore della merce, ma il profitto che, attraverso il suo prezzo, essa fa realizzare. Ciò sarà approfondito nel § 2b.

Il denaro ha un potere così grande che è in grado di stabilire un "prezzo" a cose che in realtà non hanno alcun valore economico, come ad es. la coscienza, l'onore ecc.(ib.). L'incongruenza, in questo caso, non è quantitativa ma qualitativa. Il denaro sfugge dalle mani di chi ha voluto cercare nelle cose solo il loro valore di scambio.

L'uguaglianza delle merci affermata nello scambio (che prescinde dall'uguaglianza effettiva dei lavori concreti, in quanto, al massimo, rimanda all'uguaglianza del lavoro astratto), diventa un'uguaglianza così formale che può essere sostituita da quella che impone il denaro, il quale, in tal caso, assume i panni di una divinità metafisica, in grado di eguagliare astrattamente o formalmente tutte le merci, i lavori e i valori.

2) Mezzo di circolazione

a) La metamorfosi della merce

La metamorfosi della merce è possibile in virtù non della merce ma del denaro. O meglio, finché c'è scambio di merce contro merce, non c'è metamorfosi, ma "ricambio organico sociale"(p.111). Finché il denaro è solo "mezzo di scambio" e non diventa "mezzo di circolazione delle merci", il capitalismo non nasce.

Tuttavia, qui Marx non ha spiegato il motivo per cui da tale "ricambio organico" ad un certo punto si forma la metamorfosi. Non l'ha spiegato perché ha impostato il problema in termini non culturali, ma economici. Il passaggio dal ricambio organico alla metamorfosi, per Marx, è necessario, inevitabile: "lo sviluppo della merce non elimina le contraddizioni del processo di scambio, ma crea la forma in cui esse possono muoversi"(ib.).

Il difetto dell'impostazione metodologica di Marx lo si può notare nel concetto stesso di "ricambio organico del lavoro sociale", termine col quale egli presuppone la fine della comunità di autoconsumo. Marx ha saputo individuare le contraddizioni del processo di scambio, ma non quelle fra autoconsumo e scambio, poiché ha osservato il primo dal punto di vista del secondo. I limiti dell'autoconsumo sono determinati dai pregi dello scambio.

Peraltro, tutte le contraddizioni del processo di scambio non possono mai prescindere dalla pretesa egemonica che il denaro vuole esercitare su ogni altra merce. Cioè a dire le contraddizioni partono dal presupposto che la contrapposizione tra autoconsumo e scambio sia già stata superata a favore dello scambio. Se così non fosse, il processo del ricambio organico -dice Marx- si "spegnerebbe"(p.114).

In sostanza, Marx ha soltanto costatato il "raddoppiamento delle merci in merce e in denaro"(p.112), ma non ne ha spiegata la ragione di fondo. In effetti, non è per nulla scontato che laddove il "ricambio organico sociale" viene esercitato da comunità autarchiche, si verifichi il suddetto "raddoppiamento", come non è scontato che si verifichi l'esaurirsi dello scambio.

L'immanente contrapposizione di valore d'uso e di valore è già, allo stadio in cui l'analizza Marx, destinata a risolversi a favore del valore. Nel capitalismo una merce è "valore d'uso" solo per l'acquirente, non certo per il produttore, se non indirettamente, nel senso che una merce non usabile non è vendibile. E' pertanto ingenuo sostenere che "in tale contrapposizione le merci in quanto valori d'uso si oppongono al denaro in quanto valore di scambio"(ib.). La contrapposizione è nata prima, fra produzione anzitutto per il consumo e produzione esclusivamente per il mercato. Quando Marx afferma che "ambedue gli estremi della contrapposizione sono merci, perciò unità di valore d'uso e valore"(ib.), lascia intendere che lo scontro non sia tra "estranei" ma tra "parenti". In realtà, prima di questo scontro, il cui esito era facilmente prevedibile, ne è avvenuto un altro, assai più incerto e più tragico di quanto non appaia nel Capitale.

La differenza tra i due "estremi" è più che altro di forma, anche se la metamorfosi delle merci, quale "mutamento di forma"(p.111), ha portato a un dominio sostanziale del denaro. Nel senso che se la merce è "realmente" valore d'uso, il denaro è "realmente" valore di scambio (come equivalente universale), ovvero la merce è "idealmente" valore di scambio (il prezzo), mentre il denaro è "idealmente" valore d'uso (in sé non serve ma permette l'acquisto di ogni merce). Paradossalmente, il denaro ha, rispetto a una qualunque altra merce, maggiore "concretezza" nello scambio (perché ha più potere di astrazione) e maggiore "astrazione" nell'uso (perché è l'equivalente universale più concreto).

La merce quindi non rappresenta affatto -come vuole Marx- una "unità di valore d'uso e valore"(p.112), ma la subordinazione del primo al secondo, testimoniata dal fatto che, in caso contrario, non si otterrebbe mai che il valore di scambio del denaro risulti infinitamente superiore al valore d'uso di una qualunque merce. Non c'è nessuna merce capitalistica che, una volta posseduta, possa ridimensionare le pretese del denaro.


La prima metamorfosi della merce è quella della vendita: Merce-Denaro. Per giustificare il "salto mortale" della merce, dal suo corpo al corpo dell'oro-denaro, Marx fa questo ragionamento: in una qualunque società la divisione sociale del lavoro, che è "un naturale organismo di produzione, le cui fila si sono tessute e continuano a tessersi all'insaputa dei produttori di merci"(p.114), produce valori di scambio che per il non-produttore (o per il consumatore) devono avere un valore d'uso, altrimenti le merci non sarebbero acquistate.

Il "salto mortale" della merce consiste appunto in questo, che sul mercato non è detto ch'essa -solo perché "soddisfa un bisogno sociale"(p.115)- sia destinata ad essere acquistata. Perché lo sia, occorrono delle circostanze favorevoli, la prima delle quali è che la "concorrenza" non faccia di meglio (producendo ad es. la stessa cosa in un tempo minore).

Per Marx quindi, il "salto mortale" non sta tanto nel diverso modo che il produttore ha di guardare la merce: anzitutto per il consumo o esclusivamente per il mercato, quanto nella capacità ch'essa ha o non ha d'imporsi sul mercato (contro altre merci).

Infatti, il passaggio dal consumo al mercato è, per Marx, del tutto naturale, inevitabile. "Un certo atto lavorativo era una funzione tra le molte funzioni di uno stesso produttore di merci, oggi forse si stacca da questo assieme, si rende indipendente e proprio per questo manda al mercato il proprio prodotto parziale come merce autonoma"(p.114).

La spiegazione di ciò rientra nel preteso carattere spontaneo (anarchico) attribuito alla divisione sociale del lavoro, la quale si svilupperebbe senza intenzione da parte dei produttori. In tal modo Marx vuole attribuire la causa della metamorfosi della merce (che è un processo tipico della sola produzione mercantile) al passaggio "naturale" dall'autoconsumo al mercato. Non avendo in mente di cercare la ragione culturale di tale metamorfosi, Marx ne addebita la genesi a ragioni di comportamento economico istintuale. "Può accadere forse che la merce sia prodotto di una nuova maniera di lavoro, che voglia appagare un bisogno sopravvenuto da poco, o che voglia far nascere per la prima volta un bisogno, di sua iniziativa"(ib.) -dice Marx, usando degli esempi che già suppongono l'esistenza della società mercantile e che quindi non sono in grado di spiegare, culturalmente, il suo nascere.

In pratica Marx, e ancora una volta, applica a un modo di produzione pre-borghese dei criteri desunti dalla società borghese. Egli infatti ritiene che la divisione sociale del lavoro sia così "spontanea" da determinare un passaggio inevitabile dal consumo al mercato. In altre parole, la produzione di valori d'uso non sembra implicare affatto -a suo giudizio- la possibilità di una divisione del lavoro consapevole: questa sarà soltanto una prerogativa del futuro socialismo.

Marx insomma si è limitato a costatare che "la divisione del lavoro trasforma in merce il prodotto del lavoro e in tal maniera rende d'obbligo la sua trasformazione in denaro, e contemporaneamente rende occasionale la riuscita o meno di questa transustanziazione"(p.116), in quanto non ogni merce ha un prezzo competitivo.

L'esistenza del "produttore privato indipendente" è considerata da Marx di livello superiore a quella del produttore legato alla comunità autarchica, sebbene egli non si nasconda il carattere "anarchico" della produzione mercantile e quindi la necessità ch'essa ha di essere superata da un'altra di tipo "sociale" e "consapevole". "I nostri produttori di merci s'accorgono che quella medesima divisione del lavoro che li fa produttori privati indipendenti, fa poi indipendenti proprio da loro sia il processo sociale di produzione [perché ad un certo punto si produce solo per il mercato] sia i loro rapporti entro tale processo [che sono determinati dalla logica della concorrenza], e s'accorgono che l'indipendenza reciproca delle persone ha il suo complemento in un sistema di dipendenza tra di essi, imposto dalle cose [poiché sul mercato ciò che conta è il tempo di lavoro socialmente necessario e la produzione strettamente legata alla vendita]"(ib.).

Ciò che più stupisce, nell'analisi di Marx, è la freddezza con cui si guarda il modo di produzione pre-capitalistico. Quando Marx afferma che "la merce, nella sua figura di valore, elimina ogni segno del suo originario valore d'uso e del particolare lavoro utile per il quale è nata, per mettersi nel bozzolo della uniforme materializzazione sociale del lavoro umano indifferenziato"(p.118) - si ha l'impressione che in questa conclusione Marx non si limiti a esprimere un giudizio di fatto, ma dia anche un giudizio di valore, cui sembra sottesa non la consapevolezza d'un dramma storico, ma la soddisfazione di un personale pregiudizio.


La seconda e definitiva metamorfosi della merce è quella dell'acquisto: Denaro-Merce. La merce, dopo essersi trasformata in denaro, permette al denaro di acquistare qualunque merce. L'alienazione particolare della merce qui diventa assoluta.

Benché la metamorfosi complessiva della merce presupponga che questa riappaia nel processo finale, dando così l'impressione che si tratti, pur con la mediazione del denaro, di uno scambio di prodotti, in realtà "la circolazione delle merci si distingue sostanzialmente e non solo formalmente dal diretto scambio dei prodotti"(p.121).

Da un lato, infatti, "lo scambio di merci frantuma i limiti individuali e locali del diretto scambio di prodotti e sviluppa il ricambio organico del lavoro umano"(p.122). Per Marx -come noto- il lavoro astratto borghese è superiore al lavoro concreto del contadino-artigiano, caratterizzato, quest'ultimo -come si evince dal testo-, da limiti "individuali" (Marx non riconosce alcun carattere di "socialità" al lavoro agricolo) e "locali" (per Marx l'autarchia comporta la precarietà delle forze produttive, una visione ristretta della realtà ecc.).

"D'altro lato si viene a formare tutto un insieme di nessi sociali spontanei e che sfuggono al controllo delle persone che conducono l'operazione"(ib.). Marx, nonostante che in questo abbia perfettamente ragione. è convinto che il socialismo possa costituire una forma razionale o pianificata dell'economia, pur nella conservazione del primato dello scambio sull'autoconsumo. Su questo tutti gli esperimenti realizzati del socialismo gli hanno dato torto, come lo diedero ai socialisti utopisti i tentativi di realizzare un socialismo basato sull'autoconsumo in una società dominata dai rapporti capitalistici.

Marx ha certamente capito che sul mercato capitalistico la socializzazione del lavoro, lo scambio delle merci ha un che di anomalo, quasi di perverso, poiché proprio là dove s'impone la considerazione sociale del lavoro astratto, socialmente necessario, lì si afferma anche la contrapposizione dei soggetti, il dualismo tra produttore e consumatore. In questa consapevolezza critica Marx supera di gran lunga tutti gli economisti classici, per i quali il mercato era solo fonte di "uguaglianza" e non di antagonismi sociali.

Tuttavia, con la concezione del primato del valore di scambio, Marx non è assolutamente in grado di stabilire quando una merce ha un effettivo valore d'uso per l'acquirente, o quando invece ha un reale valore di scambio per il venditore. Non è in grado di stabilirlo perché è lo stesso capitalismo che non permette di sapere con certezza se il valore d'uso di una merce sia veramente di utilità sociale e non un pretesto o un'occasione per far quattrini. Marx naturalmente pensava che tale possibilità esistesse solo nel socialismo, in cui la proprietà del produttore è, in ultima istanza, la stessa del consumatore, ma l'esperienza del cosiddetto "socialismo reale" ha dimostrato che tale equivalenza di proprietà non è sufficiente a realizzare la democrazia del socialismo. Perché l'equivalenza sia "reale" e non "formale", cioè sociale e non statale, occorre partire dall'affermazione della comunità basata sull'autoconsumo.

La relativa non-identità di vendita e acquisto riflette bene l'impossibilità di sapere, nel capitalismo, fino a che punto una merce conservi un vero valore d'uso. "Nessuno -dice Marx- può vendere senza che un altro acquisti [fin qui la suddetta identità sarebbe salvaguardata]. Ma nessuno, solo perché ha venduto, deve acquistare immediatamente [il denaro infatti ha sostituito il baratto]. La circolazione frantuma i limiti di tempo, di spazio e individuali dello scambio di prodotti [della comunità autarchica], appunto perché nella contrapposizione di vendita e acquisto [merce contro denaro] essa separa l'immediata identità presente [di vendita e acquisto in una medesima persona] dando in cambio il prodotto del proprio lavoro e ricevendo in cambio quello del lavoro di altri [M-D-M]"(p.123).

Marx in sostanza vuole dire che: 1) nel capitalismo non è così facile "piazzare" una merce sul mercato; 2) l'identità di vendita e acquisto non può essere immediata, poiché tra venditore e acquirente esiste una polarizzazione dovuta al fatto che il primo deve vendere una merce al secondo che deve acquistarla col denaro, ma che può anche non acquistare; 3) anche chi riesce a vendere, non necessariamente, col denaro ottenuto, diventa un immediato acquirente.

D'altra parte i due momenti (vendita e acquisto), pur essendo formalmente indipendenti, "sono complementari tra loro"(ib.), nel senso che la loro contrapposizione non può andare oltre "a un certo punto", altrimenti la loro "unità si afferma con la violenza, attraverso una crisi"(ib.). Cioè se nel mercato capitalistico, impostato sul valore di scambio, vi sono più vendite che acquisti, l'unità dei due aspetti si manifesterà in maniera critica (attraverso, p.es., la sovrapproduzione). Ma prima che questa possibilità si trasformi in realtà -dice Marx- occorre "tutto un insieme di rapporti che non esistono ancora dal punto di vista della circolazione semplice delle merci"(p.124).

Marx, dopo un giro di frasi particolarmente astratto e involuto, è giunto col fiato corto a questa conclusione. Infatti, volendo salvare l'idea del primato dello scambio, egli non può mostrare che già nella circolazione semplice delle merci le fondamentali contraddizioni del capitalismo si manifestano nel loro irriducibile antagonismo. Ciò avverrà solo nella sezione dedicata al passaggio dal denaro al capitale.

Marx, per il momento, ha cercato di rimediare a questa difficoltà con la nota dedicata a James Mill, ove critica chi tenta di negare "le contraddizioni del processo di produzione capitalistico, riducendo i rapporti dei suoi agenti di produzione in semplici relazioni che sorgono dalla circolazione delle merci"(ib.). La critica è giusta, ma Marx è caduto nell'errore opposto, quello di voler "salvare" il capitalismo nell'ambito della circolazione, mirando a trasformarne anzitutto gli aspetti produttivi.

Difficilmente Marx avrebbe accettato l'idea che il processo di scambio della merce, espresso nella formula M-D-M, può essere accettato solo se il possessore di una determinata merce non è costretto a venderla sul mercato per acquistare il denaro con cui poter comprare un'altra merce. La necessità del mercato, per Marx, non si può mettere in discussione: nel senso ch'essa deve apparire assoluta. Finché resta relativa, la società agraria non può morire e il capitalismo non può nascere. Questo significa che il denaro deve escludere necessariamente sul mercato qualsiasi altra forma di scambio (soprattutto deve escludere il "baratto", che di tutti gli scambi è il più diretto).


b) La circolazione del denaro

Non si può certo negare a Marx d'aver colto nel segno quando afferma che la cosa essenziale nel mercato capitalistico non è la circolazione delle merci ma quella del denaro e che, in tale circolazione, il ruolo dello Stato diventa sempre più importante. Con grandi capacità di analisi e di sintesi, egli ha saputo anticipare quelle che saranno le caratteristiche del capitalismo monopolistico nella fase imperialistica, ove i capitali finanziari hanno un ruolo preminente e i monopoli si appoggiano alla funzione protettiva dello Stato.

Relativamente alla circolazione del denaro, Marx afferma che proprio essa permette una migliore metamorfosi della merce: naturalmente se il valore del denaro è basso, i prezzi delle merci tendono ad aumentare, diminuiscono invece se il valore del denaro è alto.

I problemi, in un'economia capitalistica, sorgono -dice Marx- quando vi è un "rallentamento della circolazione del denaro"(p.133), quando cioè i due processi della vendita e dell'acquisto entrano in una "stasi".

Giustamente Marx sostiene che "la circolazione non ci permette si comprendere da dove provenga questa stasi: essa ci fa vedere solo il fenomeno"(ib.). Di sicuro la crisi non può essere risolta con un puro e semplice "aumento dei mezzi di circolazione"(p.134), né dalle "truffe ufficiali" (delle banche centrali degli Stati) inerenti alla "regolazione dei mezzi di circolazione"(ib.)

Tuttavia, Marx non affronta neanche lontanamente il nesso di crisi economica e crisi generale del sistema di governo (di credibilità o legittimità), cioè il fatto che la "stasi" della circolazione del denaro possa anche dipendere dalla "sfiducia" che i cittadini e i lavoratori manifestano nei confronti del governo in carica o delle istituzioni di potere o del sistema nel suo complesso (produzione, distribuzione, consumi, servizi ecc.).

Le combinazioni elaborate da Marx, usando i fattori del movimento dei prezzi, della massa delle merci in circolazione, della velocità di circolazione del denaro, non tenendo mai conto dei fattori sovrastrutturali quali la cultura, l'ideologia, i valori ecc., finiscono col sembrare un gioco economicistico ad incastro. Se per decidere un rialzo o un calo dei prezzi fosse sufficiente variare i termini delle combinazioni, ogni crisi verrebbe risolta in breve tempo (anche se Marx escluderebbe tale eventualità nel capitalismo proprio a causa della sua natura antagonistica). I fatti dimostrano che una crisi economica non può mai essere risolta solo in chiave economica, meno che mai quand'essa è di carattere strutturale. Ma se non si precisa il valore della sovrastruttura si rischia di offrire al capitale gli strumenti teorici con cui almeno regolamentare le proprie contraddizioni.

Garantire che "l'intera somma dei prezzi delle merci da realizzarsi, come pure la massa di denaro in circolazione, resti costante"(p.135), non è cosa per nulla facile in un sistema ove dominano i rapporti antagonistici. Marx afferma che, anche "non tenendo conto delle gravi perturbazioni che vengono periodicamente dalle crisi di produzione e da quelle del commercio e, più raramente, dal mutamento nel valore stesso del denaro, abbiamo spostamenti di quel livello medio molto più piccoli di quanto potrebbe sembrare a prima vista"(ib.).

Ma è proprio questo il punto. Se fosse solo questione di "economia", la consapevolezza della suddetta "costanza" dovrebbe, ad un certo punto, garantire la ripresa dello sviluppo. In realtà non è affatto scontato che per superare la crisi sia sufficiente aver consapevolezza che "essendo date la somma di valore delle merci e la velocità media delle loro metamorfosi, la quantità del denaro...dipende proprio dal suo stesso valore"(p.136). Se bastasse questo, sarebbe impossibile stabilire quando l'inflazione dipende da fattori di crisi o di sviluppo. Attribuire al denaro il suo giusto valore è impossibile farlo solo in termini economici.

La crisi generale del sistema si ripercuote sul valore non solo del denaro ma anche delle merci, pur in presenza di varie costanti nella circolazione, nella quantità ecc. Non risulta affatto strano che il cittadino, ad un certo punto, abbia sempre più l'impressione, man mano che la crisi generale si acuisce, che il valore di ciò che possiede, pur aumentandone il volume, scende costantemente, ovvero che il valore del denaro appaia inversamente proporzionale alla sua quantità, sebbene dal punto di vista economico permanga una proporzionalità diretta.

Da tempo tuttavia Marx ha compreso che la contraddizione fondamentale della società capitalistica non sta tanto nella circolazione del denaro, quanto nella contrapposizione dei soggetti che producono merci: quella è una conseguenza di questa. In tal senso la sua critica a Owen, nella prima importante nota al cap. III, è del tutto giusta. Owen voleva trasformare il denaro in un mezzo che indicasse direttamente il tempo di lavoro impiegato dall'operaio, il quale così, avendo a disposizione questo "certificato di lavoro", poteva partecipare alla divisione del prodotto comune da consumarsi.

Marx qui obietta che non si può "presupporre la produzione di merci e volere nello stesso tempo sfuggire le condizioni inevitabili di essa con sconciature monetarie"(p.100). Un lavoro privato, in una società capitalistica, non può mai essere considerato come "direttamente socializzato", anche se fosse organizzato in maniera collettiva. Il socialismo era definito da Marx "utopistico" appunto perché presumeva di poter affermare la democrazia sociale a prescindere dalla rivoluzione politica anti-capitalistica. Naturalmente questo non significa che le idee di Owen non avrebbero potuto trovare un'adeguata realizzazione in una società socialista. Ma il marxismo non si è mai interessato a tale eventualità.

c) Il segno del valore

Marx qui prende in esame il fatto che nel capitalismo "la monetazione, come pure la definizione della scala di misura dei prezzi, è compito dello Stato"(p.139). L'analisi di questa forma del denaro è piuttosto carente, soprattutto perché non si osserva lo Stato come "ente sovrastrutturale" che viene a sovrapporsi alla società civile. A Marx non interessa il fatto che lo Stato sia sorto dopo che il mercato aveva spazzato via la comunità agricola. L'importanza dello Stato viene colta solo in termini economici, nel senso che solo in forza della sua autorità è possibile "sostituire il denaro metallico, nella sua funzione di moneta, con marche di diverso materiale, cioè con simboli"(p.140), quei simboli che oggi definiamo col termine di assegni circolari, cambiali al portatore, carte di credito ecc.

In questa separazione del "contenuto nominale" (il titolo) dal "contenuto sostanziale" (materia aurea) Marx vede la storia degli "intrighi monetari" del Medioevo e dell'età moderna sino al sec. XVIII. Marx però non considera "pertinente all'argomento del [Capitale] l'esame di dettagli quali il diritto di monetaggio e altri simili cose"(p.139, in nota). Egli si limita a costatare la "naturale tendenza del processo di circolazione", quella di "trasformare in apparenza d'oro l'essere d'oro della moneta"(p.140). Sarebbe stato invece di grande interesse verificare le diverse motivazioni che nel corso dei secoli hanno portato i vari governi a promuovere tale processo di separazione, anche perché solo nel capitalismo esso raggiunge dei livelli così sofisticati e paradossali.

Secondo Marx la "carta moneta dello Stato a corso forzoso nasce spontaneamente dalla circolazione metallica"(p.142). In realtà, è solo sul piano tecnico che "la moneta di credito ha la sua naturale radice nella funzione del denaro come mezzo di pagamento"(ib.). Sul piano più propriamente sociale, il passaggio si verifica quando la circolazione delle merci -che ha già assunto proporzioni notevoli- pretende di autolegittimarsi, a prescindere dalla valutazione soggettiva dei contraenti sul mercato.

Il denaro ha la funzione di universale equivalente nella misura in cui essa viene decisa e gestita dalla società civile (questo naturalmente significa che nell'economia capitalistica sono le classi mercantili che impongono la loro volontà a tutte le altre); ma se tale funzione viene decisa d'autorità, cioè se lo Stato si arroga la pretesa di stabilire la scala di misura dei prezzi, di questo suo potere beneficeranno, in ultima istanza, solo le categorie più forti dei ceti o delle classi mercantili. Uno Stato che toglie alla società il potere di decidere la scala dei prezzi sarebbe autoritario anche se tutta la proprietà fosse statalizzata, come è accaduto nel "socialismo reale".

Non meno autoritario è lo Stato che pretende, da parte dei cittadini, la fiducia che non verrà emessa una cartamoneta superiore "alla quantità nella quale dovrebbe in effetti circolare l'oro (o l'argento) ch'essa rappresenta simbolicamente"(p.143). Tale pretesa infatti presuppone sempre la separazione dello Stato dalla società civile, ovvero la subordinazione di questa a quello. Lo Stato autoritario nasce come diretta conseguenza della necessità di regolamentare gli antagonismi irriducibili che si verificano sul terreno della proprietà privata.

Marx non ha colto qui tale aspetto perché, secondo lui, il passaggio dall'oro-moneta alla moneta di credito avviene in maniera "spontanea": "in un processo che fa continuamente cambiare di mano al denaro, basta anche la sua esistenza meramente simbolica"(p.145).

Ciò in realtà non comporterebbe, di per sé, alcuna conseguenza se nella società dominasse il primato del valore d'uso. In una società del genere, infatti, il lavoratore non avrebbe il timore, di fronte a una situazione di crisi, che il suo denaro perda sostanzialmente molto valore pur continuando ad averne tanto nominalmente. La necessità di tornare a un livello di benessere inferiore a quello dato, a causa della crisi, potrebbe essere affrontata più agevolmente in una comunità autarchica che non nella società borghese, ove in cambio al disvalore del denaro non si offre altro che miseria e disperazione.

3) Il denaro vero e proprio

Il fatto che Marx non abbia impostato subito in maniera storica la prima sezione del Capitale ha comportato delle conseguenze piuttosto spiacevoli. Leggendo ad es. i §§ dedicati al denaro si ha infatti l'impressione di trovarsi in un periodo storico precedente, seppure di poco, a quello capitalistico vero e proprio, e che solo con l'inizio della II sezione si entri nel sec. XVI. Eppure sarebbe impossibile immaginare una consapevolezza e un uso delle funzioni del denaro così sosfisticati e spregiudicati aldilà del modo di produzione capitalistico.

Per Marx la trasformazione del denaro in capitale è susseguente all'affermazione del denaro come equivalente universale, a sua volta frutto del dominio della merce e del suo mercato sui prodotti di autoconsumo. Egli cioè ha voluto mostrare una necessità di ordine economico nel passaggio dalla merce al denaro e dal denaro al capitale. La storia di questo processo è un problema secondario, nell'analisi di Marx, rispetto all'affermazione di principio che lega i fatti secondo uno schema di causa ed effetto.

Tant'è che Marx, in realtà, non ha mai fatto una "storia" del passaggio dalla merce al denaro e dal denaro al capitale: egli si è semplicemente limitato alla storia dell'accumulazione originaria del capitale. D'altra parte non esiste alcuna "storia" che ci possa indicare l'evoluzione temporale dei suddetti passaggi: semplicemente perché essi presuppongono -almeno per come sono stati descritti- la stessa "accumulazione originaria".

Tuttavia, se Marx avesse mostrato, sin dall'inizio, come da tale "accumulazione" i vari passaggi si sono intrecciati, avrebbe ottenuto un risultato diverso da quello meramente economico. I vari passaggi infatti andavano considerati anche e soprattutto come un processo sociale che, come tale, include anche gli aspetti più propriamente ideologico-culturali e politici.

I risultati, in sostanza, sarebbero stati due: 1) sin dall'inizio il primato della merce sul bene di utile consumo è stato accompagnato dallo sfruttamento della manodopera salariata e dalla trasformazione della cultura pre-borghese; 2) in tale transizione al capitalismo gli uomini non hanno agito né istintivamente né sotto costrizione, ma hanno dovuto compiere delle scelte, anche se, dopo averle compiute, le conseguenze si sono fatte sentire in maniera necessaria.

Se si fa coincidere la storia degli uomini con lo sviluppo della loro attività economica, si finisce col trasformare gli uomini in marionette del destino.


a) Tesaurizzazione

La figura del risparmiatore nasce -dice Marx- "quando s'interrompe la serie delle metamorfosi e la vendita non è rimpiazzata da un successivo acquisto"(pp.146-7).

"Agli inizi della circolazione delle merci -spiega Marx- solo il superfluo di valori d'uso viene cambiato in denaro. Così oro e argento divengono vere e proprie espressioni sociali della sovrabbondanza, cioè della ricchezza. Questa ingenua maniera di tesaurizzazione si eternizza tra i popoli la cui ristretta cerchia di esigenze corrisponde al modo di produzione tradizionale e volto all'appagamento dei bisogni individuali"(p.147).

Qui Marx -che ha in mente i "popoli asiatici", specie gli "indiani"- applica di nuovo alle formazioni sociali pre-capitalistiche uno schema di vita desunto dalla società borghese. Nel senso che quelle formazioni paiono avere i difetti di questa società senza però averne i pregi. L'individuo risparmia come il borghese, ma non commercia allo stesso modo; è individualista come il borghese, ma non si affida come lui al mercato. A Marx qui non è venuto in mente che l'atteggiamento di questo individuo potesse essere l'effetto di rapporti colonialistici imposti dal capitalismo o una conseguenza dei rapporti interni di sfruttamento imposti dal feudalesimo, estranei alla socializzazione della vita agricola fondata sul valore d'uso.

Per Marx la comunità pre-capitalistica ha una "ristretta cerchia di esigenze"; viceversa, nella società borghese i "bisogni si rinnovano continuamente"(p.148). Attratto dal fatto che "nel denaro è eliminata ogni distinzione qualitativa delle merci", ovvero che il denaro "elimina ogni distinzione"(p.149), e che "il valore della merce misura il grado della forza d'attrazione su ogni elemento della ricchezza materiale, perciò sulla ricchezza sociale del suo possessore"(p.150), attratto da questo, Marx guarda con ironia l'ingenua "società antica che ritiene il denaro moneta sovversiva della sua organizzazione economica e politica"(pp.149-150), ovvero il fatto che "il valore, per il possessore di merci più o meno barbaro o anche per un contadino dell'Europa occidentale, è inscindibile dalla forma di valore, e di conseguenza un aumento del tesoro aureo o argenteo significa per lui un aumento di valore"(p.150).

Marx non ha saputo scorgere in questo atteggiamento "barbaro" una forma di condizionamento o addirittura di resistenza alla pressione del modo di produzione borghese, ma ha preferito considerarlo un atteggiamento naturale, istintivo. In realtà, Marx non ha mai spiegato in maniera convincente il motivo per cui il risparmiatore antico, diversamente da quello moderno, non è riuscito a diventare un capitalista.

L'immagine del "tesaurizzatore che sacrifica al feticcio oro i suoi piaceri della carne"(p.151), cioè la soddisfazione dei consumi, è un'immagine moderna che non può essere applicata alle società antiche. Qui semmai il risparmio era appunto finalizzato a soddisfare i piaceri della carne! Il denaro non costituiva certo un'astrazione fine a se stessa, cui sacrificare la propria identità: si accumulava per realizzare concretamente un dominio personale, non per realizzare un astratto dominio impersonale.

b) Mezzo di pagamento

Il denaro come mezzo di pagamento è quello che, separando nel tempo la cessione della merce dalla realizzazione del suo prezzo, crea un rapporto tra creditore e debitore: rapporto che spesso, per ovvie ragioni, diventa conflittuale. Fin qui Marx.

In realtà tale forma di denaro porta alla lotta di classe perché già la presuppone. Se così non fosse, il denaro non verrebbe usato per tenere sottomessa la controparte, che nella figura del debitore è la più debole, o comunque non verrebbe usato approfittando della sua debolezza. Rinunciando alla scambio diretto, immediato, di merce contro denaro, dilazionando cioè nel tempo il pagamento di quest'ultimo, il venditore di una data merce si serve proprio del tempo per ottenere uno scambio più vantaggioso.

Ora però, proprio questo modo così antisociale di usare il denaro lascia presupporre la fine della società contadina e la sua progressiva sostituzione con quella borghese. In tal senso Marx non ha compreso a sufficienza che la contraddizione maggiore rappresentata dalla suddetta forma di denaro sta proprio nel tipo di rapporto sociale ch'essa presuppone, e non tanto nel tipo di rapporto sociale ch'essa viene a costruire, necessariamente, quando i termini di scadenza del contratto non sono rispettati.

Per Marx "la contraddizione balza fuori al momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali...quando il denaro si trasforma subito e senza transizioni da figura solo ideale della moneta di conto in denaro contante. Non si può più sostituire con merci profane. Il valore d'uso della merce è senza valore...solo il denaro è merce!"(p.157).

In realtà l'uso del denaro come mezzo di pagamento implica già che i rapporti sociali siano "sbilanciati" a favore del possessore di merci. La crisi di sovrapproduzione o altre forme di crisi fanno venire alla luce una contraddizione sociale latente, l'ha fanno cioè esplodere a livello sociale, mentre in assenza di quella crisi essa potrebbe tranquillamente esplodere a livello individuale, nel singolo rapporto tra creditore e debitore. Non a caso -ed è lo stesso Marx che lo sottolinea- il pagamento dei debiti in denaro e non in natura è sempre stato usato dalla parte sociale più forte per assoggettare ulteriormente quella più debole.

Marx tuttavia non ha difficoltà nel sostenere che il passaggio dall'imposta in natura all'imposta in denaro se da un lato comporta un maggiore impoverimento dei contadini -come è avvenuto nella Francia di Luigi XIV-, d'altro lato comporta la fine delle "misere condizioni economiche di vita che permettono di sussistere" a un'agricoltura arretrata (p.161). Egli in sostanza riteneva necessario il suddetto passaggio e non vedeva una diversa alternativa alla crisi della società agraria.

Al tempo di Marx la borghesia era in ascesa. Difficilmente egli avrebbe potuto immaginare che l'imposta in denaro o l'uso del denaro come mezzo di pagamento sarebbero un giorno potuti servire alla borghesia soltanto per conservare politicamente un potere economico in via di dissoluzione. Nell'analisi di Marx il creditore appare come un possessore attivo di denaro, in quanto produttore che ha ottenuto un profitto vendendo merci. In realtà, nel capitalismo maturo il creditore-borghese, appoggiandosi all'autorità dello Stato, diventa sempre più un "debitore" nei confronti del lavoratore (operaio o contadino che sia), benché questi economicamente non riesca a dimostrarlo, potendolo fare solo per via politico-rivoluzionaria.

c) Denaro universale (o fondo di riserva)

Per "denaro universale" Marx intende i lingotti di metalli pregiati (ammassati nei forzieri delle banche) che nel commercio mondiale hanno la funzione di materializzare socialmente la ricchezza in genere, ovvero di concretizzare in abstracto il lavoro umano. In tal caso il denaro non può mai essere sostituito, in alcun momento, da nessuna merce (a meno che -si può oggi aggiungere- una determinata merce non abbia un valore così alto e nel contempo così commerciale da renderlo equivalente a quello del denaro, come nel caso della droga. Ma anche qui l'operazione verrebbe fatta allo scopo di poter immediatamente riconvertire la droga in denaro).

Quando le riserve in lingotti sono superiori al loro livello medio è segno che la circolazione delle merci ristagna. Questo è evidente. Tuttavia, Marx non ha preso in considerazione l'eventualità che le riserve, se possono apparire, all'interno di una nazione, superiori al necessario, a livello internazionale invece, esse possono essere usate da quella stessa nazione per imporre a tutte le altre, dotate di minori riserve, il corso forzoso della propria moneta o il dominio mondiale del proprio commercio. Va però precisato che ai tempi di Marx vigeva il sistema aureo, basato cioè sulla moneta aurea coniata.

IL CAPITALE (IV)

Passando dalla I alla II sezione, Marx mostra la trasformazione del denaro in capitale, ma sarebbe un errore ritenere che un uso "borghese" del denaro -così come è stato delineato nel cap. III- non presupponga già un'accumulazione di tipo capitalistico, per quanto lo stesso Marx affermi a chiare lettere che tutte le particolari forme del denaro, descritte in quel capitolo, non necessitano di una circolazione delle merci molto sviluppata (p.201).

In effetti, solo ora si viene a sapere da Marx che non era per nulla assodato che nel cap. III (ma anche in quelli precedenti) si fosse in presenza di una formazione capitalistica, che -a suo giudizio- nasce anzitutto sul terreno della produzione e non dello scambio: il plusvalore nasce "dietro le spalle della circolazione", in maniera "invisibile"(p.194).

Tuttavia, nel cap. III non era certo stato descritto l'uso del denaro nella società schiavista o in una qualunque società commerciale pre-capitalistica. Marx ha sempre avuto come punto di riferimento privilegiato il sistema mercantile quale s'è venuto formando a partire dal sec. XVI. Nell'ouverture del Capitale Marx parla esplicitamente di "modo di produzione capitalistico"(p.25) e all'inizio della II sezione di "secolo XVI" come punto di partenza (p.169). Ciò sta appunto a significare che l'uso del denaro descritto nel cap. III è un uso specifico, tipicamente borghese, benché alcune sua modalità possano ritrovarsi in altre società commerciali.

La causa di questa difficoltà è dipesa dal modo astratto e non storico con cui Marx ha trattato l'argomento. In ogni caso s'egli avesse parlato dell'uso del denaro di una qualunque società commerciale, ora non avremmo, al cap. IV, la sua trasformazione in capitale, poiché questa è specifica del modo di produzione capitalistico.

Esiste quindi nella II sezione una contraddizione latente, che solo ora viene alla luce, ed è la seguente: da un lato, nessuna forma fenomenica del denaro può portare, di per sé, al capitale che si autovalorizza, la cui nascita avviene nel campo della produzione; dall'altro, senza il grande sviluppo commerciale del sec. XVI non si sarebbe formato alcun capitale.

Dunque, come mai solo adesso si parla della trasformazione del denaro in capitale, visto e considerato ch'essa in realtà è un presupposto di un uso borghese del denaro? Risposta (plausibile): perché per Marx la società borghese non va rifiutata come società mercantile, ma solo come società capitalistica (si badi: non come società industriale, ma come società che forma un capitale privato). Per Marx non è in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ma il primato del capitale, il quale presuppone lo sfruttamento della forza-lavoro. L'idea "rivoluzionaria" del Marx del Capitale è semplicemente quella di abolire il capitale per abolire lo sfruttamento del proletariato, conservando tutto il resto.

Rivediamo meglio in cosa consiste questa contraddizione di Marx. Egli parla di "nascita del capitale" in seguito alla "produzione delle merci" e soprattutto alla loro "circolazione sviluppata, ossia il commercio"(ib.). Il capitale si forma solo "a un certo grado di sviluppo"(ib.) della società mercantile, quando la divisione del lavoro ha già separato il valore d'uso da quello di scambio (p.200). Nel senso che se è vero che il capitalismo nasce sul terreno della produzione, è anche vero ch'esso ha bisogno di un considerevole sviluppo del commercio. "E' impossibile che il capitale derivi dalla circolazione [altrimenti si sarebbe formato anche nel mondo greco-romano o bizantino], ma è ugualmente impossibile ch'esso non derivi dalla circolazione"(p.195).

Questa impostazione storica relativa alla nascita del capitalismo è di tipo economicistico e quindi sostanzialmente errata (essa peraltro non sfugge alla tautologia): sia perché il capitale non può sorgere spontaneamente da una società di tipo mercantile, sia perché la società mercantile nata nel sec. XVI era già capitalistica. Marx, in sostanza, non ha saputo spiegare il passaggio dalla società feudale a quella capitalistica perché non l'ha affrontato in termini culturali.

Se l'avesse fatto, avrebbe compreso che la nascita del capitalismo è strettamente legata, da un lato, non solo all'affermazione della libertà individuale, ma anche, dall'altro, alla contemporanea affermazione della "schiavitù" di chi insieme alla libertà individuale non ha una proprietà personale. Perché si affermi la schiavitù occorre che il soggetto da "schiavizzare" sia convinto che può effettivamente diventare "libero", emancipandosi da una precedente condizione sociale in cui si sentiva asservito. Marx ha saputo spiegare in che modo questo individuo s'è trasformato socialmente o economicamente in lavoratore salariato, ma non ha spiegato il motivo per cui ha accettato di diventarlo. Non è che Marx non si renda conto del problema, è che non può preventivare una soluzione del genere senza rimettere in discussione il primato concesso allo scambio sull'autoconsumo. Non avendo colto il momento della libertà o della scelta, egli è stato costretto ad attribuire allo scambio un ruolo sproporzionato, che nei fatti non poteva avere.

Non a caso egli stesso scrisse, riferendosi alla sua opera, che "il meglio" stava nell'aver attribuito al valore d'uso un'importanza particolare, strettamente legata a quella di valore; e quindi nell'aver saputo distinguere, nell'analisi della merce, i due tipi di lavoro, astratto e concreto. Marx cioè riteneva d'aver superato l'economia classica sul suo stesso terreno, lasciando così credere che, con le sue potenti forze produttive, il capitalismo, se fosse stato regolamentato da un piano (previa la socializzazione dei mezzi produttivi), avrebbe funzionato mille volte meglio di quanto non riuscisse a fare con la borghesia (cfr. Lettera a Engels del 24.08.1867 e Note su Wagner del 1883). L'obiettivo di Marx era semplicemente quello di conciliare il contenuto del valore d'uso con la forma del valore di scambio, eliminando non il profitto in sé ma solo il plusvalore estorto all'operaio con una forza mascherata dal diritto.

In sintesi, nell'analisi di Marx il capitale sorge necessariamente dallo sviluppo della società mercantile non perché questa abbia concesso il primato alla merce, al mercato, al valore di scambio ecc., quanto perché essa ha sviluppato tale primato nell'affermazione della libera proprietà privata, dalla quale è rimasto escluso l'operaio.

Tale forma di proprietà -secondo Marx- ha dovuto necessariamente svilupparsi per superare i limiti della proprietà feudale e della società agricola, ma ora essa stessa rivela i suoi propri limiti, in quanto non è in grado di far sviluppare ulteriormente le forze produttive che ha promosso. L'alternativa sta nella proprietà socializzata, in virtù della quale è possibile realizzare una pianificazione della produzione.

Marx, come non vede alternative -oltre quella borghese- alla crisi della società feudale, così non ne vede alla crisi della società capitalistica, oltre quella della mera socializzazione dei mezzi produttivi. Egli non avrebbe mai accettato che in nome del "piano" scomparisse il "mercato", come poi è accaduto nei paesi est-europei. Ma l'esperienza di questi paesi ha appunto dimostrato che se si vuole realizzare la pianificazione dell'economia, senza tornare all'autoconsumo, il mercato scompare, almeno quello ufficiale, mentre si sviluppa quello clandestino o "nero".

L'autoconsumo invece permette la realizzazione di un mercato per i beni necessari, il cui prezzo (o il cui scambio) è liberamente contrattato, in quanto la libertà è data dalla reciproca e sostanziale autonomia economica. Per "autonomia economica" non si deve intendere l'"assoluta autarchia", la quale non solo non è mai esistita, ma non è neppure auspicabile, in quanto, paradossalmente, sarebbe troppo dispendiosa per le forze produttive in loco.


Il denaro, per Marx, è il "prodotto ultimo della circolazione delle merci" e insieme "la prima forma fenomenica del capitale"(p.169). Già abbiamo detto che questo modo di vedere le cose è, nel Capitale, di tipo logico non storico. Nessuna circolazione delle merci, per quanto sviluppata sia, porterebbe mai al denaro come "equivalente universale" se a livello culturale non si fosse già affermata la "logica" del capitale. Non è la prima volta che Marx applica al passato criteri di vita del suo presente.

La circolazione delle merci quindi non è "il punto di partenza del capitale"(ib.), più di quanto questo non lo sia di quella. Il limite nell'impostazione metodologica di Marx non dipende tanto da una scarsa storicità degli avvenimenti, quanto da una posizione ideologica che privilegia il momento strutturale (economico) su quello sovrastrutturale (culturale), senza cercare il loro trait d'union.

"Il capitale, considerato storicamente, si contrappone in ogni luogo alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio di denaro, capitale commerciale e capitale usuraio"(p.170). Questa definizione che Marx ha dato del capitale è vera ma generica, irrilevante. Il capitale così come è sorto a partire dal sec. XVI è molto di più del capitale commerciale e usuraio (che sono sempre esistiti): è denaro investito nella forza-lavoro che, formalmente libera, produce plusvalore. Ma attenzione: non è che Marx non si renda conto di questo, è che non riesce a spiegarsi il motivo per cui l'espressione storica determinata del capitale, quella assolutamente originale, cioè senza precedenti, debba essere vincolata alla falsa libertà del lavoratore.

Marx ha perfettamente capito che esiste una forma di ipocrisia tra l'uguaglianza affermata in sede giuridica e la disuguaglianza de facto in sede economica, ma non ha capito quale cultura o ideologia ha fatto nascere questa ipocrisia e in che modo essa s'è rapportata al fattore della struttura.

Decisiva resta la sua critica del formalismo giuridico borghese, che osserva il capitalismo solo dal punto di vista del mercato o dello scambio di merci, ove appare che il borghese imprenditore e l'operaio salariato siano "spinti solo dalla loro libera volontà"(p.209). Marx ha giustamente messo in luce il fatto che è assurdo parlare di "libera volontà" in riferimento a un soggetto -l'operaio- che, non disponendo di proprietà privata, può solo vendere la propria forza-lavoro. E tuttavia Marx non ha afferrato il concetto che l'ideologia della "libera volontà" doveva essersi affermata anche nella coscienza dell'operaio, se questi, invece di ribellarsi politicamente al monopolio della proprietà privata, vi si adeguò o con rassegnazione, pensando che in futuro la "divina provvidenza" avrebbe tutto sistemato, o con l'aspirazione di poter un giorno diventare proprietario di qualcosa che non fosse semplicemente la sua capacità lavorativa.

Qui peraltro sta il senso del superamento di Marx da parte di Lenin, il quale affermò in Che fare? che la coscienza rivoluzionaria all'operaio che non comprende la necessità di superare globalmente il sistema, poteva essere data solo "dall'esterno", cioè da colui che ha capito che aldilà di questa necessità vi è solo il tentativo di "riformare" il sistema. In tal senso il problema che Lenin dovrà affrontare sarà un altro, quello di come impedire che la trasmissione "esterna" della coscienza rivoluzionaria non si trasformi in una manipolazione ideologica o in una imposizione politica.


La diretta forma della circolazione delle merci: M-D-M, cioè vendere per acquistare, così come si manifesta nella società mercantile, non avrebbe senso se non esistesse il suo opposto: D-M-D, cioè acquistare per vendere. Marx invece le presenta come due forme parallele, "sostanzialmente diverse"(ib.), la seconda conseguente alla prima, e non strettamente legate, ab ovo. Marx tende a salvare la prima forma e a negare la seconda, poiché quella presuppone la libertà dei produttori privati, questa lo sfruttamento del proletariato. Naturalmente la prima non avrebbe portato alla seconda se i produttori non avessero affermato un monopolio della proprietà privata, ma Marx aggiunge, a tale considerazione, che senza la pretesa proprietà privata non sarebbe crollata l'antiquata comunità agricola.

La formula più esatta della circolazione capitalistica delle merci e del denaro dovrebbe dunque essere la seguente: D-M-D'-M-Dn, dove il primo Denaro è il capitale investito, dove la Merce fondamentale è la forza-lavoro, dove il secondo Denaro è il capitale valorizzato col plusvalore estorto, dove il terzo Denaro è il capitale che si valorizza all'infinito se la forza-lavoro non reagisce politicamente. "Il movimento del capitale infatti non ha limiti"(p.177).

L'altra formula di Marx: M-D-M, se considerata astrattamente, al massimo può andar bene per quelle società pre-capitalistiche che conoscevano l'uso del denaro. D'altronde lo stesso Marx ad un certo punto è costretto ad affermare che il fine ultimo del ciclo M-D-M "è il consumo, appagamento di bisogni, in altri termini è valore d'uso"(p.174). Ciò sebbene Marx abbia descritto tale ciclo, nei precedenti capitoli, facendo esplicitamente riferimento alla società mercantile, ove, per definizione, domina il primato del valore di scambio. Valore che invece qui è la ragion d'essere del ciclo opposto: D-M-D. Se dovessimo accettare questo modo d'impostare le cose, dovremmo anche sostenere che la società mercantile, che Marx fin qui ha descritto, non è mai esistita; è una società "ideale" ch'egli ha voluto contrapporre alla progressiva, inevitabile, degenerazione cui essa stessa va incontro.

Da notare che Marx ancora non ha mostrato che tale infinita "valorizzazione del valore"(p.177) dipende dallo sfruttamento del proletariato. Egli sta semplicemente mostrando la caratteristica fondamentale del capitalista: "il perenne succedersi del guadagnare"(p.178). "Il movente delle sue azioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta"(ib.), astratta perché il fine è in se stessa e non nel consumo. La differenza tra il capitalista e il tesaurizzatore -dice Marx- è che questi accumula togliendo il denaro dalla circolazione, mentre quello, al contrario, accumula reinvestendolo di continuo.

Per Marx -e ciò per un determinista è davvero singolare- si tratta semplicemente di maggiore "furbizia" o "razionalità"(p.179). In realtà, dopo la storia della società agraria (conclusasi in occidente con il crollo del feudalesimo), la possibilità di continuare la logica dello sfruttamento poteva esprimersi solo ad una condizione: quella di far credere al lavoratore che l'unico modo di diventare libero nella comunità agraria non era semplicemente quello di vincere il servaggio, ma quello di vincerlo uscendo dalla comunità. Il capitalista investe il proprio capitale scommettendo che il lavoratore ci crederà. Naturalmente tale scommessa implicava la fiducia indispensabile nel valore di una determinata cultura, quella borghese e protestante.

Marx invece pensa che la produzione del plusvalore, essendo completamente estranea al valore d'uso, dipenda da un "impellente desiderio di arricchimento"(pp.178-9). Di nuovo qui si passa da considerazioni di tipo economico a considerazioni di tipo psicologico. Paradossalmente, proprio mentre ha cercato di dare una definizione storica del capitale, Marx è andato a cercare in autori come Aristotele, A. Genovesi, Th. Chalmers, Mac Culloch ecc., quella definizione astratta di capitale applicabile ad ogni epoca storica. Questo suo atteggiamento è una diretta conseguenza del fatto ch'egli, nel Capitale, non ha immediatamente legato il plusvalore allo sfruttamento della manodopera salariata.

Portando all'estremo l'analisi di Marx si sarebbe costretti ad affermare esattamente il contrario di ciò che lui voleva sostenere, e cioè che il proletariato è, in definitiva, una merce che il capitalista trova casualmente sul mercato e che sfrutta per ottenere plusvalore: cosa che però avrebbe ottenuto ugualmente, anche se non avesse incontrato la forza-lavoro. E questo perché Marx non riesce a trovare le ragioni culturali che fanno nascere il plusvalore proprio nel secolo XVI e non prima.

Il capitalismo quindi non sarebbe nato in questo secolo, ma p.es. ai tempi di Aristotele, il quale lo chiamava col termine di "crematistica", secondo cui non esiste "alcun limite alla proprietà e alla ricchezza"(p.127 in nota). Se nel sec. XVI si è imposto un volume notevolissimo di plusvalore, ciò è dipeso da fattori contingenti, quali ad es. i commerci mondiali, che ai tempi di Aristotele erano solo mediterranei. La differenza, quindi, fra il capitalismo moderno e quello antico sarebbe solo quantitativa.

E' la stessa lunga citazione di Aristotele che sta a dimostrare come Marx non sia riuscito a cogliere la peculiarità del capitalismo moderno, rispetto a quello antico. L'arricchimento assoluto, illimitato, non rende affatto uguali le due forme di accumulazione, né la loro fondamentale diversità riposa nel modo tecnico, meccanico, di ottenere plusvalore. La somiglianza non dipende dall'atteggiamento psicologico, né la diversità dipende dalle forme dell'accumulazione.

Non avendo collegato subito l'autovalorizzazione del capitale con lo sfruttamento del proletariato, Marx arriva a considerare il valore in modo magico, come un "soggetto automatico"(p.179) che valorizza se stesso anche senza volerlo, semplicemente usando le merci come "mezzi miracolosi per fare più denaro dal denaro"(p.180). Il capitalismo, nell'analisi della II sezione, appare, ad un certo punto, contro le stesse intenzioni di Marx, come l'esito dell'adeguamento di una posizione psicologica individuale a un meccanismo economico oggettivo. Per Marx insomma non vi è differenza, stante la sua definizione astratta di capitale, tra capitale commerciale, industriale e usuraio: tutti e tre possono ottenere plusvalore, acquistando per vendere più caro. Marx -e questa è davvero una novità- non vede nel capitale industriale la modalità principe di estrazione del plusvalore.


Tutto ciò però va spiegato meglio. Per Marx, nella circolazione semplice delle merci, espressa dalla formula M-D-M, non si forma plusvalore, poiché "il valore delle merci è espresso nei loro prezzi prima che esse si immettano nella circolazione"(p.184). Non c'è "alcun cambiamento della grandezza di valore"(ib.), proprio perché di tratta di uno scambio "allo stato puro"(p.185), "da un punto di vista astratto"(p.184). Nel senso che se alle "leggi immanenti" della circolazione delle merci non si sovrappone un particolare atteggiamento individuale di uno dei due contraenti, lo scambio dovrebbe comportare un vantaggio reciproco.

Inutile qui ricordare come questo modo d'impostare le cose sia, da parte di Marx, "troppo astratto" per essere vero. E la ragione è molto semplice: la società mercantile qui descritta non è mai esistita sul piano storico (e non perché si dia per scontato che lo scambio sia solo tra "equivalenti", poiché più avanti si parlerà anche di quello tra "non-equivalenti").

Marx fa "funzionare" il suo modello teorico di società mercantile facendo astrazione dal fatto che la libera proprietà privata dei produttori indipendenti è stata sin dall'inizio il frutto di sanguinose lotte di classe, che hanno portato a una redistribuzione non democratica ma "classista" della proprietà. Il quadro da lui dipinto potrebbe trovare una qualche attendibilità in una società basata sull'autoconsumo, ove la proprietà sia un diritto collettivo acquisito, e il commercio un'esigenza regolamentata dalla comunità. Ma un'eventualità del genere Marx sarebbe il primo a rifiutarla.

Il plusvalore non si forma nella circolazione semplice delle merci perché qui, secondo Marx, tende a prevalere il valore d'uso su quello di scambio. Marx, in sostanza, voleva attribuire a una società mercantile pre-industriale quella facoltà che in realtà possedeva solo la società agricola che sul mercato scambiava il surplus. Egli così non si è reso conto che tale società mercantile, finché il plusvalore non si è formato, non era ancora prevalentemente "mercantile", e quando il plusvalore si è formato, essa era già prevalentemente "industriale". La facoltà che il capitale commerciale e usuraio hanno di estorcere plusvalore dipende direttamente, nel capitalismo, da quella che ha il capitale industriale.

La critica di Marx a Condillac risente, in tal senso, del pregiudizio nei confronti della società contadina. Marx non s'accorge che criticandolo d'aver attribuito "a una società a produzione sviluppata di merci una situazione in cui il produttore produce da solo i suoi mezzi di sussistenza e immette nella circolazione solo l'eccedente del suo fabbisogno, il superfluo"(p.186), non s'accorge che questo modello di società è quello stesso che potrebbe far funzionare il modello astratto, "puro", di società mercantile da lui stesso prima tratteggiato. Solo che Marx non accetterebbe mai il presupposto che l'autoconsumo abbia un primato sullo scambio. Ciò infatti è in netta contraddizione coll'idea di società mercantile sviluppata, la quale, anche nell'analisi di Marx e non solo nell'ideologia borghese, vuole essere un superamento positivo della società agricola. A parte questo, Condillac andava criticato, poiché attribuiva dei criteri borghesi di vita (in primis l'esigenza di ottenere un valore maggiore da uno minore) ad una società pre-borghese.

Anche quando Marx ammette che "in pratica le cose non avvengono allo stato puro"(p.187), nel senso che lo scambio è spesso "tra non equivalenti"(ib.), egli non riesce mai ad uscire dall'astrazione. La posizione ideologica che fa dell'economia il deus ex-machina gli impedisce d'immergersi completamente nella storia.

Non è infatti sufficiente affermare che nella realtà lo scambio è spesso "tra non equivalenti" per dimostrare una maggiore storicità delle cose. Marx ha ragione quando sostiene che non sorge alcun plusvalore "neanche scambiando non-equivalenti"(p.192), ma non riesce a trovare le ragioni culturali per cui ad un certo punto sul piano della produzione sorge il plusvalore. Di qui il suo affidarsi alla realtà del commercio mondiale.

Le ragioni di questo limite metodologico sono a monte, nella concezione stessa che Marx ha della società mercantile, che a sua volta è frutto di un pregiudizio nei confronti della società agraria. Marx parte da un presupposto sbagliato, e cioè che "sul mercato delle merci sono contrapposti solo possessore di merci e possessore di merci; il potere che queste persone possono esercitare reciprocamente è soltanto il potere delle loro merci"(p.187).

In realtà nella società mercantile questa è solo una delle polarizzazioni, e nemmeno la più importante, poiché essa può sussistere solo se contemporaneamente se ne afferma un'altra: quella fra produttore individuale di merci e comunità di autoconsumo (ovvero fra capitalista e contadino-artigiano in via di proletarizzazione). Lo scontro tra queste due realtà si può esprimere secondo diverse modalità: esso p.es. può diventare cruento se il valore della comunità è alto o incruento se basso, ma un valore troppo alto o troppo basso renderebbe inspiegabile la natura dello stesso scontro. Dal quale comunque deve uscire -secondo Marx- la subordinazione del contadino espulso dalla comunità e dell'artigiano espulso dalla corporazione al borghese imprenditore. Marx però non accetta il principio secondo cui non esiste un momento in cui i due produttori di merci si contrappongono senza che nel contempo non vi sia la polarizzazione sociale tra borghesia e proletariato. Il Marx del Manoscritti del '44, in questo senso, era più realista.

Certo, dal punto di vista del mercato il potere di questi due possessori è quello delle "merci", ma dal punto di vista della produzione il loro potere è quello della proprietà privata dei mezzi produttivi. E questa proprietà sarebbe impensabile senza la distruzione della comunità di autosussistenza e la conseguente proletarizzazione della classe contadino-artigiana. Se non si parte da questo presupposto si finisce col sostenere che dei due possessori di merci ha la meglio quello che, essendo più dotato di "spirito capitalistico", riesce a ridurre a manodopera salariata gli ex-contadini-artigiani.

Marx parla della "differenza materiale delle merci" quale "causa materiale dello scambio"(p.187), senza rendersi conto che tale causa poteva trovare una ragion d'essere nel sistema basato sull'autoconsumo, e non certo in quello mercantilistico, ove il leit-motiv dello scambio è il profitto.

La reciproca dipendenza dei possessori di merci -di cui parla Marx- è cosa del tutto relativa, che si verifica unicamente sul mercato, poiché sul piano della produzione ogni imprenditore pretende un'indipendenza assoluta da ogni altro produttore (che poi riesca effettivamente ad ottenerla, è un altro discorso). Non a caso l'obiettivo principale del proletariato dev'essere quello di ripristinare la dipendenza del produttore di merci dalle esigenze e dalla volontà della comunità sociale (anzitutto locale).

Il grande merito di Marx, in questa sezione, è stato quello di aver dimostrato che il plusvalore non si può formare nell'ambito della circolazione semplice delle merci. Infatti, sia che i venditori vendano la merce a un valore più alto, sia che gli acquirenti l'acquistino a un valore più basso, non si può pensare che una classe acquisti soltanto senza vendere, ovvero consumi senza produrre. Tuttavia, Marx non ha spiegato il motivo per cui se questa classe avesse acquistato vendendo o consumato producendo, in un'epoca pre-capitalistica, non sarebbe ugualmente nato il plusvalore.

Per Marx il plusvalore non può nascere nella circolazione delle merci non tanto perché se potesse nascere sarebbe nato prima del sec. XVI, quanto perché non può esistere plusvalore là dove esistono solo produttori di merci indipendenti. "L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può sfruttare se stessa"(p.191). Il che, anche come ipotesi, è di per sé assurda, poiché non esiste "capitalista" senza "operaio".

Marx aggiunge che se i produttori di merci non fossero indipendenti -come ad es. le città dell'Asia Minore che erano tributarie dell'antica Roma-, il plusvalore non si formerebbe ugualmente, poiché al tributo che Roma imponeva con la forza, quelle città rispondevano aumentando i prezzi delle loro merci. Esiste quindi plusvalore solo là dove una classe usa del denaro che estorce col diritto o con la forza a un'altra classe, senza che questa abbia la possibilità di riprenderselo.

Sembra che Marx, a questo punto, abbia dato una definizione convincente di plusvalore: in realtà è entrato in un vicolo cieco. Se il plusvalore è ciò che si ottiene "senza scambio e gratis"(p.190), questa definizione potrebbe applicarsi tranquillamente a qualunque formazione sociale basata sul servaggio o, meglio ancora, sullo schiavismo. Là dove esiste sfruttamento di manodopera (schiava o servile), lì dovrebbe esistere un plusvalore.

In realtà la caratteristica del plusvalore capitalistico è un'altra, che Marx peraltro conosce perfettamente ma che non può mettere al primo posto, altrimenti se ne dovrebbe chiedere la ragione culturale: quella di realizzarsi, da un lato, in virtù della libertà personale del lavoratore, e dall'altro, in virtù del macchinismo. Non dobbiamo infatti dimenticare che la rivoluzione industriale (a partire dalla manifattura) è stata una conseguenza della fine della comunità autarchica. Alle sicurezze che offriva tale comunità, la borghesia ha voluto contrapporre quelle nuove offerte dal macchinismo.

Per un verso quindi Marx sostiene, giustamente, che nel capitale commerciale non si forma plusvalore tra produttori di merci, specie se vige lo scambio degli equivalenti. Il capitale commerciale "appare ricavabile solo dal duplice sopruso fatto ai danni dei produttori di merci che acquistano e vendono da parte del mercante che s'intromette tra di essi come un parassita"(p.193), nel senso che il mercante alza il prezzo della merce all'acquirente e lo abbassa al venditore. Mentre invece nel capitale usuraio "la forma D-M-D' è abbreviata e ridotta ai diretti estremi D-D', denaro che si scambia con più denaro"(ib.).

Un plusvalore realizzato in questi due modi non sarebbe in grado di determinare "l'organizzazione economica della società moderna"(p.192), soprattutto perché "la formazione del capitale [e cioè del plusvalore] deve poter avvenire anche se il prezzo delle merci è uguale al valore delle merci"(p.195 in nota), cioè anche se non c'è frode, dolo, usura ecc.

Per un altro verso invece Marx afferma che il plusvalore dipende dal valore d'uso d'una merce particolare, la forza-lavoro, che è "particolare" perché, pur essendo valore d'uso, essa è anche fonte di valore. La particolarità della formazione del plusvalore è tutta qui. Il possessore di denaro può autovalorizzare il proprio denaro in quanto ha la "fortuna" di trovare, sul mercato, una merce che crea valore.

L'incontro è pressoché casuale, in quanto la forza-lavoro appartiene a un individuo non meno "libero" del possessore di denaro. "Il possessore della forza lavorativa, perché possa venderla come merce, deve poterne disporre, perciò deve essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona"(p.197). "Egli incontra sul mercato il possessore di denaro..."(ib.).

Qui Marx non spiega assolutamente il motivo per cui la forza-lavoro è già forza-lavoro, cioè il motivo per cui essa deve presentarsi sul mercato solo per vendere la propria merce. Marx dice che sul mercato questi due possessori di merci (forza-lavoro e denaro) sono "persone uguali giuridicamente"(ib.). Ma egli non sottolinea con altrettanta precisione che, al di fuori del mercato, queste due persone sono già socialmente diverse.

Sul mercato non avviene un incontro casuale ma obbligato, almeno fintantoché il proletariato non vi si oppone politicamente. E' un incontro "libero" solo nella misura in cui il contadino-artigiano è convinto, entrando nel mercato, di potersi emancipare dal servaggio; ma resta "obbligato" nella misura in cui lo stesso contadino non ha di fronte a sé una forma diversa di alternativa al servaggio.

A Marx non interessa mostrare che il proprietario della forza-lavoro è costretto, a causa della dissoluzione della comunità agricola, a proletarizzarsi. Anzi, ciò che appare nella sua analisi è semplicemente il fatto che la forza-lavoro preferisce alienarsi "soltanto per un tempo stabilito"(p.197), proprio per non doversi trasformare in merce tout-court. Sembra essere una volontà del proletario quella di non diventare come uno schiavo.

Marx naturalmente afferma che il proletariato è costretto a vendere come merce la sua forza-lavoro, non potendo vendere nient'altro, perché privo di mezzi di produzione e di sussistenza. Però è singolare ch'egli consideri come "seconda" questa condizione, quando in realtà essa è la prima.

Marx infatti non ha capito che la forza-lavoro ha accettato l'uguaglianza giuridica, pur essendo alienata economicamente, perché sul piano culturale l'ideologia le prometteva un'emancipazione anche economica. Cioè a dire, il capitalista non ha incontrato sul "mercato-delle-persone-giuridicamente-uguali" quella disuguale sul piano economico, ma, dopo aver creato l'ideologia dell'uguaglianza giuridica, sulla base della propria autonomia economica, se n'è poi servito per ingannare il contadino-artigiano che, uscendo privo di tutto dalla comunità agricola, doveva convincersi sull'effettiva possibilità di emanciparsi economicamente in virtù della libertà "borghese".

Il ragionamento di Marx invece è capovolto. "Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico"(pp.199-200). Il che è sintomatico: Marx, che pur ha capito l'origine sociale della proletarizzazione, finisce coll'approdare a una conclusione che può far comodo alla borghesia, invece di risalire al rapporto genetico e drammatico di quella proletarizzazione con la dissoluzione della comunità agricola. Nell'illusione di poter offrire un giudizio di fatto inconfutabile, Marx ha involontariamente espresso un giudizio di valore chiaramente opinabile.

Egli si è limitato ad affermare che il rapporto tra possessori di merci o denaro da un lato, e possessori di forza lavorativa dall'altro, "non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia"(p.200). Esso è "il prodotto di molte rivoluzioni economiche..."(ib.). Così dicendo, Marx non riesce a spiegarsi la ragione della nascita del capitalismo. Infatti, stando alla sua ideologia, le "rivoluzioni economiche", che pur sono "sociali", cioè essenzialmente frutto della "libertà", rappresentano unicamente un "processo di storia naturale", come vien detto nella Prefazione alla I ed. (p.6).

Alla domanda "quando nasce il capitalismo?", Marx dà questa risposta: "per poter rappresentare il prodotto come merce [in quanto finalizzato unicamente al mercato] occorre una divisione del lavoro all'interno della società che sia così sviluppata da essersi già effettuata la separazione tra valore d'uso e valore di scambio..."(p.200).

Sembra essere questa la ragione di fondo, ma poi Marx aggiunge, rendendosi forse conto d'aver chiamato in causa un fattore semplicemente tecnico: "questo grado di sviluppo è però comune a formazioni sociali economiche le più diverse tra loro"(pp.200-201). Le quali non tutte, anzi nessuna, eccetto una, è diventata capitalistica.

Analogo fattore tecnico è quello del denaro, le cui particolari forme (mezzo di circolazione e di pagamento ecc.) possono coesistere con "una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata"(p.201).

Il cerchio quindi si chiude: alla domanda "come ha fatto il capitalismo a nascere?", Marx non ha saputo trovare una risposta soddisfacente. Egli ha certamente capito, meglio di qualunque economista precedente, che il capitale "sorge solo dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore in veste di venditore della propria forza lavorativa..."(ib.). Ma altre spiegazioni non ne ha date.

Il motivo di ciò sta nel fatto che, essendosi limitato a un'analisi fenomenologica della nascita del plusvalore, Marx non ha saputo affrontare a livello storico né il processo di dissoluzione della comunità agricola, con i suoi drammi e le sue tragedie, né la formazione della cultura vincente, quella borghese e protestante, che ha legittimato quel processo, rendendolo ineluttabile.

COMMENTO AL CAPITOLO VI DEL LIBRO I DEL "CAPITALE"

K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984

(Il "Commento" avrà come scopo soltanto quello di verificare la fondatezza di alcune tesi espresse nell'analisi del I libro del Capitale).

Sin dall'inizio del capitolo, Marx cade nel circulus vitiosus secondo cui la merce va considerata come "presupposto per la genesi del capitale" e nel contempo come suo "prodotto"(p.49). Questa tautologia si rifletterà più avanti, nel modo di vedere il rapporto tra capitalista e salariato nell'ambito della circolazione del capitale. "Nella circolazione il capitalista e l'operaio stanno l'uno di fronte all'altro solo come venditori di merci..."(p.93): la merce dell'operaio è -come noto- la sua stessa forza-lavoro. E si rifletterà anche nella differenza che Marx pone tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale (cfr pp.125ss.).

Marx si rende conto che esiste una certa diversità fra la merce come "presupposto" e la merce come "prodotto", ma non riesce a spiegarsene la ragione culturale. E' questa la tesi che vogliamo dimostrare.

Egli afferma: "in precedenti stadi di produzione i prodotti assumono parzialmente la forma della merce. Invece il capitale produce necessariamente il suo prodotto come merce"(p.50). Detto altrimenti: i due presupposti fondamentali per la nascita del capitalismo sono, secondo Marx: 1) "che i membri concorrenti della società si fronteggino come persone che si stanno davanti solo in quanto possessori di merci e che solo in quanto tali entrano reciprocamente in contatto (ciò esclude la schiavitù, ecc.)"; 2) "che il prodotto sociale sia prodotto come merce. (Ciò esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d'uso è lo scopo principale, e tutt'al più si trasforma in merce l'eccedenza del prodotto, ecc.)"(p.81).

Come si può notare, la differenza, fra un sistema e l'altro, è per Marx meramente quantitativa, anche se ciò comporta, ad un certo punto, una diversa qualità delle cose. Infatti, nessun sistema pre-capitalistico è in grado di produrre necessariamente delle merci. Marx lo dice esplicitamente a p.129: "ciò in cui il processo lavorativo sussunto anche solo formalmente sotto il capitale si differenzia sin da principio...pur sulla base del vecchio modo di lavoro tramandato, è la scala sulla quale questo processo lavorativo viene eseguito; quindi, da una parte, la massa dei mezzi di produzione anticipati, dall'altra il numero dei lavoratori comandati dallo stesso imprenditore".

Per Marx dunque il passaggio da un sistema pre-capitalistico a uno capitalistico avviene secondo i parametri dell'evoluzionismo, secondo la logica hegeliana della necessità storica. "L'autovalorizzazione del capitale... -dice Marx- è soltanto impulso e scopo razionalizzati del tesaurizzatore"(p.95). Il "modo di produzione specificamente capitalistico...si sviluppa...con il progredire della produzione capitalistica..."(p.128).

Questo naturalmente non significa ch'egli non abbia compreso la natura antagonistica del sistema capitalistico, ovvero l'ingiustizia di un'appropriazione privata del plusvalore. Ciò che dell'analisi marxiana si mette in discussione è l'affermazione secondo cui il capitale che all'inizio esiste solo come denaro, debba inevitabilmente valorizzarsi in direzione del capitalismo (cfr p.79).

Marx spiega questo "destino" riferendosi alla grandezza, in perenne crescita, del capitale (cfr p.80), nel senso che non si potrebbe accumulare del denaro se non si avesse intenzione di accumularne sempre più. Ma, come si può facilmente notare, questa spiegazione, che dovrebbe giustificare la genesi del capitalismo, è di tipo psicologico, certo non culturale. Essa non ha un fondamento propriamente storico e pertanto ha scarso valore epistemologico. Stando ad essa infatti il capitalismo è nato casualmente in Europa occidentale, e altrettanto casualmente esso poteva nascere in qualunque altra regione del mondo ove i commerci fossero discretamente sviluppati.

In pratica Marx non solo non vede "rotture" o "salti" da un sistema all'altro, ma vede persino "evoluzione" dal comunismo primitivo (che per lui coincide, almeno in questi anni, con la "comunità naturale" dell'India classica) al sistema schiavistico. "I momenti generali del processo lavorativo...sono determinazioni indipendenti da ogni carattere storico e specificamente sociale del processo di produzione, e determinazioni che rimangono ugualmente valide per tutte le sue possibili forme di sviluppo; di fatto, condizioni naturali immutabili del lavoro umano...non appena questo si sia spogliato del suo carattere puramente animale"(p.128).

Naturalmente, essendo un economista, Marx cerca di spiegare la differenza fra un sistema e l'altro anche dal punto di vista fenomenologico (che è anzi quello da lui privilegiato). In tal senso la sua osservazione è giusta: "la trasformazione del denaro in capitale...può aver luogo soltanto quando la capacità di lavoro sia trasformata, per l'operaio stesso, in una merce..."(p.50), cioè quando l'operaio stesso, con la sua forza-lavoro, si trasforma in una merce.

In nessun sistema pre-capitalistico s'era mai visto un potere economico che usa la libertà giuridica del lavoratore per farlo diventare socialmente schiavo lasciandolo libero! Su questo Marx avrà sempre una ragione in più rispetto agli economisti borghesi. Tuttavia, ciò ch'egli non riesce a spiegare è il motivo per cui il lavoratore ha accettato questa mistificazione, ovverosia qual è stata l'ideologia che ha indotto il lavoratore, illudendolo, ad accettare la mistificazione (quali sono stati gli argomenti persuasivi). Qui il lavoro da fare era nell'ambito della sovrastruttura, la cui importanza è sempre stata sottovalutata da Marx.


Per Marx "la produzione capitalistica supera la base della produzione di merci, la produzione isolata e indipendente e lo scambio tra possessori di merci o lo scambio di equivalenti"(p.52). Questo significa che il capitalismo, in quanto sistema produttivo finalizzato anzitutto al valore di scambio, va considerato superiore a qualunque altro sistema ove la produzione di merci avvenga in maniera "isolata e indipendente", tanto più dove si produce "per l'immediato consumo personale"(ib.).

Pur senza dirlo (ma è probabile che lo faccia inconsciamente), Marx tende sempre a confrontare due forme di capitalismo: quella commerciale e quella industriale. La forma commerciale -come noto- si trova anche nel sistema schiavistico. Qui la divisione del lavoro è "casuale"(p.51) e l'agricoltura non è interamente dominata dal capitale. "La trasformazione dei prodotti in merci si verifica solo in singoli punti, si estende solo all'eccedenza della produzione, o solo a sue singole sfere (prodotti manifatturieri) ecc."(p.54). "Il capitale mercantile -dice a p.130-...è la forma dalla quale si è sviluppato il moderno rapporto capitalistico, e che qui e là costituisce tuttora la transizione al vero e proprio rapporto capitalistico".

Ora, guardando le cose dal punto di vista dell'efficienza produttiva, Marx non ha difficoltà nel ritenere il moderno capitalismo di molto superiore a ogni altro sistema produttivo. Una società basata sull'"immediato consumo personale" è -per Marx- quasi sinonimo di barbarie o quanto meno di primitivismo semi-animalesco. Marx è stato così affascinato dalla potenza del capitalismo che non ha avuto nemmeno l'accortezza di precisare, in questo capitolo, che quando si parla di "lavoro produttivo" bisogna sempre mettersi nei panni del capitalista, per il quale qualunque lavoro finalizzato al "valore d'uso" è necessariamente "improduttivo"; ed evitare di dire che ogniqualvolta il lavoro "è consumato per il suo valore d'uso, non in quanto generatore di valore di scambio, è consumato improduttivamente..."(p.148). Si può forse definire "produttivo" un lavoro finalizzato al plusvalore e non al benessere della società? Anche solo dal punto di vista capitalistico: si può veramente considerare "improduttivo" un lavoro che produce "servizi" invece che beni materiali?

Certo Marx non ha la pretesa di dire, come gli economisti borghesi, che "il capitale è un momento necessario del processo lavorativo umano in generale, a prescindere da ogni forma storica di questo processo; il capitale è qualcosa di eterno, qualcosa di condizionato dalla natura del lavoro umano"(p.86). Né che "il processo lavorativo in quanto tale, in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale"(ib.). Egli sa bene che "la logica che conclude: poiché il denaro è oro, l'oro è di per sé denaro; poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato"(ib.), è una logica antistorica. Tuttavia, Marx non è mai riuscito a dimostrare sul piano storico-culturale come questa logica sia antistorica.

Persino sul piano strettamente economico, Marx non ha preso in sufficiente considerazione il fatto che fino a quando non s'è imposto il capitalismo industriale, il ramo in cui s'è esercitato, in prevalenza, il lavoro umano è stato quello dell'agricoltura - anche nella fase del capitalismo commerciale. I suoi studi sulla rendita fondiaria sono limitati a un singolo aspetto del sistema feudale, quello che non a caso mette più in luce i limiti del feudalesimo. Paradossalmente il Marx "evoluzionista" non è mai stato in grado di spiegare il motivo per cui l'autarchico feudalesimo va considerato un "progresso" rispetto allo schiavismo commerciale del mondo greco-romano.

Ora, sostenere -come lui sostiene- che nei sistemi pre-capitalistici la produzione era "isolata e indipendente", può avere un senso solo se ci si riferisce all'attività commerciale del mercanti di città, ma, in tal caso, si sarebbe dovuto specificare che si trattava di una minoranza di lavoratori. Infatti, la stragrande maggioranza (anche, p.es., nell'Italia comunale) continuava a svolgere un'attività in agricoltura, in forma né "isolata" né "indipendente".

Nel settore agricolo la produzione "isolata e indipendente" era patrimonio di poche unità familiari (patriarcali), in quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva "associata" (nelle comunità di villaggio) e "dipendente", in un modo o nell'altro, dalla forma economica del servaggio.

Persino l'artigianato urbano non è mai stato, per tutto il Medioevo, un'attività condotta in maniera "isolata e indipendente". Se tale è divenuto, ciò è dipeso dal condizionamento del capitalismo commerciale, il quale, in seguito, ha approfittato dell'indipendenza dell'artigiano sempre più isolato e debole per trasformarlo in operaio salariato.

Si badi, qui non si mette in discussione il fatto -come vuole Marx- che il rapporto di capitalista e operaio salariato sia subentrato "al posto di una precedente autonomia nel processo di produzione, come p.es. nel caso di tutti i contadini autosufficienti, dei farmers che dovevano pagare solo una rendita in profitti vuoi allo Stato vuoi al proprietario fondiario, oppure al posto dell'industria sussidiaria rurale-domestica o dell'artigianato autonomo...[ovvero] al posto del maestro delle corporazioni, dei suoi lavoranti e apprendisti"(p.135).

Qui si mette in discussione: 1) l'assolutezza di questa autonomia, in quanto nel sistema pre-capitalistico essa era piuttosto relativa. Marx stesso ricorda come nei "modi di produzione antichi, precedenti, i magistrati cittadini, ecc., proibivano p.es. delle invenzioni per non ridurre alla fame i lavoratori, perché il lavoratore in quanto tale valeva come scopo a sé, e la sua occupazione aveva il valore di un privilegio al cui mantenimento era interessato l'intero ordinamento tradizionale"(p.157); 2) la naturalezza del passaggio da questa autonomia al "rapporto di sovraordinazione e subordinazione" tra capitalista e salariato, in quanto senza "rivoluzione culturale" è impossibile una transizione a un sistema così violento come quello capitalista, il cui carattere antagonistico -come dice Marx- "appare ad esso immanente"(p.166).

Nessuna contraddizione, per quanto macroscopica fosse, di alcun sistema pre-capitalistico avrebbe potuto portare naturalmente, cioè per via diretta, senza un radicale rivolgimento nei modi di pensare e di agire, alla formazione capitalistica, che è quanto di più disumano gli uomini abbiano potuto inventare, dove lo "svuotamento" del lavoratore e la "pienezza" del capitalista "si corrispondono, vanno di pari passo"(p.169).

Per giustificare la transizione al capitalismo industriale, Marx s'è sentito indotto a delineare i contorni socio-economici di un sistema pre-capitalistico che in realtà non è mai esistito. Il suo modo di vedere l'evoluzione del capitale è analogo al modo hegeliano di vedere la formazione dell'idea. In origine vi è il "denaro", ovvero il capitale "in potenza"; poi, in virtù del valore di scambio e della produzione commerciale che si allarga sempre di più, nasce il lavoro salariato: il denaro così si nega trasformandosi in capitale, che si autovalorizza producendo plusvalore; infine il capitale si riproduce in un moto circolare praticamente perfetto, infinito, dove il plusvalore non è altro che un aspetto di un sistema molto più complesso.

La realtà invece è questa -dal nostro punto di vista-, che nessun lavoratore libero si può porre davanti al capitalista con l'obbligo (non giuridico, ma sociale) di vendergli la propria forza-lavoro, se già il capitalismo (manifatturiero) non s'è affermato come sistema. Ciò significa che il capitalismo vero e proprio non nasce anzitutto quando un lavoratore libero si trasforma in operaio, ma quando l'operaio che già lavora in fabbrica (e che in precedenza faceva il servo della gleba o il garzone a vita) obbliga, indirettamente, anche il lavoratore libero a seguire la stessa strada, proprio a causa del rapporto di sfruttamento ch'egli operaio ha col capitalista.

In altre parole, il libero incontrarsi sul mercato del capitalista coll'operaio -quale fattore di realizzazione del capitale produttivo-, in realtà non è mai avvenuto all'inizio del capitalismo. Esso non presuppone altro che un capitalismo già realizzato. Un capitalista in potenza non potrebbe mai diventare effettivo, tramite il suddetto rapporto "libero", se nella società non ci fossero già altri capitalisti effettivi. Questo per dire che la scelta della società di acconsentire ai metodi capitalistici deve necessariamente precedere la possibilità di continuare tali metodi attraverso un rapporto libero sul mercato.

In questo senso si può tranquillamente affermare che per il servo della gleba c'è stato, nell'illusione ovviamente di migliorare la propria condizione, un passaggio meno traumatico da un padrone all'altro, di quanto non sia avvenuto per il lavoratore libero, il quale, non senza drammi interiori (poiché l'alternativa avrebbe potuto essere un'altra), deve essersi deciso a rinunciare alla propria libertà personale, quella libertà che appunto poggiava sulla proprietà dei mezzi produttivi.

Qui si potrebbe citare una frase di T.R. Edmonds, ripresa da Marx in nota: "il motivo che spinge un uomo libero al lavoro è molto più violento di quello che spinge uno schiavo: un uomo libero deve scegliere tra il duro lavoro e l'inedia per sé e la sua famiglia; uno schiavo deve scegliere tra il duro lavoro e una buona frustata"(p.134). Edmonds però, e con lui Marx, non s'è accorto che: 1) la coscienza della libertà è stata possibile in virtù del cristianesimo (anche se il cristianesimo ha vissuto la libertà in maniera parziale e riduttiva); 2) sulla base di questa libertà, l'alternativa, per il cittadino "obbligato" a lavorare come schiavo, poteva anche essere un'altra (p.es. il superamento democratico, a livello politico e sociale, del servaggio); 3) il carattere "violento" dello schiavismo era più "fisico" che "morale", proprio perché l'ideologia dominante (religiosa e/o politica) era scarsamente democratica, e poco rilevanti erano le alternative a questa ideologia. Viceversa, il carattere "violento" del capitalismo è sia "fisico" che "morale", benché esso appaia assai più mistificato, in quanto, per doversi imporre, ha dovuto fare i conti con un'ideologia, quella cristiana, che, almeno sul piano dei princìpi, pretendeva d'essere molto democratica.

Per Marx "l'operaio risulta costretto a vendere, al posto di una merce, la sua propria capacità di lavoro come merce, appunto perché tutti i mezzi di produzione, tutte le condizioni oggettive del lavoro, e parimenti tutti i mezzi di sussistenza, gli stanno di fronte come proprietà estranea... Si presuppone ch'egli lavori come non-proprietario..."(p.108).

Ma in queste condizioni non c'è bisogno di un vero e proprio mercato del lavoro: è sufficiente che con un provvedimento legislativo le autorità politico-civili liberino giuridicamente dal servaggio i contadini per costringerli, in maniera indotta, a trasferirsi nelle fabbriche capitalistiche. Se le autorità hanno questo potere, il capitalismo c'è già; se invece non l'hanno, il capitalismo non può formarsi a partire dalla sfera della "circolazione delle merci", almeno non può farlo automaticamente.

Su questo però Marx non transige: "è solo in quanto possessore delle condizioni lavorative che il compratore porta qui il venditore alla sua dipendenza economica; non sussiste alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione"(p.132). Questo è il tipico modo ingenuo di vedere le cose di chi subordina la politica all'economia. Marx ha sempre considerato -a torto- i rapporti economici come più "immediati", più "diretti", più "evidenti" di quelli che avvengono nella sfera politica o ideologica. Questo gli impedito di scorgere le influenze della sovrastruttura sulla struttura.

In realtà, nei confronti di un "nullatenente" non è necessario, da parte del capitale, dare l'impressione che "le condizioni materiali necessarie per la realizzazione del lavoro...si presentino come feticci dotati di propria anima e volontà"(p.108). Questa illusione è necessaria per il lavoratore libero, proprietario dei suoi mezzi produttivi, che però non riesce a fronteggiare la concorrenza del grande capitale. E' appunto lui che deve credere nella realtà di questi feticci, e non-credere nella sua capacità di distruggerli.

Insomma, un vero "scambio di equivalenti" può essere percepito da entrambi i contraenti (compratore e venditore) solo in una società dove esiste il primato del valore d'uso e quindi l'esigenza di commerciare il surplus rimasto dopo l'autoconsumo. Al di fuori di questo contesto lo "scambio degli equivalenti" è solo un'illusione propinata dal capitale che il lavoratore libero non può che cogliere immediatamente come tale. Il problema, per questo lavoratore, semmai è un altro: come reagire all'illusione.

Marx ha tutte le ragioni di questo mondo quando sostiene che non ci sarebbe capitalismo se l'operaio non fosse costretto a vendere la sua forza-lavoro per vivere, ma non può sostenere che la compravendita della forza-lavoro "costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico"(p.110). E' un "fondamento assoluto" dal punto di vista fenomenologico, ma da quello ontologico il fondamento va ricercato nell'ideologia, e in particolare in quella religiosa. Finché non si individua questo "fondamento" non si uscirà mai dal circolo vizioso che considera come "cause" ciò che in realtà non sono che ulteriori "effetti".


Quando Marx delinea, con la maestria che gli è solita, il passaggio dal rapporto corporativo medievale al rapporto capitalistico, non v'è dubbio che se ci si limitasse, fenomenologicamente, ad esso, le cose non avrebbero potuto che seguire quella direzione. Val la pena anzi riprendere in dettaglio quella descrizione per mostrare meglio le incongruenze dell'analisi marxiana.

Marx dice che "il rapporto corporativo medievale...si è sviluppato, in forma analoga, anche in Atene e Roma, e che in Europa risultò d'importanza così decisiva da un lato per la formazione dei capitalisti, dall'altro per quella di un libero ceto operaio..."(pp.135-6). Si noti subito come Marx non riesca a spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato già nelle grandi civiltà schiavistiche del mondo greco-romano, pur avendo esse analoghe forme di corporazioni artigiane.

Ma procediamo. Tale rapporto corporativo, per Marx, "è una forma limitata, non ancora adeguata, del rapporto di capitale e lavoro salariato"(p.136). I motivi di questo li vediamo dopo. Qui si noti soltanto come Marx osservi il feudalesimo o, se si vuole, lo sviluppo artigianale nei Comuni europei più avanzati, non con gli occhi dello storico che considera il Medioevo dall'interno, ma con quelli dell'economista che si serve di alcune caratteristiche del Medioevo per dimostrare il valore delle proprie tesi sul capitalismo. Il Medioevo cioè viene visto dall'esterno, a partire dalla "verità" di ciò che lo ha superato: il capitalismo. In tal modo la deformazione della realtà, viziata da un'interpretazione fortemente ideologizzata, è inevitabile.

Marx non solo sbaglia nel considerare il corporativismo artigianale un'anticipazione limitata del capitalismo, ma sbaglia anche nel considerare tale anticipazione come quella che assolutamente avrebbe portato, prima o poi, al capitalismo. Già si è detto che la sua importanza viene ritenuta "decisiva". "Il modo di produzione capitalistico ha inizio con la libera impresa artigiano-corporativa"(p.141).

In realtà il corporativismo artigianale può anche essere stato una prefigurazione del capitalismo, ma non fu certamente solo questo, anzi non fu anzitutto questo quand'esso nacque, anche se, bisogna ammetterlo, nel modo in cui viene descritto da Marx, esso non poteva che portare al capitalismo.

Vediamo ora in che senso la prefigurazione è "limitata". L'impresa artigiana medievale -secondo Marx- nasce con lo "spirito capitalistico", perché essa ha come fine il profitto individuale del maestro, il quale è proprietario delle condizioni lavorative e paga un salario a persone "libere", o comunque ha come fine il profitto dei maestri associati in una corporazione di arte e mestiere.

L'impresa va considerata "limitata", rispetto al capitalismo, perché il garzone e l'apprendista hanno col maestro un rapporto di subordinazione gerarchica, in forza della sua specifica competenza professionale: nel senso che il maestro può vendere il prodotto solo quando l'apprendista produce un "capolavoro", cioè un ottimo "valore d'uso". Quando poi l'apprendista diventa maestro, egli può realizzare dei profitti -come il suo maestro precedente- solo nel ramo professionale in cui s'è specializzato.

Al maestro è vietato "andare aldilà di un certo numero di lavoranti, in quanto la corporazione deve garantire a tutti i maestri un'aliquota di guadagno del loro mestiere"(p.137). I prodotti, che devono rispettare determinati criteri di qualità, non possono essere venduti a prezzi concorrenziali, perché la corporazione va difesa in quanto tale. Tutti i metodi di lavoro sono stabiliti non solo dall'esperienza del maestro, ma anche dalle regole della corporazione di appartenenza. L'ampiezza di valore del capitale impiegato, in sintesi, non può andare mai aldilà di un certo livello.

Marx dice che "la trasformazione puramente formale dell'impresa artigiana in impresa capitalistica, dove inizialmente il processo tecnologico rimane ancora lo stesso, consiste nell'abolizione di tutti questi limiti..."(p.137). Marx vede dei "limiti" là dove esistevano dei "vantaggi" per tutta la collettività. Egli non s'è accorto che la suddetta trasformazione presuppone la fine di regole stabilite in maniera collettiva, presuppone cioè l'affermazione di un arbitrio individuale in contrasto con una prassi sociale che, seppur entrata in crisi, poggiava su fondamenti teorici socialmente rilevanti e pubblicamente riconosciuti.

Per Marx il "passaggio" da un sistema all'altro è avvenuto semplicemente perché è bastata una "repentina espansione del commercio e quindi della domanda di merci da parte del ceto mercantile..."(p.138). In altre parole esso è avvenuto perché risultava essere una contraddizione insostenibile il fatto che da un lato si mirasse al profitto e dall'altro non si riuscisse a realizzarlo (in quanto si dovevano produrre valori d'uso, la produzione era determinata dal consumo ecc.). Lo "spirito capitalistico" dell'impresa artigiana aveva bisogno di darsi delle forme più libere per esprimersi al meglio.

In sostanza, Marx non vede l'artigianato in simbiosi con l'agricoltura, ma in antagonismo, sin dal suo sorgere; ed anche quando tale antagonismo è reale, egli non riesce a scorgere le motivazioni ideologiche che lo supportano. Il "passaggio", per Marx, è stato necessario non solo dal punto di vista del mastro artigiano, ma anche da quello dell'apprendista. Singolare, tuttavia, che qui Marx dimentichi la possibilità che l'apprendista aveva di diventare maestro, e che paragoni l'operaio salariato dell'impresa capitalistica non all'apprendista artigiano bensì allo "schiavo"! Certo, rispetto allo schiavo il lavoro diventa "più produttivo, perché più intenso, dal momento che lo schiavo lavora soltanto dietro la spinta di una paura esterna, ma non per la sua esistenza, che non gli appartiene e che comunque è garantita"(p.138).

Sul piano dell'efficienza produttiva, a dir il vero, il lavoro dell'operaio salariato è superiore anche a quello dell'apprendista artigiano (se si lega la "superiorità" alla mera "quantità" e al "macchinismo"): non c'era bisogno di risalire allo schiavo romano (per quanto oggi non poche persone sarebbero disposte a dubitare, dopo aver visto le ricadute del progresso scientifico e industriale sull'ambiente e sugli stessi rapporti umani, che il capitalismo sia sicuramente un sistema migliore di quello schiavistico o feudale).

Ma la domanda qui è un'altra: perché Marx ha messo a confronto l'operaio salariato con lo schiavo nel mentre parlava dei limiti della corporazione artigiana? Risposta: proprio perché se avesse messo a confronto l'operaio salariato con l'apprendista artigiano non avrebbe trovato motivazioni sufficienti per legittimare in modo assoluto la transizione al capitalismo. Questa transizione è stata voluta, fra gli altri soggetti, da singoli mastri artigiani che volevano arbitrariamente superare i limiti imposti dalla corporazione d'appartenenza. Ma resta singolare che Marx non abbia sottolineato quante battaglie abbiano dovuto sostenere garzoni e apprendisti per non diventare salariati a vita!

"Il libero lavoratore -dice Marx- è spinto dai suoi bisogni. La coscienza (o piuttosto la rappresentazione) della libera autodeterminazione, della libertà, e il connesso sentimento (consapevolezza) di responsabilità..."(p.138), fanno del salariato un individuo migliore dello schiavo. Qui Marx fa completa astrazione dalla storia e usa la dialettica alla maniera hegeliana. Stando infatti alla sua analisi, pare addirittura che garzoni e apprendisti abbiano acconsentito volontariamente a diventare salariati dell'impresa capitalistica! Solo perché potevano aspirare a un salario maggiore! Solo perché potevano dimostrare la loro professionalità individuale! Solo perché avevano la possibilità di cambiare continuamente lavoro, o meglio la possibilità di scegliersi il capitalista al quale sottomettersi! Solo perché, a forza di risparmiare sul salario, potevano illudersi di diventare un giorno come il loro imprenditore! (cfr pp.138-141)

In un certo senso è incredibile che uno storico dell'economia come Marx ritenga che "la trasformazione di servi della gleba o di schiavi in liberi operai salariati [costituisca] un'elevazione nel grado sociale"(p.140), quando nello schiavo un'emancipazione del genere sarebbe stata impossibile senza una forte consapevolezza della libertà (che solo il cristianesimo poteva dargli); quando nel servo della gleba un'emancipazione del genere ha comportato un peggioramento sensibile e irreversibile delle sue condizioni di vita.

Significativo è anche il fatto che Marx metta sullo stesso piano "schiavo" e "servo della gleba", senza rendersi conto che se la condizione del "libero" operaio salariato è evidentemente migliore di quello dello schiavo (per quanto una libertà "giuridica" senza una libertà "sociale" alla fine diventi un peso insopportabile), non la stessa cosa si può dire mettendo a confronto il salariato capitalistico col contadino medievale (rovinato, quest'ultimo, più che dal servaggio, dalla penetrazione del capitalismo nelle campagne).

Tuttavia, la cosa che Marx non ha assolutamente capito è che lo schiavismo risulta, tra i sistemi economici di sfruttamento, di gran lunga quello più immediato, più spontaneo e naturale: in un certo senso il più efficace, non tanto per la produzione quanto piuttosto per la "coscienza", proprio perché con esso si evita alla radice di tener conto di qualunque ideologia umanistica. Non a caso a partire dal colonialismo, gli europei lo ripristinarono, diffondendolo subito su vasta scala, nelle regioni ignare del cristianesimo, rinunciando, in un primo momento, non solo al servaggio ma anche al rapporto salariato, che è indiscutibilmente più vantaggioso per il capitalista.

Ciò comunque significa che nel passaggio dallo schiavismo al servaggio e dal servaggio al capitalismo, il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo, al punto che nei territori segnati dalla presenza di questa religione, un semplice ritorno ai vecchi metodi di produzione sarebbe stato impossibile. Il capitalismo riflette dunque una sofisticazione culturale, un approfondimento qualitativo -seppure in negativo- della religione cristiana. L'approfondimento in positivo è costituito dal socialismo democratico.


Correlata a questo modo di vedere le cose è l'idea, da Marx sempre ribadita, che "inizialmente la sottomissione del processo lavorativo al capitale non cambia nulla nel modo di produzione effettivamente reale"(p.116). La rivoluzione tecnologica vera e propria avviene solo quando si ha "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale". Marx deve per forza affermare un principio del genere, poiché ha posto la compravendita della forza-lavoro come presupposto assoluto del capitalismo. S'egli ammettesse che il capitalismo si afferma anzitutto come modo di produzione diverso dal precedente, la legge che regola lo scambio delle merci assumerebbe un'importanza relativa.

Cioè il lavoratore non penserebbe mai di essere libero nel mercato delle merci e schiavo nel mercato del lavoro. Il capitalismo non è giusto nella circolazione delle merci e ingiusto nella produzione di plusvalore. Il suo carattere antagonistico si esprime a tutti i livelli, seppur in modo più o meno mascherato. D'altra parte lo dice anche Marx: "con ciò svanisce anche l'apparenza..., secondo cui nella circolazione, nel mercato delle merci, si fronteggiano possessori di merci, dotati di eguali diritti, che si distinguono l'uno dall'altro, come tutti gli altri possessori di merci, solo per il contenuto materiale delle loro merci..."(p.169). Solo che Marx non arriva mai a chiedersi come si sia potuta formare un'apparenza del genere: di qui i suoi limiti nell'analisi storica e culturale del capitalismo. (L'ultima parte del cap.VI è quella da cui bisognerebbe partire per approfondire il marxismo sul versante culturale).

In tal senso è da escludere categoricamente che lo sviluppo del capitalismo abbia potuto favorire "una maggiore continuità e intensità del lavoro e una maggiore economia nell'impiego delle condizioni lavorative"(p.133), senza mutare, contemporaneamente, le condizioni tecnologiche della produzione. Dire che "considerato tecnologicamente, il processo lavorativo si svolge esattamente come prima, solo che adesso si svolge in quanto processo lavorativo subordinato al capitale"(ib.), è dire una frase senza senso, poiché o con essa ci si riferisce al capitalismo mercantile, e allora non è il caso di parlare di passaggio "automatico" al capitalismo industriale (in ogni caso Marx intende riferirsi alla "sussunzione formale del lavoro sotto il capitale", e quindi non al capitalismo mercantile), oppure con essa ci si riferisce al capitalismo industriale (o manifatturiero che dir si voglia), e allora bisogna ammettere che senza progresso tecnologico tale capitalismo non sarebbe mai nato, o non si sarebbe mai sviluppato come poi ha fatto. In altre parole, Marx, evitando l'esame sovrastrutturale delle cause che hanno generato il capitalismo, non è stato in grado di determinare le ragioni culturali che hanno portato l'uomo del XVI sec. a modificare completamente il proprio apparato tecnologico, ovvero il proprio rapporto con la natura e con l'ambiente sociale.

Con gli occhi del "fenomenologo", Marx ha saputo cogliere la contraddizione antagonistica del sistema capitalistico, ma non l'origine culturale del formarsi di tale contraddizione. E' vero, il capitalismo "risolve il rapporto tra il possessore delle condizioni lavorative e il lavoratore stesso in un puro e semplice rapporto di compravendita, o rapporto monetario, e separa il rapporto di sfruttamento da ogni mistione patriarcale e politica o anche religiosa"(p.133). Ma questa "separazione", in realtà, è solo formale, in quanto, nella sostanza, è stata proprio la religione (specie quella protestante) a offrire alle forze produttive il pretesto, la giustificazione teorica per originare una nuova formazione sociale.

Quando le condizioni di lavoro stanno "di fronte all'operaio come persone autonome, poiché il capitalista in quanto possessore di esse è soltanto la loro personificazione..."(p.123), ciò significa che, nei suoi fondamenti, il capitalismo s'è già compiutamente realizzato. L'operaio non scopre questa "personificazione" solo nel momento in cui entra in fabbrica, ma già nel momento in cui vende la propria forza-lavoro, ed è tanto più convinto di questa "personificazione" quanto più, prima di diventare operaio, svolgeva un lavoro servile.

In pratica Marx ha equiparato arbitrariamente l'economico col sociale, togliendo a questa dimensione la ricchezza della valenza culturale e la profondità delle scelte esistenziali, assiologiche che gli uomini possono compiere. Dal punto di vista "sociale" si sarebbe dovuto sostenere che, fino a quando il capitalismo non modifica il modo di produzione tradizionale, non è neanche il caso di parlare di "capitalismo", ma solo di attività mercantile, ovvero di attività artigianale (o anche agricola) intaccata dall'esigenza di un mero profitto commerciale: un'attività che di per sé non è affatto in grado di creare un "libero mercato delle merci" e che in presenza di una forte volontà politica democratica potrebbe essere facilmente smantellata. Il capitalismo, per potersi imporre, ha avuto bisogno di una rivoluzione culturale, quella del protestantesimo, e anche di una rivoluzione tecnologica, quella del macchinismo. Senza il macchinismo il protestantesimo ha prodotto, nella Germania di Lutero e di Hegel, una grande libertà di pensiero, ma non ha saputo generare il capitalismo. Il capitalismo nasce quando, fra le altre cose, "le condizioni del lavoro -come dice Marx-, con lo sviluppo del macchinario, si presentano anche tecnologicamente come dominatrici del lavoro e, nello stesso tempo, lo sostituiscono, lo schiacciano e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome"(p.163).

Dunque i primati della quantità sulla qualità, del lavoro astratto su quello concreto, del lavoro morto su quello vivo, dello scambio sull'uso e così via, potevano essere affermati sul mercato e nella società civile solo dopo che si fossero imposti (anche tecnologicamente) nella produzione e nella...coscienza religiosa!


Paradossalmente Marx ha creduto di ravvisare nel capitalismo industriale (che è il sistema più individualistico della storia, e lo può essere in virtù della tecnologia) un carattere di "socialità" assai superiore a tutti i modi di produzione pre-capitalistici. Ma è forse un segno di "socialità" il fatto che la merce capitalistica faccia "comparire come qualcosa di completamente casuale, indifferente ed inessenziale la sua relazione immediata, in quanto valore d'uso, con il soddisfacimento del bisogno del produttore"(p.53)? Il primato assoluto del valore di scambio non è forse indice di un assoluto individualismo?

Certo, se si mette a confronto il capitalismo individualistico del mercante medievale (o dell'usuraio o della singola corporazione artigiana) con il capitalismo "sociale" dell'imprenditore privato, che impiega quanti più operai possibile (salvo poi decidere che un certo, esiguo, numero di operai è sufficiente per realizzare un determinato plusvalore...), nessuno può dubitare che il capitalismo industriale sia, nello sviluppo non solo delle forze produttive ma anche dell'antagonismo sociale, un passo avanti rispetto al capitalismo mercantile. Tuttavia, Marx dimentica di dire che i guasti che ha procurato il mercantilismo all'insieme della società feudale sono stati minori rispetto a quelli dell'industrialismo, semplicemente perché allora esisteva un'economia agricola che, essendo basata sull'autoconsumo, sapeva (naturalmente fino a un certo punto) attutire il peso di certe contraddizioni e di certi conflitti sociali. Viceversa, il capitalismo avanzato oggi ha ancora bisogno di sfruttare l'80% dell'umanità per poter sopravvivere.

Naturalmente Marx sa bene che il "sociale" del lavoro "si contrappone all'operaio in modo non solo estraneo, ma ostile e antagonistico, e come oggettivato e personificato nel capitale"(p.131). Persino "il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai isolati, quali che siano le combinazioni sociali in cui questi operai entrano nel processo di produzione"(p.164). Tuttavia, è singolare come Marx non si sia accorto che un individualismo del genere poteva essere affermato solo in contrapposizione a un'esperienza di socializzazione entrata in crisi, a un'esperienza cioè il cui lato "sociale", peraltro indubitabile, non era stato politicamente usato per risolvere le contraddizioni antagonistiche del sistema feudale (o lo era stato solo in maniera insufficiente).

Ancora più paradossale è il fatto che proprio nel momento in cui Marx si avvicina a comprendere la natura antagonistica del sistema capitalistico, con la medesima intensità egli si allontana da una reale comprensione della sua genesi storica. Si legga ad es. questo significativo passo: "il dominio del capitalista sull'operaio è il dominio della cosa sull'uomo, del lavoro morto sul lavoro vivo, del prodotto sul produttore... Storicamente considerata, questa inversione si presenta come il punto di passaggio necessario [!] per promuovere coercitivamente, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, lo sviluppo inesorabile [!] di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono costituire la base materiale di una libera [!] società umana. E' necessario [!] passare attraverso questa forma antagonista proprio come è necessario [!] che, inizialmente, l'uomo si raffiguri in modo religioso, di fronte a sé, le sue forze intellettuali come potenze indipendenti. E' il processo di estraneazione del suo proprio lavoro"(p.94). Il lato "positivo" del capitalismo -dice Marx- è il fatto che i "limiti della produzione" vengono costantemente oltrepassati (p.144).

Qui Marx riprende i temi giovanili già delineati nei Manoscritti del '44, inclusa la critica di Feuerbach alla religione. Ma la dipendenza dall'hegelismo è netta, forse più adesso che allora, seppure qui l'hegelismo sia stato trasformato radicalmente in chiave fenomenologica. La dipendenza la si nota soprattutto laddove Marx considera il capitalismo come una formazione "necessaria", "inesorabile", per la creazione della ricchezza. Infatti non ci può essere "libera società umana" -dice Marx- senza sviluppo delle forze produttive, che ne costituiscono la base materiale. Qui, sinteticamente, è concentrata tutta la filosofia dell'economia di Marx, la quintessenza della sua visione deterministica della storia (che è filo-hegeliana proprio per l'uso della categoria della necessità, non, ovviamente, per aver considerato "necessario" il capitalismo. Hegel -come noto- era un conservatore del sistema feudale).

Il parallelo che Marx fa con l'alienazione religiosa non viene approfondito, né qui né altrove, semplicemente perché Marx ha sempre considerato l'alienazione religiosa un riflesso di quella economica. Marx pensò di superare l'antropologismo psicologistico di Feuerbach dal punto di vista storico, ma vi riuscì, in parte, solo fino a quando assegnò un certo primato alla politica (in pratica sino al Manifesto): quando invece cominciò a subordinare la politica all'economia, la sua dipendenza da Feuerbach nell'analisi della religione fu netta. In sostanza a Marx è mancato il momento dell'analisi culturale del fenomeno religioso: quello che gli avrebbe permesso: 1) di vivere la politica rivoluzionaria in maniera più democratica e non settaria; 2) di dare un vero senso storico agli studi di economia; 3) di superare non solo Feuerbach ma anche Hegel.

In altre parole Marx non è riuscito a cogliere la reciproca influenza che caratterizza i rapporti tra economia e religione, né, tanto meno, il fatto che la religione sia, sul piano culturale, una delle cause storiche in grado di giustificare determinati processi socio-economici.

Marx supera certamente l'hegelismo quando afferma, diversamente dalla dialettica servo/padrone, che "fin da principio l'operaio si trova in una posizione superiore rispetto al capitalista, perché quest'ultimo affonda le sue radici in quel processo di estraneazione e vi trova il suo assoluto soddisfacimento, mentre l'operaio, in quanto vittima di quel processo, rimane da sempre in un rapporto di ribellione verso di esso e lo esperimenta come processo di asservimento"(p.94).

Tuttavia Marx ricade nell'hegelismo proprio quando considera come "inevitabile" questo "processo di asservimento", ovvero quando non assegna esplicitamente al "rapporto di ribellione" il compito di por fine, con la rivoluzione politica, allo sfruttamento capitalistico, ancor prima che il sistema abbia esaurito tutte le proprie potenzialità produttive.


Marx era così influenzato dal metodo della Logica hegeliana che ne usava, anche durante la stesura del Capitale, taluni concetti, come ad es., in questo caso, quello di "sussunzione".

Parlando della "sussunzione formale" del lavoro sotto il capitale -che è quella decisiva, in quanto "condizione e presupposto della sussunzione reale"(p.133)- Marx ribadisce il suo punto di vista deterministico ed evoluzionistico, che già abbiamo visto nelle considerazioni su esposte. "E' nella natura delle cose [!] -egli afferma- che la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale subentri proprio sulla base di un processo lavorativo esistente, sorto prima di questa sussunzione...e configuratosi sulla base di precedenti e differenti processi produttivi...p.es., il lavoro artigiano o il tipo di agricoltura corrispondente alla piccola, autonoma economia contadina"(p.127).

Infatti, "se il rapporto di sovraordinazione e subordinazione [tra capitalista e operaio salariato] subentra al posto della schiavitù, servitù della gleba, vassallaggio, di forme patriarcali ecc., di subordinazione, si verifica solo un cambiamento nella sua forma. La forma diviene più libera, poiché essa rimane soltanto di naturale materiale, formalmente volontaria, puramente economica"(p.135).

Marx rifiuta categoricamente l'idea che in questo passaggio vi siano dei mutamenti, già all'inizio, di tipo sostanziale. Considerando il presente migliore del passato e il futuro migliore del presente, Marx non può che vedere le cose in maniera naturalistica: la differenza dall'ideologia borghese sta nel fatto che la sua considera "naturali" i drammi e le tragedie connesse allo sfruttamento capitalistico, perché proprio essi hanno permesso -a suo giudizio- di rendere più evidenti le contraddizioni del sistema e più pressante la necessità di superarle.

In ogni caso Marx non si rende conto che la "naturalità" della transizione al capitalismo avrebbe potuto verificarsi ben prima del sec. XVI (come, in effetti, accadde nell'Italia comunale, senza che però si verificasse il passaggio del capitalismo da "mercantile" a "industriale"). Oppure avrebbe potuto verificarsi, nello stesso secolo XVI, in altre regioni del globo, certo non meno avanzate, sul piano commerciale, dell'Europa occidentale: si pensi p.es. alla Cina o al mondo arabo che dominava i traffici nel Mediterraneo e nell'oceano Indiano. Perché qui il capitalismo non è mai nato spontaneamente, ma solo come sistema imposto dall'esterno o comunque importato contro le tradizioni nazionali delle popolazioni?

Perché l'India, nonostante la presenza di "interessi colossali" tratti dal "capitale usuraio" -come dice Marx- non ha sperimentato "la sussunzione formale del lavoro sotto il capitale"? In India il capitalismo è stato imposto dalla potenza coloniale inglese e, dopo la liberazione politica, esso continua a restare un corpo estraneo nel complesso della società civile para-feudale: perché? E' solo un "limite" dell'India o piuttosto un segno della sua "forza morale"?

"La produzione per la produzione - produzione come scopo a sé..."(p.144), ovvero la capacità che gli euroccidentali hanno avuto di passare dal possesso di schiavi a quello della terra (il feudo), sino a quello di capitali (il plusvalore), è stato davvero un segno di "progresso"? nel bene o nel male? Non è forse il caso di dire che queste forme sempre più sofisticate di sfruttamento dell'uomo sono in realtà dei tentativi di reagire, negativamente, alla domanda di libertà, di verità e di autenticità che il cristianesimo ha introdotto nella civiltà europea? E che laddove questi tentativi non sono nati spontaneamente, lì esisteva anche una consapevolezza limitata della grandezza dell'uomo, ossia di ciò che l'uomo è in grado di fare? Considerare il capitale "come personificazione e rappresentante, figura cosalizzata delle forze produttive sociali del lavoro o delle forze produttive del lavoro sociale"(p.164), sarebbe stato possibile senza il cristianesimo?

Se Marx avesse puntato l'attenzione sui processi ideologici e culturali che portano una determinata formazione sociale a trasformarsi in un'altra, spesso di segno opposto, avrebbe evitato di parlare di "naturalità delle cose" o almeno l'avrebbe considerata in modo relativo. Non è "naturale" che la scala della produzione venga determinata non sulla base di "bisogni reali", ma sulla base del modo di produzione stesso, finalizzato unicamente al profitto (p.144). E' evidente, infatti, che qualsiasi modo di produzione nasce sulle fondamenta di quello precedente, a meno che non siano avvenute delle catastrofi di tipo naturale o degli eventi di natura politico-militare così sconvolgenti da obbligare gli uomini a ripensare totalmente la loro esistenza.

In questo senso si può affermare che mentre in Europa occidentale la nascita del capitalismo non è stata particolarmente ostacolata dal feudalesimo (se non nel momento in cui le forze borghesi, consolidatesi sul piano economico, cominciavano a rivendicare un potere politico), nell'Europa orientale invece (specie in quella di religione ortodossa), il capitalismo, anche sul piano economico, ha sempre incontrato una forte resistenza da parte delle forze feudali (comunità di villaggio ecc.). E quando esso, approfittando delle contraddizioni feudali, ha cercato d'imporsi sul piano economico, sono nate più o meno immediatamente, nuove forze sociali che vi si sono opposte in maniera politica, costringendo il capitalismo a operare subito la transizione verso il socialismo.

In questo tentativo, purtroppo, tali forze hanno fatto affidamento più che in loro stesse, sulle teorie socialiste (marxiste in particolare) elaborate in Europa occidentale, cioè su quelle teorie che hanno sempre tenuto in scarsa considerazione il feudalesimo, il mondo contadino, le comunità di villaggio ecc. Sicché l'Europa dell'est ha sperimentato su di sé tutti gli effetti negativi della realizzazione delle teorie marxiste, risparmiandoli così all'Occidente, il quale, però, dal canto suo, continua a sperimentare su di sé (e a far sperimentare soprattutto sul Terzo Mondo) tutti gli effetti negativi delle teorie borghesi del capitalismo.

Ora, se da un lato l'Europa dell'est ha capito gli errori del marxismo, dall'altro l'Europa dell'ovest non ha ancora capito gli errori del liberalismo borghese. La democrazia occidentale oscilla continuamente fra due poli opposti: il laissez-faire e il Welfare State, e non s'accorge che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, quella appunto del capitalismo.

IL PROCESSO DI SCAMBIO (II)

Ciò che più sconcerta dell'inizio del Capitale è che Marx parla continuamente di liberi proprietari privati, che producono gli uni indipendentemente dagli altri, e che s'incontrano sul mercato per scambiarsi i loro prodotti, facendoli diventare delle merci.

Si ha la netta impressione che questo modo d'impostare le cose sia del tutto astratto, poiché la nascita della figura del proprietario privato non è mai avvenuta, nell'ambito del capitalismo, senza la contemporanea nascita del lavoratore salariato.

Finché il proprietario privato non dispone di manodopera salariata, non è neppure il caso di parlare di "economia mercantile": infatti, pur esistendo lo scambio sul mercato, l'economia dominante resta quella basata sull'autoconsumo. Viceversa, quando il proprietario privato può affermare la propria assoluta autonomia rispetto alla comunità "d'origine", ciò avviene appunto perché egli ha già alle sue dipendenze dei salariati.

Marx, partendo dalla merce, e non ad es. dal "salario", come nei Manoscritti del 1844, pare abbia avuto l'intenzione di dimostrare che se la contraddizione maggiore del capitalismo resta quella del lavoro salariato, tutto il resto è però facilmente accettabile o comunque recuperabile dalla transizione socialista. La stessa grande astrazione usata nell'analisi della merce sembra essere finalizzata a dimostrare questa tesi.

Nel Capitale c'è una sorta di passiva contemplazione del sistema capitalistico, per quanto l'analisi delle sue manifestazioni, palesi e occulte, si sia notevolmente perfezionata, mentre sul ruolo politico del proletariato il testo non offre nulla di più di quanto si può trovare nel Manifesto.

E' davvero impressionante, in tal senso, il fatto che Marx consideri i "possessori di merci" come semplici "maschere economiche" che personificano dei rapporti economici (p.88). Nel Capitale la società mercantile appare come un teatro in cui le parti degli attori sono fissate in maniera irrevocabile. Nessuno può rinunciare al proprio ruolo e assumerne un altro.

D'altra parte per Marx il processo di scambio può avvenire solo fra possessori di merci che si riconoscono reciprocamente come "proprietari privati". Essi sono "persone" proprio in quanto hanno capacità autonome, indipendenti rispetto alla comunità "d'origine". Essi sono "liberi" non perché appartengono a una comunità, ma, al contrario, perché se ne sono liberati. La libertà si esprime, formalmente, attraverso un riconoscimento giuridico, contrattuale, volitivo, della reciproca indipendenza materiale, economica.

A Marx non interessa individuare la motivazione culturale, "valoriale", che ha indotto gli uomini ad acquisire un tale modo di affermare la propria identità. La motivazione di fondo, per lui, non è culturale ma economica: i possessori di merci s'incontrano sul mercato perché hanno bisogno della merce altrui: "tutte le merci sono per i loro possessori valori non d'uso e per i loro non-possessori valori d'uso"(p.89).

Accettando, come motivazione ultima dell'agire, la necessità economica, Marx è poi costretto ad affermare, da un lato, che "le merci, prima di potersi realizzare come valori d'uso, si debbono realizzare come valori"(ib.); dall'altro, che esse, "prima di potersi realizzare come valori, si debbono accertare come valori d'uso"(ib.).

Cioè, da un lato Marx assegna al valore di scambio un primato su quello d'uso, ritenendo che solo lo scambio possa provare se un lavoro è utile; dall'altro è costretto a riconoscere che senza un valore d'uso lo scambio non avrebbe senso. Col che però non si riesce a comprendere come il bisogno dello scambio possa "precedere", non cronologicamente, è ovvio, ma piuttosto "ontologicamente" il valore d'uso.

Per Marx il valore d'uso, non avendo un significato in se stesso, pare finalizzato a quello di scambio, nel senso che uno scambio subordinato al primato del valore d'uso non può determinare il valore della merce. In altre parole, non avendo capito che il passaggio da un primato all'altro presuppone un'autentica rivoluzione culturale (di mentalità ecc.), Marx è stato costretto ad attribuire all'effetto di tale rivoluzione una causa (genetica) dell'intero processo di scambio.

Paradossalmente, il determinismo economico qui si rovescia in quello psicologico, in quanto i possessori di merci "pensano -dice Marx- come Faust. In principio era l'azione. Le leggi della natura delle merci si son fatte già sentire nel naturale istinto dei possessori di merci"(ib.). Il borghese cioè attribuisce per istinto al valore di scambio il primato su quello d'uso e fa immediatamente del denaro e non di una merce particolare -che rimanderebbe troppo al suo valore d'uso- l'equivalente generale.

Inutile dire che, se veramente fosse così, sarebbe impossibile cercare di capire il motivo per cui il capitalismo è nato nell'Europa occidentale del XVI sec. e non nell'impero bizantino o nella Cina dei Ming. Lo stesso Marx, d'altronde, s'era reso conto di questa difficoltà, laddove in Sulle società precapitalistiche dirà: "eventi di un'analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici del tutto diversi condussero a risultati diversi" -ma non riuscì mai a spiegarsela.

"La trasformazione della merce in denaro avviene nella medesima misura della trasformazione dei prodotti del lavoro in merci"(p.90). In tal senso, quando Marx parlava nel § 3 del cap. 1 delle diverse forme di valore della società mercantile, e ne elencava quattro tipi, bisognava intendere solo l'ultima, quella del denaro, come la più rappresentativa del modo di produzione capitalistico, mentre tutte le altre sono riferibili solo a formazioni sociali non capitalistiche.

Tuttavia, se questo è vero, il passaggio da una forma all'altra non può essere inteso in maniera puramente logica. Se l'istinto borghese è quello di scegliere il denaro come equivalente universale, ciò significa che l'adozione di una delle altre tre forme, finché tale istinto non s'impone, è destinata a rimanere nel tempo. Quell'istinto infatti è, secondo noi, il frutto di una scelta culturale ben precisa, che gli uomini possono anche vivere inconsapevolmente, ma che non per questo essa non è oggettivamente individuabile.


Dunque, rendendosi conto d'aver fatto, nel § 3 del cap. 1, un discorso troppo astratto, Marx riprende l'argomento a p. 91, mostrando che "lo scambio diretto dei prodotti" non esiste solo nella semplice forma di valore: x merce A = y merce B (vedi p.41), ma esiste anche in un'altra forma, riscontrabile in ogni società non capitalistica: quella che s'impone quando esiste un'eccedenza dopo l'autoconsumo. "La prima maniera d'essere potenzialmente valore di scambio -dice Marx- è per un oggetto d'uso il suo esistere come non-valore d'uso, come quantità di valore d'uso eccedente gli immediati bisogni del suo possessore"(p.91). L'equazione in questo caso è: x oggetto d'uso A = y oggetto d'uso B.

Tuttavia, Marx compie qui un duplice errore: da un lato rifiuta di accettare l'idea che possa esistere un valore di scambio in nome del valore d'uso (lo scambio, nella sua analisi, presuppone sì l'uso ma al tempo stesso lo nega); dall'altro ritiene che lo scambio del surplus sia destinato ad affermare, con la fine del valore d'uso, la fine della comunità autarchica.

Secondo Marx il vero scambio è possibile solo là dove esiste un "rapporto di reciproca estraneità"(ib.) tra il produttore e il consumatore. Quindi "lo scambio di merci ha inizio dove terminano le comunità, ai loro punti di contatto con comunità estranee"(ib.).

Ora, a parte il fatto che questo può essere vero inizialmente, in un primo momento, ciò che non si può assolutamente accettare è che la fine della reciproca estraneità comporti necessariamente la fine della comunità. Il passaggio di cui parla Marx, e cioè "quando le cose sono diventate merci nella vita esterna della comunità, esse, per reazione, lo divengono anche nella sua vita interna"(ib.), non è affatto un passaggio automatico, ma sempre l'esito di una scelta culturale, fatta in maniera più o meno consapevole. La stessa decisione, da parte di Marx, di rendere automatico il passaggio è frutto di una scelta culturale. Egli infatti non riesce ad accettare l'idea che una comunità basata sull'autoconsumo possa commerciare con una comunità estranea senza perdere la propria identità. A suo giudizio, se c'è lo scambio ce n'è il bisogno e se c'è il bisogno la comunità non è autosufficiente.

"In un primo tempo -dice Marx- il loro [delle comunità] rapporto quantitativo di scambio è del tutto occasionale. (...) Intanto si afferma mano a mano il bisogno di oggetti d'uso di altri: e questo diviene un normale processo sociale per il continuo ripetersi dello scambio. Da adesso in poi si afferma, da un lato, la distinzione tra l'utilità delle cose per il bisogno del momento e la loro utilità per lo scambio: il loro valore d'uso si distingue dal loro valore di scambio. D'altro lato viene a dipendere dalla loro produzione il rapporto quantitativo secondo il quale esse sono scambiate: l'abitudine le fissa come grandezze di valore"(pp.91-2).

Come si può chiaramente notare, Marx considera il passaggio dall'autoconsumo al mercato come necessario, inevitabile, dettato dal fatto stesso ch'esiste un bisogno di scambiare i prodotti, di acquistare quelli che non si producono. Egli non riesce a distinguere tra bisogni primari o fondamentali e bisogni secondari. I primi non sono anzitutto quelli economici, ma quelli connessi all'affermazione della libertà, i quali naturalmente hanno bisogno di una certa configurazione sociale dell'economia. I secondi non sono certo quelli che, in ultima istanza, garantiscono l'esistenza di tale libertà.

Una comunità autarchica non rinuncerebbe mai alla propria indipendenza per subordinarsi al mercato sulla base dei propri bisogni secondari. E se dovesse restarvi subordinata sulla base dei bisogni primari, essa non sarebbe autarchica.

Non esiste quindi passaggio obbligato dall'autoconsumo al mercato, poiché qualunque comunità autarchica, dovendo scegliere fra autonomia e soddisfazione di bisogni primari da un lato, e dipendenza e soddisfazione di bisogni secondari dall'altro, sceglierebbe la prima soluzione. A meno che essa non viva al proprio interno una crisi di legittimità o di credibilità, di fronte alla quale emergono alcune categorie sociali che, invece di affrontare collettivamente la crisi, credono di potersi emancipare individualmente attraverso il mercato. E' a questo punto e solo a questo punto che la comunità si trova costretta a scegliere fra le due suddette alternative. E l'illusione, scegliendo la seconda, di poter continuare, come comunità, a soddisfare anche i bisogni primari, si scontrerà ben presto con la dura realtà dei fatti.

Marx inoltre non prende neppure in considerazione l'eventualità che la comunità autarchica possa imparare a riprodurre, proprio in virtù dello scambio, ciò di cui ha bisogno. Sarrebbe davvero un curioso destino che la casualità di un rapporto commerciale avesse in sé il potere di trasformare totalmente una comunità, a prescindere dalla volontà dei suoi membri.


La scelta di usare il denaro come equivalente universale permette alla borghesia di scindere completamente il valore di scambio da quello d'uso o "dal bisogno individuale di quelli che effettuano lo scambio"(p.92).

Tuttavia, per Marx la scelta del denaro avviene soltanto per motivi pratici, contingenti: "la necessità di questa forma si determina coll'aumentare del numero e della varietà delle merci implicate nel processo di scambio. Il problema sorge contemporaneamente ai mezzi per risolverlo"(ib.). Detto con una formula hegeliana: numerose determinazioni quantitative, sommate una sull'altra, ad un certo punto producono una nuova qualità. Il determinismo economico è qui riconfermato.

Marx però non riesce a spiegarsi il motivo per cui, mentre l'uso del denaro come equivalente universale, è rinvenibile presso moltissime civiltà, solo in quella borghese esso è in grado di ridurre tutto a merce. "Le popolazioni nomadi -dice Marx- creano per prime la forma di denaro, giacché ogni loro bene sta in forma mobile, perciò direttamente alienabile"(ib.). Il fatto di vivere continuamente a contatto con comunità straniere, le stimola allo scambio dei prodotti. Naturalmente -dice Marx- molto forte è sempre stato l'uso del denaro per l'acquisto di prodotti esteri.

Tuttavia, "solo in una società borghese già perfezionata"(p.93) poteva apparire l'idea di fare della terra una merce alienabile. Questa idea -prosegue Marx- "data dall'ultimo trentennio del XVII sec. e la sua applicazione su scala nazionale fu provata solo un secolo più tardi, nella rivoluzione borghese dei francesi"(ib.), tramite gli "assegnati", che erano titoli di credito garantiti sulle terre appartenenti al clero regolare e incamerate dallo Stato. Marx però non offre una spiegazione convincente di questo.

Infatti, prima di arrivare ad espropriare la terra, occorre che il denaro abbia acquisito a livello di società civile un potere universalmente riconosciuto, in grado di condizionare lo stesso potere politico. E ciò è stato storicamente possibile solo a una condizione, che l'ideale religioso cattolico fosse entrato in una crisi così profonda da necessitare un suo superamento qualitativo. Il limite della soluzione borghese sta appunto in questo, che al feticismo religioso è stato sostituito quello economico. Il superamento c'è stato ma non di ordine "qualitativo". Di fatto la società mercantile non esprime una vera alternativa al servaggio e al clericalismo, ma un modo ancora più sofisticato di vivere lo sfruttamento e l'alienazione.

Marx ha tutte le ragioni ad opporre il denaro come merce universale a coloro che volevano considerarlo solo come un "segno" del valore. Allorquando era vietato considerare il denaro come merce e quindi venderlo, era il potere politico (monarchico) a stabilire il valore del denaro. In tal modo l'arbitrio delle istituzioni s'imponeva sullo sviluppo delle relazioni sociali, impedendo, per quanto poteva, che s'imboccasse la direzione "borghese", o che tale direzione acquisisse un'eccessiva autonomia.

Tuttavia, Marx ha visto in questo solo il lato negativo. Concedendo il primato al valore di scambio, egli non avrebbe mai accettato l'idea che il denaro possa essere collettivamente considerato come un "segno" del valore d'uso. La caratteristica "simbolica" del denaro potrebbe essere del tutto lecita, in riferimento al valore d'uso, se fosse accettata consapevolmente e liberamente da tutta la società. In tal caso il denaro perderebbe la sua funzione di merce universale, che si contrappone a una qualunque altra merce, e conserverebbe sia quella di un particolare valore d'uso (ad es. per oggetti ornamentali), sia quella di equivalente generale, non in astratto, ma in concreto, cioè in riferimento a beni di utile consumo.

Se in una società dominasse il valore d'uso, gli uomini non avrebbero mai l'impressione che il potere del denaro, in ultima istanza, possa essere "onnipotente", anche a prescindere da ciò ch'esso effettivamente rappresenta. Nel capitalismo il possesso del denaro autorizza automaticamente a credere che vi siano sempre delle merci da acquistare. "Non pare che una merce si trasformi in denaro solo perché in essa, da ogni lato, le altre merci indicano i loro valori, ma al contrario, pare che le altre merci indichino in generale in essa i propri valori, in quanto è denaro"(pp.97-8).

Marx ha compreso perfettamente "la magia del denaro", ovvero il nesso tra "l'enigma del feticcio denaro" e quello del "feticcio merce"(p.98), ma non ha compreso il rapporto di causa/effetto che lega il feticismo religioso con quello economico. Cioè non ha compreso che quando saranno superate le radici culturali di ogni possibile feticismo, la funzione del denaro si ridurrà a quella di rappresentare simbolicamente il valore d'uso, semplicemente per rendere più agevoli gli scambi.





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