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Arthur Schopenhauer: CONTRO HEGEL, IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

filosofia



Arthur Schopenhauer




Arthur Schopenhauer (antihegeliano) nasce a Danzica il 22 Febbraio del 1788. Decide di darsi agli studi poco dopo la scomparsa del padre, morto suicida nel 1805. Si iscrive all'Università di Gottinga dove ha per maestro lo scettico Schulze e dove studia "il sorprendente Kant" e "il divino Platone". Nel 1811 si reca a Berlino, dove ascolta le lezioni di Fichte, restandone disgustato. Nel 1813 si laurea in filosofia all'Università di Jena con la dissertazione "Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente"(quella di Leibniz che Schopenhauer interpreta come principio di causalità). Nel salotto della madre (donna di mondo) a Weimar incontra Goethe e l'orientalista Mayer che lo introduce al pensiero indiano. Nel 1814 si trasferisce a Dresda dove, nel 1818, porta a termine la sua opera fondamentale: "Il mondo come volontà e rappresentazione", che avrà una misera fortuna e (nella sua prima edizione) finirà quasi tutta al macero. Nel 1820 va a Berlino per intraprendere la carriera accademica e qui si scontra con Hegel, il "Dio" dell'università. Dal '20 al '31, per ben ventiquattro semestri, terrà lezioni contro Hegel: ma solo nel primo di questi semestri riuscirà nel suo intento, poi non avrà più studenti. Nel 1831, per sfuggire all'epidemia di peste scoppiata a Berlino, si stabilisce a Francoforte, dove resta fino alla morte avvenuta il 21 settembre 1860.





CONTRO HEGEL


Contro Hegel, Schopenhauer sostiene che la filosofia, dopo essere stata rimessa in onore da Kant (per Schopenhauer è il massimo), è divenuta strumento di interessi estranei, o di Stato o personali. La verità è l'ultima cosa a cui si pensa: la verità non è che la meretrice che si getta al collo di chi non la vuole. Oggi i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini di stato, mentre i filosofi ne fanno solo un mestiere per guadagnare denaro (come i sofisti). E il più gran sofista dei suoi giorni S. lo vede in Hegel, "l'accademico mercenario", <<un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi, prontamente accettati come sapienza immortale da tutti gli stolti>>. Fichte e Schelling rappresentano per S. la "tronfia vacuità" (vuoto più totale), Hegel la "mera ciarlataneria", che ha ordito la congiura del silenzio nei confronti della sua (di S.) filosofia. Il pensiero di Hegel è, per S., una "buffonata filosofica" che si riduce alla <<più vuota, insignificante chiacchierata di cui si sia mai contentata una testa di legno>>. Hegel è un <<ciarlatano pesante e stucchevole, che si esprime nel gergo più ripugnante e insieme insensato, che ricorda il delirio dei pazzi>>. Hegel è un SICARIO (che ammazza) DELLA VERITÀ che rende la filosofia serva dello stato e colpisce al cuore la libertà del pensiero.



IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

La conoscenza è caratterizzata da un rapporto soggetto-oggetto.

Il criticismo critica il materialismo, il realismo(è attraverso il soggetto che cogliamo la realtà), l'idealismo (c'è il difetto opposto del realismo; non c'è oggetto senza soggetto. Dice che il mondop è una rappresentazione, ma questo non è una creazione del mondo).

Scrive S.: <<"Il mondo è una mia RAPPRESENTAZIONE": ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante. L'uomo sa con chiarezza (attraverso la filosofia di Kant) di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio (cioè pensiero) che vede il sole e una mano che sente il contatto di una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazio 747f54h ne, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo (soggetto conoscente)>>. Nessuna verità è, secondo S., più certa e più assoluta di questa: <<tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l'OGGETTO in rapporto al SOGGETTO; in una parola è RAPPRESENTAZIONE>>; l'oggetto per il soggetto; esiste la realtà in quanto rappresentata dal pensiero. Che il mondo sia una nostra rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, è la "verità" della filosofia moderna da Cartesio in poi. Kant ha chiuso il problema dicendo che l'in sé non è conoscibile. Il mondo è rappresentazione. E la rappresentazione ha due metà essenziali, necessarie e inseparabili: l'OGGETTO e il SOGGETTO. Il soggetto è ciò che tutto conosce, è la condizione, sempre sottintesa, di ogni FENOMENO, di ogni oggetto: tutto ciò che esiste, non esiste che in funzione del soggetto. L'OGGETTO, ciò che è conosciuto, è condizionato (come vedremo fra poco) dalle forme a-priori dello spazio e del tempo (sono forme a priori della sensibilità) e causalità sono le forme a priori dell'intelletto: ogni cosa esiste NELLO spazio e NEL tempo. Soggetto e oggetto sono dunque inseparabili: ciascuna delle due metà non ha senso né esistenza se non in riferimento all'altra. Da ciò segue una radicale critica al MATERIALISMO e al REALISMO da un lato, e all'IDEALISMO dall'altro, come dottrine gnoseologiche. Il materialismo è in errore perché nega il soggetto riducendolo a materia; così come il realismo, secondo cui la realtà esterna si rispecchierebbe per quello che è nella nostra mente. Ed è in errore anche l'idealismo (ad es. Fichte), perché nega l'oggetto riducendolo al soggetto. Tuttavia l'idealismo, depurato da tutte le assurdità (es. la "creazione" dell'oggetto) elaborate dai "filosofi dell'Università" (primo fra tutti Hegel), è inconfutabile nel momento in cui sostiene che il mondo è una mia rappresentazione. La verità è che <<non può in alcun modo darsi un'esistenza assoluta (realtà indipendente dal soggetto che la possa pensare) e in se stessa obiettiva (cioè oggettiva); essa è impensabile. Tutto ciò che è obiettivo ha sempre ed essenzialmente, come tale, la sua esistenza nella coscienza di un soggetto, ed è quindi la sua rappresentazione: è condizionato dal soggetto e dalle sue forme rappresentative>>. Tali forme a-priori della coscienza sono, per S., il TEMPO, lo SPAZIO e la CAUSALITÀ (la causalità è l'unica categoria dell'intelletto ripresa da Kant). Spazio e tempo sono, così come per Kant, forme a-priori della rappresentazione (Kant le chiamava intuizioni pure): ogni nostra sensazione e percezione di oggetti è spazializzata e temporalizzata. L'intelletto interviene su queste sensazioni e percezioni ordinandole in un "cosmo" conoscitivo attraverso la categoria della CAUSALITÀ (l'unica mantenuta da S. delle dodici categorie previste da Kant). Attraverso la legge di causalità, la sensazione soggettiva si trasforma in un'intuizione obiettiva. Infatti è tramite la categoria della causalità che gli oggetti spazio-temporali vengono posti l'uno come causa e l'altro come effetto, tanto che l'intera esistenza degli oggetti come tali, si riferisce al loro necessario rapporto causale. Insomma: rappresentare gli oggetti nello spazio e nel tempo vuol dire che la rappresentazione di un oggetto è sempre rappresentazione degli effetti che la sua azione (la sua causalità) produce, che sono rilevabili appunto attraverso lo spazio e il tempo. La realtà della materia si esaurisce dunque nella sua causalità, tanto che WIRKLICHKEIT (realtà) deriva da WIRKEN (agire). Già nello scritto "Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente" (1813) S. aveva posto in rilievo il principio di causalità (che poi chiama con termine Leibniziano "principio di ragion sufficiente") distinguendone quattro forme: 1) il principio di ragion sufficiente dal DIVENIRE (che rappresenta la causalità tra gli oggetti naturali), 2) il principio di ragione del CONOSCERE (che regola i rapporti tra i giudizi, in cui la verità delle premesse determina quella delle conclusioni); 3) il principio di ragione dell'ESSERE (che regola le relazioni spazio/tempo e determina le concatenazioni degli enti aritmetici e geometrici); 4) il principio di ragione dell'AGIRE (che regola i rapporti tra le azioni e i loro motivi). Sono queste le quattro forme di necessità causale che strutturano l'intero mondo della rappresentazione: necessità fisica, necessità logica, necessità matematica e necessità morale. Quest'ultima necessità, per cui l'uomo (al pari dell'animale) agisce necessariamente in base a determinati motivi, esclude la libertà della volontà: l'uomo come fenomeno (è inteso in forma illusoria, significato difettivo che non è in Kant e nemmeno ih Hegel) sottostà alla legge degli altri fenomeni.

Non potremmo comprendere la realtà senza mettere in rapporto di causalità spazio e  tempo. La realtà è basata sulla causalità, è reale ciò che produce effetto.


IL MONDO COME VOLONTA'

Differenza sul concetto di fenomeno di Kant. L'intelletto, anche se ordina e categorizza la realtà, purtroppo si ferma lì.

Il mondo, dunque, è una mia rappresentazione. L'intelletto ordina e sistema, attraverso la categoria della causalità, i dati delle intuizioni spazio-temporali, e coglie così i nessi tra gli oggetti, le leggi del loro comportamento. [Vale tuttavia la pena di rilevare una fondamentale differenza tra la gnoseologia kantiana e l'uso che S. ne fa, "appiattendo", per così dire, l'ambito dell'intelletto su quello della sensibilità. Infatti, secondo S., l'INTELLETTO opera già a livello INTUITIVO (cioè sensibile), conferendo alle rappresentazioni (attraverso le forme a-priori di spazio, tempo e causalità) il loro carattere OGGETTIVO. Questa soluzione di S. fa si che il problema gnoseologico sia, per certi versi, ricondotto a termini pre-critici caratteristici dell'empirismo. L'oggetto del quale Kant dimostra la COSTITUZIONE a livello intellettivo-categoriale è infatti l'oggetto universale e necessario della scienza, e da ciò deriva la sua validità oggettiva. L'oggetto che si costituisce invece, secondo l'indicazione schopenhaueriana, a livello intuitivo (di quell'INTUIZIONE INTELLETTUALE tanto deprecata da Kant) è l'oggetto empirico, oggetto di conoscenza individuale, che solo la ragione (ma in modo puramente formale, "analiticamente") universalizza, senza la forza di attribuirgli la necessità derivante dalla sintesi]. Nonostante tutto ciò, l'intelletto non ci porta oltre il mondo sensibile; il mondo come rappresentazione è pertanto solo FENOMENO. Per questo, dice Schopenahuer, non è possibile una reale e netta distinzione tra il SOGNO e la VEGLIA, come è stato riconosciuto dai "VEDA" e i "PURANA" [cioè l'insieme dei testi sacri della rivelazione ("Veda") e delle antiche leggende ("Purama" ) dall'INDUISMO nella sua prima fase. Schopenahuer si riferisce alle "UPANISHAD", cioè alla parte conclusiva dei "Veda", in cui si sviluppa la speculazione mistico-filosofica], che chiamano la conoscenza del mondo "il VELO DI MAYA". Il mondo fenomenico è coperto da un velo, è un'illusione da squarciare. E lo stesso hanno affermato altri autori come Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderon de la Barca (autore del noto dramma "La vita es sueňo"). Insomma: il mondo della rappresentazione non è la COSA IN, è FENOMENO, cioè un oggetto per il soggetto. Ma, mentre per Kant il fenomeno è una rappresentazione che non può cogliere il "noumeno" (la cosa in sé) e perciò è l'unica realtà conoscibile (e, quindi, pur essendo "ciò che mi appare" non è affatto un'apparenza illusoria, tanto da costruire la realtà sulla quale si basa tutta la nostra scienza), per S. il fenomeno è ILLUSIONE e APPARENZA, è "il velo di Maya" che copre il vero volto delle cose, la loro essenza autentica. Ebbene: questa essenza della realtà, cioè il NOUMENO (che per Kant stava ad indicare solo il limite "negativo" della conoscenza), può essere raggiunto ed esperito. L'uomo, infatti, è sì un fenomeno tra gli altri, ma è anche CORPO. Ora: per il soggetto conoscente il proprio corpo è, da un lato, un oggetto tra gli altri oggetti, ma dall'altro, è qualcosa di immediatamente conosciuto e percepito, che S. chiama VOLONTÀ. Poiché siamo dati a noi stessi non solo come rappresentazio 747f54h ne, ma anche come corpo, non ci limitiamo a "vederci" DAL DI FUORI, ma ci "viviamo" anche DAL DI DENTRO, godendo e soffrendo. Ed è proprio questa esperienza di base che permette all'uomo di "squarciare" il velo del fenomeno e di afferrare la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci su noi stessi, ci rendiamo conto che l'essenza profonda del nostro io, o meglio, la cosa in sé del nostro essere globalmente considerato, è la brama o la "VOLONTÀ DI VIVERE" (WILLE ZUM LEBEN), cioè un impulso prepotente e irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. Più che intelletto o conoscenza, noi siamo vita e volontà di vivere, e il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore dell'insieme delle nostre brame interiori. Non solo: l'intero mondo fenomenico non è altro che la maniera attraverso cui la volontà si manifesta o si rende visibile a se stessa nella rappresentazione spazio-temporale. Infatti, l'immersione nel profondo di noi stessi ci fa scoprire che noi siamo volontà, ma simultaneamente ci fa ritrovare come parti di quell'unica volontà, di quel cieco e irresistibile impeto, che pervade e si agita per tutto l'universo: tutta l'universalità dei fenomeni, ha una sola identica essenza: la volontà. E questa volontà di vivere che pervade ogni essere della natura si manifesta in forme distinte e secondo gradi di consapevolezza diversi. Il grado più basso dell'oggettivazione della volontà è costituito dalle forze generali della natura. I gradi successivi sono le piante e gli animali, il grado più alto, in cui culmina tutta la piramide, è l'uomo, nel quale la volontà diviene pienamente consapevole. Ma innanzitutto la volontà primordiale è INCONSCIA, poiché l'intelletto e la consapevolezza costituiscono solo una delle sue possibili manifestazioni; di conseguenza, il termine volontà, qui, non si identifica con quello di volontà cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di impulso (e in questo senso si comprende perché S. attribuisca la volontà anche alla materia inorganica e ai vegetali). In secondo luogo, la volontà è UNICA, poiché esistendo al di fuori dello spazio e del tempo, che hanno la prerogativa di dividere e distinguere gli enti molteplici, si sottrae a quello che i filosofi del Medioevo chiamavano "PRINCIPIO DI INDIVIDUAZIONE". Infatti la volontà non è né qui né là, né prima né dopo, ma sempre e ovunque: essendo oltre la forma del tempo, la volontà è ETERNA, incausata e indistruttibile. È una forza libera e cieca, un'energia irrazionale senza uno scopo e senza un perché. Inoltre essa spinge alla lacerazione, ad una lotta senza sosta che si acuisce nella cosciente azione dell'uomo a soggiogare e a sfruttare la natura da un lato, e nel crudele scontro tra i diversi individui dall'altro.



Una volta lacerato il velo di Maya possiamo attingere alla cosa in sé, attraverso il corpo vissuto, non come organismo. Noi scopriamo che l'essenza del corpo vissuto è la volontà di vita che permea tutto l'universo, non ha nessun perché, nessun motivo, semplicemente permea di sé tutte le cose, anche l'uomo. Nell'uomo tutto questo genera tensione che è consapevole, che rende più sofferente l'esistenza dell'uomo, il più sofferente; e tanto più ne è consapevole più è sofferente.

La condizione di volontà, desiderio implicano tensione e quindi dolore. Il dolore è ontologicamente positivo. Il piacere è ontologicamente negativo e esiste solo in funzione derivata del dolore.

Nel momento di transito tra dolore e appagamento c'è la noia. Il piacere è un momento molto breve e serve per farti vivere ancora un po' ma così soffri.


IL DOLORE, IL PIACERE E LA NOIA

Non c'è piacere senza dolore, ma il dolore è anche senza piacere. Il dolore riguarda ogni creatura, ma nell'uomo è di più. la volontà è cieca, non ha uno scopo. La volontà è la cosa in sé di Schopenhauer e deve essere mantenuta e l'individuo è lo strumento della cosa in sé; è l'essenza del mondo che deve mantenersi.

L'amore è pura fisicità, serve a creare esseri sofferenti. Gli uomini sono gli unici consapevoli della funzione dell'amore, sono quelli che mettono al mondo sofferenti e per questo ne fanno una colpa.

Il fatto che ci sia un Dio provvidente è una cosa priva di senso.

L'essenza del mondo è volontà insaziabile, cioè conflitto, lacerazione e quindi DOLORE. E <<man mano che la coscienza diviene più distinta, che la conoscenza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge nell'uomo il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l'uomo è intelligente: l'uomo di genio è quello che soffre di più>>. Inoltre volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione continua, perché ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza e un'insoddisfazione del proprio stato, da un soffrire; e nessuna soddisfazione è durevole, anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere, e di un nuovo soffrire, senza misura e senza tregua. Dice S.: <<nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole. bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento e la sua agonia>>. L'uomo, essendo l'oggettivazione più perfetta della volontà di vivere, è anche il più bisognoso degli esseri: egli non è che una "concrezione di bisogni". La realtà è che <<la vita non è che una lotta continua per l'esistenza, con la certezza di una disfatta finale>>. Di più: la vita è solo una "morte rinviata", e alla fine la morte deve vincere. E questo "veleggiare verso il naufragio" si traduce in un PENDOLO che oscilla continuamente tra NOIA e DOLORE. Vediamo come. La vita è bisogno e dolore, se il bisogno viene soddisfatto, allora si piomba nella sazietà e nella noia: <<il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova, e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia>>. Per di più ciò che gli uomini chiamano godimento e gioia è nient'altro (come avevano sostenuto Pietro Verri e Giacomo Leopardi) che una CESSAZIONE di dolore, ossia lo scarico di una situazione preesistente di tensione, che ne rappresenta la condizione indispensabile. Infatti, perché ci sia PIACERE bisogna per forza che ci sia uno stato preesistente di dolore (ad es. il godimento del bere presuppone la sofferenza della sete). La stessa cosa non vale tuttavia per il dolore, che non può essere affatto ridotto a cessazione di piacere, poiché un individuo può sperimentare una catena di dolori, senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri; viceversa ogni piacere nasce solo come cessazione di una qualche preesistente tensione fisica o psichica: <<non v'è rosa senza spine, ma vi sono parecchie spine senza rose!>> Di conseguenza, mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, che è la struttura stessa della vita, è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore. E a questo punto, S. giunge a una delle più radicali forme di PESSIMISMO COSMICO: TUTTO SOFFRE. Poiché la volontà di vivere, che è un desiderio perennemente inappagato e sempre rinnovantesi, si manifesta in tutte le cose, il dolore non riguarda soltanto l'uomo, ma investe ogni creatura. E in questa vicenda irrazionale della vita cosmica, l'individuo appare soltanto uno strumento per la specie. Di conseguenza, al di là del breve sogno dell'esistenza individuale, l'unico fine della natura sembra essere quello di perpetuare la vita, e, con la vita, il dolore. Il fatto che alla natura interessi solo la sopravvivenza della specie, trova una sua manifestazione emblematica nell'AMORE. Il fine dell'amore, o lo scopo per cui esso è voluto dalla natura, è solo l'accoppiamento, che mira alla perpetuazione della vita. Manifestazione dell'essenza "biologica" dell'amore è la triste constatazione che la donna, dopo aver adempito alla procreazione e all'allevamento dei figli, perde ben presto avvenenza e attrattiva. Perciò non c'è amore senza sessualità. Ed è per questo che l'amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come "peccato" e "vergogna". Esso commette infatti il peggiore dei delitti: la perpetuazione di altre creature destinate a soffrire. E così nascono infiniti uomini "condannati alla vita", in cui l'infelicità è la regola.





CONTRO L'OTTIMISMO

La stria è sempre una tragedia, cieco caso, non c'è nessun senso, nessuna razionalità, nessuna provvidenza. Tutte le cose vengono intese come strumenti per la vita dell'uomo.

La polemica di S., trova uno dei suoi bersagli preferiti nell'OTTIMISMO COSMICO che circola in buona parte delle filosofie e delle religioni dell'Occidente, ossia in quello schema di pensiero che interpreta il mondo come un organismo perfetto, provvidenzialmente governato da un Dio oppure da una "ragione" immanente (Hegel). In realtà questa visione consolatrice, risulta, per S., palesemente falsa, poiché la vita è un'esplosione di forze sostanzialmente irrazionali, ed il mondo, anziché essere il regno della logica e dell'armonia, è il teatro dell'illogicità e della sopraffazione. Contestando le religioni, che egli definisce "metafisiche per il popolo", e i sistemi positivistici e provvidenzialistici, S. perviene ad abbozzare le linee di un ateismo filosofico che sarà ripreso in forma originale da Nietzsche.

A)    Un'altra "menzogna" contro cui si scaglia S. è l'OTTIMISMO SOCIALE, cioè la tesi della bontà e socievolezza dell'uomo. Se non si vuol continuare a confondere le proprie illusioni da adolescenti con la realtà, si deve ammettere, secondo S., che la regola di fatto dei rapporti umani è sostanzialmente il conflitto e il tentativo di sopraffazione reciproco. L'uomo è una belva feroce. Di più: <<l'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrire. Gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro fame, o nel furore della lotta>>.

B)    Un altro aspetto della dottrina di S. che lo contrappone radicalmente all'intera cultura dell'Ottocento, è la polemica contro ogni forma di STORICISMO (ottimismo storico). Contro idealismo, materialismo storico ed evoluzionismo positivistico e i loro dogmi storicistici, S. è il primo "disertore" dell'Europa e della sua fede nella storia. Dallo studio degli avvenimenti del passato, egli dice, risulta evidente la costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non cambia l'essenza delle cose, ma solo la loro facciata accidentale e superficiale. La vita è dolore e la storia è cieco caso: il progresso è un'illusione. La storia non è (come pretende Hegel) razionalità e progresso; ogni finalismo e qualsiasi ottimismo sono ingiustificati. La storia è "DESTINO", è il tragico ripetersi della stessa vicenda in forme diverse.



LE VIE DI LIBERAZIONE DAL DOLORE


Con Calderon, S. sostiene che <<il delitto maggiore dell'uomo è l'esser nato>>. Di conseguenza, si potrebbe pensare che il sistema di S. metta capo ad una filosofia del "suicidio universale". Invece S. rifiuta e condanna il SUICIDIO (non è una soluzione, è contro la propria condizione di vita, che alimenta la volontà di vita universale) per due motivi di fondo: 1) perché il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa, in quanto il suicidio vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate; per cui anziché negare veramente la volontà, egli nega piuttosto la vita; 2) perché il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia UNA manifestazione fenomenica della volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri. Di conseguenza, secondo S., la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell'eliminazione, tramite il suicidio, di una vita o più vite, ma nella LIBERAZIONE della stessa volontà di vivere. Dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell'esistere, nascono le varie "tappe" della liberazione, che S. articola in tre momenti essenziali: l'arte, la morale, l'ascesi.


A) L'ARTE. Il mondo come fenomeno è rappresentazione, ma nella sua essenza è volontà cieca e irrefrenabile, perennemente insoddisfatta. Ma quando l'uomo, inabissandosi nel proprio intimo, arriva a capire questo (che la realtà è volontà e che egli stesso è volontà) allora egli è pronto per la sua redenzione: e questa può darsi solo col CESSARE DI VOLERE. Il primo momento di questo cammino è quello dell'ARTE. Nell'esperienza estetica, infatti, l'individuo si stacca dalle catene della volontà, si allontana dai suoi desideri, annulla i propri bisogni: non guarda gli oggetti per quel che possano essergli utili o nocivi. Qui l'uomo si annienta come volontà, e si trasforma in "PURO OCCHIO DEL MONDO" (puro soggetto contemplativo), si immerge nell'oggetto e dimentica se stesso e il suo dolore. E questo puro occhio del mondo è libero e disinteressato (l'unico sguardo veramente libero è disinteressato), non vede più oggetti che sono per me utili o nocivi, ma scorge IDEE, essenze, modelli delle cose (Platone), al di fuori dello spazio, del tempo e della causalità. Il soggetto, nell'esperienza estetica, coglie le idee esterne, contempla gli aspetti universali della realtà, l'essenza immutabile dei fenomeni. L'arte esprime, oggettiva, l'essenza delle cose, e proprio per questo ci aiuta a distaccarci dalla volontà. Nell'arte noi non siamo più consapevoli di noi stessi, ma solo degli oggetti intuiti. L'intuizione estetica è l'annullamento temporaneo della volontà, e quindi del dolore; in essa l'uomo più che vivere, contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo. Fra le varie arti (dall'architettura alla scultura, dalla pittura alla poesia) spicca la TRAGEDIA che è l'autorappresentazione del dramma della vita. La tragedia OGGETTIVA la volontà, e chi contempla (il soggetto) ne è, in certo modo, fuori. Essa <<esprime ed oggettiva il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la signoria del caso, il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti>>, e in questo modo ci permette di contemplare la natura del mondo. Posto a sé occupa invece la MUSICA. Infatti essa non riproduce mimeticamente le idee, come le altre arti, ma si pone come immediata rivelazione della volontà stessa. La musica è l'arte più profonda ed universale: una vera e propria "metafisica in suoni" capace di metterci a contatto, al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse della vita e dell'essere. Essa, a differenza delle altre arti, (che si esprimono sempre attraverso la rappresentazione di oggetti sensibili), non ha bisogno di alcun supporto sensibile, oggettiva la volontà com'è in se stessa. La musica ci fa puri soggetti contemplanti che, mentre contemplano, non vogliono, e quindi non soffrono. Ogni arte è quindi liberatrice: poiché il piacere che essa procura è la cessazione del bisogno, raggiunta attraverso lo svincolarsi della conoscenza dalla volontà, e il suo porsi come disinteressata contemplazione. Ma la funzione liberatrice dell'arte è pur sempre temporanea e parziale ed ha i caratteri di un gioco effimero o di un breve incantesimo. Essa non è una via per uscire dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa. La via della redenzione presuppone quindi altri sentieri.



L'oggetto in quanto artistico viene visto per la sua bellezza e non più per la sua utilità.

L'arte è il primo tentativo di liberazione dal dolore attraverso la contemplazione estetica, quando ci si distacca dal mondo e ci pone al di fuori del processo di volontà. Gli oggetti d'arte vengono contemplati non perché dannosi o utili ma nella loro forma artistica.



B) L'ETICA DELLA PIETÀ. L'etica non è un passo definitivo; non si pone al di fuori della volontà, ma ci permette di oltrepassare la volontà individuale. L'unica possibilità di annullare il dolore è quella di annullare la volontà, che è l'ultimo passaggio. A differenza della contemplazione estetica, che è un estraniarsi trasformato DALLA realtà, la morale implica un impegno NEL mondo a favore del prossimo. Questo impegno permette di distaccarsi dalla propria volontà, dalla volontà di vita. Infatti, l'etica è un tentativo di superare l'egoismo (propria volontà) e di vincere quella lotta incessante degli uomini fra loro che costituisce l'ingiustizia e che rappresenta una delle maggiori fonti di dolore. Il momento del dolore è determinato dalla volontà che porta la lotta per la vita. Pur riconoscendo, con Kant, che il "disinteresse" forma il cuore della moralità, S., contro Kant, sostiene che l'etica non sgorga da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un SENTIMENTO di "PIETÀ" (secondo la tradizione inglese) attraverso il quale sentiamo come NOSTRE le sofferenze degli ALTRI. L'etica è fondata sul sentimento di condivisione. Di conseguenza, la pietà non nasce da un ragionamento astratto, ma da un'esperienza vissuta, mediante la quale, squarciando i veli del nostro egoismo, giungiamo a identificarci col tormento del prossimo. La pietà è l'amore disinteressato verso esseri che portano la nostra stessa croce e vivono il nostro medesimo tragico destino; essa è dunque, propriamente COMPASSIONE (PATIRE-CON, SENTIRE-INSIEME), un sentire l'altrui dolore attraverso la comprensione del nostro. Anche qui quello che faccio lo faccio disinteressatamente e mi pongo fuori dalla mia volontà. L'amore disinteressato, dettato dalla pietà, è l'elemento centrale dell'etica. La compassione è dunque la vera pietà (CHARITAS cristiana). Tramite la pietà, sperimentiamo quell'UNITÀ METAFISICA di tutti gli esseri (mi unifico con il mondo stesso, mi sento parte di una totalità), che la filosofia teorizza, e che i testi delle "Upanishad" esprimono con la sacra formula "Tat twan asi" ("questo vivente sei tu", sei identico al tutto), facendoci capire come il tormentatore e il tormentato, distinti fenomenicamente, siano noumenicamente (cioè nella loro essenza), una stessa realtà. Solo per un sogno illusorio il malvagio si crede separato dagli altri e dal loro dolore. In realtà l'ingiusto, il violento, che opprime l'altro uomo, è lo strumento passivo della volontà che lo domina. Anche lui agisce secondala prospettiva della volontà. Nel momento in cui agisco per la pietà, mi libero della volontà in me e mi libero da essa. L'egoismo punta sull'individuale proprio perché esegue un comando anonimo: quello della volontà. Viceversa, ai suoi massimi livelli, la pietà consiste nell'assumere su di sé il dolore cosmico (sentire con tutto il resto). In ogni caso, però, anche la pietà, cioè il compatire, è pur sempre un PATIRE (non vado oltre il dolore, lo patisco con gli altri, non sono nolente) un rimanere invischiati all'interno della vita. Vincere nell'esistenza la volontà di vivere, significa creare un'esistenza che sia l'occasione per una negazione della volontà, progettare la propria NON-VITA, cioè non - volontà, codificare il rifiuto di sé al mondo: è questa l'ASCESI. Solo negando la volontà posso negare il dolore.


C)    L'ASCESI. L'ascesi, che nasce dall'orrore dell'uomo per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore, è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere, di volere. Essa è <<il deliberato infrangimento della volontà (cioè mi propongo come scopo di non volere), mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole (La volontà è ricerca di appagamento, ma questo crea dolore. Se cerco lo spiacevole vado contro la mia volontà ( nolente, non vita)), l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà. Il primo passo dell'ascesi è la CASTITÀ perfetta (perché anche il desiderio sessuale è volontà di vita), che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere: l'impulso alla generazione e alla propagazione della specie. La rinuncia ai piaceri, l'umiltà, la povertà, la solitudine, il sacrificio, l'insuccesso, l'automacerazione sono le altre manifestazioni dell'ascetismo. L'asceta è il protagonista di questa trasgressione di valore metafisico. L'asceta è l'unico trasgressore della vita. Egli procede ad un annichilimento (annullamento) di tutte suggestioni delle scene del mondo attraverso le quali la volontà esercita il suo dominio. Nel suo cuore tace ogni rumore del mondo, il mondo non mi richiama più. Nell'ascesi la VOLONTÀ diventa "NOLONTÀ", che più che un atto è uno STATO (non è un agire, è non-agire): lo stato di chi ha annullato in sé ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato dall'ordine degli eventi mondani. In altre parole, la coscienza del dolore non è un MOTIVO, ma un QUIETIVO del volere, capace di vincere le tendenze naturali dell'individuo. Quando ciò succede, l'uomo diviene libero dalla volontà, dalla vita, dal dolore, si rigenera ed entra in questo stato che i cristiani chiamano di GRAZIA, ma Schopenhauer è ateo. Tuttavia, mentre nei mistici del Cristianesimo l'ascesi si conclude con l'ESTASI (EX STASI stare fuori dal mondo e stare con Dio) (ineffabile stato di unione con Dio), nel misticismo ateo di S., il cammino nella salvezza mette capo al "NIRVANA" (zero sentire) buddista: l'esperienza del NULLA. Un nulla che però non è il NIENTE, bensì un nulla RELATIVO al mondo (è il nulla rispetto al mondo), cioè una NEGAZIONE del mondo stesso. In altre parole, se il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze e i suoi rumori, è un nulla, il nirvana per l'asceta è un "TUTTO", cioè un oceano di pace, in cui si dissolvono le nozioni stesse di "IO" e di "SOGGETTO". Il primo elemento di dominio di volontà è percepire se stessi come un io diverso dagli altri.






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