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Tra liberalismo e comunitarismo

politica



Tra liberalismo e comunitarismo



".non possiamo mai né atteggiarci

a difensori radicali del multiculturalismo

o dell'individualismo,

né essere semplicemente

comunitaristi o liberali,

modernisti o postmodernisti;

dobbiamo essere, al contrario,

ora una cosa ora l'altra,

a seconda delle circostanze



legate alla ricerca dell'equilibrio"1



I. 1 Introduzione


Il dibattito tra liberali e comunitaristi sta dominando lo scenario filosofico-politico contemporaneo, e in particolare il ramo che si occupa dell'elaborazione delle "teorie della giustizia".

Questi due movimenti intellettuali non hanno un'origine simultanea ed autonoma, in quanto il comunitarismo è un fenomeno molto più recente, che risale approssimativamente alla fine degli anni settanta e all'inizio degli anni ottanta, e soprattutto nasce come vera e propria "sfida" ai presupposti fondamentali del liberalismo, considerato nella sua globalità, come teoria filosofico-politica della democrazia, della giustizia, dell'individuo e della società.

Autori comunitaristi, come Michael Sandel, Alasdair MacIntyre, Charles Taylor e, sotto certi aspetti Michael Walzer, criticano aspramente la risposta che i liberali offrono alla crisi che attanaglia le società contemporanee, crisi che si esplica in una sempre più labile integrazione sociale e in una crescente conflittualità tra gruppi e dissociazione di individui.

Nonostante la critica comunitarista alle concezioni liberali coinvolga svariati fronti, ci soffermeremo, per necessità di analisi, su tre questioni fondamentali : la critica della concezione del sé presupposta dal liberalismo; la critica della neutralità della giustizia e della priorità del giusto sul bene; la critica della tolleranza intesa in senso liberale.







I. 2 Critica della nozione liberale del sé


Uno degli aspetti più contestati dagli autori comunitaristi è rappresentato dalla tesi presupposta dal liberalismo, in base alla quale l'individuo è in grado di essere razionale semplicemente aderendo a principi teorici, privi di connotati storici o contestuali.[3]

In particolare, ci si riferisce al cosiddetto "unencumbered self" elaborato da John Rawls nella sua opera fondamentale " A Theory of Justice" ; il filosofo infatti, al fine di individuare dei principi di giustizia che siano il più possibile "incontaminati" da giudizi di valore particolaristici e contestuali, elabora la nozione di soggetto, appunto, "unencumbered", ossia libero, non radicato in alcun cemento e collocato nella cosiddetta "posizione originaria". Tale individuo, secondo Rawls, ha soltanto due facoltà: la ragione e il desiderio di giustizia, che gli permetterebbero di compiere delle scelte eque, nel rispetto dei suoi simili.

In questa costruzione, il sé è "antecedentemente individuato", in grado cioè di acquistare un'identità prima di entrare a far parte di qualsiasi entità collettiva, prima del rapporto con l'altro e prima di iniziare a perseguire qualsiasi fine specifico: ciò che costituisce la sua essenza infatti, non sono i suoi fini, bensì la sua razionalità e la capacità di fare delle scelte giuste.

Questa costruzione rawlsiana del sé è stata criticata dai filosofi comunitaristi, i quali mettono in evidenza come l'individuo ipotetico di Rawls non sia altro che un soggetto astratto, dato che nessuno di fatto può arrivare a considerarsi completamente sradicato dal proprio passato, dalla comunità di appartenenza e dai propri fini. Ciò che costituisce la vera essenza dell'individuo è, secondo i comunitaristi, non solo la razionalità con cui si effettuano delle scelte eque, ma soprattutto il complesso processo interpretativo che sta dietro a quelle scelte, e che riflette il nostro particolare sistema di valori. Tale sistema, tra l'altro, non è solo il prodotto di un'attività valutativa individuale, in quanto viene continuamente influenzato e plasmato dalle particolari comunità in cui siamo inseriti.

Di fronte a queste critiche, la concezione liberale del sé è stata ripresa e ridimensionata. Ciò ha portato ad un generale rinnovamento della teoria politica liberale nel corso degli ultimi due decenni; in particolare, Rawls rielabora il suo concetto di "individuo ipotetico" e quindi, nel complesso, anche la sua teoria della giustizia: da insieme di soggetti autonomi e scardinati dal contesto sociale ed istituzionale in cui sono inseriti, la società "giusta" teorizzata da Rawls diventa ora il risultato di un denominatore comune, di un consenso, cosiddetto, "per sovrapposizione" (overalpping consensus). Rawls dunque riconosce l'eccessiva astrattezza della sua precedente teoria e prende atto di una realtà che va sempre più caratterizzando le società contemporanee: quella del pluralismo di valori e ideologie.

In risposta a questo stato di cose, egli non propone la ricerca di un accordo di base tra le varie dottrine, ma di un consenso costituito solo dai punti in comune che esse hanno, e che rappresentano, secondo l'autore, i principi politici di giustizia, neutrali rispetto a tutte le concezioni che hanno contribuito a formarli. Come ribadisce Ferrara, "La giustizia come equità è una concezione politica e non metafisica in quanto poggia non più sulla razionalità decontestualizzata della rational choice quanto sulla contingente esistenza di un overlapping consensus" .










I Critica della neutralità liberale


La caratteristica che accomuna tutti gli autori liberali, per quanto diversi possano essere i loro campi di indagine e le conclusioni a cui giungono, è l'idea che le norme, i principi e le istituzioni che regolano una società giusta debbano essere "neutrali", privi cioè di qualsiasi adesione a valori, assunti culturali e contesto storico in cui si esplicano.

Nonostante la diversa enfasi posta su questo aspetto dalle teorie liberali cosiddette neutraliste, rispetto a quelle perfezioniste , i liberali tendono a sostenere una visione di società democratica retta da un regime, per così dire, "depurato" il più possibile da sistemi di valore particolaristici, in vista dell'irriducibile diversità delle concezioni del bene nelle società contemporanee.

Da questa nozione di neutralità discende un altro principio fondamentale assunto dalle teorie liberali: quello della priorità del giusto sul bene. Le questioni di giustizia cioè, dovrebbero sempre avere la precedenza rispetto alle diverse interpretazioni di bene comune o, più precisamente, la giustizia può e deve essere definita ed identificata a prescindere dalle concezioni alternative del bene.[8]

I comunitaristi hanno aspramente criticato anche la concezione liberale di neutralità, sotto diversi aspetti. Innanzitutto, ci si chiede se sia effettivamente possibile realizzare un insieme di principi e istituzioni che possa essere definito neutrale. Michael Walzer ad esempio, sottolinea come, nelle diverse sfere, i principi distributivi riflettano sempre i significati che i beni oggetto della distribuzione hanno assunto all'interno della società. I diritti, le norme ed i principi di giustizia distributiva non possono dunque essere identificati in via del tutto autonoma rispetto alle concezioni di bene, dal momento che esiste tra di essi una stretta interrelazione, della quale si deve tener conto nella risoluzione dei problemi distributivi.

In secondo luogo, alcuni autori mettono in evidenza come la neutralità sostenuta dai filosofi liberali non possa in realtà definirsi propriamente tale, in quanto essa riflette i valori della cultura liberale, individualista, laica e razionalista, e mira ad escludere quelli prodotti da culture che si distaccano da questa ottica.

Infine, anche ammesso che sia possibile realizzare un sistema di norme e principi neutrali secondo la proposta liberale, i comunitaristi si chiedono se ciò sia comunque desiderabile: una società caratterizzata da un elevato grado di neutralità rischierebbe inevitabilmente di svuotarsi di valori ed ideali, nonché di appiattire e sterilizzare le differenze ideologiche, culturali e religiose che la compongono.

I. 4 Critica della tolleranza liberale


Il terzo aspetto proprio della prospettiva liberale che viene contestato dai comunitaristi è strettamente connesso a quello precedentemente analizzato: l'idea di tolleranza, intesa in senso liberale, è una conseguenza diretta della neutralità che, secondo essi, dovrebbe caratterizzare le istituzioni e i principi politici. La base morale del liberalismo è costituita dai valori della tolleranza e dell'imparzialità, cioè dal rispetto delle diverse visioni del bene e del giusto, derivanti dalla varietà di ideologie, religioni, o costumi che convivono nelle società democratiche e pluraliste.

Nell'ambito del pensiero liberale tuttavia, si possono distinguere due diversi filoni, i quali, nel sostenere il valore della tolleranza, si muovono su terreni e sfumature differenti. Un primo gruppo di teorie liberali è quello più tradizionale, che la Galeotti definisce "neutralista"[12]; nel suo ambito è collocabile, come uno dei maggiori esponenti, proprio Rawls, le cui teorie riflettono un ideale di società in cui diverse visioni del bene riescono a convivere grazie a comuni regole di giustizia. Nella definizione di queste regole infatti, ognuno viene invitato a contribuire con il proprio mondo, i propri valori, le proprie nozioni di bene, al fine di riuscire a delineare i confini del cosiddetto "overlapping consensus".

A fianco di questa concezione tipicamente neutrale, è possibile riscontrare una versione alternativa, che tende a presentare il liberalismo come teoria collegata al bene. Autori come Ronald Dworkin , Joseph Raz e Brian Barry hanno contestato l'interpretazione del liberalismo come contenitore neutrale delle diverse visioni morali sostenute dai cittadini, per difenderlo invece come una particolare visione morale, migliore delle altre. La prospettiva liberale, in base a questa versione, non si riduce soltanto a un insieme di regole procedurali che assicurano equilibrio in una società sempre più differenziata, e per questo non va difesa con l'argomentazione della sua presunta neutralità. Essa, al contrario, si fa espressione di uno spessore morale ben preciso, incentrato sul valore della razionalità, dell'individualità, dell'autonomia e della libertà. Partendo da queste diverse premesse, la tolleranza non deve essere sostenuta come conseguenza logica di un regime neutrale, ma piuttosto in quanto rappresenta anch'essa parte del nucleo valoriale e dell'essenza etica del liberalismo.

Entrambe queste versioni, neutralista e perfezionista, pur partendo da premesse e principi diversi, giungono comunque ad una conclusione omogenea, cioè alla tolleranza della diversità, intesa nel senso più ampio del termine, come diversità di razza, di cultura, di religione, di credo politico, ecc. Uno degli elementi caratterizzanti il liberalismo dunque, è proprio la tolleranza, che implica un rapporto con chi è diverso da noi, ma si trova a vivere nel nostro stesso spazio sociale.

I critici comunitaristi contestano anche questo terzo aspetto del liberalismo, affermando che la tolleranza non comporta soltanto i vantaggi della convivenza pacifica tra diversi individui, ma anche il rischio di un eccessivo allentamento dei legami nell'ambito delle varie identità collettive. Come sottolinea anche Ferrara, il comunitarismo sembra estendere la tolleranza solo in senso unidirezionale, solo cioè verso chi appartiene al gruppo, all'entità collettiva . Ciò non significa che i comunitaristi propongano come alternativa un atteggiamento di intolleranza integralista, bensì rivendicano una maggiore attenzione verso tutti quegli elementi che possono in qualche modo produrre identificazione in un gruppo e partecipazione tra i suoi membri (simboli, valori morali condivisi, tradizioni morali e religiose, ecc.)

La tolleranza liberale tuttavia, ha ricevuto anche un altro tipo di critica, da un fronte completamente diverso: quello dei critici di stampo individualistico e post-moderno. Anche questo gruppo di filosofi contesta l'atteggiamento di benevola e rilassata indifferenza nei confronti dell'altro, che sembra essere presupposto dalla tolleranza liberale; ciò che essi propongono tuttavia, è profondamente diverso dalla soluzione comunitarista, vale a dire un incoraggiamento attivo della differenza e del suo manifestarsi, un atteggiamento di apertura ed approvazione di tutto ciò che è diverso, perché è soltanto attraverso il pluralismo ed il confronto con l'altro che la società può veramente riuscire a crescere ed essere libera. Pensatori come Whitman, Emerson e Thoreau hanno preceduto questo atteggiamento di sostegno entusiastico della differenza, che oggi è stato fatto proprio dal post-modernismo: essi invitano a comunicare con la brulicante differenza, al fine di comprendere le infinite possibilità espressive dell'individuo, che è sempre reversibile e suscettibile di arricchirsi attraverso l'altro .



I. 5 Michael Walzer: un esempio di "pensiero trasversale" al dibattito


Dopo aver delineato i punti fondamentali del pensiero liberale, nonché quelli della critica comunitarista, ritengo opportuno offrire alcune riflessioni riguardo alle conclusioni raggiunte nell'ambito di questo dibattito, che ha profondamente influenzato gli sviluppi contemporanei della teoria politica.

Ritengo innanzitutto necessario puntualizzare che i due filoni, liberale e comunitarista, non sono, al contrario di quanto potrebbe sembrare, diametralmente opposti nelle loro linee fondamentali. I due modelli piuttosto, traggono origine dalla stessa tradizione di pensiero: quella cioè, basata sui diritti individuali fondamentali, garantiti attraverso costituzioni democratiche, sulla necessaria separazione tra sfera pubblica e sfera privata, sulle garanzie offerte dal pluralismo dei poteri. Ciò che costituisce l'oggetto della disputa tra liberali e comunitaristi è quindi una questione più sottile, vale a dire l'inquadramento di tutte queste premesse in un contesto più o meno atomistico, più o meno incentrato sull'individuo o sulla comunità.

Ciò che sembra emergere dall'analisi di questo dibattito è l'esistenza di significativi limiti e debolezze da entrambe le parti; da un lato, i liberali contemporanei risultano criticabili per il carattere illusorio della loro versione di neutralità e, in generale, per l'adozione di un modello di razionalità procedurale ed acontestuale. I comunitaristi, a loro volta, nel corso della loro critica, non riescono a fornire una soddisfacente definizione di comunità, una nozione cioè che sia adeguata alla moderna realtà del pluralismo e della diversità. Come è possibile infatti, conciliare l'idea comunitarista di gruppo compatto ed aggregato con un contesto sociale sempre più differenziato culturalmente?

Quesiti di questo tipo non trovano soluzione nell'ambito del dibattito tra liberali e comunitaristi, ma piuttosto sembrano ricevere delle risposte interessanti da parte di alcuni autori che, appunto, si collocano in una posizione trasversale rispetto ai due diversi campi; esempi di questo tipo sono rappresentati da Ronald Dworkin e Michael Walzer, anche se in realtà essi si definiscono rispettivamente liberale e comunitarista. Entrambi questi autori si pongono in una prospettiva contestuale e particolaristica nell'analizzare i principi di giustizia nelle varie società: evitano cioè di dettare delle norme o principi di valore assoluto, che siano validi una volta per tutte in ogni tipo di comunità, e sottolineano invece l'estrema importanza del contesto storico e della particolare identità che caratterizza un certo gruppo, e lo contraddistingue dagli altri.

Partendo da tali premesse poi, Michael Walzer sviluppa nelle sue teorie il concetto di comunità di individui e sottolinea la necessità di riconoscersi reciprocamente come esseri umani, molto diversi, ma anche "manifestamente simili" . Questo autore, in linea con i filosofi comunitaristi, suggerisce un rafforzamento dei legami comunitari per la risoluzione delle tendenze disgregatrici ed atomizzanti che caratterizzano in particolare il mondo contemporaneo. Nel fare ciò però, Walzer si distacca in parte dal modello comunitarista, in quanto afferma la necessità di partire dagli individui, e non dal gruppo. Egli, in particolare, osserva che, nelle società contemporanee debbano esistere delle entità che occupano una posizione intermedia tra l'individuo e lo Stato e che rappresentano la linfa vitale della società civile: varie associazioni, famiglie, comunità etniche o religiose, partiti politici, movimenti sociali, sindacati, ecc. Il carattere necessario di tali entità è però, secondo Walzer, la capacità di attrarre individui e di permettere loro di riconoscersi in esse: se questa condizione viene a mancare è giusto, anzi doveroso, che gli individui le abbandonino liberamente. Come Walzer stesso riconosce in una recente intervista , la sua versione del comunitarismo è di tipo liberale, in quanto egli sottolinea proprio il carattere volontario delle associazioni ed il diritto di defezione o di secessione, che gli individui devono poter esercitare in piena autonomia.

A questo punto, dopo aver delineato il modo in cui Michael Walzer si colloca rispetto al dibattito contemporaneo tra liberali e comunitaristi, e le premesse fondamentali del suo pensiero e del suo approccio metodologico, passerò ad analizzare più in profondità, nei capitoli successivi, le teorie dell'autore, sviluppate in tre opere fondamentali: Sfere di giustizia , Geografia della morale e Sulla tolleranza .













Capitolo II

Il problema della giustizia



"L'autonomia delle sfere favorirà

la condivisione dei beni sociali

più di qualsiasi altro assetto immaginabile.

Renderà più diffusa

la gratificazione del governare

e consoliderà ciò che oggi

è continuamente in forse,

cioè la compatibilità fra

l'essere governati e il rispettare se stessi"1


II. 1 Approccio metodologico


La teoria complessiva della giustizia che Walzer propone viene esposta in Sfere di Giustizia, in cui l'autore fornisce uno dei contributi più originali alla discussione statunitense sull'etica pubblica e la giustizia distributiva, e alla filosofia politica in generale.

In primo luogo, è d'obbligo sottolineare come Walzer si discosti qui dalle altre teorie per l'approccio metodologico utilizzato; di fronte a proposte teoriche con un'elevata pretesa di "scientificità", e cioè caratterizzate da una tendenza a formulare un impianto di principi teorici universali, da applicare solo successivamente al caso concreto, in Sfere di Giustizia l'approccio metodologico è di tipo pragmatico e pluralistico. Walzer non intende ricercare una legge di giustizia universale ma, al contrario, concepisce quest'ultima come la creazione speciale di ogni particolare comunità politica in un determinato momento storico: l'autore sottolinea che "il problema più rilevante è il particolarismo della storia, della cultura e dell'appartenenza. Pur desiderando essere imparziali, i membri di una comunità politica si porranno probabilmente non la domanda "Quale sarebbe la scelta di individui razionali in tali e tal'altre condizioni universalizzanti?", bensì "Quale sarebbe la scelta di individui simili a noi, in una situazione simile alla nostra, che abbiano in comune una cultura e vogliano continuare ad averla?" . I principi di giustizia che operano all'interno di una comunità dunque, non possono essere mai valutati, secondo Walzer, a prescindere dal contesto sociale e culturale che li adotta.

Lungo queste premesse, l'autore inoltre riconosce che all'interno di ogni società esiste una pluralità di "beni", la cui distribuzione rappresenta una questione fondamentale di giustizia. In particolare, beni come la ricchezza, il potere politico, l'istruzione, il carisma religioso, l'amore, il tempo libero e l'identità sociale, generano ognuno una "sfera" distributiva relativamente autonoma, in quanto regolata da principi suoi propri. Questi principi dipendono, sottolinea Walzer, dal significato sociale contingente dei singoli beni; in questo quadro dunque, essere ingiusti equivale a disprezzare i principi interni delle singole sfere, permettendo che quelli dominanti in altri ambiti invadano sfere diverse. Per Walzer, allora, la giustizia si traduce nella salvaguardia dell'autonomia delle sfere e, quindi, nella garanzia del pluralismo all'interno della società.

II. 2 Eguaglianza semplice ed eguaglianza complessa


Sfere di Giustizia si colloca in un momento particolare per la filosofia politica contemporanea , in quanto gli anni intorno alla sua pubblicazione coincidono con l'acquisizione di una rilevanza sempre più evidente nello scenario filosofico del concetto di "differenza". Da questa rivalutazione discende la necessità di riformulare il concetto di "eguaglianza", di rivisitarlo sotto una luce diversa da quella classica uni-dimensionale, al fine di renderlo compatibile con l'inevitabile realtà post-moderna della diversità.

Tale esigenza può essere colta nella teoria della giustizia di Walzer e, in particolare, nella elaborazione del concetto di uguaglianza complessa, in opposizione a ciò che l'autore definisce "uguaglianza semplice". Questa importante distinzione trae la sua origine dall'accurata analisi di due fenomeni largamente presenti in ogni società, in quanto si configurano come violazioni sistematiche di distribuzioni relativamente giuste; mi riferisco ai fenomeni della dominanza e del monopolio . Un bene dominante viene inteso come quello che fornisce ai suoi possessori la possibilità di disporre di molti altri beni, proprio in virtù del suo possesso; tale bene diviene monopolizzato se una persona o un gruppo ristretto di persone riesce a detenerne il possesso, privandone gli altri membri della società: il monopolio è dunque "un modo di possedere o controllare i beni sociali allo scopo di sfruttarne la dominanza" , mentre quest'ultima è un modo di distribuire i beni sociali senza rispettarne i significati intrinseci.

Secondo Walzer, i conflitti sociali che si sono susseguiti nella storia non sono altro che il frutto di questi due fenomeni e sono dunque spiegabili come prese di posizione contro situazioni di dominanza e di monopolio divenute, a un certo punto, insopportabili. "Forza fisica, prestigio familiare, carica religiosa o politica, proprietà terriera, capitale, conoscenza tecnica: in periodi storici diversi, ognuno di questi beni è stato dominante, è stato monopolizzato da qualche gruppo di persone" e, prima o poi, queste situazioni sono sempre degenerate in conflitti. Tali fenomeni di crisi possono essere determinati da diversi tipi di rivendicazioni avanzate, tra cui è comunque possibile distinguere tre generi più frequenti, e quindi più importanti. Innanzitutto, si può criticare la situazione di monopolio, e richiedere una redistribuzione più equilibrata del bene dominante; in secondo luogo, si potrà protestare contro la dominanza stessa, allo scopo di realizzare una distribuzione autonoma dei beni sociali nelle loro rispettive sfere; infine, si potrà anche contestare il modello di dominanza e di monopolio attualmente esistente, per cercare di sostituirlo con uno alternativo .

Proprio con riferimento a tale classificazione Walzer introduce ed analizza criticamente il concetto di eguaglianza semplice: di queste tre diverse rivendicazioni infatti, quella più diffusa in ambito filosofico è sicuramente la prima (critica del monopolio), e ciò discende dal fatto che tradizionalmente i filosofi si sono sforzati di concentrarsi su aspetti univoci della realtà, piuttosto che complessi. Se il monopolio è moralmente inaccettabile, la reazione più naturale sarà quella di elaborare un sistema di distribuzione alternativo, da opporre ad esso, vale a dire, un regime di eguaglianza semplice, in cui ognuno possiede la stessa quantità del bene dominante.

Walzer non esita a mettere in evidenza le debolezze proprie di questo tipo di soluzione, in particolare, l'intrinseca instabilità e transitorietà del regime di eguaglianza semplice. Per dimostrare ciò, egli riporta l'esempio di una società in cui, ipoteticamente, tutti i beni siano in vendita, e tutti i cittadini possiedano le stesse quantità di denaro: è ovvio come un tale stato di cose, pur essendo estremamente allettante da un punto di vista della giustizia distributiva, sia però anche del tutto momentaneo e debole. Attraverso il libero scambio infatti, si innescherebbero inevitabilmente dei meccanismi che farebbero accumulare ricchezza ad alcuni membri della società, a scapito di altri, e quindi produttivi di disuguaglianze . L'unico modo per evitare l'insorgere di questi processi sarebbe quello di frenarli dall'alto, attraverso leggi che assicurino periodicamente il ritorno alla situazione originaria, ma ciò significherebbe anche istituire in questa società mirabilmente egualitaria, uno Stato interventista e centralizzato, e forse, sostituire il monopolio della ricchezza, o qualsiasi altro, con quello del potere . A questo punto nascerà l'esigenza di limitare e controllare proprio chi detiene il potere, per evitare di sfociare in un regime dittatoriale, o comunque in un'eccessiva repressione della libertà. Si potrebbe anche immaginare che tutto questo meccanismo, prima repressivo dei monopoli emergenti, e poi limitativo del potere politico, alla fine trovi una sorta di equilibrio, una ricorrenza più o meno costante di queste due opposte tendenze; tale aspettativa però risulta troppo vaga ed incerta per porla come base organizzativa di una società.

In alternativa, Walzer propone una via diversa, che conduce ad un altro tipo di eguaglianza: il suo suggerimento è quello di cambiare direzione proprio all'origine del conflitto sociale, concentrandolo non già sul tentativo di limitare o annullare il monopolio, bensì sulla riduzione della dominanza. Il segreto della giustizia sociale risiede, secondo l'autore, sul mantenimento di un forte grado di autonomia delle diverse sfere, ognuna regolata da un proprio principio distributivo e con un proprio bene dominante, ma in cui non è possibile convertire universalmente alcun bene particolare, rischiando di estendere la sua dominanza ad ambiti che non gli competono. Walzer, definita tale prospettiva come "eguaglianza complessa" , si impegna a difenderla proprio in vista della reale complessità delle nostre società e dei vari beni sociali, di cui occorre finalmente prendere atto: "L'eguaglianza è una relazione complessa tra persone, mediata dai beni che creiamo, condividiamo e spartiamo; non è l'identità dei possessi. Perciò essa richiede una varietà di criteri distributivi che rispecchi la varietà dei beni sociali" . In realtà, Walzer non è il primo ad aver elaborato un concetto simile; egli stesso lo puntualizza , citando a tale proposito le Pensées di Pascal ed i manoscritti giovanili di Marx , che cerca di applicare alla complessa realtà della società contemporanea.

La tesi dell'eguaglianza complessa poggia su due constatazioni , che occorre considerare al fine di comprendere correttamente la teoria walzeriana della giustizia. Parlare di eguaglianza complessa non significa soltanto immaginare un mondo suddiviso in tante sfere autonome l'una dall'altra, ma soprattutto presupporre che i principi operanti in ogni sfera derivino direttamente dai cosiddetti "beni sociali" . Più precisamente, Walzer sottolinea come determinati beni abbiano un vero e proprio significato sociale, che viene loro attribuito dai membri della società, in base al modo in cui tali beni vengono concepiti, idealizzati e condivisi. Ora, soltanto la comprensione e l'interpretazione di tali significati può aiutarci a determinare i veri principi di giustizia distributiva operanti in ogni singola sfera.

In questo modo si può anche comprendere la seconda puntualizzazione della teoria walzeriana: l'autore infatti può delineare a questo punto le caratteristiche della tirannia, affermando che tale regime non consiste altro che nel "disprezzo di questi principi" . Attuare una distribuzione che non tenga conto del significato dei beni sociali all'interno delle loro rispettive sfere, equivale dunque a realizzare un regime tirannico, in cui uno o pochi beni possono essere facilmente convertiti in altri, invadendo così le altre sfere distributive. Pensiamo, ad esempio, a situazioni in cui il denaro viene utilizzato per "conquistare" campi diversi dal mercato, come quello del potere politico o della cultura. Walzer, in definitiva, non è contrario al monopolio operante all'interno di ciascuna sfera distributiva: "non c'è niente di ingiusto, per esempio, in un saldo controllo del potere politico da parte di politici persuasivi ed efficienti. Ma l'uso del potere politico per accedere ad altri beni è un uso tirannico" .

Il regime di eguaglianza complessa invece, è l'opposto della tirannide, in quanto si basa sul rispetto dei principi distributivi propri di ogni sfera, contribuendo alla loro costante separazione e ad una maggiore giustizia sociale. Un tale regime potrebbe fallire soltanto in un caso, immaginato dall'autore stesso: si tratta dell'improbabile ipotesi in cui, dopo aver stabilito l'autonomia delle sfere, gli stessi, identici soggetti avessero successo in tutte le sfere, pur rispettando i loro intrinseci principi. Un caso del genere significherebbe realizzare, attraverso criteri di giustizia, una società non egualitaria, e forse ciò confermerebbe l'impossibilità di creare una società giusta, a parere dell'autore.

A parte questa lontana ipotesi però, Walzer è profondamente convinto del fatto che solo attraverso la via dell'eguaglianza complessa si possa davvero sperare in una società di eguali e, a conclusione, egli giunge all'elaborazione di un principio distributivo aperto: "Nessun bene sociale X deve essere distribuito a uomini e donne che possiedono un altro bene Y solo perché possiedono Y e senza considerare il significato di X" . Si tratta di un principio che non determina in maniera esatta e definita in che modo debba avvenire la distribuzione, ma che mira ad evitare spartizioni ingiuste dei beni e soprattutto a scoprire ed interpretare il significato dei beni sociali.

II. 3 Principi distributivi


Walzer, nonostante operi nell'ambito di una teoria aperta e pluralistica, e non avanzi alcuna pretesa di precisione ed univocità , fa comunque riferimento a tre principali criteri distributivi, i quali soddisfano ognuno il requisito del principio aperto, ma che, presi singolarmente, non possono mai giungere a regolare l'intera serie di distribuzioni; essi sono rispettivamente: il libero scambio, il merito ed il bisogno.

Con riferimento al libero scambio, l'autore sottolinea come, a livello teorico, la sua applicazione dovrebbe garantire una distribuzione della ricchezza, che riflette fedelmente i significati sociali dei beni; in esso infatti, non dovrebbero esistere né beni dominanti, né monopoli, e gli scambi, effettuati attraverso il mezzo neutrale del denaro, dovrebbero avvenire esclusivamente in base al valore sociale relativo attribuito ai diversi beni. Almeno in teoria dunque, ci si aspetta che il mercato sia "radicalmente pluralistico nelle sue operazioni e nei suoi risultati" ed "infinitamente sensibile ai significati che gli individui attribuiscono ai beni" . Tale descrizione però, non risulta affatto confermata dalle pratiche quotidiane del mercato: il denaro infatti, anziché fungere da intermediatore neutrale degli scambi, sempre più spesso si configura come bene dominante, ed è facilmente monopolizzato da chi possiede altri vantaggi, soprattutto talento e fortuna negli affari. Ecco dunque che, di fronte ad un tale stato di cose, il libero scambio non può essere considerato come un criterio generale, valido per tutte le distribuzioni ma, al contrario, occorre stabilire i confini precisi dell'ambito in cui può legittimamente operare, se si vuole evitare di sfociare in una tirannia del denaro.

Veniamo ora al secondo criterio distributivo, quello del merito; si tratta di un principio che "sembra richiedere una connessione particolarmente stretta fra determinati beni e determinate persone" , nel senso che la distribuzione della ricchezza in base al merito dovrebbe avvenire esclusivamente considerando le svariate forme di merito o valore personale degli individui. Anche questo criterio, a prima vista, appare relativamente aperto e pluralistico; in pratica però, risulta estremamente difficile da realizzare: il concetto di merito infatti si presta in modo particolare a valutazioni di tipo soggettivo e parziale, e richiederebbe quindi giudizi molto difficili sul lato concreto. Può aver senso, ad esempio, sostenere che una persona particolarmente in gamba e stimolante meriti, in generale, stima ed approvazione; ma come si può pretendere che soggetti particolari debbano necessariamente stimarla ed approvarla? E inoltre, chi potrebbe essere eletto, all'interno di una comunità di eguali, come "arbitro del merito"? Ecco dunque perché, nella realtà quotidiana, il criterio distributivo del merito può essere adottato solo in sfere particolari, entro limiti piuttosto ristretti, e spesso si preferiscono ad esso altri principi, come quello del bisogno.

Quest'ultimo criterio si rifà alla celebre massima di Marx "la ricchezza della comunità va distribuita in modo da conformarsi alle necessità dei suoi membri" . Già a prima vista si comprende come questo principio non si combini in modo armonioso con quello del libero scambio e, soprattutto, con quello del merito: basti pensare ad esempio, che difficilmente i soggetti che hanno maggiori capacità e qualifiche per ottenere un posto di lavoro, coincideranno con quelli che ne hanno più bisogno. Occorre anche considerare comunque che esistono dei beni che non possono essere ritenuti di primaria necessità, e di cui quindi nessuno potrebbe affermare di sentirne davvero il bisogno: pensiamo, ad esempio, alla fama, al potere politico e a tutti i tipi di oggetti preziosi. Ecco dunque che, alla luce di tali considerazioni, anche per il bisogno si tracciano inevitabilmente i confini della sfera entro cui può essere chiamato ad operare: in particolare, si tratterà di un ambito composto da beni di fondamentale necessità, che andranno garantiti soprattutto ai soggetti più deboli della società in relazione ai loro bisogni e a prescindere dalle loro possibilità economiche o dai loro meriti individuali.

Tutte queste riflessioni confermano l'assunzione preliminare secondo la quale ogni criterio distributivo esercita la sua forza all'interno della propria sfera, e non può essere dotato di una validità globale. La convinzione di Walzer è tesa a massimizzare il pluralismo all'interno della società, al fine di garantire "beni diversi ad associazioni diverse di uomini e donne per ragioni diverse e secondo procedure diverse. E chiarire tutto questo, almeno approssimativamente, significa tracciare una mappa dell'intero mondo sociale" .

II. 4 Il contesto della distribuzione


A questo punto, prima di passare ad esaminare più da vicino alcune delle sfere distributive menzionate da Walzer, resta da puntualizzare che il contesto di ogni impresa distributiva all'interno della società è sempre la comunità politica . Tutti i processi di distribuzione infatti, siano essi basati su modelli di eguaglianza semplice o complessa, sul monopolio o sulla dominanza, avvengono all'interno di frontiere politiche, dal momento che queste solitamente facilitano la formazione di un mondo di significati condivisi, di una coscienza collettiva, attraverso il riconoscimento in una storia, in una cultura e in una lingua comuni. Ovviamente, come Walzer stesso riconosce, non ci sarà sempre perfetta coincidenza tra comunità politiche e culturali, anzi, solitamente, all'interno delle stesse frontiere politiche si formeranno delle entità più piccole, ognuna con propri modi di sentire e di percepire. Tuttavia, occorrerà adattare le decisioni politiche alle diverse esigenze di tali comunità, e a volte questa non sarà impresa facile, dato che tali esigenze potranno anche essere confliggenti. Bisognerà trovare una sorta di compromesso, prendendo in considerazione anche l'importanza relativa che i cittadini attribuiscono a valori come quello del multiculturalismo o dell'autonomia locale, e tutto ciò avverrà a livello politico. Attraverso la politica, ogni comunità assume delle caratteristiche proprie, che la contraddistinguono dalle altre, rendendola singolare, e questo processo non è mai esaurito, dato che attraverso le varie decisioni e lotte politiche essa continuerà a forgiarsi.

Inoltre, c'è anche da considerare che, nell'analisi walzeriana, la comunità politica, oltre a rappresentare il contesto della discussione, è anche uno dei beni sociali più importanti da distribuire. E' infatti solo attraverso l'appartenenza che i soggetti possono diventare legittimi destinatari dei beni sociali da distribuire, e l'appartenenza alla comunità viene ovviamente assegnata per via di una decisione politica interna .

Dopo aver effettuato queste precisazioni, possiamo passare ad un'analisi ravvicinata di quattro beni sociali di particolare importanza, selezionati tra quelli che Walzer sviluppa in Sfere di Giustizia; si tratta dei beni del denaro, della sicurezza e assistenza, dell'appartenenza e del potere politico.




Capitolo III

Il mercato e le forniture comunitarie



"Spesso il denaro non rappresenta il valore:

con la traduzione qualcosa, come succede con

la buona poesia, va perduto. Perciò

possiamo comprare e vendere senza limiti

solo se trascuriamo i valori reali"1


"Quale che si la decisione raggiunta

alla fine e quali che siano le sue ragioni,

si provvede alla sicurezza perché i cittadini

ne hanno bisogno"


III. 1   Denaro e merce


L'analisi della sfera del denaro impone la risoluzione di due questioni fondamentali: innanzitutto, la delimitazione della sfera entro cui esso può operare in un regime di eguaglianza complessa, e dunque la definizione di ciò che può essere scambiato con il denaro e ciò che invece esorbita da tale ambito; in secondo luogo, l'analisi del modo in cui il denaro deve essere distribuito all'interno di una società di eguali.

In merito al primo aspetto, Walzer sottolinea l'ingenuità ed il semplicismo della tradizionale idea che, conferendo al denaro un'importanza pressoché illimitata, lo ritiene "la radice di ogni male e la fonte di ogni bene" . Il denaro, definito da Marx il "ruffiano universale" e da Shakespeare "la prostituta comune dell'umanità, che rechi discordia tra i popoli" , rappresenta il mezzo di scambio universale, in grado di permettere, a chi ne dispone, l'acquisizione di qualsiasi bene, materiale o immateriale. Un tale potere illimitato del denaro è plausibile, secondo Walzer, solo trascurando i valori reali delle cose : soltanto così infatti, si potrebbe attribuire un prezzo a qualsiasi bene, scavalcando tutti i condizionamenti morali che potrebbero altrimenti bloccare certi scambi. Partendo da una prospettiva diversa, risulterà però evidente come sia a volte difficile, se non impossibile, l'attribuzione di un prezzo a determinati "valori"; Walzer riporta un elenco piuttosto esauriente di "scambi bloccati", ossia di beni che non si possono ottenere con il denaro, tra cui include la vita umana, il potere politico, la libertà di parola , di stampa, di religione e riunione, la giustizia penale, ecc. Con una classificazione così attenta e minuziosa Walzer delimita con precisione la sfera entro cui gli scambi possono legittimamente avvenire tramite denaro, mentre al di fuori di essa l'uso di tale mezzo costituirebbe una grave ingiustizia sociale e meriterebbe di essere sdegnato o deplorato.

Attraverso questa serie di esclusioni Walzer delinea una sfera costituita da "tutti gli oggetti, le merci, i prodotti, i servizi che la comunità non fornisce e che le singole persone trovano utili o gradevoli" . Tutti i beni desiderabili e capaci di rendere le nostre esistenze piacevoli e confortevoli, in base ai nostri diversi gusti e identità, sono acquisibili tramite l'uso del denaro, e ciò non rappresenta niente di immorale o sdegnoso. L'essere umano tende a forgiare e comunicare all'esterno la propria identità anche tramite le cose di cui si circonda, e tali cose vengono giustamente scambiate sul mercato: questa tendenza non riguarda esclusivamente l'epoca odierna, notoriamente consumistica e, per certi aspetti, materialista, ma, al contrario, rappresenta una costante della vita umana.

Con questa trattazione Walzer non intende criticare le relazioni di mercato, né la possibilità di scambiare certi beni "commerciabili" con il denaro, ma piuttosto quegli aspetti attraverso i quali questo mezzo può acquisire un' importanza eccessiva, e dunque scavalcare la propria sfera di competenza. In particolare, nell'epoca contemporanea si assiste ad un fenomeno di "commercializzazione" dell'appartenenza alla società industriale: le attività che oggi conferiscono ad un soggetto la qualità di membro a pieno titolo e che gli permettono di forgiarsi un'identità più o meno dignitosa nella sfera pubblica, sono infatti sempre più rappresentate da attività di consumo. L'incapacità, per alcune persone, di accedere a certi beni di massa e di sfoggiarli pubblicamente, ha dunque, nelle odierne società industrializzate, uno svantaggio ulteriore rispetto alla pura povertà materiale, cioè quello della esclusione da un'appartenenza dignitosa alla comunità, una sorta di "miseria sociale". E' questo uno dei fenomeni che Walzer condanna, sottolineando che "il fallimento economico, quale che sia la perdita di stima connessa, non dovrebbe mai comportare una svalutazione della cittadinanza, né in senso legale né in senso sociale" .

Correzioni ed interventi dovrebbero essere rivolti verso questi tipi di anomalie, vale a dire a tutti quei casi in cui l'importanza del denaro si estende in maniera eccessiva, divenendo così il metro fondamentale per la distribuzione di beni "non commerciabili", quali l'appartenenza, il potere politico, l'istruzione, ecc. Mantenute queste limitazioni, non c'è motivo di frenare gli scambi che avvengono all'interno del mercato, anche se poi vi si formano inevitabilmente delle evidenti differenze: "dal punto di vista dell'eguaglianza complessa non ha alcuna importanza che tu abbia uno yacht e io no, che il giradischi di lei abbia una resa del suono molto superiore a quella di lui, o che noi compriamo i tappeti in un grande magazzino mentre loro hanno dei persiani autentici. Che la gente badi a queste cose o no è una questione di cultura, non di giustizia distributiva" .

Tuttavia, anche operando in un contesto di eguaglianza complessa e in una sfera del denaro opportunamente delimitata, si potrebbero verificare dei casi problematici, in cui imprenditori di successo nel mercato acquisiscono non solo ricchezza, ma anche prestigio ed influenza a livello politico: la presenza di tali pericoli richiede, secondo Walzer, l'apposizione di un freno all'accumulazione del denaro, anche se freni di questo genere non avrebbero alcuna ragione di esistere se il denaro non minacciasse continuamente di fuoriuscire dalla propria sfera e se l'accumulazione di ricchezza rappresentasse solo un modo per accedere alla gran massa dei beni scambiati sul mercato.

Il verificarsi di questa serie di anomalie impone la necessità di operare delle "ridistribuzioni", poiché un'economia di laissez-faire vera e propria rischierebbe di dar luogo ad una sorta di "imperialismo del mercato" e di dominare gran parte dei processi distributivi. Siamo giunti così al secondo aspetto problematico preso in esame da Walzer, quello distributivo, a proposito del quale egli osserva che tale opera non avviene all'interno dei confini originari della sfera del mercato, ma richiede una loro una loro ridefinizione. Questa operazione, pur avvenendo in modi diversi, secondo le caratteristiche e le esigenze di ogni singola comunità, deve essere tale da creare un sistema in cui ogni scambio costituisca "il risultato di una contrattazione, non di un ordine o di un ultimatum" . A questo scopo occorrerà porre le condizioni fondamentali per conferire ai soggetti agenti sul mercato (o sui vari mercati) una relativa parità di forza contrattuale (pensiamo, ad esempio, all'importanza delle organizzazioni sindacali per una sostanziale equiparazione di potere tra lavoratori ed imprenditori nell'ambito del mercato del lavoro).

Ovviamente si tratta di un'operazione estremamente delicata, dalla quale non possono pretendersi dei risultati di eguaglianza perfetta ed assoluta: non occorre solo revisionare i confini tra la sfera del mercato e le altre, ma anche ritracciare dei "sub-confini" all'interno del mercato stesso e nell'ambito delle sue imprese. E' importante infatti che anche il modo in cui un'azienda viene gestita sia improntato su principi democratici e che le decisioni imprenditoriali subiscano dei controlli, per via della loro capacità di vincolare ed influenzare le condizioni dei lavoratori. Tutto questo processo, estremamente complesso e delicato, si rivela necessario, a parere di Walzer, al fine di rendere chiaro il limite tra politica ed economia, e per avvicinarci quindi ad un regime di eguaglianza complessa.

Le argomentazioni avanzate da Walzer in merito alla sfera del denaro e della merce rispecchiano la sua preoccupazione per il pericolo di una eccessiva estensione di tale ambito: quasi tutti gli interventi ed i correttivi suggeriti nella trattazione sono puntualmente finalizzati al contenimento e alla delimitazione dell'area regolata dagli scambi. Proprio in merito a questo aspetto, la sua teoria subisce un attacco critico significativo in un saggio di Barry , il quale osserva che, anche evitando o riducendo al minimo i rischi di invasione di altre sfere da parte del denaro, nulla garantisce che tutti i membri della società, tramite gli scambi, riescano a soddisfare i propri bisogni primari, quali l'alloggio, il cibo ed il vestiario ; vi sono dunque validi motivi per intervenire anche nell'ambito della sfera degli scambi, apportando correttivi alle sue anomalie più profonde e alle ingiustizie moralmente inaccettabili. Questa serie di interventi dovrebbe non solo definire i confini del mercato, ma anche, e soprattutto, determinare la sua linea di funzionamento e fornire dunque la sua essenziale impostazione e fisionomia, nell'ambito del contesto sociale e legislativo generale .

Da tali osservazioni poi, come vedremo nei prossimi capitoli, Barry giungerà ad attaccare l'intera teoria walzeriana in uno dei suoi principi fondamentali, ossia quello in base al quale la giusta distribuzione dei beni è determinata esclusivamente dal significato che essi assumono all'interno della società.

III. 2 Sicurezza e assistenza alla base del contratto sociale


La sfera della sicurezza e dell'assistenza richiede un'attenta analisi, dal momento che la sua interpretazione ci mette di fronte ad una riflessione riguardante il significato stesso di contratto sociale ed il motivo che spinge alla creazione di una comunità politica. Attraverso la sfera della sicurezza e dell'assistenza infatti, vengono forniti ai membri di una comunità quei beni destinati a soddisfare una serie di bisogni fondamentali, che Walzer definisce "bisogni socialmente riconosciuti" . Il contratto sociale serve proprio a decidere quali beni devono effettivamente essere inclusi in questa sfera, per essere forniti ai membri della comunità. La decisione di determinati soggetti di unire le loro forze per formare quella particolare comunità, contraddistinta da tutte le altre, scaturisce dal loro intento di assistersi reciprocamente e di fornirsi vicendevolmente quei beni essenziali per la vita in comune e per il benessere della società nel suo complesso .

Se questa realtà è comunemente riconosciuta, resta invece più problematico definire con precisione quali beni debbano rientrare in questa sfera e in che ordine e misura debbano essere distribuiti, in base al criterio del bisogno, nella particolare entità politica. Come Walzer sottolinea infatti, "i bisogni sono entità sfuggenti. La gente non ha soltanto dei bisogni, ma anche delle idee sui propri bisogni; ha delle priorità, dei gradi di bisogno, e queste priorità e gradi non sono legati soltanto alla nostra natura umana ma anche alla nostra storia e cultura" . Tutte queste decisioni specifiche non possono essere determinate a livello filosofico sulla base di speculazioni astratte; infatti, secondo Walzer, il filosofo si deve astenere dal giudicare giuste o sbagliate le concrete scelte assistenziali prese da questa o quella comunità. Tutte le decisioni riguardanti l'effettiva composizione della sfera assistenziale sono di natura prettamente politica e riflettono le concezioni sociali e culturali della particolare comunità che le adotta.

Walzer, muovendo da queste premesse che confermano il suo approccio pragmatico e pluralistico, descrive il genere di beni che possono entrare a far parte di questa sfera; a tale scopo, riporta due diversi esempi di civiltà che, in quanto caratterizzate da tendenze quasi contrapposte a livello assistenziale, rappresentano due diverse linee della nostra tradizione culturale: esse sono rispettivamente, la civiltà greca e quella ebraica. E' da notare che spesso l'autore, nel corso della sua trattazione, riporta esempi presi dal passato, pur astenendosi dall'esprimere giudizi critici su di essi e questo potrebbe dare l'impressione di sfociare nell'anacronismo . Il suo scopo è di renderci consapevoli della varietà di concezioni sociali dei beni, non soltanto nell'epoca attuale, ma anche nel passato, e di chiarire che, nonostante sia per noi spontaneo criticare pratiche ed istituzioni di determinate comunità, occorre tener presente che esse rispecchiano concezioni della giustizia molto lontane dalle nostre. Nel caso della sicurezza e dell'assistenza nelle civiltà greca ed ebraica ad esempio, Walzer ci fa capire come sia stato del tutto naturale per le città-stato ellenistiche, fornire ai cittadini palestre e bagni pubblici, anziché sussidi ai poveri o istruzione ai bambini, così come era normale per la comunità ebraica dare la priorità ai servizi religiosi e all'educazione dei figli maschi, destinati poi a diventare elementi attivi nelle discussioni dottrinali sulla religione. Attraverso questi due esempi storici, l'autore dà un'idea "non solo della gamma delle attività comunitarie ma anche, e più importante, del modo in cui i valori collettivi e le scelte politiche strutturano queste attività" .

Dopo questa precisazione, Walzer compie alcune puntualizzazioni riguardanti il criterio distributivo del bisogno. I beni che concernono tale sfera devono essere forniti ai soggetti della comunità esclusivamente in proporzione ai loro bisogni e non a un qualsiasi altro elemento, in quanto "tutti i criteri diversi dal bisogno sono vissuti non come limitazioni bensì come distorsioni del processo distributivo" . Walzer inoltre sottolinea la natura non solamente fisica, ma anche sociale e culturale del bisogno: anche il cibo, ad esempio, destinato a soddisfare il più elementare dei bisogni, in determinati contesti è usato a fini rituali o folkloristici, come accadeva nelle comunità ebraiche prima delle festività religiose.

Fornire beni nella sfera della sicurezza e dell'assistenza seguendo il principio del bisogno, non implica automaticamente che tutti i membri della comunità siano disposti a privarsi volontariamente di una parte della loro ricchezza per distribuirla ai soggetti più bisognosi. Ciò è dovuto al fatto che i benefici assicurati dalla sfera assistenziale non sono reciproci ed uniformi, bensì producono degli effetti redistributivi della ricchezza e per questo è necessario un certo grado di coercizione. In questo modo, il significato del contratto sociale si chiarisce come un patto finalizzato alla redistribuzione delle risorse tra i membri della società ed ispirato alla comune concezione dei loro bisogni. Esso "unisce i forti con i deboli, i fortunati con gli sfortunati, i ricchi con i poveri, creando un'unione che trascende tutte le differenze di interessi e che trae la propria forza dalla storia, dalla cultura, dalla religione, dalla lingua, eccetera" . Partecipare attivamente all'interpretazione di tale contratto significa, nella pratica, soffermarsi su quali bisogni riconoscere, e determinare la composizione e la configurazione della sfera della sicurezza e dell'assistenza.

In conclusione alla trattazione di questa sfera, Walzer esprime delle considerazioni critiche sul sistema assistenziale americano, e in particolare sul settore dell'assistenza medica23. Mentre infatti, nelle democrazie moderne la sfera dell'assistenza dovrebbe essere, di regola, molto ampia, data l'estesa concezione di bisogno individuale, gli Stati Uniti si contraddistinguono nel mondo occidentale per l'evidente inefficienza ed insufficienza del loro sistema di fornitura comunitaria. Ciò è dovuto a ragioni diverse, che vanno dalla nota tradizione individualistica statunitense, al fatto che spesso le minoranze etniche e religiose si dotano di propri programmi assistenziali. Per dimostrare le debolezze del sistema americano, Walzer riporta l'esempio della giustizia, che non viene fornita in misura uguale a tutti i cittadini e in cui i mezzi economici, la razza o la religione finiscono spesso per costituire elementi discriminanti. Il caso più eclatante e, nello stesso tempo, più problematico rimane comunque quello dell'assistenza medica, al quale Walzer dedica una minuziosa analisi ricordando alcuni dei momenti fondamentali della sua evoluzione nel corso della storia, fino ad arrivare alla concezione di questo bene come necessità comune profondamente sentita. Ecco dunque che, riconoscendo la qualità di "bisogno" al bene dell'assistenza medica, esso dovrebbe essere distribuito solo in considerazione di tale presupposto, escludendo tutti gli altri. Le cose però, soprattutto negli Stati Uniti, non vanno affatto in questo modo: sempre più spesso le forniture mediche non sono elargite proporzionalmente alla gravità o all'incidenza delle malattie, bensì in rapporto alla classe sociale e alle possibilità economiche. Nei termini dell'analisi walzeriana, questa realtà rappresenta un caso esemplare di tirannia del denaro nella sfera del bisogno e va combattuta come una distorsione evidente del processo distributivo.









Capitolo IV

La comunità politica: appartenenza e potere


"La comunità politica è probabilmente

il punto più vicino ad un mondo

di significati comuni

che si possa raggiungere[.]

Anche se è un gruppo dirigente

a prendere le decisioni effettive,

i cittadini dovrebbero potersi riconoscere

nei dirigenti"1


IV. 1 Appartenenza


Finora abbiamo parlato di alcuni beni sociali da distribuire, assumendo che i soggetti destinatari di tali distribuzioni fossero già definiti, o potessero comunque essere individuati in maniera aproblematica. In effetti, è stato puntualizzato in precedenza che il contesto che fa da sfondo alla ripartizione egualitaria dei beni sociali è rappresentato dalla comunità politica, configurabile come un gruppo di persone che vivono in un territorio delimitato da confini politici ed accomunate da una coscienza collettiva relativamente omogenea. Tale precisazione tuttavia, non risolve il problema alla sua fonte, in quanto non fornisce alcuna indicazione sui modi in cui questo gruppo si forma e si trasforma, attraverso quali processi decisionali e in base a quali presupposti modifica la sua configurazione originaria . La comunità politica infatti, non è un'entità stabile, ma si trova continuamente a dover prendere delle decisioni riguardanti le sue dimensioni e la sua composizione interna: proprio sotto questo aspetto, la comunità non rappresenta soltanto uno scenario di distribuzioni, ma è essa stessa uno dei beni più importanti da distribuire.

Per questi motivi Walzer analizza la sfera dell'appartenenza prima delle altre, dato che la distribuzione di questo bene rappresenta un problema da risolvere preliminarmente, come il primo anello di una catena di scelte distributive. Tra l'altro, è da notare che anche questo bene sociale presenta una singolarità rispetto a tutte le altre sfere: la sua distribuzione infatti, dovrà essere operata dai soggetti membri di una comunità, in base al significato che loro le attribuiscono, ma i destinatari stanno al di fuori di essa, e sono quindi degli estranei, o comunque dei membri solo potenziali e non effettivi: "non sappiamo chi sono né cosa pensino, tuttavia li riconosciamo come uomini e donne. Sono come noi ma non sono dei nostri; e quando prendiamo delle decisioni sull'appartenenza dobbiamo prendere in considerazione tanto loro quanto noi stessi" .

Con riferimento alla distribuzione dell'appartenenza, Walzer prende prima di tutto in considerazione il principio generale - che dovrebbe stare alla base della nostra moralità, sia individuale che di gruppo - dell'aiuto reciproco; quest'ultimo suggerisce che, nel momento in cui un estraneo si trova in uno stato di difficoltà e bisogno, noi siamo tenuti, nei limiti delle nostre possibilità, a fornirgli il nostro aiuto, scavalcando impedimenti di diversa natura, quali potrebbero essere le frontiere politiche, culturali, religiose e linguistiche . Tale principio però è estremamente vago e incapace di fornire, nei casi concreti, un criterio valido e sicuro in base al quale ammettere o escludere chi domanda l'appartenenza alla nostra comunità: queste decisioni saranno prese in realtà senza seguire un criterio univoco, da applicare una volta per tutte, ma al contrario, dipenderanno dalle caratteristiche dei casi concreti che di volta in volta si presentano, e subiranno l'influenza di diversi principi, oltre che delle esigenze contrapposte da bilanciare: quelle degli estranei, o potenziali membri, e quelle della comunità.

Al fine di mettere a fuoco il complesso significato dell'appartenenza ed i molteplici meccanismi che intervengono nella sua distribuzione, Walzer confronta la comunità politica con altre entità più piccole, delle quali risulta più facile cogliere la portata, i contorni e i principi che le regolano. La prima di queste analogie analizzate dall'autore è quella con il vicinato; questa entità rappresenta, in un certo senso, un'associazione di tipo casuale, in quanto l'inclusione di membri ulteriori non è regolata da una particolare politica di ammissione predefinita: "gli estranei possono essere benvenuti o no, ma non possono essere ammessi o esclusi" .

La visione della comunità politica come una sorta di "grosso vicinato" era assai diffusa nell'economia politica classica, la quale suggeriva la realizzazione di un mondo dominato da una perfetta mobilità dei fattori (non solo produttivi, ma anche sociali) che, nel lungo periodo, avrebbe condotto alla massimizzazione del benessere. Una tesi di questo genere, se da un punto di vista teorico sembra funzionare, presenta degli inconvenienti pratici non indifferenti, e in particolare il rischio di svuotare le comunità di coesione interna, dato che in questo modo esse si formerebbero del tutto casualmente, a prescindere dalla necessità dei suoi membri di condividere una cultura, una lingua, una storia. Questo bisogno, naturale ed istintivo nell'essere umano, porterebbe probabilmente ad un processo di formazione, all'interno del grande stato-vicinato, di tante micro-comunità culturali tra loro differenziate: tutto ciò porta a concludere che è preferibile frapporre dei confini tra una comunità e l'altra, in modo da definire le loro diverse identità e di permettere loro di essere "aperte" al loro interno e di autogestirsi, in base ai principi comunemente accettati dai suoi membri.

Prima di compiere scelte ulteriori, è necessario che ogni comunità si doti di una propria politica di ammissione, volta a controllare e regolare il flusso immigratorio (anche se non quello emigratorio) . Quest'ultimo aspetto porta Walzer ad assimilare le comunità politiche contemporanee ai circoli, piuttosto che ai vicinati: anche i circoli infatti "hanno la caratteristica [.] di poter regolare le ammissioni senza poter impedire le dimissioni" : i loro membri si dotano di una politica che determini i criteri con i quali accettare o meno nuovi associati, e tali criteri riflettono appunto le caratteristiche che i soggetti già inclusi intendono attribuire al loro gruppo.

Walzer tuttavia sottolinea come, nonostante le evidenti analogie con il circolo, la comunità politica sia un'entità molto più complessa, dal momento che le decisioni di ammissione-esclusione risultano influenzate da una molteplicità di aspetti. Esistono infatti situazioni particolari in cui la scelta di ammissione non dipende soltanto dalle intenzioni e dagli obiettivi dei suoi membri, ma anche dai sentimenti morali che si scatenano in quelle circostanze. Pensiamo, ad esempio, ai casi in cui la richiesta di ammissione proviene da un gruppo nazionalmente o etnicamente "affine" : qui entreranno in gioco dei principi morali di "consanguineità" o "nazionalità", che spingono gli attuali membri a sentirsi, in un certo qual modo, responsabili per quei soggetti a cui sono legati dalla condivisione delle stesse origini etniche, storiche o culturali. Sotto quest'ultimo aspetto gli Stati possono essere assimilati anche a delle famiglie, in quanto "non si limitano a presidiare un territorio e a vigilare su un insieme casuale di abitanti, ma sono anche l'espressione politica di una vita comunitaria e, molto spesso, di una "famiglia" nazionale che non è mai del tutto compresa nei loro confini giuridici" .

Walzer si sofferma poi su un caso particolare di richiesta di ammissione, vale a dire quello dei profughi, in cui l'obbligo morale di accoglienza sarà avvertito in maniera molto più forte, dal momento che i soggetti richiedenti sono vittime di persecuzioni religiose o politiche nel loro paese d'origine ; questo senso di dovere sarà poi ulteriormente accentuato se i membri della comunità riconoscono un'affinità di natura ideologica con questi soggetti, che li spinge a sostenere la loro causa e ad offrire loro una protezione all'interno dei confini dello Stato.

Dopo l' analisi dei meccanismi che influenzano le possibili politiche di ammissione adottate dalla comunità politica, Walzer esamina la fase successiva di questo processo, quella in cui i soggetti, che sono stati ammessi, si trovano a convivere con tutti gli altri membri, e la definisce con il termine di "naturalizzazione". In questo momento dovrebbe avvenire, in teoria, un processo di reciproco riconoscimento tra i neo-arrivati ed i cittadini originari: questi ultimi "devono essere pronti ad accettare le persone come propri uguali in un mondo di obblighi condivisi" , mentre gli immigrati, da parte loro, devono condividere questi obblighi ed assumersi le responsabilità proprie della vita nella nuova comunità. Le cose però non sempre si sviluppano in questo modo: spesso, nelle società contemporanee, i cittadini degli stati ospitanti rendono difficile, se non impossibile, un processo di graduale integrazione degli immigrati, un po' per preconcetti nei loro riguardi, e un po' per comodità, dal momento che questi, trovandosi in una situazione di bisogno, possono essere ingaggiati per sollevare gli altri dai lavori più pesanti e sgradevoli. Quando si realizzano questi fenomeni, Walzer accomuna lo Stato ad una "famiglia con la servitù che vive in casa" , vale a dire ad una piccola tirannia. In casi del genere infatti, i principi democratici vengono scardinati, in quanto il potere, che dovrebbe essere esercitato con la partecipazione di tutti i membri, continua invece ad appartenere esclusivamente ai cittadini "puri", i quali stabiliscono un modello di obblighi e diritti cui tutti saranno assoggettati. La situazione dei lavoratori ospiti è dunque per Walzer particolarmente drammatica: essi sono uomini e donne simili a tutti gli altri cittadini del paese ospitante che, dopo aver superato positivamente il processo decisionale relativo alla loro ammissione, vengono esclusi dalla cittadinanza e da tutti i diritti che questa comporta; l'autore suggerisce di applicare in questi casi il principio della giustizia politica, in base al quale "i processi di autodeterminazione attraverso i quali uno stato democratico organizza la propria vita interna devono essere aperti, in misura uguale, a tutti gli uomini e a tutte le donne che vivono sul suo territorio, lavorano nell'economia locale e sono soggetti alla legge locale" .

Questa lunga analisi della sfera dell'appartenenza mostra come essa sia una delle più complesse e delicate tra quelle esaminate da Walzer. L'appartenenza ad una comunità è infatti un bene prezioso e fondamentale: solo in base ad essa un soggetto può passare da una posizione priva di status ad una che lo rende legittimo titolare dei diritti e doveri propri di un cittadino e destinatario di tutte le altre distribuzioni rese possibili dalla vita in comunità. Per questo è necessario raggiungere un delicato equilibrio tra due opposte esigenze che si presentano con riferimento a questa sfera: da un lato, quella di difenderla e di rivendicarla, perché solo così una comunità si autodefinisce ed acquista una propria dignità e, dall'altro, quella di garantire a tutti coloro che vivono nel territorio dello Stato lo stesso trattamento, senza praticare ingiuste discriminazioni tra cittadini e neo-arrivati; al contrario, proprio con riferimento a questi ultimi scatta l'obbligo a carico della comunità stessa di divenire politicamente inclusiva e di accelerare il più possibile il loro processo di integrazione.









IV. 2   Potere politico


Nel capitolo dedicato all'analisi del potere politico, Walzer puntualizza la specificità di questa sfera: il potere statale infatti, non costituisce solo una sfera distributiva, al pari di tutte le altre, ma è anche lo strumento che interviene su tutte le attività svolte nell'ambito della comunità, compresa la stessa attività politica .La problematicità di tale sfera deriva da una duplice necessità: da una parte quella, comune a tutte le altre, di vegliare sui suoi confini in modo da evitare attraversamenti ed invasioni di ambiti diversi e, dall'altra, quella di organizzare il potere in base agli scopi che la comunità stessa desidera raggiungere, di esercitarlo attivamente e di sostenerlo. In conseguenza di ciò, Walzer non si preoccupa soltanto, come per le altre sfere, della definizione accurata dei confini (i cosiddetti usi bloccati del potere) , ma delinea una serie di argomentazioni volte ad indagare sul suo "nucleo" costitutivo, su come il potere debba essere effettivamente goduto ed esercitato. L'esercizio del potere implica contemporaneamente situazioni di attività e passività: non ne sono coinvolti solo i soggetti che ne dispongono ma anche tutti i membri della comunità, che ne rappresentano i diretti destinatari e ne subiscono le conseguenze. Alla luce di queste considerazioni, Walzer si propone di chiarire alcuni principi fondamentali di questa sfera, in modo da poter rispondere al quesito "chi deve possedere ed esercitare il potere statale?" .

L'autore riconduce i vari tentativi di fornire una risposta a questa domanda a due direzioni distinte: da una parte, la tradizione platonica, che suggerisce di affidare il potere a chi meglio sa come usarlo, in quanto specializzato nell'arte, o techné, della politica; mentre dall'altra, si afferma che il potere deve essere esercitato da chi ne subisce gli effetti più diretti. Di fronte a queste due posizioni, Walzer contesta apertamente la tesi platonica basata sulla conoscenza del "mestiere" politico, per difendere invece quella democratica e, nel formulare la sua critica, riprende proprio l'esempio platonico della nave che, per essere efficiente, non potrà essere guidata democraticamente dai marinai, ma solo dal vero pilota, che conosce tutti i segreti della navigazione. Contro questa impostazione, Walzer sottolinea come la techné del navigatore sia del tutto irrilevante in mancanza di una precedente decisione dei passeggeri in merito alla destinazione della nave; esattamente lo stesso avviene in politica: il politico non può governare solo sulla base di una sua presunta conoscenza della materia, ma dovrà essere al corrente delle mete che la comunità si prefigge e dei rischi che è disposta a correre per raggiungerle. Per Walzer, in definitiva, "la qualifica essenziale per l'esercizio del potere politico non è una speciale comprensione intuitiva dei fini dell'uomo ma un rapporto speciale con un particolare insieme di esseri umani" .

La concezione democratica del potere va difesa per Walzer non solo nei confronti di un esercizio tirannico basato sulla conoscenza, ma anche di fronte al rischio di una tirannia della proprietà, che spesso, invece di costituire una forma di potere sulle cose, si trasforma in strumento per esercitare autorità e controllo sulle persone . L'esempio più significativo per Walzer, è quello della fabbrica, in cui, nella moderna economia capitalistica, la proprietà finisce col rappresentare la fonte stessa del potere degli imprenditori sugli operai. Questo stato di cose non è molto diverso da quanto avveniva nell'economia feudale: è vero sì che "la proprietà capitalistica si basa su forme di attività intrinsecamente non coercitive e non politiche" , ma al suo interno si forma pur sempre una sorta di commistione tra diritti di proprietà e potere, che non è legittima nell'ambito di un regime ispirato a principi democratici. Affinché la democrazia sia effettivamente realizzata, e non soltanto "predicata", deve estendersi a tutti i contesti istituzionali della comunità politica, compresa la fabbrica, la quale dovrebbe essere sottratta al potere esclusivo di chi ne è proprietario, per essere gestita in maniera democratica, attraverso la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, imprenditori e lavoratori.

In questo modo Walzer riesce ad "epurare" il potere politico dalle ragioni estrinseche alla sua vera essenza , per sviluppare un potere basato sulla discussione e sul confronto tra cittadini, vale a dire sul suo esercizio democratico. Tale risultato non è però semplice, né da perseguire, né da mantenere: Walzer puntualizza infatti che la democrazia implica pur sempre una situazione di eguaglianza complessa tra i cittadini partecipanti, dato che "in ogni momento, qualche persona o qualche gruppo dovrà prendere una decisione su questo o quel problema ed imporla, ed altre persone o altri gruppi dovranno accettare la decisione e subire l'imposizione" . L'importante è che tali decisioni siano prese in un contesto in cui ognuno abbia la possibilità di intervenire e di partecipare con i propri argomenti, senza che elementi estrinseci abbiano influenza su di esse e in cui l'unico strumento veramente utilizzabile si riduca alla capacità persuasiva di chi interviene . Al fine di rafforzare il grado di eguaglianza complessa nella sfera della politica, Walzer propone l'introduzione di forme di partecipazione più forti che, andando al di là del semplice diritto di voto, siano finalizzate a stimolare e promuovere la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, in quanto "il cittadino elettore è essenziale per la sopravvivenza della politica democratica, ma il cittadino/politico è essenziale per la sua vitalità e integrità" . La potenziale partecipazione dei cittadini al dibattito e alla lotta politica è ritenuta da Walzer condizione essenziale del loro rispetto di sé: essa infatti implica un attivo intervento del cittadino nella sfera pubblica, per esprimere le proprie opinioni e preferenze, e per opporsi alla violazione dei propri diritti.

E' evidente a questo punto la forte peculiarità della sfera del potere politico rispetto a tutte le altre: il dominio del potere, depurato dagli elementi estranei ed esercitato democraticamente, nei modi fin qui descritti, non è tirannico: al contrario, esso pone fine alla tirannia .

IV. 3   Sulla teoria della giustizia


Nell'ultimo capitolo di Sfere di Giustizia Walzer ritiene opportuno fare delle puntualizzazioni in merito alla teoria nella sua globalità; in primo luogo, ne sottolinea ancora una volta il carattere relativo, nel senso che essa non descrive e non determina un assetto istituzionale giusto in maniera assoluta; ciò che invece ci si aspetta da una teoria della giustizia è di fornire una struttura intellettuale e delle condizioni entro cui eseguire le distribuzioni, conformemente alle concezioni collettive dei membri della società. Tra l'altro, non è neanche garantito che tali concezioni siano tra loro armoniose e non controverse: è perfettamente possibile infatti, che all'interno della società vi sia disaccordo in merito ai significati sociali dei beni da distribuire . In questi casi "la giustizia esige che la società sia fedele a tali dissensi, che fornisca dei canali istituzionali per esprimerli, dei meccanismi di giudizio e delle distribuzioni alternative" . Walzer, in ultima analisi, considera la giustizia come il rispetto massimo per le particolari creazioni culturali e sociali degli esseri umani, e tali criteri interni potrebbero essere soddisfatti dentro i contorni di qualsiasi sistema istituzionale.

In secondo luogo, l'autore dedica alcune riflessioni alle forme di giustizia nelle società occidentali contemporanee, imperniate sul sistema capitalistico. Tale assetto istituzionale, come si è già detto, non può essere considerato di per sé ingiusto ma, essendo caratterizzato da una notevole differenziazione dei beni sociali, impone una vigilanza forte e costante affinché non si verifichino invasioni tra le varie sfere e si realizzi un'uguaglianza che, in tali circostanze, non potrà che essere complessa. Le lotte per la giustizia più comuni alla fine del ventesimo secolo non sono più quelle contro i totalitarismi , quanto invece quelle contro forme più sottili di tirannia, e in particolare quella del denaro. Walzer, come abbiamo visto, non propone di realizzare, all'interno del sistema capitalistico, un annullamento dell'economia di scambio, né tanto meno un appiattimento del potere politico, bensì di introdurre e mantenere dei confini tra le varie sfere in grado di offrire alla società delle garanzie di giustizia e libertà. Tali confini tra l'altro non saranno mai fissati in maniera definitiva ma, al contrario, saranno soggetti a trasformazioni e spostamenti, a seconda dei graduali mutamenti subiti dalla società stessa. Proprio per questo, la separazione delle sfere costituisce per Walzer la migliore arma per la realizzazione di una società giusta.





















Capitolo V

Estensione della teoria della giustizia in saggi successivi



"Ma questo è un quadro ideale,

un criterio di valutazione che descrive

come le cose sarebbero se gli individui

prendessero realmente parte

alla distribuzione

e difendessero con successo

l'autonomia delle sfere"1


L'importanza che Walzer attribuisce ai confini tra le sfere sociali emerge anche da un articolo successivo a Sfere di Giustizia, in cui l'autore ripropone una interpretazione del liberalismo in chiave radicalmente pluralista . In questa sede viene nuovamente confermata la posizione "intermedia" che Walzer sceglie di adottare nel dibattito tra liberali e comunitaristi: anziché condannare le teorie liberali in tutti i loro aspetti e proporre una visione alternativa da opporre ad esse, Walzer riconosce in questo saggio alcuni dei loro meriti fondamentali, in particolare quello di aver praticato la cosiddetta "arte della separazione". Grazie al liberalismo infatti, il vecchio modo di considerare il mondo sociale come un tutt'uno inscindibile viene sostituito da un "universo di 'mura' ciascuna delle quali crea una nuova libertà" : ad esempio, è proprio attraverso la separazione tra Chiesa e Stato che nasce la libertà di coscienza, o di culto, così come quella economica scaturisce dall'apposizione di un confine tra società civile e comunità politica, e la libertà di ricerca e insegnamento dalla divisione tra l'antica "chiesa-stato" e l'istituzione universitaria. Questi meriti delle teorie liberali sono stati quasi sempre ignorati, o addirittura rigettati, dai teorici della sinistra: le separazioni propugnate dal liberalismo vengono considerate come espressione di una sottile ipocrisia da parte della teoria marxista, la quale, al contrario, sottolinea proprio la sostanziale compattezza del mondo liberale e la dipendenza di ogni sua sfera sociale da quella economica dominante.

La proposta di Walzer, che si discosta da questo rigetto assoluto, consiste invece nella rivalutazione dell'arte della separazione e nel suo adattamento all'odierna società complessa e differenziata. In altre parole, l'autore, se da una parte riconosce i limiti delle teorie liberali, dall'altra vede nell'arte della separazione uno strumento valido ed efficace per la realizzazione di una società giusta, da rivisitare e rielaborare in chiave maggiormente pluralista. La debolezza dell'interpretazione liberale risiede nella tendenza a fondare ogni argomento su presupposti radicalmente individualisti. Il "baricentro" del pensiero liberale è costituito dall'individuo, alla cui autonomia e libertà deve essere finalizzato ogni tipo di intervento. L'arte della separazione liberale deve essere interpretata in questa chiave, in quanto le divisioni fra le varie sfere istituzionali esistenti nelle nostre società sono finalizzate a garantire all'individuo degli ambiti in cui poter esercitare la propria libertà e i propri diritti in piena autonomia, al riparo da ogni tipo di ingerenza.

Ciò che Walzer non accetta del liberalismo è proprio questa strumentalizzazione delle istituzioni e delle relazioni sociali per rendere l'individuo indipendente da qualsiasi condizionamento: tale scopo è infatti irrealizzabile, in quanto tutti noi sviluppiamo le nostre esistenze in contesti sociali più ampi e non possiamo essere concepiti a prescindere da essi. Le istituzioni sociali sono realtà nelle quali noi esprimiamo le nostre identità, realizziamo le nostre potenzialità e ci uniamo gli uni agli altri. Alla luce di queste considerazioni, Walzer propone di fondare l'arte della separazione non tanto sull'autonomia degli individui, quanto invece sulla complessità sociale: ogni istituzione trova origine all'interno della società e rispecchia i suoi usi, le sue credenze, le sue complesse relazioni, e per questo non può essere considerata semplicemente il frutto di creazioni di individui dissociati l'uno dall'altro. Da ciò consegue che le linee di separazione proposte dai liberali non possono essere finalizzate solo al raggiungimento di una piena autonomia individuale, ma dovrebbero focalizzarsi proprio sul contesto istituzionale : la proposta di Walzer consiste dunque nel "socializzare" l'arte della separazione, allo scopo di permettere agli individui di integrarsi l'uno all'altro nell'ambito delle sfere sociali in cui agiscono.

E' evidente a questo punto come questa riflessione, posta già a fondamento dello studio sulle sfere di giustizia, sia nello stesso tempo premessa per nuove indagini incentrate su di una realtà sociale sempre più dinamica e differenziata. Sfere di Giustizia infatti rappresenta per Walzer più un punto di partenza che d'arrivo: non perdendo mai di vista la sorprendente dinamicità e complessità delle società contemporanee, Walzer tende ad arricchire la propria teoria con nuovi spunti o, se necessario, a metterla in discussione e modificarla alla luce delle nuove realtà. Ad esempio, uno degli aspetti che egli tratta solo marginalmente in Sfere è quello dell'esclusione, che costituisce il tema principale di un articolo pubblicato nel 1993 . In questa occasione Walzer prende in considerazione alcuni limiti della teoria dell'eguaglianza complessa e, in particolare, il fatto che la sua applicazione concreta non esclude la possibilità di creare comunque una classe di "esclusi", che falliscono inevitabilmente in tutte le sfere distributive.

Questa eventualità era stata trascurata in Sfere di Giustizia, dove si partiva da un presupposto ottimistico fondamentale: la realizzazione dell'eguaglianza complessa avrebbe finalmente dato luogo ad un mondo in cui i perdenti di una sfera sarebbero stati compensati dai successi raggiunti in altri ambiti, fino ad arrivare ad una "versione estesa ed orizzontale del principio aristotelico del governare ed essere governati a turno" . Una tale prospettiva viene spesso smentita dalla realtà e, per questo Walzer si chiede se l'esclusione sia un fenomeno davvero inevitabile, o se invece possa ancora essere fatto qualcosa per combatterla. Nel porsi questo problema, egli prende spunto da alcune teorie che si stanno diffondendo recentemente e che considera particolarmente gravi e pericolose: in base ad esse infatti, si è creato una sorta di "mito dell'esclusione giusta" , in quanto tendono a considerare i soggetti esclusi non come il risultato di distribuzioni distorte, bensì come semplici vittime della sfortuna, come persone per le quali la società ha fatto tutto ciò che si poteva, e che non hanno saputo o potuto mettere a frutto le loro opportunità. Si tratterebbe dunque di "una classe inferiore senza precedenti nella storia umana; non schiavi, non oppressi, non sfruttati; essi sono esattamente dove i loro sforzi, o sforzi insufficienti, li hanno portati. Non hanno neppure una ragione per protestare" .

Walzer invece, muovendo da una tesi opposta, si impegna a dimostrare che le esclusioni tuttora presenti nelle nostre società sono di per sé ingiuste. L'autore parte col considerare la peculiarità delle recenti esclusioni: esse non sono frutto di un dominio diretto e manifesto, bensì di forme di controllo sempre più sottili ed indirette; ad esempio, il potere della gente ricca non è esercitato apertamente sui poveri, ma attraverso modi velati, che offrono la possibilità di acquisire prestigio grazie a forme, comportamenti, stili di vita che evidenziano la classe di appartenenza e le relative conseguenze . Inoltre, molto spesso le odierne esclusioni non coinvolgono soggetti presi individualmente e rifiutati in ogni singola sfera, ma gruppi di persone accomunate dalla stessa provenienza etnica, razziale, culturale o di genere: si comprende dunque che, sempre più frequentemente, l'esclusione non deriva da effettivi fallimenti personali, ma sono frutto di preconcetti ed opinioni stereotipate nei confronti di determinate categorie di soggetti . Per Walzer è importante che tali fenomeni divengano oggetto di responsabilità sociale: tutti i cittadini cioè, dovrebbero impegnarsi attivamente affinché i membri dei gruppi esclusi possano rientrare in società ed operarvi in modo indipendente.

L'autore individua due strumenti fondamentali da utilizzare in vista della creazione di una società maggiormente inclusiva: il welfare e l'educazione. In primo luogo il welfare, anziché rappresentare semplicemente un sistema di soccorso, una rete di salvataggio dalla quale gli "esclusi" saranno perennemente dipendenti, dovrebbe invece essere finalizzato a reintrodurre questi soggetti in comunità e a renderli suoi attivi partecipanti. Allo stesso modo, l'educazione costituisce uno strumento molto importante per accelerare questo processo di inclusione: a tale scopo però, occorre fare attenzione affinché la scuola non diventi il mezzo per perpetuare e riprodurre in futuro le stesse esclusioni di oggi, e rappresenti invece il luogo in cui vengono educati cittadini tra loro uguali, in base a principi democratici. Per Walzer è fondamentale operare direttamente in questi due campi, in quanto i fallimenti in tali contesti si possono facilmente trasferire nel mercato, nei rapporti sociali, nella partecipazione politica, dando luogo a sconfitte reiterate equivalenti all'esclusione stessa.

Una volta compresa l'infondatezza del mito dell'esclusione giusta, o giustificata, risulta chiaro che lo Stato non può restare in una posizione di neutralità di fronte a situazioni di esclusione tuttora diffuse: ed è proprio con riferimento all'intervento dello Stato che Walzer fa un passo avanti rispetto a Sfere di Giustizia. Mentre in quest'ultima riteneva che il compito dello Stato si limitasse quasi esclusivamente alla difesa dei confini tra le sfere, adesso, alla luce della realtà esaminata, si ammette la necessità di operare attivamente anche all'interno di ogni singola sfera, "poiché l'esistenza di un gruppo di uomini e donne esclusi significa che i confini sono stati violati in modo che essi devono adesso essere ridisegnati prima che possano essere difesi. E devono essere ridisegnati dall'interno, con riferimento al significato sociale dei beni in gioco" . Lo Stato dunque è chiamato ad attuare una politica inclusiva in ogni singola sfera distributiva, in modo da permettere ai nuovi esclusi, "non acculturati, disoccupati, non riconosciuti e senza potere" , di diventare personaggi attivi come tutti gli altri. Questo in quanto l'esclusione, di qualsiasi tipo essa sia, è da considerare comunque ingiusta all'interno di una comunità democratica.

Capitolo VI

Alcune interpretazioni della teoria della giustizia



"Solo una teoria generale, del tipo

che Walzer dichiaratamente

sceglie di evitare, è in grado di dire

ciò che l'autore vorrebbe affermare,

senza riuscirvi: che la giustizia

ha determinate caratteristiche

formali"1


La pubblicazione di Sfere di Giustizia ha suscitato reazioni diverse da parte degli autori protagonisti del dibattito contemporaneo sulla giustizia distributiva: dall'approvazione entusiastica all'aperta opposizione, anche se la maggior parte di essi si è limitata a contestare singoli aspetti della teoria nell'ambito di una valutazione globale positiva. Gran parte di queste critiche sono state raccolte ed organizzate in un volume curato da David Miller e dallo stesso Walzer che, in conclusione, fornisce una risposta alle osservazioni avanzate, precisando ulteriormente il modo in cui i suoi principi debbano essere interpretati.

L'aspetto che maggiormente accomuna questi interventi riguarda uno dei punti fondamentali della teoria dell'eguaglianza complessa: quello che stabilisce un legame diretto tra i significati sociali dei beni ed il criterio da adottare per la loro distribuzione. A tale proposito Miller, nell'introduzione al volume, suggerisce che questo concetto non deve essere accolto nel suo significato letterale : le opinioni della società circa i beni e le istituzioni non vanno considerate una ad una, scegliendo poi tra quelle prevalenti, bensì sono da valutare globalmente, cercando di intravedere al loro interno un certo grado di coerenza, un assetto strutturale che le unisce. In particolare, "le opinioni in merito a materie specifiche dovrebbero pur sempre derivare da principi di natura più generale" . In questo modo Miller riesce a fornire una versione meno radicale del principio che è stato fatto oggetto di diverse critiche da parte di molti autori; al di là di ciò comunque, anche Miller avanza delle osservazioni in merito a due aspetti problematici della teoria. In primo luogo, egli contesta l'opportunità, su cui Walzer insiste, di agire lungo i confini tra le sfere piuttosto che al loro interno; in altre parole, è proprio vero che il potere esercitato entro certi limiti all'interno di ogni sfera sia necessariamente più tirannico di quello praticato per impedire invasioni tra una sfera e l'altra? Per Miller la risposta non è così scontata e del resto, come si è visto, Walzer stesso è ritornato su questo punto, sottolineando l'opportunità, in certi casi, di agire all'interno delle sfere stesse .

In secondo luogo, Miller si chiede se, nell'ambito di una teoria di tipo interpretativo, come quella di Walzer, sia corretto affidare un ruolo tanto fondamentale al concetto di eguale cittadinanza . Questo principio infatti, è talmente radicato nella coscienza collettiva delle civiltà contemporanee, che risulta quasi scontata l'influenza che esso esercita nelle nostre decisioni distributive. Al contrario, Walzer attribuisce uno spazio troppo ristretto ad un altro criterio distributivo, quello del merito, che invece dovrebbe acquisire un peso maggiore in tutte le sfere di giustizia.

Abbastanza simile, anche se più aspra, è la critica avanzata da Rustin alla teoria dell'eguaglianza complessa . L'autore inizia col sottolineare i meriti più significativi dell'approccio walzeriano, ed in particolare quello di aver dimostrato la complessità del concetto di uguaglianza nelle società contemporanee; oggi infatti assistiamo ad una intensa e rapida trasformazione dei rapporti sociali, che divengono sempre più complessi e multiformi, e pertanto non possono più essere regolati da un unico criterio di giustizia, finalizzato alla realizzazione dell'eguaglianza semplice. La prospettiva dell'uguaglianza complessa appare dunque molto più attraente, anche se Rustin non manca di sottolineare una negligenza commessa da Walzer nel corso della sua analisi, e cioè il non aver considerato la possibile realizzazione di uno stato di "disuguaglianza complessa"; potrebbe infatti accadere che, nonostante il mantenimento dei giusti confini tra le sfere e di un grado elevato di pluralismo, alcuni beni risultino comunque caratterizzati da una posizione di dominanza rispetto agli altri. Prendere in considerazione una tale eventualità significherebbe ammettere la possibile inefficacia della teoria, e tuttavia un passo del genere non ne compromette, a mio avviso, la credibilità. Come si vedrà nella response finale, Walzer ha in seguito accolto favorevolmente il suggerimento di Rustin, precisando che la teoria delle sfere potrebbe anche dar luogo a forme di "disuguaglianza complessa".

Procedendo nella sua analisi critica, anche Rustin, similmente ad altri autori, finisce con l'attaccare il presupposto walzeriano in base al quale i giusti criteri di distribuzione sono unicamente determinati in ogni sfera attraverso i significati sociali dei beni: questi infatti non sono gli unici fattori che influiscono sulle distribuzioni e, per giunta, attribuire un significato prevalente ad un bene può spesso risultare problematico, poiché non sempre esiste un consenso generalizzato in proposito. Inoltre, Rustin riesce anche ad individuare una contraddizione di fondo presente nella teoria walzeriana: Walzer, oltre ad affermare il legame diretto tra significati sociali e criteri distributivi, sottolinea anche l'importanza, ai fini della giustizia nella società, del pluralismo e della differenziazione sociale; egli però non si accorge che a volte questi due principi possono operare in direzioni opposte: più infatti una società si ispira a criteri pluralistici, e più risulterà difficile per essa creare significati sociali in maniera pacifica e consensuale.

Rustin presenta nel suo saggio anche un'analisi del modo in cui la teoria di Walzer si concilia con le effettive caratteristiche dell'America contemporanea, riuscendo a cogliere in proposito ulteriori aspetti contraddittori ed implicazioni poco convincenti. Ad esempio, in Sfere di Giustizia viene più volte ribadito l'intento di una democratizzazione globale, che investa non soltanto la sfera del potere politico, ma si estenda ad ogni settore sociale , in particolare alla gestione delle fabbriche. Nel perseguire questo scopo però, Walzer sembra trascurare il carattere tradizionalmente individualista della società americana, e soprattutto il fatto che gran parte dei suoi membri accettano in maniera al quanto pacifica la gestione capitalistica dei mezzi produttivi. La realizzazione di un tale obiettivo pertanto "richiederebbe non un semplice aggiustamento dei confini tra le sfere, bensì un cambiamento rivoluzionario del sistema di valori e della divisione del potere nella società americana" .

A mio avviso, Rustin riesce a cogliere qui un aspetto molto importante per il quale la teoria delle sfere risulta criticabile: se da una parte Walzer ci propone un'analisi interpretativa e contestualizzata, in certe occasioni egli rischia di dettare soluzioni "staccate" dal particolare contesto a cui si riferiscono. Come si possono infatti intravedere discrepanze tra pratiche distributive e concezioni dei beni distribuiti, se chi si trova coinvolto in un dato assetto non avverte queste anomalie? E come conciliare questa realtà con la prospettiva "internalista" proposta da Walzer? L'obiettivo della democratizzazione globale potrebbe rivelarsi utopico se perseguito semplicemente attraverso procedure "interne" al sistema di valori della società americana; e in ogni caso, pur ammettendone la "provenienza" esterna, la sua realizzazione sarebbe paradossalmente "indemocratica" all'interno di una società che in sostanza approva la dominanza del capitale in certi settori.

Altro autore che critica il legame tra criteri distributivi e significati sociali è Barry , come si è già visto nell'analisi della sfera del denaro; in particolare, egli sottolinea la tensione di fondo che sussiste tra i due principi cardine della teoria walzeriana: da una parte, la realizzazione dell'eguaglianza complessa attraverso una giusta separazione tra le sfere, e dall'altra la diretta determinazione dei criteri distributivi attraverso i significati sociali dei beni. I due principi riescono a mantenere una loro coerenza interna solo in quelle società che generalmente considerano la separazione e la differenziazione come elementi di giustizia, mentre nelle altre si darebbe luogo inevitabilmente ad una forzatura. La soluzione consiste nel formulare una teoria che, oltre ad essere sensibile ai significati diffusi nella società, faccia riferimento anche a principi universali, applicabili a tutti i contesti .

Altro aspetto importante sul quale Barry si sofferma è il modo in cui si formano i significati sociali a cui Walzer si riferisce: oltre ad essere al quanto difficile giungere ad una situazione di generale consenso, è inevitabile che essi subiscano, in qualche modo, il potere esercitato da alcuni soggetti sugli altri membri della società. I significati sociali infatti, non sorgono spontaneamente, ma si forgiano e si plasmano attraverso alcuni strumenti che li influenzano direttamente, come i mass-media, l'istruzione, il credo religioso e, in definitiva, essi dipendono da chi detiene il controllo di tali settori.

Una delle critiche più interessanti a Sfere di Giustizia è, a mio avviso, quella di Gutman , la cui analisi parte da una considerazione ben precisa: lei accetta la complessità della giustizia che Walzer propone, ossia il fatto che esista una pluralità di principi distributivi, e non uno dotato di valore assoluto, ma ne contesta la "specificità". Secondo Walzer infatti, ogni sfera è regolata da un suo proprio criterio di distribuzione, a sua volta determinato dal significato che la società attribuisce al bene; per Gutman questo punto è smentito dal fatto che esistono dei disaccordi riguardo al modo in cui certi beni o settori sono da considerare e, pertanto, la loro risoluzione risiede in argomentazioni di tipo morale, anziché nei significati sociali in conflitto. Al fine di rendere chiaro questo punto, Gutman riporta l'esempio dell'impiego produttivo: la sua distribuzione, per Walzer, dovrebbe essere regolata in base al criterio del merito ma, considerando le circostanze concrete della società americana, l'impiego rappresenta un importante strumento di sostegno delle categorie più bisognose, nonché di lotta contro la discriminazione razziale o sessuale; di fronte ad una tale situazione conflittuale, la scelta "giusta" coincide con la politica meno dannosa da un punto di vista morale .

La specificità dei criteri distributivi viene messa in discussione anche sottolineando la presenza di principi più "generali", che non derivano dal significato di alcun bene, ma fanno comunque parte della nostra cultura comune, e pertanto mantengono la loro validità in sfere diverse. I significati sociali, pur essendo importanti fattori da considerare nella risoluzione dei problemi distributivi, rappresentano degli strumenti insufficienti a regolare le distribuzioni in maniera totale ed esclusiva, e tali lacune si possono colmare appellandosi a principi generali, come la responsabilità individuale, la dignità umana, l'appartenenza . Essi non sono esclusivi di nessun ambito particolare, ma non costituiscono neanche leggi astratte, finalizzate a regolare le distribuzioni in maniera assoluta: fanno parte della nostra coscienza collettiva, e non possono essere ignorati se si desidera creare una società giusta.

Incentrata su un aspetto diverso è invece l'analisi critica effettuata da Carens , il quale sposta l'attenzione sul concetto di "particolarismo della giustizia" che Walzer più volte ribadisce. Il rifiuto di adottare principi di giustizia universali ed astratti si traduce, come si è visto, in una teoria interpretativa e contestualizzata, volta a considerare pratiche ed istituzioni politiche non in maniera assoluta, ma in relazione alla particolare comunità che le ha create e al contesto sociale in cui si inseriscono; da ciò consegue che, per Walzer, "le domande poste dalla teoria della giustizia distributiva ammettono una grande varietà di risposte" che dipenderanno anche dalla cultura e dagli assetti politico-istituzionali dei diversi paesi: in sostanza, tutte le comunità possono realizzare la giustizia a partire dalle loro premesse centrali. Il punto problematico relativo a tale metodo "particolaristico" si percepisce, secondo Carens, con riferimento a quei contesti che non possono essere definiti propriamente democratici: mentre per Walzer ogni pratica può essere considerata di per sé giusta se valutata in base ai canoni interni della comunità che la adotta, Carens pone un limite a questa "accettabilità". La sua analisi parte da un quesito fondamentale: devono davvero essere accettate e rispettate tutte le pratiche di altre culture, solo perché un nostro eventuale rifiuto darebbe luogo ad un giudizio di tipo etnocentrico? L'intento di fornire una risposta a tale quesito conduce Carens a determinare in che misura la teoria della giustizia debba essere particolaristica, come quella walzeriana, e in quali casi invece essa debba lasciare il posto a principi universali . Egli individua un substrato di principi morali minimalisti, che non sono determinati da alcuna comunità particolare, ma devono essere universalmente validi, proprio perché basilari, e quindi irrinunciabili. Se dunque, il rispetto delle differenze culturali costituisce un principio importantissimo in ogni contesto democratico, esso deve pur sempre avvenire entro i limiti delle altre componenti fondamentali di ogni società, come i diritti dell' uomo e l'uguaglianza tra tutti gli esseri umani .

Pluralism, Justice and Equality contiene anche due articoli che affrontano una questione più ampia, e cioè se l' eguaglianza complessa sia o meno una prospettiva effettivamente egualitaria: mi riferisco agli interventi di Arneson e Miller, l'uno contrario e l'altro favorevole al concetto di eguaglianza complessa.

Il saggio di Miller difende esplicitamente la teoria delle sfere e riconosce le sue importanti implicazioni egualitarie; in particolare, egli sottolinea l'effetto concreto che la teoria può produrre nelle società contemporanee, in cui l'eguaglianza complessa descritta da Walzer si traduce di fatto in eguaglianza di status. Nonostante le differenze nelle varie sfere, ineliminabili in società fortemente pluraliste, si può realizzare un'eguaglianza di status quando gli individui si considerano reciprocamente uguali, e sono considerati tali dalle istituzioni. Per Miller dunque, l'uguaglianza deve essere concepita non come una proprietà delle distribuzioni dei beni agli individui, ma come una caratteristica delle relazioni sociali: essa va al di là di ogni possibile disuguaglianza materiale, in quanto si realizza nell'ambito delle concezioni reciproche tra i cittadini, ma non per questo è meno "sostanziale" dell'uguaglianza intesa in senso tradizionale.

Del tutto diversa è la posizione di Arneson , che mette seriamente in discussione le basi egualitarie della teoria di Walzer. Arneson inizia col definire i requisiti fondamentali di una teoria politica "intrinsecamente" egualitaria, intesa come quella che, di fronte a un problema distributivo, ritiene moralmente preferibile concedere il bene ai più svantaggiati (anche se una diversa distribuzione potrebbe produrre maggiore utilità). La teoria di Walzer non è dotata, secondo Arneson, di tali caratteristiche, e per questo è solo "contingentemente" egualitaria; ciò è dimostrato dal fatto che l'uguaglianza complessa è compatibile con forti disuguaglianze all'interno di ogni singola sfera e non offre concrete garanzie contro situazioni di dominio reiterate in più ambiti distributivi. Pur rispettando l'autonomia delle sfere, può accadere infatti che la stessa persona si trovi nella posizione più svantaggiata in tutte le sfere, o che il divario tra la posizione più vantaggiosa e quella che lo è meno sia enorme. Ciò che per Arneson è davvero rilevante da un punto di vista morale è la realizzazione di una eguaglianza effettiva di benessere, e pertanto egli rifiuta non solo la teoria di Walzer dell'uguaglianza complessa, ma anche la versione elaborata da Miller dell'eguaglianza di status.

Pluralism, Justice and Equality si chiude con un capitolo in cui Walzer fornisce delle puntualizzazioni sulla sua teoria, in risposta alle critiche precedenti . Egli ribadisce innanzitutto che l'uguaglianza complessa è una prospettiva effettivamente egualitaria: attraverso l'autonomia delle sfere infatti, si può giungere ad un significativo declino della dominanza, e quindi ad una società formata da membri tra loro più eguali. Nel fare questa affermazione però, l'autore non spiega perché si possa ragionevolmente prevedere che ciò accada e, in tal modo, evita di affrontare direttamente le critiche avanzate da Arneson alla teoria; il suo atteggiamento consiste piuttosto nel riconfermare la validità dei propri principi, senza però fornire argomentazioni di supporto che ne diano la dimostrazione.

Una linea simile viene adottata anche in risposta alle critiche di Carens, in merito alle quali Walzer specifica che le società non democratiche, pur costituendo delle realtà problematiche e preoccupanti, non possono di per sé essere etichettate come "ingiuste" e considerate incapaci di perseguire forme di giustizia nell'ambito delle loro proprie istituzioni, senza però fornire alcun esempio dimostrativo.

Nella response Walzer affronta anche il problema, sollevato da Rustin, della disuguaglianza complessa, come possibile risultato dell'applicazione della sua teoria; in particolare, egli non esclude del tutto che ciò possa verificarsi, ma questo si saprà solo dopo aver effettivamente realizzato la separazione delle sfere nell'attuale società. Le disuguaglianze che affliggono le società contemporanee infatti, per quanto sottili e complicate, costituiscono casi di "disuguaglianze semplici": esse non colpiscono individui presi singolarmente e vittime di fallimenti reiterati in ogni sfera autonoma, ma il più delle volte coinvolgono gruppi di persone, escluse in quanto stereotipate come "diverse", per motivi di ordine razziale, etnico, sessuale, ecc. Dato che ancora i processi dell'eguaglianza complessa non sono stati messi in atto, non si può parlare dei suoi effettivi risultati, siano essi positivi o negativi.

Walzer fornisce anche altri chiarimenti: ad esempio, ammette, seguendo Barry, l'ingiustizia delle attuali distribuzioni internazionali, e sottolinea, sullo spunto di Rustin, l'importanza di studiare i processi sociali da cui scaturisce l'eguaglianza complessa. Al di là di queste precisazioni però, la response non stravolge l'impianto teorico di Sfere di Giustizia, e ciò conferma che, per Walzer, la sua teoria riesce a superare gli attacchi critici subiti, restando il quadro normativo di riferimento.













Capitolo VII

Moralità e giustizia


"Noi marciamo per conto di popoli

in difficoltà, quali che siano, e

contemporaneamente facciamo le nostre

manifestazioni.[.] Non dobbiamo cercare

di sfuggire a questo dualismo, perché

esso si adatta a quello che sono incline

a definire come il carattere necessario di ogni

società umana: universale perché è umana,

particolare perché è una società"1


VII. 1   Geografia della morale: premesse ed obiettivi



Geografia della Morale affronta alcuni dei temi centrali del pensiero filosofico contemporaneo, inquadrandoli nel nuovo contesto internazionale venutosi a creare con la caduta dei regimi comunisti e l'affermazione di nuove identità nazionali. Nell'ambito di un discorso di ampio respiro, che abbraccia il tema della moralità in contesti diversi, quali la politica internazionale e la critica sociale, Walzer riprende anche l'argomento della giustizia distributiva, che viene ribadito nella sua veste complessa e particolaristica, ma anche esteso ed affiancato da opportuni riferimenti universalistici. Nonostante infatti l'autore non intenda mettere in discussione il suo approccio internalista, né il valore che il critico sociale è tenuto ad attribuire al rispetto per la differenza, egli prende atto qui della nuova realtà venutasi a determinare nelle società contemporanee: una realtà che, se da una parte vede emergere i cosiddetti "nuovi tribalismi" , consistenti nell'intento di riaffermare identità locali e particolari, alimentati da forti passioni nei confronti del proprio gruppo di appartenenza (etnico, religioso, nazionale), è anche caratterizzata, quasi paradossalmente, dal fenomeno della globalizzazione.

I cambiamenti avvenuti in questo scorcio di secolo mettono a dura prova la validità ed il significato delle tradizionali cerchie di riconoscimento, per lo più definite in termini di omogeneità etnica e culturale, ponendo la filosofia politica contemporanea di fronte all'impellente esigenza di estendere i criteri di giustizia dal contesto locale a quello globale. Le teorie della giustizia, essendosi tradizionalmente riferite nelle loro elaborazioni ad un sistema chiuso, identificabile per lo più con lo Stato nazione, si trovano a doversi adattare ai cambiamenti strutturali che la globalizzazione porta con sé. Walzer prende atto di questo stato di cose e, anche alla luce delle critiche avanzate a Sfere di Giustizia , riconosce la necessità di elaborare "un modello elastico che sia capace di operare su livelli molteplici - locale, nazionale, regionale e globale", derivante da "un'ideologia universalistica, o quasi universalistica, che va di pari passo con una richiesta straordinariamente forte di politica della differenza" .

Partendo da tali premesse, l'autore propone ed analizza due diverse tipologie di argomento morale: una "spessa" (thick) o "massima", che deriva dal nostro essere situati in un preciso contesto storico e all'interno di specifiche tradizioni culturali, e un'altra "sottile" (thin) o "minima" che, attraverso un insieme di principi etici universali, ci permette di instaurare un dialogo con gli altri popoli, dialogo che si sviluppa lungo il filo sottile che ci lega, nonostante le varie differenze e particolarità.

VII. 2   Due tipi di termini morali


La distinzione tra termini morali "spessi" e "sottili", che costituisce la tesi centrale dell'opera, viene introdotta da Walzer tramite la descrizione di una bella immagine: siamo alla fine del 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, e la gente manifesta per le strade di Praga, portando cartelli con su scritto "Verità" e "Giustizia". L'autore sottolinea come, di fronte a una tale immagine, chiunque avrebbe potuto capire il significato di quelle parole ed appoggiare la causa dei dimostranti praghesi, pur appartenendo ad un'altra cultura e intendendo per questi termini cose specifiche diverse.

In quel momento i manifestanti si riferivano a concezioni molto elementari di Verità e Giustizia: "volevano sentir dire la verità dai loro leader politici, volevano essere capaci di credere in ciò che leggevano sui giornali. Non volevano più menzogne" , così come con il termine Giustizia intendevano "la fine degli arresti arbitrari, l'uguaglianza e l'imparzialità della legge, l'abolizione dei privilegi e delle prerogative goduti dai dirigenti di partito" , e proprio tali concezioni molto basilari permettevano alla causa praghese di essere capita e sostenuta universalmente.

Se poi questi soggetti avessero dovuto spiegare i loro programmi di distribuzione delle risorse, o le loro idee sul sistema sanitario o educativo, o descrivere nel dettaglio che cosa intendessero per "società giusta", con ogni probabilità sarebbero emerse molte differenze, anche radicali, legate alle diverse concezioni storiche e culturali, e gli spettatori esterni avrebbero potuto o meno approvare le specifiche scelte.

La forma elementare e basilare di Giustizia e Verità rivendicata in occasione di quel momento di crisi costituisce un esempio di "moralità sottile" o minima, una moralità cioè più immediata, capace di superare le differenze di tempo e di spazio e di riunire in un solo discorso universale individui con idee "spesse" profondamente diverse tra loro, in quanto radicate nello specifico contesto culturale e sociale in cui ciascuno di noi è inserito.

Muovendo dalla tesi che il dualismo "spesso-sottile" è proprio di ogni moralità, Walzer si sofferma a specificare il modo in cui esso deve essere interpretato, dal momento che molti filosofi morali sono spesso vittime di un equivoco. E' comune infatti ritenere che possa esistere "un (sottile) insieme di principi universali adattati (in forma spessa) a questa o a quella circostanza storica" , quasi un nocciolo di principi morali comuni e, in un certo senso, "oggettivi", in quanto non influenzati da elementi localistici, che solo in un secondo momento diventerebbero "spessi" e circostanziati.

Walzer non condivide questa interpretazione e sostiene, al contrario, che "la moralità è spessa fin dall'inizio, culturalmente integrata e pienamente conforme, e si rivela sottile solo in occasioni speciali, quando il linguaggio morale è piegato a scopi particolari" : egli in sostanza non crede nell'esistenza di un "esperanto morale" che si ponga al di sopra delle nostre concezioni particolaristiche, in quanto ogni moralità è originariamente "spessa", incarnata nelle singole tradizioni socio-culturali e nella memoria dei membri delle varie comunità. Il dualismo "spesso-sottile" non va inteso come una sorta di divisione della nostra moralità in due momenti distinti e successivi (origine sottile, che si fa in seguito spessa e localizzata), bensì come contemporanea permanenza di sottigliezza e spessore, minimalismo e massimalismo, morale universale e morale relativista.

Walzer aveva esposto delle riflessioni molto simili in un articolo pubblicato in Italia nel 1991 , nel quale, prendendo spunto anche da alcuni esempi provenienti dal mondo della Bibbia, introduceva ed analizzava due diversi tipi di universalismo: quello della legge generale o onnicomprensiva (covering-law universalism) e quello reiterativo (reiterative universalism

Il primo tipo di universalismo "ritiene che come c'è un solo Dio, così c'è una sola legge, una sola giustizia, un modo solo di intendere il viver bene o la società buona o il buon regime, una salvezza, un messia, un millennio per tutta l'umanità" . Si tratta in pratica del minimalismo oggettivo e inespressivo al quale Walzer tanto accanitamente si oppone in Geografia della Morale, in quanto pretende che tutti marcino nella stessa direzione, assumendo che solo quella sia la direzione giusta e corretta per gli uomini e le donne.

Viene da chiedersi come l'autore riesca a conciliare il suo rigetto dell'unidimensionalità con una qualche forma di accettazione di argomenti universali: la chiave per spiegare questo apparente paradosso sta nell'elaborazione del secondo tipo di universalismo, quello reiterativo, che si caratterizza proprio per "il suo punto focale particolaristico e la sua tendenza pluralizzante" . In questa seconda visione si evita di eleggere una sola "via" a modello per tutti noi, in quanto si riconosce che ogni singola storia ed esperienza ha un suo proprio valore ed è degna di rispetto. Ad esempio, l'esodo di Israele dall'Egitto "può essere visto come fatto esemplare, cardinale in una storia particolare, che altre genti possono ripetere - devono ripetere, perché l'esperienza appartenga ad esse - a modo loro" .

Walzer dunque, accetta nel suo pensiero degli elementi universalistici, purchè però si tratti di un universalismo reiterativo e non assoluto: reiterativo in quanto rispettoso di ogni atto di specializzazione morale e dello "spessore" implicito in ogni nostra concezione. Ogni membro della società è condizionato inevitabilmente dal contesto socio-culturale in cui vive, a partire dal quale elabora una propria storia, cultura, memoria, modo di vita e concezioni dei beni sociali; ciò nonostante, in speciali occasioni emerge anche la "sottigliezza" propria degli esseri umani, che riescono così a "concepire gli uni i modi di vita degli altri, rispondere alle grida di aiuto di alcuni, imparare gli uni dagli altri, e (qualche volta) marciare nelle stesse manifestazioni" : tutto ciò può avvenire proprio perché il minimalismo morale a cui Walzer si riferisce, anziché essere una moralità neutra, "designa alcune forme reiterate di specifiche morali spesse" .

Di fronte ad un ragionamento come questo, risulta naturale porsi un quesito: se l'universalismo che noi accettiamo è reiterativo, in quanto si costituisce attraverso la reiterazione delle specifiche morali "spesse" di varie culture e civiltà, come è possibile selezionare i valori che lo determinano e ne formano le basi? In altre parole, esiste una qualche nozione sostanziale del minimum morale? Secondo Walzer, l'essenza del minimalismo è rappresentata da tutte quelle norme che nelle varie società garantiscono dei diritti fondamentali all'essere umano, salvaguardandolo da pericoli e violenze, quali l'assassinio, la tortura, l'oppressione, la tirannia, ecc. Si tratta in pratica delle regole, tutt'altro che "sottili", ma non per questo meno universalizzabili, attraverso le quali, nel corso dei secoli, americani ed europei hanno disegnato il loro universo liberaldemocratico.

Per l'autore "una moralità che non consentisse un tale discorso, i cui praticanti non potessero parlare a nome delle sofferenze e delle oppressioni di altri popoli o marciare al fianco di altra gente, sarebbe una morale deficitaria. Una società o un regime politico [.] che violasse le norme minime sarebbe una società o un regime deficitario" . E allora, come fare per espandere la morale minima anche in tali contesti? Come poter cioè convincere altri popoli ad accettare norme, quali la libertà di mercato, la democrazia sociale, il laissez-faire in campo etico, il pluralismo, la tolleranza, il multiculturalismo che, oltre a costituire la sostanza del minimalismo morale, rivelano anche tutto lo "spessore" della cultura "occidentale"? Per realizzare questo non ci si può di certo appellare ad una presunta universalità di tali principi, ma occorre dimostrare come essi siano valori auspicabili se e in quanto incarnati nello spessore e nella peculiarità di una cultura, se cioè vengono accettati e difesi dall'interno della società, piuttosto che imposti dall'esterno.



VII. 3   Lo spessore della giustizia


L'interpretazione più diffusa della giustizia distributiva in campo filosofico è quella che la considera come uno dei principali esempi di moralità sottile, vale a dire come un insieme di principi e di procedure derivanti da una legge singola e universale. Nella geografia dell'etica la giustizia viene tradizionalmente rappresentata in una veste unidimensionale, presupponendo che ci sia un solo "ordine sociale giusto, e tutte le ingiunzioni negative della teoria della rettitudine - contro l'uccidere, il torturare, l'opprimere, il mentire, il truffare, e così via - si esprimono con il linguaggio della legge generale: con il generale e assoluto "non devi!" .

Nel secondo capitolo di Geografia della Morale, Walzer si pone in una prospettiva opposta a tale impostazione tradizionale, illustrando come, in realtà, i problemi connessi alla giustizia distributiva rappresentino casi di moralità spessa, o massima, "una morale che è idiomatica nel linguaggio, particolarista nei suoi riferimenti culturali e infine circostanziata, sia perché storicamente determinata sia perché fattualmente dettagliata." I principi e le procedure che governano la distribuzione dei beni all'interno di una comunità vengono infatti elaborati nel corso di lunghi lassi di tempo, attraverso complesse interazioni sociali (quali dispute e conflitti tra individui e gruppi, transazioni politiche, influenze di altre culture, condizionamenti religiosi): per questi motivi, i principi distributivi si "impregnano" degli elementi culturali e sociali della comunità che li adotta, configurandosi dunque come spessi e particolaristici.

La prospettiva della giustizia come moralità massima non rappresenta comunque una novità, dal momento che può essere facilmente dedotta anche dalla teoria esposta in Sfere di Giustizia che, come si è visto, anziché attribuire ai principi distributivi una valenza di tipo universale, li ricollega direttamente ai significati sociali dei beni da distribuire, ossia alle concezioni peculiari che i membri di una certa comunità hanno di quei beni. La teoria dell'eguaglianza complessa elaborata in Sfere viene dunque riconfermata nei suoi punti fondamentali, anche se l'autore effettua qui delle importanti puntualizzazioni, in risposta alle innumerevoli obiezioni che erano state sollevate contro il suo impianto teorico.

Innanzitutto, egli specifica che la giustizia distributiva "non è semplicemente relativa" in quanto, nonostante il suo spessore, essa è formata anche da principi con valenza universale reiterata, dai quali è allo stesso tempo vincolata.

In secondo luogo, Walzer si sofferma sul processo interpretativo dei significati sociali che, come si è visto, ha rappresentato un notevole bersaglio di critiche. Il fatto che i criteri distributivi dipendono, per l'autore, dai significati sociali dei beni, non implica necessariamente che tali significati si formino in maniera pacifica e lineare; al contrario, essi "cambiano col tempo, e sono il risultato di interne tensioni ed esempi presi da altri popoli; sono cioè sempre soggetti a disputa" . Ciò nonostante, se ci poniamo in un orizzonte più ampio, ci accorgeremo che tali conflitti avvengono comunque all'interno di un mondo di valori comuni, accettato e condiviso dai soggetti che prendono parte al dibattito e si trovano in disaccordo su questioni più specifiche. In altre parole, esiste nell'ambito di una comunità un contesto generale omogeneo, costituito dai principi fondamentali dell'universo sociale coinvolto, e su questo terreno avvengono le dispute riguardanti gli aspetti particolari della distribuzione.

Al di là di queste due puntualizzazioni (di cui la seconda non costituisce a mio avviso una risoluzione adeguata ai problemi che erano stati sollevati da alcuni critici)20, Walzer ribadisce animatamente la sua teoria originaria dell'uguaglianza complessa, che viene qui ricollegata ad una moralità massimalista: la giustizia infatti "richiede la difesa della differenza - diversi beni distribuiti per diverse ragioni fra diversi gruppi di individui" , e soltanto ciò le permette di riflettere il concreto spessore di una particolare cultura e società. Al contrario, l'uguaglianza semplice, agognata da molti filosofi, viene accostata da Walzer ad un'idea sottile di giustizia, "utile nella critica di casi estremi di ingiustizia, ma assolutamente incapace di governare l'intera serie dei processi distributivi" .

L'idea dell'uguaglianza complessa, differenziata, multidimensionale è fondamentale nel pensiero walzeriano, in quanto essa sola garantisce l'esistenza di un contesto nel quale l'individuo trova la possibilità di esprimere se stesso in tutta la sua complessità. L'Io contemplato da Walzer è infatti un'Io differenziato e multiforme: di conseguenza, la società è tenuta ad offrire diversi sbocchi alle sue varie componenti, per permettere modi differenti di autodeterminazione ed autopossesso.

Queste premesse costituiscono gli strumenti attraverso i quali l'autore può replicare ad un'altra critica mossa nei suoi confronti, ossia la tesi in base alla quale l'analisi dei criteri distributivi da un punto di vista interno alla cultura che li adotta precluderebbe "una critica sociale seria o radicale"23. A questo riguardo, Walzer mette in luce proprio la grande potenzialità di una critica interna e massimalista, definita efficacemente con l'espressione "sovversismo dell'immanenza" : sono infatti le critiche provenienti dall'interno, piuttosto che quelle esterne, a mettere maggiormente in luce l'ipocrisia e l'inefficacia con la quale i detentori del potere applicano i principi che dovrebbero guidare la comunità, e a suscitare quei fermenti di dissenso che, col tempo, portano alle riforme e alle rivoluzioni.

VII. 4   Considerazioni conclusive


Nonostante l'introduzione di alcuni elementi universalistici all'interno del suo discorso, le riflessioni che Walzer espone in Geografia della Morale sostanzialmente confermano una visione pluralista della società ed un approccio particolaristico ai suoi problemi. Anche gli altri capitoli dell'opera, pur affrontando tematiche diverse dalla giustizia distributiva, si inseriscono all'interno di uno schema che lascia spazio all'espressione delle differenze, rispettando i limiti di un minimalismo reiterativo, ossia di principi fondamentali per la dignità dell'essere umano.

Le riflessioni di Walzer sulla ricomparsa nello scenario politico internazionale dei cosiddetti "tribalismi", ad esempio, vanno a sostegno di scelte finalizzate alla creazione di spazi che consentano alle diverse tribù di esprimersi ed autodeterminarsi: "ciò che è necessario è un consenso internazionale che convalidi una varietà di scelte sostenendo qualsiasi accordo politico che soddisfi le tribù in pericolo" .

Anche in questo caso, il discorso si riconduce all'idea fondamentale di Walzer, che sta alla base di tutte le sue riflessioni in merito a questioni specifiche, vale a dire quella che considera l'essere umano non come un'entità lineare ed univoca, bensì complessa e multiforme. Proprio da questa constatazione discende la necessità di creare spazi adeguati in cui tali identità differenziate possono trovare la libertà di esprimersi ed esplicarsi, e ciò in quanto "l'esperienza della differenza, quando è pacifica, aumenta il potere dell'individuo che ha la libertà di manovra fra diverse possibili alternative senza essere intrappolato in nessuna di esse" .

Queste riflessioni costituiscono le premesse fondamentali dell'opera più recente di Walzer, che sarà discussa nel prossimo capitolo, in cui l'autore si sofferma sul problema della tolleranza: la politica della differenza che egli propone conduce infatti alla coesistenza, nell'ambito di un'unica entità politica, di gruppi "diversi" tra loro da un punto di vista etnico, religioso, culturale. Quale atteggiamento adottare dunque di fronte a tali problematiche?







Capitolo VIII
Questioni di tolleranza

"I confini esistono ancora, anche se

sono resi più confusi dal moltiplicarsi

degli attraversamenti.

Sappiamo ancora di essere questo o quello,

ma questa conoscenza è incerta,

giacchè siamo anche

questo e quello"1


VIII. 1   Introduzione


Il problema della tolleranza, che fino a pochi anni fa sembrava una questione teoricamente e politicamente risolta nelle democrazie occidentali, torna oggi ad occupare una posizione centrale nell'ambito delle discussioni filosofiche. Le società contemporanee si trovano sempre più spesso ad affrontare casi di difficile coesistenza di entità diverse, tendenti a sfociare in rivendicazioni etniche, spinte secessioniste, rinascita di fondamentalismi: un simile scenario dimostra l'insufficienza e l'inadeguatezza dei modelli di tolleranza tradizionali, per lo più finalizzati alla reciproca accettazione di differenze individuali, richiedendo l'elaborazione di teorie attrezzate per rispondere esaurientemente alle odierne questioni.

Una di queste risposte proviene proprio da Walzer, che nell'opera Sulla Tolleranza affronta il problema, adottando uno stile semplice e pragmatico e offrendo degli spunti interessanti per comprendere ed approfondire alcuni casi complessi che caratterizzano le democrazie contemporanee.

Con questa trattazione, l'autore si discosta dalle problematiche tradizionali di giustizia distributiva che si sono analizzate finora, anche se comunque, nonostante la novità del tema, egli riconferma sia l'approccio metodologico rigorosamente pragmatico e contestualizzato, che l'atteggiamento di sostegno entusiastico della differenza e del pluralismo.

Da un punto di vista metodologico, l'autore puntualizza fin dall'inizio che la sua non vuole essere un'argomentazione filosofica sistematica, in quanto "al di là della tesi minimalistica del valore della pace e delle norme conseguenti di non interferenza [.], non c'è nessun principio che governi tutti i regimi di tolleranza o che imponga di agire in ogni circostanza, in ogni tempo e in ogni luogo, in vista di un particolare assetto politico o costituzionale" . In altre parole, Walzer sottolinea lo "spessore" della tolleranza attraverso un'attenta ricognizione storica e sociologica dei modi in cui concretamente gli uomini si mostrano e si sono mostrati tolleranti. Tuttavia, il relativismo walzeriano non deve intendersi in senso assoluto, dal momento che le opzioni morali che il filosofo considera plausibili sono esclusivamente quelle che rendono possibile una qualche versione della coesistenza pacifica, e che quindi tutelano i diritti umani fondamentali. L'apertura di Walzer nei confronti della differenza, pur essendo ampia, trova un limite nel vincolo normativo generale dell'eguaglianza di rispetto .

Le riflessioni sulla tolleranza che l'autore ci propone hanno per oggetto pratiche e atteggiamenti esercitati in comune e non individualmente, dal momento che "ciò che genera questioni significative di tolleranza anche nel nostro mondo liberaldemocratico sono differenze legate a gruppi, non a individui, che, per lo più, sono identificabili per via ascrittiva, come i gruppi etnici o religiosi" : alla base degli attuali problemi di coesistenza e di accettazione reciproca c'è dunque il pluralismo dei gruppi, delle culture e delle identità collettive, non riconducibile alle differenze morali tra i singoli individui, né alle loro scelte personali.

Una volta identificato l'oggetto della tolleranza, Walzer cerca di spiegarne il significato, puntualizzando però che essa può manifestarsi in modi e sfumature diverse, tutti rientranti in un continuum, in cui si configura sempre come una virtù. Ad esempio, alle origini della tolleranza religiosa nel Cinquecento e nel Seicento, essa consisteva semplicemente nell'accettazione rassegnata delle differenze "per amor di pace" . La tolleranza però può anche manifestarsi come una "passiva, rilassata e benevola indifferenza nei confronti della differenza" ; un terzo atteggiamento è quello che discende da una forma di stoicismo, per cui si accetta per ragioni di principio che gli altri hanno dei diritti, anche se i modi in cui li esercitano non ci piacciono, e quindi li sopportiamo eroicamente. Esistono però anche modi più attivi di essere tolleranti, che si esprimono attraverso l'apertura agli altri, la curiosità, il rispetto per chi ha modi di vita diversi dai nostri e il desiderio di imparare da loro. Questo atteggiamento di apertura può persino arrivare ad un vero e proprio sostegno entusiastico delle differenze, basato sul presupposto che proprio da queste dipende il pieno sviluppo della nostra comune umanità.

Secondo Walzer, ogni punto all'interno di questo continuum rappresenta una virtù, in quanto non esiste una distinzione tra modi virtuosi e non virtuosi di essere tolleranti, e questa constatazione gli consente di superare la questione su quale sia la forma migliore di tolleranza e sull'eventuale necessità di andare persino "oltre la tolleranza", che ha a lungo impegnato i liberali e la sinistra . Molti sostengono infatti che "la tolleranza è necessariamente una relazione di ineguaglianza, nella quale i gruppi o gli individui tollerati sono collocati in una posizione di inferiorità. Dunque dovremmo aspirare a qualcosa di meglio, oltre la tolleranza, come il mutuo rispetto". Tuttavia, a parere di Walzer, "il mutuo rispetto è una delle forme che la mutua tolleranza può assumere - forse la più attraente, ma non necessariamente la più stabile" .

A questo punto Walzer descrive cinque modelli di società tolleranti esistiti in Occidente . Essi sono rispettivamente: gli imperi multinazionali, i quali si configuravano come "autarchie" molto tolleranti al loro interno (anche se solo verso i gruppi, e non nei confronti degli individui devianti); gli Stati consociativi, come il Belgio e la Svizzera; gli Stati nazionali, solitamente omogenei da un punto di vista culturale, e quindi poco tolleranti verso le minoranze; la società internazionale, che compensa l'intolleranza degli Stati che la compongono; e infine, la società di immigrati, di cui gli Stati Uniti rappresentano l'esempio più significativo.

Secondo Walzer, è proprio in quest'ultimo contesto che il pluralismo assume le sue forme più variegate e complesse: nella società di immigrati infatti i membri dei diversi gruppi hanno volontariamente lasciato la loro base territoriale, disperdendosi in una nuova terra; da una parte, questo ha dato luogo ad un alto grado di tolleranza tra gli individui presi singolarmente, ossia in quanto cittadini americani, a prescindere dalla loro origine; in risposta a questo stato di cose, si rileva, quasi paradossalmente, un sempre più accentuato settarismo intollerante, che mette in serio pericolo i presupposti stessi della pace sociale e della coesistenza tra culture diverse. "Ai giorni nostri" - sottolinea Walzer - "negli Stati Uniti operano due potenti forze centrifughe: una allenta i vincoli che tengono uniti interi gruppi di persone a un presunto centro comune, l'altra spinge gli individui all'isolamento" , tanto che la società americana è forse quella più individualistica della storia dell'uomo.

Queste riflessioni sulla realtà statunitense, e in generale sul mondo occidentale contemporaneo, stanno alla base dei suggerimenti forniti da Walzer sul modo in cui agire in tali contesti per rafforzare i vincoli sociali tra gli individui e porre un freno alle suddette tendenze disgregatrici, sempre però evitando di elaborare un modello teorico sul modo in cui esercitare la tolleranza.

VIII. 2 Una risposta complessa


La realtà complessa che ritroviamo nella società americana rappresenta "il conflitto tipico della modernità e della postmodernità, quello tra molteplicità dei gruppi e molteplicità degli individui" . Il progetto centrale della moderna politica democratica consiste infatti in due specifiche forme di tolleranza: da una parte abbiamo l'abbandono del proprio gruppo e l'assimilazione individuale a quella che può essere definita l'identità politica o culturale regnante; dall'altra parte del progetto modernista troviamo la separazione del gruppo ed il riconoscimento della sua identità: "si tratta di attribuire al gruppo come tale una voce, un posto e una politica propri. Qui l'obiettivo della lotta non è l'inclusione, ma la definizione di un confine" .

Solitamente queste due formule vengono considerate come reciprocamente esclusive, per cui, o si decide di includere gli individui sradicati dal loro gruppo di appartenenza, oppure si concede un elevato grado di autonomia ai gruppi; al contrario, Walzer sostiene che esse possono anche essere perseguite contemporaneamente, dal momento che "non c'è nessuna ragione per preferire stabilmente l'una o l'altra cosa; la scelta tra le due alternative va compiuta caso per caso, adottando soluzioni diverse a seconda dei gruppi e dei regimi" .

L'autore riconosce inoltre che tale situazione potrebbe preludere alla realizzazione del cosiddetto "progetto postmoderno", ossia ad una società globale priva di confini, in cui la tolleranza del diverso non si pone neanche come problema, in quanto tutti saremo stranieri in una stessa terra. Basta constatare che attualmente nelle società di immigrati e negli stati-nazione (che subiscono la pressione dell'immigrazione) la gente fa quotidianamente esperienza di ciò che possiamo considerare come una vita senza confini e senza identità uniche o sicure: "Le differenze si sono, per così dire, annacquate, sicchè si incontrano dovunque, giorno dopo giorno"14.

La nostra è dunque un'era di transizione tra il moderno e il postmoderno: esistono i gruppi e i loro confini, ma essi sono confusi e sfumati, ricchi di sovrapposizioni e continui spostamenti. Come muoversi di fronte a questo dualismo? Ancora una volta, per Walzer non esiste una soluzione unica al problema: la differenza, in queste condizioni, necessita di una doppia risposta, "prima nelle singole versioni individuali e collettive e poi nelle versioni pluralistiche, diffuse e divise", poiché tutti noi "abbiamo bisogno di essere tollerati e protetti come cittadini dello Stato e come membri di gruppi - e anche come stranieri a entrambe le cose" . In altre parole, il pluralismo dei gruppi e quello degli individui non vanno considerati separatamente, ma occorrerebbe incentivare la loro interazione, e stimolare dunque esperienze significative nell'ambito di gruppi diversi, siano essi religiosi, etnici, culturali, ecc., al fine di aumentare il grado di fiducia e sicurezza degli individui. Le due forze centrifughe dell'appartenenza culturale e dell'individualità personale possono così correggersi reciprocamente, in quanto la prima rafforza gli individui stessi e la seconda mitiga le tendenze intolleranti e secessioniste dei gruppi.






















Capitolo IX

Conclusioni



"E' l'esperienza della differenza,

dove la differenza viene lasciata libera

di esprimersi,

che fonda e rende possibile

un'unione democratica"1


"La società civile [.] richiede

una rinnovata sensibilità per ciò che è

locale, specifico, contingente,

e soprattutto il riconoscimento [.]

che la bontà della vita risiede nei dettagli"



L'analisi svolta nel presente lavoro ha come scopo quello di dimostrare, entro i limiti cui è soggetta una ricerca di questo tipo, la presenza di un "filo conduttore" che unisce in maniera lineare e coerente il pensiero di Walzer sviluppato nelle tre opere qui analizzate . Si tratta di una sorta di "struttura portante" che viene utilizzata dall'autore a sostegno delle sue teorie, rilevabile attraverso un'analisi attenta ed approfondita delle sue elaborazioni, che abbracciano, come si è visto, tematiche piuttosto eterogenee.

Dopo aver collocato la linea di pensiero walzeriana in una posizione "trasversale" rispetto al dibattito tra liberali e comunitaristi, evidenziando come essa comprenda elementi di entrambi gli schieramenti, senza però prediligerne uno in maniera assoluta, ho proceduto con l'analisi delle tre opere, analisi che, oltre ad una lineare esposizione delle teorie elaborate, tendeva a far emergere gli elementi "costanti" che le contraddistinguono.

Dall'esame delle opere risalta innanzitutto il peculiare approccio metodologico utilizzato di regola dall'autore. Si tratta, come si è sottolineato più volte, di un metodo rigorosamente particolaristico e contestualizzato: Walzer evita di ricercare ed elaborare precetti teorici che possano essere considerati universalmente validi per tutte le comunità politiche e culturali, prendendo atto della necessità, per il critico sociale, di porsi in una prospettiva "interna" all'entità collettiva da analizzare, per non sfociare in un inefficace astrattismo o, peggio ancora, nell'utopismo. Qualunque sia l'oggetto di studio, dalla società civile alla comunità culturale, dall' individuo alle associazioni volontarie, è fondamentale porsi in un'ottica relazionale rispetto ad esso, in cui il bene e il giusto non sono mai da valutare a prescindere dal substrato morale e culturale proprio dell'entità analizzata. Le indagini condotte da Walzer, anziché mirare all'elaborazione di precetti normativi dotati di una qualche autorità, hanno piuttosto lo scopo di farci riflettere sulla situazione in cui ci troviamo e sulle alternative che abbiamo a disposizione, sempre nel rispetto di limiti "massimalisti", quali il principio di uguaglianza ed i diritti individuali fondamentali.

Oltre all'approccio metodologico, è importante rilevare come un altro aspetto che costantemente affiora dal pensiero walzeriano sia l'aperto sostegno del pluralismo e della politica della differenza. Tale difesa si presenta anch'essa in modo peculiare, poiché l'autore, in linea con l'approccio contestuale che utilizza, la costruisce sempre su premesse storiche piuttosto che ontologiche. Egli riconosce che "molti pluralisti sono di fatto pluralisti limitati perché i limiti che difendono derivano da principi universali" , e per questo si impegna a sostenere il pluralismo su svariati fronti partendo sempre dalle circostanze concrete che fanno da sfondo alla sua realizzazione. In questo modo, egli riesce a raggiungere un delicato equilibrio tra la tendenza alla neutralità e alla decontestualizzazione propria dei liberali da una parte, e il rischio di sfociare in un eccessivo relativismo dall'altra, che spingerebbe a considerare gli individui semplicemente come il prodotto del loro ambiente. Al contrario, nella prospettiva walzeriana, gli individui si configurano come soggetti liberi di scegliere tra diverse alternative, grazie al pluralismo dei valori, delle sfere distributive, delle comunità etniche e culturali, delle associazioni (libertà esercitata però sempre da un punto determinato, e mai da una condizione distaccata com'è la "posizione originaria" di Rawls).

La prospettiva pluralistica di Walzer emerge in tutte le opere qui analizzate, coinvolgendo i diversi aspetti che fanno da tema centrale ai suoi lavori.

Sfere di Giustizia, che rappresenta ancora oggi l'opera fondamentale di Walzer, contiene l'esposizione della teoria complessiva della giustizia da lui elaborata. E' già da questo primo lavoro che emerge in maniera evidente l'importanza che la differenziazione e la pluralità rivestono per l'autore: in questo caso, essendo la società civile l'oggetto di indagine, egli intuisce che il segreto della giustizia sociale risiede proprio nella coesistenza di diverse sfere distributive in equilibrio tra loro. Walzer difende qui un pluralismo di tipo sociale, realizzabile attraverso un'attenta separazione tra le svariate sfere: ognuna infatti viene regolata da principi suoi propri, a loro volta derivanti dal significato sociale del bene da distribuire. Violare questi principi significherebbe invadere una sfera diversa, oltrepassare i suoi confini e non rispettare la sua autonomia: in altre parole, ciò costituirebbe un tentativo di sopprimere il pluralismo sociale, sfociando in un regime tirannico.

La forma di uguaglianza che Walzer ritiene realizzabile è di tipo complesso: "beni diversi ad associazioni diverse di uomini e donne per ragioni diverse e secondo procedure diverse" , in quanto l'uguaglianza semplice, consistente nell'equa ripartizione della ricchezza fra tutti i membri della società, si presenta come un regime instabile e transitorio.

In Geografia della Morale Walzer introduce per la prima volta degli elementi universalistici accanto alla sua tradizionale prospettiva particolaristica e contestuale, alla luce delle nuove esigenze connesse al fenomeno della globalizzazione. Per questo, egli introduce la distinzione tra termini morali "spessi", o massimi, e "sottili", o minimi, che uniscono gli individui in un unico discorso universale. Come si è visto però, l'universalismo difeso da Walzer non è di tipo assoluto, in quanto non pretende di stabilire un'unica direzione "giusta" per tutti gli individui e le situazioni; al contrario, l'autore sostiene una versione reiterata di universalismo, rispettosa di ogni singola storia ed esperienza, e dello "spessore" morale di ogni nostra concezione.

Dall'opera dunque emerge una difesa del pluralismo e della differenza in termini morali, difesa che non è incompatibile con la presenza di elementi massimalisti, ma anzi, viene rafforzata proprio grazie al riconoscimento di un universalismo "reiterativo" che unisce i diversi popoli, senza compromettere il loro "spessore", morale e culturale.

Veniamo all'ultima opera esaminata nel presente lavoro, Sulla Tolleranza, in cui Walzer discute più specificamente di un tipo particolare di pluralismo, quello dei gruppi all'interno della società civile, identificandoli in base a connotati di tipo culturale, etnico, religioso, ecc. La contemplazione di questo fenomeno prende spunto dalla complessa realtà statunitense, caratterizzata dalla convivenza di innumerevoli gruppi etnici in una terra che non è "madrepatria" di nessuno, dal momento che gli Stati Uniti sono una società di immigrati ed ognuno vi si è trasferito più o meno volontariamente. Per questo, "l'aggettivo 'americano' - spiega Walzer - "[.] è un aggettivo politico e la sua politica è liberale in senso stretto: generosa, tollerante, di ampie vedute, accomodante - che permette la sopravvivenza, perfino la fioritura e l'accrescimento, della molteplicità" . Tuttavia, il pluralismo etnico e culturale è un fenomeno di grande attualità e rilevanza anche in Europa; anzi, come ribadisce Nadia Urbinati, esso rappresenta "una sfida alle nostre società europee, dove le nazionalità hanno stabili basi geopolitiche e dove la pluralità e le differenze si sono generalmente manifestate come articolazioni interne a una riconosciuta omogeneità culturale" .

In Sulla Tolleranza la difesa del pluralismo e della politica della differenza raggiunge il suo apice; tuttavia Walzer, anziché sostenere solo un atteggiamento di entusiasmo e di celebrazione della diversità, difende la tolleranza in tutte le sue sfumature, anche quando essa si manifesta sotto forma di accettazione rassegnata e passiva dell'altro, in quanto occorre sempre tener conto dei presupposti contestuali in esame.

Anche a livello etnico e culturale, la proposta di Walzer è quella di dar vita ad una molteplicità di realtà collettive nelle quali gli individui possono riconoscersi, senza tuttavia rinunciare né alla loro individualità, né all'appartenenza ad un'entità politica più ampia, quale appunto è lo Stato. Ancora una volta Walzer trova una soluzione "complessa" al problema che ha di fronte: in questo caso, la differenza va tollerata doppiamente, sia a livello personale che politico, in quanto ognuno di noi ha bisogno di essere protetto come cittadino dello Stato, ma anche come membro di gruppi più piccoli nei quali si identifica.

Le caratteristiche salienti del pensiero walzeriano che si sono qui rilevate generano spesso un senso di "incompiutezza" delle soluzioni da lui proposte: l'approccio metodologico fortemente contestuale da una parte, ed il grande rispetto per la molteplicità e la differenza dall'altra, fanno sì che l'autore fornisca quasi sempre risposte "aperte" ai problemi affrontati, risposte cioè dotate di grande flessibilità e adattabili di volta in volta alle diverse caratteristiche dei contesti considerati. Questa "elasticità" propria delle elaborazioni walzeriane potrebbe suscitare un senso di disorientamento in chi si accosta alle problematiche filosofico-politiche cercando nelle teorie risposte univoche e valide per tutti i contesti.

Tuttavia, il relativismo walzeriano, che come si è visto non è mai assoluto, lungi dal rivelare un senso di insicurezza dell'autore di fronte ad una realtà sempre più complessa, va interpretato, a mio avviso, come indice di grande umiltà scientifica. Walzer si pone di fronte ai fenomeni da analizzare con un alto grado di realismo, e ciò gli permette di prendere atto dell'impossibilità di elaborare teorie generali, dotate di autorità assoluta.

La realtà concreta, sia a livello sociale, che culturale o morale, è variegata e complessa, e lo stesso individuo si rivela in essa in maniera differenziata e multiforme: solo ammettendo la veridicità di tali presupposti, si potrà apprezzare molto di più il pensiero di Walzer e riconoscergli il merito di contribuire significativamente alla comprensione dei complessi fenomeni sociali e politici che ci coinvolgono.





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Riprendo questa classificazione dall'introduzione di Alessandro Ferrara (a cura di), cfr. Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992. L'autore in realtà si sofferma anche su un quarto aspetto coinvolto, che io invece ho deciso di tralasciare: quello della centralità dei diritti in alcune concezioni liberali.

Su questo concetto cfr. Alessandro Ferrara, Sul pensiero postliberale in America e in Inghilterra, in Micromega, 1989, n. 3, pp. 123-141.

John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1982.

Cfr. John Rawls, Justice as fairness: Political Not Metaphysical, in Philosophy and Public Affairs, 1985, n.14, pp.219-251; The Idea of an Overlapping Consensus,in Oxford Journal of Legal Studies, 1987, n. 7, pp.1-25; The Domain of the Political and Overlapping Consensus, in New York Law Review, 1989, n.64, pp.233-255.

Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit., p. XL.

Per una più ampia panoramica su questa distinzione cfr.: Anna Elisabetta Galeotti, La tolleranza.Una proposta pluralista, Liguori Editore, Napoli, 1994.

Cfr. Kenneth Baynes, La controversia liberalismo-comunitarismo e l'etica comunicativa, in Comunitarismo e liberalismo, a cura di Alessandro Ferrara, cit., pp.115-135.

Michael Walzer non è, come si vedrà, un comunitarista per eccellenza, ma si avvicina ad essi sotto diversi aspetti.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano, 1987, p.30.

Per una soddisfacente panoramica su queste critiche, cfr. Anna Elisabetta Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista, cit., pp. 97-102.

Anna Elisabetta Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista, cit., p.77.

Ronald Dworkin, Questioni di principio, Il Saggiatore, Milano, 1989; La Comunità liberale, in Comunitarismo e liberalismo, cit., pp.195-228.

Joseph Raz, The Morality of Freedom, Clarendon, Oxford, 1986; Autonomy, Toleration and the Harm Principle, in Justifying Toleration, a cura di S. Mendus, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, pp. 155-175.

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Cfr. Anna Elisabetta Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista, cit., pp.68-69.

Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit., p. XXXVI

"E tutti convergono verso di me, e io mi espando verso di / loro, / E quale sia il oro essere, più o meno così sono io, / E di tutti, dal primo all'ultimo, io intesso il canto del me / stesso." , Walt Whitman, Il canto di me stesso, in Foglie d'Erba, Rizzoli, Milano, 1991, p. 147.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p.8.

Armando Massarenti, Colloquio col filosofo Michael Walzer sulle diversità culturali e i rapporti politica-informazione, in Il Sole 24 Ore, 10-05-1994.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit.

Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1999.

Michael Walzer, Sulla tolleranza, cit.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 320.

Op. cit., p.17. E' qui evidente come Walzer si opponga in particolare alla nota "posizione originaria" di Rawls.

Cfr. Michael Rustin, Equality in Post-modern Times, in Pluralism, Justice and Equality, a cura di David Miller e Michael Walzer, cit., pp. 17-44.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., pp. 22-25.

Op. cit., p. 22.

Ibidem.

Op. cit., p. 24.

Op. cit, p.25.

"L'eguaglianza semplice richiederebbe un continuo intervento statale per spezzare o limitare monopoli incipienti e per reprimere nuove forme di dominanza; ma a quel punto sarà il potere stesso a diventare l'oggetto principale della competizione", Op. cit., p.26.

Op. cit., p.29.

Ibidem.

Ibidem.

Blaise Pascal, The Pensées, trad. di J.M. Cohen, Hammondsworth (Inghilterra), 1961, p. 96, n. 244; trad. it. Pensieri, Einaudi, Torino, 1962, pp.156-57, n. 341 (citato da Michael Walzer, Ibidem).

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1968, p. 256 (citato da Michael Walzer, Ibidem).

Op. cit., p.30.

Ibidem.

Ibidem.

Op. cit., p. 31 (il corsivo è dell'autore).

"Nel migliore dei casi, le argomentazioni saranno approssimative, poiché riflettono il carattere eterogeneo o conflittuale della vita sociale, che cerchiamo di comprendere e di regolare ad un tempo, e non di regolare prima di aver compreso", Op. cit., p. 32.

Ibidem.

Op. cit., p. 34.

Karl Marx, Critique of the Gotha Program, in Marx e Engels, Selected Works, Mosca, 1951, vol. II, p. 23; trad. it. Critica del programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma, 1972 (citato da Michael Walzer, Op. cit., p. 35).

Op. cit., p. 36.

Op. cit., p. 38.

Op. cit., p. 39.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 104.

Op. cit., p. 75.

Op. cit., p. 102.

Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici", cit., p. 253 (citato da Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 102).

William Shakespeare, Timore di Atene, atto IV, scena 3 (citato da Michael Walzer, Op. cit., p. 103).

Op. cit., p. 104.

Op. cit., pp. 106-110.

Op. cit., p. 110.

Op. cit., pp. 112-113.

Op. cit p. 114.

Op. cit., p. 125.

Op. cit., p. 126.

Brian Barry, Spherical Justice and Global Injustice, in Pluralism, Justice and Equality, edited by David Miller and Michael Walzer, Oxford University Press, Oxford, 1995, pp. 67-80.

Op. cit., p. 70. Barry contesta in particolare la presunta indiscutibilità e non problematicità delle allocazioni di mercato che sembra caratterizzare la trattazione di Walzer.

Si pensi, ad esempio, alle leggi di protezione del consumatore, a quelle finalizzate alla tutela dell'ambiente, a quelle per la sicurezza dei lavoratori nell'ambiente di lavoro: sono esempi questi, di correttivi finalizzati a proteggere soggetti agenti nel mercato stesso, e non sfere diverse.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit. p. 73.

"Provvedere l'uno all'altro genera il senso della reciprocità. La vita in comune contemporaneamente è dunque il presupposto di tale provvedere e uno dei suoi prodotti", Ibidem.

Op. cit., p. 74.

Vedi, su questo punto, Joseph Carens, Complex Justice, Cultural Difference and Political Community, pp. 58-59, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 45-66.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 81.

Op. cit., p. 83.

Op. cit., p. 89.

Op. cit., p. 92.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 39.

"Chi è dentro e chi è fuori? Queste sono le domande fondamentali alle quali ogni comunità politica deve rispondere. Ogni particolare comunità è definita dalle risposte che dà, o meglio, dal processo attraverso il quale decide quali sono le risposte che contano. Questo è vero anche se la decisione non è definitiva e non traccia una linea di demarcazione assoluta fra chi è dentro e chi è fuori". Michael Walzer, L'esclusione, l'ingiustizia e lo Stato democratico, in Micromega, 1993, n. 1, pp.99-113.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 42.

Op. cit., p. 43.

Op. cit., p. 46.

Una pretesa dello Stato di controllare l'emigrazione costituirebbe un fenomeno di tipo coercitivo, come Walzer puntualizza a p. 49: "La limitazione dell'entrata serve a difendere la libertà, il benessere, la politica e la cultura di un gruppo di persone legate l'una all'altra e alla loro vita in comune; ma la limitazione dell'uscita sostituisce questo legame con la coercizione".

Ibidem.

Vedi, per tutta questa discussione, Sfere di giustizia, cit., pp. 50-51.

Op. cit., p. 51. E' da notare che Walzer, nel paragrafo successivo, introduce una significativa differenza tra lo Stato da una parte, ed i circoli e le famiglie dall'altra, vale a dire il potere di giurisdizione su un territorio. In base a questo, mentre il riconoscimento di un'affinità nazionale può dar luogo all'ammissione, il non riconoscimento non giustifica l'espulsione, in quanto lo Stato deve un bene primario ai suoi abitanti (territorio) indipendentemente dalla loro identità nazionale; vedi Sfere di giustizia, cit., pp. 52-55.

Op. cit., pp. 58-60.

Op. cit., p. 61.

Ibidem.

Op. cit., p. 69.

Per Walzer il potere politico è "l'agenzia cruciale della giustizia distributiva e vigila sui confini entro i quali ogni bene sociale è distribuito e dispiegato. [.] Il potere politico ci protegge dalla tirannia [.] e diventa tirannico esso stesso", Op. cit., p. 282.

Vedi in proposito tutto il secondo paragrafo del capitolo 12 di Sfere di giustizia, cit., pp. 283-285.

Op. cit., p. 285.

Vedi in proposito anche: William A. Galston, Community, Democracy, Philosophy - The Political Thought of Michael Walzer, in Political Theory - An International Journal of Political Philosophy, Sage Publications, febbraio 1989, vol. 17, n.1, pp. 119-130.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 288.

Op. cit., p. 291.

"La fabbrica moderna si distingue dal castello feudale perché gli uomini e le donne vi lavorano volontariamente, attirati dalla paga, dalle condizioni di lavoro, dalle prospettive per il futuro, ecc.", Op. cit., p. 295.

Fra queste, la conoscenza e la proprietà sono quelle più evidenti, ma il discorso vale anche per altri fenomeni, come la religione, il sangue, lo stato sociale, ecc.

Op. cit., p. 304.

"Questo è il significato dell'eguaglianza complessa nella sfera della politica: la condivisione non del potere, ma delle opportunità e delle occasioni di potere. Ogni cittadino è un potenziale partecipante, un potenziale politico". Op. cit., p. 310.

In particolare, caucus e convenzioni; vedi Op. cit., p. 308.

Ibidem.

In questo Walzer si discosta radicalmente dai liberali, che propongono invece delle forme di controllo all'eccessivo intervento pubblico dei cittadini ed un rafforzamento dei diritti individuali, al fine di evitare il rischio di una "tirannia della democrazia". Vedi in proposito William A. Galston, Op. cit., p. 130.

Questo è un aspetto che viene spesso trascurato nelle critiche a Sfere di gustizia: una delle maggiori accuse avanzate contro la teoria walzeriana è infatti quella secondo la quale l'autore sembra sempre presupporre una situazione di armonia tra i significati sociali, cosa che invece viene smentita proprio nell'ultimo capitolo. Per alcune di queste critiche, vedi: Michael Rustin, Equality in Post-modern Times; Amy Gutman, Justice across the Spheres; Brian Barry, Spherical Justice and Global Injustice; in Pluralism, Justice and Equality, cit.

Michael Walzer, Sfere di gustizia, p. 313.

Il totalitarismo è in realtà l'esatto opposto dell'eguaglianza complessa: si tratta infatti del massimo grado di coordinazione raggiunto in società altamente differenziate; vedi Sfere di gustizia, cit., p. 316.

Michael Walzer, L'esclusione, l'ingiustizia e lo Stato democratico, p. 100, in Micromega, 1993, n. 1, pp. 99-113 (titolo originale: Exclusion, Injustice and the Democratic State, in Dissent, Winter 1993, pp. 55-64).

Michael Walzer, Liberalismo come arte della separazione, in Biblioteca della libertà, XXI, 1986, gennaio-marzo, n. 92, p. 11-30 (titolo originale: Liberalism and the Art of Separation, in Political Theory, XII, 1984, agosto, n. 3, pp. 315-330).

Op. cit., p. 11.

"Quello a cui tendiamo (o dovremmo tendere) non è la libertà dell'individuo isolato, ma quel che può essere definito come integrità istituzionale", Op. cit., p. 24.

Michael Walzer, L'esclusione, l'ingiustizia e lo Stato democratico, cit.

Op. cit., p. 100.

Op. cit., p. 101.

Op. cit., p. 102.

"Il potere del denaro si rivela nel modo in cui chi lo possiede è addestrato e istruito, nel modo in cui si veste e parla, nella generosità di cui è capace, nei servizi di cui dispone, nell'attenzione che ha verso se stesso. E qui, ancora una volta, siamo tutti complici, in misura più o meno grande, perché permettiamo che queste cose contino nelle decisioni distributive che noi o altri prendiamo", Op. cit., p. 105.

Questo aspetto è stato messo in evidenza anche da Anna Elisabetta Galeotti in La tolleranza - Una proposta pluralista, cit., in cui si afferma che "il riconoscimento pubblico delle differenze è il primo passo perché gli individui di gruppi esclusi, oppressi, marginalizzati o invisibili, possano non vergognarsi di se stessi in pubblico e non siano costretti ad umiliarsi mascherandosi; possano cioè sentirsi globalmente cittadini di pari grado e dignità", pp. 162-163.

Op. cit., p.111.

Op. cit., p.113.

Brian Barry, Spherical Justice and Global Injustice, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 74-75.

David Miller and Michael Walzer (edited by), Pluralism, Justice and Equality, cit.

David Miller, Introduction, in Pluralism,Justice and Equality, cit., pp. 1-16.

Op. cit., p. 8.

Cfr. Michael Walzer, L'esclusione, l'ingiustizia e lo Stato democratico, in Micromega, cit., p. 111.

David Miller, Introduction, in Pluralism, Justice and Equality, cit., p. 15. Miller tra l'altro sottolinea il fatto che Walzer affida a questo principio un ruolo "risolutivo" nel caso di conflitto tra i significati sociali di un bene; si tratta quindi del concetto "ultimo" della teoria walzeriana, al quale far riferimento nel caso di incertezze sulla distribuzione da attuare.

Michael Rustin, Equality in Post-modern Times, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 17-44.

Si tratta di ciò che Walzer definisce "socialismo democratico".

Michael Rustin, Equality in Post-modern Times, cit., p. 35.

Brian Barry, Spherical Justice and Global Injustice, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 67-80.

A questo riguardo, Barry appoggia esplicitamente la teoria della giustizia di Rawls.

Amy Gutman, Justice across the Spheres, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 99-119.

Nell'esempio, occorrerebbe fare il ragionamento seguente: se è moralmente sbagliato discriminare i gruppi più svantaggiati, allora una politica che dia preferenza a tali gruppi è giustificata, ammesso che sia di breve periodo e finalizzata a "correggere" delle ingiustizie che si sono perpetuate nei secoli.

Secondo Gutman, Walzer erroneamente considera l'appartenenza come una sfera a se stante, quando in realtà si tratta di un principio superiore, che dovrebbe abbracciare sfere diverse e influenzare tutte le distribuzioni.

Joseph H. Carens, Complex Justice, Cultural Difference, and Political Community, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 45-66.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 17.

Come si vedrà, Walzer ritornerà su questo punto in un'opera successiva. Cfr. Geografia della morale, cit.

Anche Ferrara concorda con questa critica, affermando che "se da un lato appare restrittivo ipotizzare un modello unico di giustizia distributiva per tutte le società, dall'altro egualmente problematica appare una nozione di giustizia illimitatamente flessibilizzata". Cfr. Alessandro Ferrara, Sul pensiero post-liberale in America e in Inghilterra, in Micromega, cit., p. 138. E' da sottolineare inoltre che anche la Galeotti parla degli stessi limiti all'accettabilità di pratiche esterne; cfr. La tolleranza - Una proposta pluralista, cit.

David Miller, Complex Equality, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 197-225.

Richard Arneson, Against 'Complex' Equality, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 226-252.

Michael Walzer, Response, in Pluralism, Justice and Equality, cit., pp. 281-297.

Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1999, p. 20. (titolo originale: Thick and Thin: Moral Argument at Home and Abroad, Notre Dame Press, 1994).

Op. cit., p. 71.

Tali critche sono per lo più incentrate, come si è visto, sulla prospettiva fortemente particolaristica che Walzer adotta.

Op. cit., pp. 8-9.

Op. cit., p. 14.

Ibidem.

Op. cit., p. 16.

Op. cit., p. 17.

Michael Walzer, Due specie di universalismo, in Micromega, 1991, n. 1, pp. 127-145.

Op. cit., p. 128.

Op. cit., p. 131.

Ibidem.

Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, cit., p. 21.

Op. cit., p. 22.

Ibidem.

Michael Walzer, Due specie di universalismo, in Micromega, cit., p. 137.

Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, cit., p. 31.

Op. cit., p. 36 (il corsivo è dell'autore).

Op. cit., p. 37.

Anche se esiste un terreno di valori comune sul quale avvengono le dispute distributive, alla fine si dovrà scegliere uno specifico criterio da adottare nella singola distribuzione, e tale criterio rifletterà meglio le preferenze di alcuni membri della comunità rispetto a quelle di altri.

Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, cit., p. 42.

Op. cit., pp. 42-43.

Op. cit., p. 51.

Op. cit., p. 56.

Op. cit., p. 88.

Op. cit., p. 89.

Michael Walzer, Sulla tolleranza, Laterza, Bari, 1998, p. 124 (titolo originale: On Toleration, Yale University Press, New Haven and London, 1997).

Op. cit., p. 5.

Tale approccio metodologico coincide con quello adottato dalla Galeotti in La tolleranza. Una proposta pluralista, Liguori Editore, Napoli, 1994.

Op. cit., p. 22 (il corsivo è dell'autrice).

Michael Walzer, Sulla tolleranza, cit., p. 16.

Ibidem.

Cfr. Ermanno Bencivenga, Oltre la tolleranza: per una proposta politica esigente, Feltrinelli, Milano, 1992. Per le interpretazioni liberali, cfr. prima parte di Anna Elisabetta Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista, cit.

Michael Walzer, La politica della differenza: statualità e tolleranza in un mondo multiculturale, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri", 1994, p.19.

Più tre casi complessi che non rientrano del tutto nella classificazione: la Francia, Israele e la Comunità Europea.

Michael Walzer, Sulla tolleranza, cit., p. 129.

Op. cit., p.141.

Op. cit., p. 118.

Op. cit., p. 120.

Ibidem.

Op. cit., p. 125.

Michael Walzer (edited by), Toward a Global Civil Society, Berghahn Books, RI, 1995, p. 2.

Op. cit., p. 27.

Rispettivamente: Sfere di giustizia; Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo; Sulla tolleranza, cit.

Michael Walzer, Philosophy and Democracy, in Political Theory, IX, 1981, p. 394.

Michael Walzer, Sfere di giustizia, cit., p. 36.

Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, (a cura di Nadia Urbinati), Marsilio Editori, Venezia, 1992, p. 19.

Op. cit., Prefazione (di Nadia Urbinati), p. XVII.




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