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LE PROBLEMATICHE CLASSICHE DELLA PIANIFICAZIONE RAZIONALE IN POLITICA ESTERA E LE TEMATICHE CONTEMPORANEE.

politica



LE PROBLEMATICHE CLASSICHE DELLA PIANIFICAZIONE RAZIONALE IN POLITICA ESTERA E LE TEMATICHE CONTEMPORANEE.



4.1. Le teorie di Wilensky.


Le molte incongruenze riscontrate nell'analizzare il decision making process all'interno dell'Alleanza Atlantica, le difficoltà e gli errori fatti da quest'ultima denotano quanto risulti complicata una pianificazione razionale in politica estera. Quando poi tale politica estera deve essere un'armonica sintesi delle indicazioni di più Paesi facenti parte di una stessa organizzazione internazionale, le complicazioni aumentano, così come i vincoli che ne impediscono il funzionamento.




"Nessun fatto in politica estera è così rilevante e decisivo quanto la frequenza delle crisi. E nessun problema nella pianificazione della politica estera è tanto difficile come la gestione delle crisi".192 Con queste parole Wilensky introduce un suo studio sui limiti della razionalità, indicando come, in generale, gli studiosi di relazioni internazionali siano colpiti dalle particolari difficoltà della condotta degli affari esteri.


In realtà, "gli affari esteri presentano problemi solo di poco più difficili di quelli della politica economica interna",193 ma le complicazioni sorgono a causa di cinque ostacoli tipici della pianificazione razionale.


A Uno di questi cinque ostacoli, su cui Wilensky vuole far luce, riguarda la natura tecnica delle strategie e degli armamenti moderni che li renderebbe inavvicinabili dalla classe dirigente e incomprensibili per l'opinione pubblica, così da risultare "inaccessibili al controllo democratico": l'influenza di esperti militari e scientifici ne risultacosì notevolmente accresciuta.


Inoltre, rendendosi necessaria la massima segretezza intorno a questo tipo di informazioni, questo fattore contribuisce a far sorgere un'élite molto ristretta, in grado poi di giocare un ruolo decisivo nel decision making process, pretendendo di avere il monopolio delle conoscenze necessarie a prendere certe decisioni in merito al tipo e all'uso di nuove armi o strategie, "siano queste decisioni, poi, tecniche o no".195


Pertanto, o i temi in questione sono di natura estremamente tecnica (rendendo almeno possibile un'analisi sistematica e rigorosa), oppure no, risultando così più accessibili anche ai profani. Presentandosi il primo caso, però, tale analisi viene impedita proprio dal segreto militare cui prima accennavamo.


B. Strettamente connesso a questo argomento è il fatto che gli affari esteri non si prestano ad un'analisi rigorosa e sistematica. Ciò per due ragioni sostanziali: primo per la complessità dei problemi di politica estera; secondo per la povertà dei dati a disposizione.


In realtà Wilensky196 considera la complessità come caratteristica "di alcuni problemi in ogni settore della vita moderna". Ciò che permette un parallelismo con i problemi di politica interna è la possibilità di poter classificare i temi di politica estera e interna secondo una gerarchia di complessità.


Il problema sorgerebbe solo laddove "i processi e i prodotti non siano standardizzati"; in tal caso l'onere del calcolo è enorme ed è difficile organizzare una buona attività di pianificazione e di informazione.


Per ciò che concerne, invece, la base dei dati per analisi rigorose e sistematiche, essa è "singolarmente superficiale, e manca il contesto per una valida interpretazione". Tra tutte, è questa la forza in grado di creare maggiori difficoltà. Effettivamente, la qualità dei dati in possesso di coloro che si occupano di programmazione in politica interna è nettamente superiore, così come l'uso che ne possono fare; inoltre, possono relazionare questi dati al contesto politico-culturale (che li rende ancor più significativi) di cui posseggono profili assai dettagliati.


Viceversa, nell'analizzare un "contesto alieno", è fisiologico che si presentino ostacoli relativi alle differenze linguistiche-socio-culturali, essendo una potenza straniera "sempre più estranea e sconosciuta dei cittadini con i quali si vive in quotidiano contatto".


C. Wilensky197 individua un altro ostacolo nell'eccezionale limitazione del potere esercitabile nella condotta degli affari esteri, in cui ciò che predomina realmente è l'incertezza.


Pianificatori, esperti e politici non giocano singolarmente un ruolo esclusivo nell'esercizio dell'arte diplomatica. I limiti del potere sovrano derivano dall'incontrollabilità dell'ambiente.


In effetti, "le nazioni moderne esercitano un controllo sovrano solo sul loro territorio, non su quello altrui; non hanno lo stesso potere poliziesco e giuridico di cui dispongono negli affari interni". Tuttavia, in genere le superpotenze incontrano maggiori problemi a rendersi conto dell'esistenza di limiti al proprio potere sovrano (e a tollerarli), la loro politica estera facendosi più incauta e spregiudicata al crescere della loro ricchezza e potenza: "avendo più ricchezze da sprecare, corrono più rischi". Fattore, questo, di cui è altresì necessario tenere conto.


In secondo luogo è fondamentale l'esistenza di "qualche incertezza" (l'essenza stessa della diplomazia) per potere ricercare compromessi e conservare una buona "possibilità di previsione" E questa "arte della comunicazione ambigua" - come viene definita da Wilensky - se altamente sviluppata si dimostra funzionale all'esercizio stesso del potere. Ma è chiaro come queste incertezze possano essere facilmente causa di errore: "uno scambio completo di informazioni renderebbe superata buona parte dell'apparato dei servizi di informazione (...); allo stesso tempo, uno scambio del genere renderebbe difficile ai politici, alle élites militari e agli analisti strategici, esagerare la minaccia esterna".198


D Tra i cinque ostacoli alla pianificazione razionale indicati da Wilensky, tuttavia, quello principale è rappresentato dal periodico succedersi delle crisi, che impediscono una riflessione razionale, scompigliando persino i piani meglio preparati.


L'Autore199 confronta le decisioni prese in situazioni di crisi con quelle in situazioni normali per poi asserire che "l'urgenza di una crisi acuta generalmente migliora la base di conoscenza delle decisioni, in quanto indebolisce le barriere strutturali che si oppongono alla buona intelligenza".


Wilensky porta l'esempio delle due crisi cubane che dominarono gli anni di Kennedy. La prima - l'episodio della Baia dei Porci200 - comportò una pianificazione lunga, una discussione estremamente articolata e complicata da una serie di possibili alternative, sin troppo lunga, che di fatto fu la causa di un risultato disastroso.


La seconda - la c 727f51h risi missilistica del 1962 - fu caratterizzata da maggiore urgenza; il che comportò una discussione più precisa, meno lunga e ovviamente più efficace. La gamma delle possibili alternative fu analizzata con cura, e non si verificarono episodi di ostruzionismo.

Le decisioni prese, alla fine, furono migliori poiché "l'urgenza fece superare molte patologie dell'informazione".


Il caso dei missili di Cuba riveste notevole importanza perché è uno dei pochissimi casi ben documentati di "decision making process", e, da parte americana, si dispone di fonti copiose. La crisi fu causata dall'installazione, da parte russa, di missili balistici sul suolo di Cuba, per consolidare il vantaggio ottenuto a seguito del disastro americano nella Baia dei Porci. "Quando nell'ottobre 1962 le fotografie degli aerei da ricognizione americane rivelarono la costruzioni di basi missilistiche a Cuba, Kennedy non ebbe alcun dubbio sulla necessità che tali base dovessero essere smantellate".201 Questa volta, però, il Presidente americano non si lasciò spingere dal panico ad intraprendere azioni militari avventate e improbabili, e in sede di "Consiglio Nazionale di Sicurezza" vengono attentamente analizzate e vagliare sette possibili soluzioni:


a) NON FARE NULLA. Ipotesi, questa, presa seriamente in considerazione; tuttavia le installazioni identificate avevano una importanza notevole sia dal punto di vista militare, sia da quello politico e psicologico, poiché il potenziale offensivo nucleare dei russi sarebbe aumentato del cinquanta per cento;


b) UN'OFFENSIVA DIPLOMATICA. Caldeggiata dal comitato esecutivo, tale ipotesi non presentava rischi di sorta e avrebbe posto gli Stati Uniti in una posizione di notevole vantaggio, nell'ipotesi di una sconfitta diplomatica dei russi. Tuttavia, il ritardo con il quale erano state scoperte le postazioni missilistiche e i tempi lunghi che la diplomazia avrebbe richiesto fecero sì che la si scartasse;


c) NEGOZIARE CON CASTRO. Dettata dall'indubbia posizione di vantaggio degli Stati Uniti nei confronti del leader cubano, era però irrealistica in quanto Castro non possedeva alcun controllo sull'operazione. Era necessario trattare con i russi;


d) LO SCAMBIO TRA LE INSTALLAZIONI SOVIETICHE A CUBA E LE INSTALLAZIONI AMERICANE IN ITALIA E IN TURCHIA. Soluzione diplomatica senza rischi e ottenibile ad un "costo" militare molto basso. Gli americani avevano già predisposto lo smantellamento delle loro postazioni missilistiche nel Mediterraneo (sostituendole con sottomarini nucleari, più efficaci e meno vistosi dei missili), ancor prima della crisi cubana. Ciò avrebbe incrinato però la credibilità degli americani in Europa. Soluzione seducente quanto controversa;


e) L'INVASIONE. Preconizzata dai "falchi", avrebbe permesso di risolvere il problema in profondità, ma il rischio di conflitto totale (o quantomeno di ripercussioni a Berlino e in Turchia) era notevole, data la presenza di duecentomila sovietici sull'isola;


f) L'ATTACCO AEREO CHIRURGICO. Combinando puntualità, sorpresa e incisività in un brevissimo lasso di tempo, consentiva di non aggravare i rapporti con Cuba prendendo di mira le sole installazioni militari non cubane, evitando così ulteriori ritorsioni. Tuttavia, il carattere (necessario) "chirurgico" dell'attacco non poteva essere garantito (così come la limitazione delle perdite umane tra i russi) e gli esperti militari sembravano più inclini ad un attacco più massiccio e sicuro: ma ciò avrebbe comportato i medesimi rischi dell'invasione;


g) IL BLOCCO NAVALE. Illegale quanto un attacco aereo - e meno efficace di quest'ultimo - richiedeva altresì tempi più lunghi. Inoltre, i rischi di scontri non erano inferiori; tuttavia, era una soluzione meno radicale che lasciava a Crushev, leader sovietico, il tempo di riflettere.


Le discussioni portarono Kennedy ad ordinare il blocco navale, che permise di "scaricare le responsabilità nell'altro campo, lasciando ai russi l'iniziativa di attaccare per primi se mai si fossero decisi a farlo".204 Crushev aveva così la necessaria via di scampo, potendo evitare altresì l'umiliazione "di lasciar uccidere soldati sovietici senza reagire". Il mondo tenne il fiato sospeso per dieci lunghi giorni, "finché il 29 ottobre, proprio quando un confronto nucleare pareva ormai inevitabile, uno scambio tra i due Capi di Stato portò ad una soluzione. Il governo sovietico annunciò che avrebbe smantellato le basi missilistiche in cambio di un impegno americano a non invadere Cuba".


La soluzione presa, quindi, dà a posteriori l'idea di essersi rivelata efficace proprio perché presa in condizioni di urgenza.206


Per avvalorare la sua tesi, Wilensky porta altri esempi, primo fra tutti quello concernente la decisione del Presidente americano Truman di accelerare la corsa alle armi nucleari (bomba H), un chiaro esempio di deliberazioni lente prese con scarse valutazioni critiche. La mancanza di urgenza, in questo caso, causò pochissima pressione per una "pianificazione mediata della strategia di base" e le discussioni - che si protrassero per cinque/sei mesi - alla lunga si allontanarono dai temi fondamentali, attivando "tutte le rivalità burocratiche del sistema". Ciò mostra quanto difficilmente la mancanza d'urgenza si traduca in una maggiore chiarezza di idee: "nel processo conoscitivo, una deliberazione lenta può arrestare una seria riflessione; l'urgenza è la madre dell'inventiva".207


Sostenitori di una tesi antitetica, March e Simon208 sostenevano il fatto che un processo decisionale lento e ponderato consente di prestare attenzione ad un maggior numero di informazioni pertinenti, mentre l'urgenza genera uno scarso flusso di informazioni, impedendo ai pianificatori di pensare correttamente.


Wilensky confuta questa tesi sostenendo che essa tende a confondere i risultati della ricerca psicologica con quella sociologica. E' dimostrabile che "l'individuo si confonde sotto la pressione dei minuti e dei giorni, ma gruppi di persone con dietro di sé tutta una storia di soluzioni positive di problemi si possono comportare meglio con un fucile puntato addosso".209


L'Autore parla anche dell'esistenza di condizioni e limiti alla tesi presentata. In primo luogo è bene esaminare il tipo di organizzazione e l'obiettivo principale che esse perseguono. E' chiaro, ad esempio, che se tale obiettivo è "la conoscenza" (ad esempio le comunità scientifiche), il tempo è un importante fattore che gioca a favore della precisione. In secondo luogo, se le crisi diventano "un modo di vita", il potere dei preconcetti si svilupperà a tal punto da spingere il decisore ad "aggrapparsi a qualcosa di stabile per non cadere nell'ansietà", inibendo la sua capacità di produrre una pronta reazione. "L'urgenza non indebolisce le barriere strutturali ad una buona intelligenza,210 ma può succedere che quando le crisi sono troppo frequenti l'urgenza faccia aumentare anche la forza dei preconcetti. In una continua fretta ci si rifà a ciò che già si sa".


E' pertanto necessario che l'analisi degli effetti delle crisi sulla qualità dell'informazione sia maggiormente approfondita su una gamma di problemi che concernono:


la natura e la varietà delle crisi, con particolare attenzione all'urgenza, ai rischi possibili e alla diffusa incertezza che rende elevati i costi (o costi potenziali); inoltre, è bene approfondire il problema relativo alla convergenza di più crisi nello stesso periodo;

la natura e la sede dell'unità incaricate delle decisioni, tenendo presente che una crisi acuta provoca un'immediata revoca di autorità e consiglia la massima segretezza;

il modo di distinguere le percezioni d'élite delle crisi dalla realtà, le crisi vere da quelle erroneamente, ma in buona fede, definite tali nonché da quelle fabbricate ad hoc dai capi per mobilitare il sostegno politico a scelte politiche prioritarie;

i vuoti nella documentazione e i casi negativi, come la pessima gestione della crisi del Vietnam, dal cui fallimento è però possibile trarne importanti insegnamenti ed indicazioni per casi simili;

la gestione delle crisi, compresa la programmazione di sistemi atti a ridurre il peso dei preconcetti nel corso delle crisi.


E. L'ultimo ostacolo trattato da Wilensky concerne l'obbligo della segretezza negli affari esteri che aggrava i problemi dell'intelligenza.


L'esigenza della segretezza è sentita in qualunque attività governativa, e presente in ogni settore, ha consentito di nascondere gli errori compiuti. Ciò non fa che inasprire il problema della raccolta dei dati o della loro interpretazione. Tutto resta isolato e inaccessibile al giudizio pubblico. L'esigenza da soddisfare è chiaramente che le deliberazioni dell'esecutivo restino confidenziali, poiché se i decisori si sentissero vulnerabili per le opinioni da loro espresse, eviterebbero di esprimere con energia le loro opinioni, a tutto danno dell'efficienza politica. Ma un'idea (e quindi una decisione) non sottoposta a critica resterebbe "ispirata da teorie molto limitate e da dati molto incerti".


Il rischio maggiore risiede tuttavia nei possibili abusi di tale segretezza. Wilensky sostiene che "se le maggiori potenze riducessero l'ambito del segreto governativo, i militari e i pianificatori strategici sarebbero meno spesso in grado di seminare il panico tra tutti (loro compresi), e si potrebbe ridurre il peso degli armamenti su scala mondiale",212 essendo proprio la tendenza dei militari a ingrandire i pericoli della minaccia esterna la principale effetto della fioritura della segretezza negli affari esteri.


Analizzando l'intervento della NATO in Kosovo,213 ci siamo più volte resi conto di come la segretezza sia stata una "conditio sine qua non" di tutta la gestione della crisi. Grazie all'enorme progresso fatto in campo tecnologico negli ultimi anni, durante la crisi del Kosovo si è potuto creare "Quint", la teleconferenza quotidiana tra i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti.


Quint ha poi continuato a "lavorare a vari livelli - dai direttori politici dei ministeri degli Esteri, agli ambasciatori, ai loro aggiunti - anche dopo la fine del conflitto. Ed anche su problemi indipendenti del Kosovo".215


Proprio riguardo all'oggetto in esame, D'Alema si esprime così:"Dopo la guerra, Quint è ormai evoluto in un esercizio di brainstorming più generale. Ma meno se ne parla e meglio è per noi perché, nel momento in cui viene fuori, diventa un problema politico per gli altri che vorranno parteciparvi".216


Nonostante i timori espressi, il visibile compiacimento italiano per essere parte di questa élite - a monte delle riunioni a 19 - rischia però di rivelarsi ingiustificato se - come già trapelava tra i membri stessi di Quint - ci fosse reale motivo di credere che "la consultazione di un mini-club a due (il "nucleo durissimo" composto da Stati Uniti - Gran Bretagna) si sia già tenuta a monte delle riunioni a cinque: questo sistema semi-clandestino strutturato un po' a scatole cinesi rischia di essere semmai la spia di una concezione tutta statunitense dei processi decisionali nell'Alleanza".217


Il settimanale "Die Zeit" ha pubblicato (12 agosto 199) una lunga intervista al generale Clark, che convalida appieno la tesi sopra sostenuta.218 Clark ha dichiarato che ogni mattina, dopo la videoconferenza della NATO sulla definizione dei bersagli, si recava in un'altra sala per la videoconferenza (segreta) con Eucom - "il comando delle forze americane in Europa, nella base inglese di Molesworth, responsabile solo nei confronti del Pentagono e, in ultima istanza, del Presidente degli Stati Uniti" - di cui era l'uomo di vertice.


"Die Zeit" scrive: "Tutte le operazioni con attrezzature segrete americane - aerei con qualche tecnologia Stealth o missili Cruise - avevano luogo non sotto la catena di comando NATO, ma Eucom. A questa conferenza Clark approvava i bersagli e ne passava la lista allo Stato Maggiore di Washington, che a sua volta faceva autorizzare gli obiettivi particolarmente delicati dalla Casa Bianca. (...) Clark impedì che l'Alleanza azzoppasse la guerra aerea, tenendo fuori la NATO dagli attacchi in cui venivano impiegati aerei americani (Stealth). A Vicenza c'erano due squadre di definizione degli obiettivi, completamente separate: una per gli aerei NATO, l'altra per jet Eucom. Gli Stati Uniti lesinavano notizie e informazioni sugli obiettivi ai loro alleati. Persino il governo britannico, l'alleato più stretto, non sempre veniva informato dei bersagli e delle intenzioni statunitensi".219 Così i veti alleati sui bersagli venivano spesso aggirati, come lo stesso Clark ha apertamente riconosciuto: persino Quint - già di per sè ai limiti della clandestinità - non avrebbe potuto giocare che un ruolo di complemento.




4.1.1. Il ruolo dei mass-media: un caso.


Un'eccessiva segretezza - come abbiamo visto - finisce per nascondere la verità sia alla nazione sia alla sua classe dirigente, tuttavia, analogo effetto può produrlo anche una pubblicità sfrenata. I mass media, infatti, o si concentrano su pseudo-avvenimenti allo scopo di distrarre l'opinione pubblica da altri fatti ben più rilevanti, ma coperti da "segreto governativo", oppure, più semplicemente, adottano la linea del silenzio. Molto raramente essi operano "un controllo indipendente della propaganda governativa".


Su temi di politica estera o militare, la tendenza dei mass media è quella di seguire il consenso semi-ufficiale, ispirandosi direttamente alla pubblicità governativa, "contrariamente a quanto avviene per i temi di politica interna".220


"Il mondo del giornalismo specializzato in crisi è un mondo nel quale la maggior parte degli avvenimenti riferiti con un tono d'urgenza mozzafiato non avviene affatto in senso spontaneo o naturale; gli avvenimenti sono creati dai giornalisti che debbono soddisfare la richiesta di notizie sensazionali all'interno; dagli addetti alle pubbliche relazioni che devono fare gli interessi dei loro clienti; o dai membri del governo che devono dar credito alle loro politiche".


Dagli anni in cui Wilensky espose le sue tesi, il ruolo dei mass media non è molto cambiato. Tuttavia, lo sviluppo incessante delle tecnologie e la sempre crescente opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, ha fatto sì che il potere dei decisori e l'informazione si rafforzassero reciprocamente (e parallelamente).


Sono stati aperti sempre nuovi canali di informazione e, all'interno della struttura esistente, sono stati acquistati nuovi servizi e prodotti portando infine ad una vera e propria "industrializzazione della comunicazione". E' necessario, quindi, per la burocrazia e per il dirigente, riuscire a controllare il flusso libero di informazioni, per "aumentare la dipendenza delle altre unità dalla fonte originale di informazione. "(...) I mass media sono, in società democratiche, lo strumento più adatto per contrabbandare al pubblico informazioni controllate dalle unità politiche".222


Dall'inizio degli anni Novanta, poi, l'occhio della televisione è arrivata a mostrarci eventi e immagini del tutto impensabili sino a pochi anni prima. La Guerra del Golfo - tra Stati Uniti ed Iraq - è stato trasformata dalle telecamere della CNN in un vero e proprio "evento mediatico", che ha condotto il telespettatore proprio nel cuore delle battaglie.


Con similare interesse le televisioni si sono occupate dell'intera crisi balcanica. Nei giorni della guerra in Kosovo, è andata in onda su Rai 3 una trasmissione televisiva dal titolo "Yugoslavia, morte di una nazione", con la conduzione di Andrea Purgatori.


Questa trasmissione ha illustrato con foto e immagini le cause remote della guerra, il disfacimento della Yugoslavia sin dal 1990, i precedenti conflitti tra serbi, croati e bosniaci, i fallimenti delle varie mediazioni che si sono susseguite negli anni, i contenuti e i limiti del Trattato di Dayton che ha portato ad una tregua armata, ma non ad una vera pace in Bosnia, fino alle vicende del conflitto ancora in corso.


Ci preme ricordarla non solo per l'ottimo indice di ascolto avuto, nonostante ogni puntata durasse circa due ore (e il tema non fosse dei più leggeri), ma soprattutto per come ha ricostruito e documentato le tappe che hanno portato a prendere alcune tra le più importanti decisioni nella crisi balcanica. Ci riferiamo in particolare alla riunione tenutasi a Belgrado nel luglio 1991, convocata per decidere sulla posizione che la Federazione Yugoslavia avrebbe dovuto prendere nei confronti della Slovenia (con cui era ai ferri corti). Il ruolo giocato dai leaders serbi è ben fotografato dalle immagini di quelle riunione, nonché dalle loro stesse dichiarazioni.


In precedenza - a seguito di un vertice a Lussemburgo il 28 giugno 1991 - la Comunità Europea aveva deciso di mandare tre ministri degli Esteri (tra cui quello italiano, De Michelis) a convincere Slovenia e Croazia a rallentare le pressioni secessionistiche: la riunione con i leaders delle repubbliche ribelli, ansiosi di ricevere un riconoscimento internazionale, ha luogo in Croazia, perché la Slovenia era ormai zona di guerra. Anche questo vertice si è svolto sotto le luci delle telecamere: nella circostanza si decide una tregua di tre mesi, periodo in cui si sarebbe dovuto negoziare, in cambio dell'appoggio dei Paesi della Comunità Europea. Ma la soddisfazione seguitane era infondata: esercito federale e Slovenia continuavano a fronteggiarsi. Ecco che si giunge a Belgrado, nella sede del Ministero della Difesa della federazione yugoslava.


Il ministro della Difesa yugoslava propone di lanciare un massiccio attacco militare e i membri della presidenza collegiale sembrano propensi ad accettare la proposta, ma per far ciò hanno bisogno del consenso della repubblica più potente, la Serbia. La sorpresa è alle porte, e viene ben riassunta nelle parole di Borisov Jovic, l'allora presidente (serbo) della Yugoslavia: "Lo dissi senza mezzi termini: noi non volevamo una guerra con la Slovenia; la Serbia non aveva rivendicazioni territoriali in Slovenia, che era una repubblica etnicamente pura, senza serbi. A noi importava ben poco se gli sloveni volevano lasciare la Yugoslavia". Il generale Vasiljevic, dei servizi segreti dell'esercito yugoslvao dichiara: "Jovic ci propose di ritirare l'esercito dalla Slovenia, fino ai nuovi confini".


Così i generali yugoslavi interrompono le operazioni in Slovenia: le ambizioni della Serbia stanno altrove. Davanti ai microfoni, Slobodan Milosevic afferma: "Io ero contrario all'impiego dell'esercito federale yugoslavo in Slovenia", e ancora Jovic aggiunge: "Sarebbe stato un impegno eccessivo: chiuso il capitolo sloveno, avremmo potuto dettare le nostre condizioni ai croati".


Nessun dubbio, quindi, sulle cause e sull'entità delle forze che hanno giocato a favore del ritiro delle truppe federali. Ma il punto da sottolineare concerne il significato innovativo che tale documento rappresenta. Per la prima volta a livello mondiale, una decisione così importante è stata presa sotto le luci delle telecamere, che hanno ripreso tutte le fasi della conferenza. Ovviamente ciò è potuto avvenire con il beneplacito dei presenti, soprattutto delle autorità federali e serbe, consapevoli dell'enorme cassa di risonanza che tale evento avrebbe avuto, e ansiosi di chiarire dinanzi al mondo intero la loro posizione nei confronti della Slovenia, e con essa i loro intenti politici: unificare tutte le popolazioni di etnia serba sotto un'unica autorità (quella del governo di Belgrado); la Slovenia non rientrava nei loro piani poiché etnicamente omogenea e senza serbi. Una buona mossa, dettata dalle nuove regole della "visibilità mediatica".



4. 2. I rapporti tra Stati di una stessa coalizione: un caso.


Sin qui abbiamo analizzato le difficoltà generali che si incontrano nel pianificare la politica estera, e ancor più nella gestione delle crisi. Tuttavia, il quadro si complica quando deputata a dirimere una crisi non è un singolo Stato, ma una coalizione di essi. Ciò perché i rapporti tra gli Stati costituiscono un sistema, costituito da molte variabili di cui è necessario tenere conto per modellare una politica gestionale coerente.


Ci riferiamo alla distribuzione del potere tra ognuno di essi ed ai giochi di potere che ne possono derivare. Vogliamo a questo punto ricordare le tappe e gli eventi che portarono all'apertura di un "secondo fronte" per facilitare la sconfitta della Germania di Hitler: l'operazione Overlord in Normandia (6 giugno 1944).


L'idea dell'apertura di un "secondo  fronte" in Europa, nasceva dalle esigenze sovietiche di alleggerire la pressione lungo i propri confini con la Germania (primo fronte). Sin dal 1942, Stalin aveva cominciato a proporre di aprire una breccia ad ovest della Germania, nel nord della Francia.


Tuttavia, ciò era allora impossibile, poiché il contingente americano era ancora in "statu nascendi". Inoltre, le differenze ideologiche all'interno dell'alleanza (URSS, esponente del comunismo e USA e Gran Bretagna, esponenti della democrazia liberale) non facilitavano certo l'accordo, sebbene i tre grandi fossero d'accordo a distruggere il fascismo internazionale.


Tra americani e inglesi sorsero divergenze a proposito del modo migliore per procedere.224 Churchill preferiva ritardare l'assalto militare diretto all'Europa continentale fino a che la Germania non fosse stata indebolita dai bombardamenti aerei, dai blocchi navali e dagli attacchi al suo fianco mediterraneo relativamente poco protetto. La posizione degli americani era favorevole ad un attacco frontale attraverso la Manica, scartando ogni "approccio di tipo periferico". Alle promesse di Roosevelt a Stalin per l'apertura del "secondo fronte" entro la fine del 1942, Churchill rispose con le pressioni per un'invasione angloamericana del Nord Africa francese "quale passo preliminare per l'attacco attraverso la Manica", e alla fine l'ebbe vinta.


Nel gennaio del 1943 Roosevelt e Churchill si incontrarono a Casablanca per progettare la successiva offensiva. Riemersero i disaccordi sulle differenti linee strategiche da adottare. Churchill ritenne oramai superata l'esigenza di aprire un "secondo fronte" - alla luce della disfatta tedesca a Stalingrado. Inoltre, si prospettava la possibilità di liberarsi dell'Italia, a seguito della liberazione del Nord Africa. Gli americani continuarono sulla linea sposata l'anno precedente, preferendo disimpegnarsi dal Mediterraneo, assalire l'Europa e trasferire poi le proprie truppe sul Pacifico.225 Si decise per un'invasione della Sicilia, ritardando l'attacco alla Francia.


Nell'agosto del 1943, quando Roosevelt e Churchill si reincontrarono a Quebec, le cose erano cambiate, essendo le forza americana divenuta preponderante. Le decisioni strategiche furono da allora prese a Washington: a Quebec gli americani furono finalmente in grado di imporre la loro linea e l'operazione Overlord fu programmata per la tarda primavera del 1944.


La conferenza di Teheran (28 novembre - 2 dicembre 1943), fu l'occasione che riunì per a prima volta i "tre grandi". In tale sede fu riaffermata la decisione presa in agosto a Quebec. "Il punto principale fu l'operazione di Roosevelt e soprattutto di Stalin ad un piano di Churchill che voleva un'operazione simultanea nei Balcani. Secondo Stalin, bisognava mirare diritto al cuore della Germania, e i Balcani non erano una buona via per raggiungerlo. Senza dubbio Stalin desiderava anche che solo le truppe russe occupassero alla fine della guerra i Paesi slavi e balcanici".226


Alla fine Roosevelt e i suoi generali decisero di concentrarsi sull'obiettivo primario - vincere la guerra - disilludendo Churchill sulla possibilità di arrivare a Vienna, Berlino e Praga prima dai russi, e dimostrando di essere "abbastanza indifferenti circa l'assetto politico dell'Europa  del dopoguerra". E così furono gettate le basi per lo sbarco in Normandia.



4.3. La legittimità degli interventi umanitari.


L'intervento della NATO in Kosovo, nel 1999, ha dimostrato ancor meglio la veridicità delle tesi enunciate da Wilensky. Inoltre, le motivazioni apportate per giustificare tale intervento presentano nuovi interessanti aspetti che è bene sottolineare.


Come già più volte ricordato, in occasione delle celebrazioni del cinquantennio dell'Alleanza a Washington, la NATO ha fornito la più articolata e autorevole giustificazione del proprio intervento contro la Serbia. Nel Comunicato sul Kosovo del 23 aprile 1999, il North Atlantic Council (NAC) - riunito a livello di Capi di Stato e di Governo - ha calcato molto sull'imperativo di porre termine all'inammissibile campagna di violenze, oppressioni e pulizia etnica in atto nei Balcani per mano del regime yugoslavo: il NAC ha così posto delle condizioni alla Serbia per indurla a cessare tale scempio.




Di "imperativo morale" aveva già parlato il presidente Clinton, nel suo discorso alla nazione il 24 marzo 1999; ma in realtà tutti i governi degli Stati membri avevano denunciato la necessità di far cessare la strage, dal Primo Ministro britannico, al Cancelliere tedesco, al Presidente della Repubblica francese. E non ultimo il Segretario Generale della NATO, Javier Solana.


Infine, l'Unione Europea, che adotta anch'essa una posizione analoga a Bruxelles, in occasione di una riunione informale dei Capi di Stato e di Governo, il 14 aprile 1999. Anche altre cause erano portate a giustificazione dell'intervento, ma non c'è dubbio che quella indicata veniva considerata la preminente. Secondo la letteratura giuridica internazionale, l'uso della forza per proteggere la popolazione civile contro gravi violazione dei diritti umani viene tradotto in termini di "intervento d'umanità".229 La legittimità di un simile intervento è stata oggetto di accesi dibattiti tra i giuristi sin dalla fine del XIX secolo, per poi dar luogo a critiche ancor più veementi a partire dagli anni Ottanta: è bene precisare subito che mai è emersa un'opinione prevalente a favore di un "intervento d'umanità".


Il dibattito è però destinato a mutare le sue forme e i suoi toni proprio alla luce dell'intervento NATO in Kosovo, rappresentando quest'ultimo un vero e proprio test-case su tale (più o meno) presunta liceità.


Come ricorda Habermas,230 l'azione punitiva condotta dalla NATO contro la Yugoslavia rappresenterebbe - secondo i dettami del diritto internazionale classico - un'ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, o, in altri termini, una violazione del divieto di intervento. Al contrario, secondo i presupposti della politica dei diritti umani, essa andrebbe identificata come una riunione pacificatrice, armata ma altresì autorizzata dalla Comunità internazionale (pur senza mandato ONU). E proprio da questa contrapposizione dovrebbe generarsi il passaggio "dal diritto classico internazionale al diritto cosmopolita di una società universale". Gli errori e le incertezze che hanno contraddistinto l'azione militare della NATO in Kosovo sono oramai ben noti. Ma ci chiediamo, con Habermas, se a sbagliare principalmente (e prima di coloro che hanno pianificato la campagna aerea) non sia stato proprio il "pacifismo del diritto".


Sostanzialmente, sulla liceità dell'intervento d'umanità, le diverse posizioni degli Stati possono essere raccolte attorno a tre schieramenti: i conservatori, i legalitari e i revisionisti.


Al primo gruppo appartiene senza dubbio la Repubblica Popolare Cinese, secondo la quale la legalità internazionale è stata più volte violata nel 1999 proprio in nome dell'umanitarismo e dei diritti dell'uomo.231 Null'altro che un pretesto, cioè, per dissimulare finalità egemoniche e la minaccia alla legalità dell'ordinamento giuridico internazionale, che neppure una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza sarebbe legittimata ad infrangere.


Al gruppo dei legalitari appartengono invece alcuni Stati neutrali o no allineati, che concepiscono un intervento d'umanità" solo se espressamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; così la Svezia e la Russia, ad esempio. E c'è pure chi denuncia il pericolo del "doppio standard", ovvero la differenza di misura usata nei confronti dei conflitti a seconda della maggiore o minore importanza geopolitica che essi rappresentino per le grandi potenze.232


I Paesi revisionisti, invece, tendono ad uscire e a liberarsi dagli opprimenti limiti posti dal diritto internazionale. Una posizione molto avanzata è quella assunta dal Ministro degli Esteri danese, che ha denunciato come inammissibile l'inattività della Comunità internazionale dinanzi ad eventi come quello balcanico, stante la paralisi del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, nell'ambito di questo gruppo di Paesi, è stata avanzata con frequenza la necessità di una "definizione delle regole" per questi interventi, più chiara e dettagliata. Così il Canada e l'Italia. Gli Stati Uniti, invece, adottano una posizione più sfumata, temendo che una "istituzionalizzazione" dello "intervento d'umanità" si tradurrebbe in un costante coinvolgimento americano in tutte le future catastrofi umanitarie.


Habermas sostiene che "proprio la istituzionalizzazione di queste procedure preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un'indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale ed immediato affermarsi di discriminazioni morali di nemici".233


A tal proposito, è necessario che, in seno all'ONU, l'Assemblea Generale dei rappresentanti venga integrata con un secondo livello di rappresentanza dei cittadini, e che parimenti cresca il potere sia del Consiglio di Sicurezza (risolvendo le sue contraddizioni interne) sia di una Corte di Giustizia internazionale. Tuttavia, questo scenario appare difficilmente realizzabile, prospettandosi così la necessità di trovare altrove la soluzione per questa impasse.


Al di là delle suddivisioni geopolitiche, anche tra gli studiosi del diritto internazionale le tendenze sembrano essere piuttosto variegate. Basandosi su argomentazioni geopolitiche (più che giuridiche), il gruppo degli scettici tende a ritenere l'umanitarismo come una forma ripulita e più presentabile di coercive diplomacy, rifiutandosi così di esaminare il fondamento giuridico dell'intervento di umanità.234 Potere attuare coattivamente il diritto internazionale su una base eventualmente giuridica dell'intervento umanitario, significherebbe avere la possibilità di coprire ben più impellenti interessi nazionali. E sarebbe azzardato fornire un tale pretesto. Inoltre, ciò porterebbe gli Stati ad "intervenire senza più limiti ogniqualvolta vi siano delle violazioni dei diritti dell'uomo, con inevitabile aumento dei conflitti e del disordine internazionale".


Al gruppo dei moralisti appartengono coloro che, invece, ritrovano in alcuni principi etici superiori e in altrettante considerazioni extra-giuridiche la giustificazione di un'azione umanitaria, senza dubbio al di fuori della legge, ma non per questo condannabile, proprio in virtù di tali considerazioni morali. Inoltre, tali azioni di ultima ratio non riuscirebbero in alcun caso disordine all'interno del diritto internazionale codificato, in quanto, proprio in virtù della loro eccezionalità, non potrebbero costituire un precedente, se non per altre nazioni di similare natura ed entità.


Infine, i positivisti, costituenti il gruppo più ampio ed eterogeneo, i quali fanno esclusivo riferimento al diritto positivo e, nel caso in esame, alle norme che legittimerebbero o meno l'intervento umanitario. In alternativa alle considerazioni ideologiche, etniche ed extra-giuridiche, l'unica determinante sarebbe rappresentata dalla volontà della Comunità internazionale. Ma esiste o meno tale norma? Non ancora, fino a pochi mesi fa; ma è chiaro come l'azione NATO contro la Serbia possa considerarsi un precedente, a dispetto di tutte le aporie del diritto internazionale e, prima ancora, dell'intera Comunità internazionale.


Bisogna, infine, ricordare il ruolo giocato dall'opinione pubblica nell'alimentare questo dibattito. In effetti, in molti Paesi dell'area occidentale, il problema ha avuto un notevole riscontro mediatico, coinvolgimento tanto il mondo politico quanto quello religioso, in merito alla ribalta delle cronache. La brutalità delle immagini dei massacri e della guerra, parallelamente alle manipolazioni di stime e valutazioni aperte dal regime di Belgrado, hanno fatto sì che l'opinione pubblica pendesse pienamente coscienza del dramma in atto e della complessità del problema, anche dal punto di vista giuridico. Inoltre, bisogna constatare l'enorme crescita, tra i media, della televisione, che dell'inizio degli anni Novanta - con la guerra del Golfo - fino all'ultima guerra nei Balcani ha contribuito più di qualsiasi dibattito o discussione su altri mezzi  di informazione, a sensibilizzare le coscienze di un pubblico sempre più attento; una maggiore forza di persuasione delle immagini rispetto alle parole, dunque, e un'efficacia che nessun reportage giornalistico, nessun commento potrebbero mai pareggiare.


4.3.1. La NATO al posto dell'ONU.


Nella storia politica mondiale del XX secolo si possono facilmente individuare tre epoche ben distinte. La prima, la più lunga, è caratterizzata da uno stato di tensione tra le grandi potenze sempre latente, che le porta a fronteggiarsi per ben due volte in conflitti mondiali e che, infine, si conclude con la Seconda Guerra Mondiale, solo in seguito alla quale si comincia realmente a comprendere che la strada imboccata avrebbe portato all'autodistruzione globale.


A questa succede poi una seconda fase di transizione, poco più breve della precedente, caratterizzata da un equilibrio di potenza pressochè assoluto, che si è protratto fino alla fine degli anni Ottanta, con la caduta del muro di Berlino. E' al principio di quest'epoca che vengono create l'ONU e la NATO; la prima, allo scopo di tutelare il precario equilibrio post-Seconda Guerra Mondiale, è stata plasmata cercando di non ripetere gli errori che portarono poi al fallimento della Società delle Nazioni, anch'essa concepita come sistema immunitario collettivo a carattere transitorio.236 Alla NATO è stata, invece, affidata la missione di "consolidare e organizzare le forze del progresso" sul lungo periodo e, dopo aver assolto i compiti di scudo contro i Paesi del blocco comunista, prendere poi eventualmente il posto dell'ONU nella gestione degli affari mondiali.


L'epoca della globalizzazione, la terza, ha avuto inizio proprio in seguito alla caduta del muro di Berlino ed è destinata a durare ancora a lungo.


In effetti, dalla fine del Seconda Guerra Mondiale fino alla caduta del muro, il ruolo di forte deterrente giocato dalle Nazioni Unite si è rivelato determinante nell'intricato gioco di blocchi e controblocchi tipici di quel periodo. Tuttavia in seguito la sua influenza ha cominciato a ridursi sempre più e, in assenza di un solido e collaudato meccanismo capace di far rispettare le rivoluzioni del Consiglio di Sicurezza, ha finito per smarrire tutta la sua autorità. L'ONU di oggi, paralizzata dai veti in seno al Consiglio di Sicurezza, non è che uno sbiadito ricordo di quella creata alla fine dell'ultimo conflitto mondiale.


Tuttavia, non si può certo affermare che l'ONU abbia fallito il suo obiettivo; al contrario, gli scopi per cui nel 1945 si decise di crearla sono già stati stabilmente raggiunti da lungo tempo e pertanto non pare siano più sufficienti, oramai, a giustificarne l'esistenza.


Il passo successivo per le Nazioni Unite consisterà nel devolvere alla NATO le sue funzioni di problem solver237 mondiale per ritirarsi poi dalla gara. Nell'epoca della globalizzazione spetta, quindi, alla NATO costituire la spina dorsale e la forza motrice dell'equilibrio mondiale raggiunto e poi mantenuto con tanta difficoltà dalle democrazie occidentali. In realtà, più volte abbiamo avuto modo di rilevare come anche la NATO abbia assolto pienamente i compiti per cui era stata creata nel lontano 1949. Ma allora quali fattori hanno determinato il suo successo, la sua vitalità lungo l'arco di cinquant'anni, fino a farne intravedere un così vasto allargamento dei compiti?


Il primo fattore di successo è stata la sua omogeneità. A differenza di tutte le precedenti alleanze, basate sulla comunanza di interessi, la NATO si fonda su alcuni valori condivisi quali democrazia, libertà individuali e predominio della legge. In effetti, valori comuni tendono a coincidere con interessi comuni, e nella maggior parte dei casi sono meno mutabili di questi ultimi: valori comuni generano interessi comuni, mentre non necessariamente è vero anche l'inverso. Inoltre, ed è questo il secondo fattore, questi valori si sono dimostrati universalmente "giusti", a differenza di altre organizzazioni fondate su valori che non hanno retto la prova del tempo, quali ad esempio il Patto di Varsavia.


La terza caratteristica è rappresentata dal ruolo di leadership giocato dagli Stati Uniti all'interno della NATO, essendo essi il vero collante che ha permesso di unire le politiche di 19 Paesi con notevoli differenze e contraddizioni. E ciò è forse quello che sembra mancare all? Unione Europea, ancora incapace di darsi una politica estera comune, restando ancora uno strumento utile solo per la "protezione dei piccoli interessi individuali di ciascun membro".238


La quarta e ultima caratteristica vincente deriva dal fatto che essa riunisca attorno allo stesso tavolo le principali potenze nucleari del mondo , fattore decisivo nel determinare l'esito della Guerra Fredda. Al giorno d'oggi, l'esistenza stessa della NATO porta ad escludere la possibilità di creare un'alleanza alternativa, in competizione con essa se non un doppione. Ciò viene garantito sia dalla presenza degli Stati Uniti, unica potenza ad avere la capacità logistica di mobilitare forze armate velocemente ed anche a grande distanza (decisiva per un'alleanza con vocazione mondiale), sia dal sistema di comunicazione più moderno ed evoluto del mondo, impossibile da ricostituire per epoca di un altro gruppo di Paesi che vogliano competere con la NATO.239


La funzione essenziale assunta dalla NATO si è, infine, dimostrata molto importante anche per dirimere alcuni contesti interni e le tensioni tra i suoi stessi membri: ci riferiamo in particolare allo spinoso e doloroso conflitto intercorso tra Grecia e Turchia, prevenendo una guerra che ad un certo punto pareva inevitabile.


Ciò detto, non resta che analizzare i motivi per cui l'Alleanza Atlantica, subentrando completamente all'ONU nei ruoli e funzioni, possa garantire un risultato migliore di quest'ultima e gli eventuali problemi che ne deriverebbero per il gruppo dei Paesi appartenenti all'area europea.



4.4. La NATO a salvaguardia dei diritti umani.


Seguendo le indicazioni di Habermas,240 agire nella legalità del diritto internazionale, può non essere sempre la soluzione ottimale - come il caso del Kosovo ha chiaramente evidenziato, - specialmente se tale diritto, elaborato più di cinquant'anni fa per tutelarsi contro pericoli oramai venuti meno, è fonte di paralisi in seno alle organizzazioni che dovrebbero applicarlo. Inoltre, altre cronache negli ultimi anni, e attinenti la dottrina sull'intervento umanitario, i diritti umani e l'autodeterminazione dei popoli appaiono tutt'altro che ben definite in ambito giurisprudenziale, palesatesi tutte le loro lacune.



Abbiamo già visto come i bombardamenti contro Belgrado non si basassero né su una decisione del Consiglio di Sicurezza, in base al Cap. VII (azioni contro le minacce alla pace, le violazioni alla pace, e gli atti di aggressione) dello Statuto dell'ONU, né era un'azione di autodifesa collettiva, in base all'Articolo 51 dello stesso Statuto, essendo queste le uniche due giustificazioni per l'uso della forza in base al diritto internazionale.


Come ha ammonito il Segretario Generale dell'ONU, Kofi Anann, nei primi giorni di bombardamenti contro la Serbia, "lo Statuto dell'ONU dovrebbe non essere mai la fonte di speranze o di giustificazione per coloro che si rendono colpevoli di macroscopiche e violente violazioni dei diritti umani".241


"Solo se i diritti umani troveranno la loro sede in un ordine giuridico democratiche su scala mondiale, come i nostri diritti fondamentali la trovano nelle nostre costituzioni nazionali, potremmo ritenere che anche a livello globale i destinatari di questi diritti ne sono al tempo stesso gli autori".242


Il primo problema che la "nuova NATO" si troverà ad affrontare sarà quello relativo alla salvaguardia di tali diritti, soprattutto in regioni non appartenenti all'area NATO. Ecco che appare necessaria la nascita di una norma internazionale contro la violenta repressione delle minoranze, da applicare con minore difficoltà di quanto si è fatto nel caso del Kosovo, e tale da limitare la "diplomazia segreta",243 rea di mostrare come la NATO abbia percepito la propria azione come illegale.


La sovranità dovrà essere in futuro limitata proprio da tale norma nascente, posto che essa dovrà consolidarsi in una prassi coerente, in grado di ricomporre, almeno parzialmente, le differenze tra gli Stati e le aporie del diritto internazionale. Si è ipotizzato che la riluttanza dei funzionari della NATO a considerarla come un'organizzazione regionale (così come viene defefinita nel Cap. VIII dello Statuto dell'ONU) sia derivata dalla preoccupazione che una tale classificazione potesse far diventare la NATO una semplice appendice militare dell'ONU. In realtà, il Cap. VIII non impone doveri aggiuntivi rispetto a quelli già posti ai Paesi membri in base al Cap. VII dello stesso Statuto.


Pertanto, riuscendo a considerare finalmente la NATO come un'organizzazione regionale per la sicurezza nel senso di sicurezza collettiva (Cap. VIII), si potrebbe considerare l'azione in Kosovo come un precedente di intervento umanitario (condotto pur sempre, però, senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza come previsto dall'Articolo 53 del Capitolo VIII).244 Un precedente che rappresenterebbe altresì un caso di non passività davanti ad una crisi umanitaria, un'evoluzione in senso positivo, dunque per lo stesso diritto internazionale.


Un primo passo, quindi, per dare a quel "devoir d'ingérence" una connotazione meno passiva e limitata. E ciò anche in presenza di situazioni in cui il Consiglio di Sicurezza sia paralizzato dal gioco dei veti incrociati: si dovrebbe utilizzare il precedente della Uniting for Peace,245 cioè, ogni volta che si renda necessario, sottoponendo il caso all'Assemblea generale chiedendone l'approvazione, al di là dei limiti posti dal Consiglio di Sicurezza.


Ma al di fuori dell'esistenza, oramai, di un tale precedente, è chiaro che debbano sussistere delle rigide condizioni perché un intervento NATO senza autorizzazione del Consiglio di Sicurezza risulti legittimo. Fondamentali appaiono i seguenti requisiti:


deve trattarsi di massicce violazioni dei diritti umani, assimilabili a crimini contro l'umanità;


devono essere state tentate tutte le possibili procedure per una soluzione pacifica;


il Consiglio di sicurezza non può o non vuole porre termine ai crimini contro l'umanità;


il governo dello Stato ove le atrocità hanno luogo non deve essere in grado o non voler porre fine a tale situazione;


la decisione di intraprendere un'azione militare potrebbe essere presa da una organizzazione regionale in base al Capitolo VIII dello Statuto dell'ONU, utilizzando il precedente della "Uniting for Peace" per ottenere l'approvazione dell'Assemblea Generale al più presto; oppure la decisione potrebbe essere presa direttamente della maggioranza di due terzi dell'Assemblea Generale conformemente alla procedura della "Uniting for Peace";


l'uso della forza deve essere proporzionato alla situazione umanitaria in esame e conforme al diritto internazionale umanitario vigente nei conflitti armati;


lo scopo dell'intervento umanitario deve essere strettamente limitato a por fine alle atrocità e a costruire un nuovo ordine di sicurezza per il popolo del Paese in questione.246


50 anni dopo l'adozione della Dichiarazione Universale dei diritti umani, la regolamentazione degli interventi nei casi di massicce e sistematiche violazioni di tali diritti e della libertà fondamentali appare quanto mai un'esigenza, avvertita come impellente nell'ambito della Comunità internazionale, proprio a seguito degli ultimi eventi balcanici.


Gli sviluppi derivanti dal vertice di Washington dell'aprile 1999 dovrebbero consentire di "progredire nella pianificazione delle forze, nei cambiamenti nella struttura delle forze e in un riequilibrio dei livelli delle forze, che consentiranno ai Paesi membri di essere in grado di affrontare le future minacce alla loro difesa collettiva, pur rimanendo sensibili e vigili alle esigenze di una efficace gestione delle crisi".247


La NATO del XXI secolo è destinata ad espandere considerevolmente le proprie funzioni, fino ad assumere compiti e funzioni a tutt'oggi dell'ONU, rivelatasi inadatta a gestire le nuove sfide.


Tuttavia, unificare idiomi e differenze culturali sotto una sola bandiera comporta sforzi considerevoli per l'Alleanza. Soprattutto è essenziale una maggiore cooperazione, per sviluppare l'interagibilità a livello tattico: essa è però raggiungibile solo all'internodi un quadro di chiara strategia politica, che riunisca differenti tipologie di attività, sia civili che militari.




Wilensky, Harold L., Riflessioni sui limiti della razionalità: il ruolo degli esperti nella politica interna ed estera, in AA.VV., "Razionalità sociale e tecnologia della informazione", Edizioni di Comunità, Milano, 1973, 99-215.

Wilensky, op. cit., 163.

Cfr. Wilensky, op. cit., 157-161.

Wilensky, op. cit., 157.

Cfr. Wilensky, op. cit., 150-153.

Cfr. Wilensky, op. cit., 147-150.

Wilensky, op. cit., 149.

Cfr. Wilensky, op. cit., 122-147,

Dall'inizio degli anni Sessanta, la Central Intelligence Agency (CIA) - Kennedy da tempo intendeva rovesciare il regime di Fidel Castro a Cuba - stava preparando un'armata formata da esuli cubani per tentare un'invasione dell'isola. Il Presidente, d'accordo con l'operazione, rifiutò di fornire l'aiuto aereo americano. Il 17 aprile 1961, circa 1400 sbarcarono alla Baia dei Porci, ma la sollevazione popolare sulla quale si era fatto conto non ebbe luogo, e gli invasori furono sopraffatti con facilità.

Jones, Maldwin A., Storia degli Stati Uniti, Bompiani, Milano, 1997, 498.

Cfr. Crozier , M., Friedberg , E., Attore sociale e sistema, Etas, Milano, 1978, 213-234.

Crozier, op. cit., 228.

Crozier, op. cit., 230.

Jones, op. cit., 498.

L'esempio analizzato è un caso tipico di analisi empirica di una sequenza decisionale. Un problema urgente è stato affrontato con lucidità e decisione: è stata presa in considerazione una gamma di possibili soluzioni, se ne sono soppesati costi e benefici (per ciascuna di esse) alla luce del massimo di informazioni a disposizione, e si è infine scelta la soluzione che presentava "il maggior numero di vantaggi al minor costo". A prima vista sembrerebbe un modello classico di decisione razionale. Tuttavia essa va inquadrata correttamente secondo il modello di razionalità americana di Herbert Simon: il caso in esame non rispetterebbe i canoni del modello di razionalità assoluta semplicemente perché il decisore (Kennedy) non preso in considerazione tutte le soluzioni possibili. Inoltre, non c'è dubbio che ai fini della decisione finale, siano stati fondamentali gli errori di informazione (e le incertezze) riguardo alle alternative. Simon sostiene che il decisore non ricerca mai l'optimum, comunque fuori dalla sua portata, ma semplicemente una soluzione razionale in grado di soddisfarlo al meglio: l'uomo non è un animale "optimizing"; è un animale "satisficing". La decisione come prodotto del processo politico, più che di un calcolo razionale.

Wilensky, op. cit., 129.

March, J., Simon, H., Organizations, John Wiley & Sons, New York, 1958.

Wilensky, op. cit., 130.

Con questo termine l'Autore "denota l'insieme delle informazioni relative alla politica: problemi, intuizioni, ipotesi, prove. Include sia la conoscenza scientifica, sia l'informazione politica e ideologica, scientifica o meno". (Cfr. Wilensky, op. cit., 103).

Wilensky, op. cit., 138.

Wilensky, op. cit., 157.

Cfr. capitolo terzo.

Cfr. Fubini, Federico, Il paradosso italiano: siamo importanti ma contiamo poco, "Limes - Rivista Italiana di Geopolitica", Gruppo Editoriale L'Espresso, n° 4, 1999, 17-26. Cfr. anche sopra, nota n° 176.

Fubini, op. cit., 19.

D'Alema, Massimo, Kosovo, Intervista di Federico Rampini, Mondadori, Milano, 1999, 53.

Fubini, op. cit., 19.

Cfr. Fubini, op. cit., 21.

Fubini, ibidem.

Wilensky, op. cit., 155.

Wilensky, ibidem.

Bar - Yosef, Rivkah, Starkschall, Miriam, La rivoluzione dell'informazione e le istituzioni politiche, in AA.VV., "Razionalità sociale e tecnologie dell'informazione", Edizioni di Comunità, Milano, 1973, 612.

Cfr. Britannica on line, https://normandy.eb.com/normandy/week1/buildup.html.

Cfr. Jones, op. cit., 462.

Cfr. Jones, ibidem.

Duroselle, J. B., Storia diplomatica, dal 1919 al 1970, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1972, 349.

Jones, op. cit., 464.

Cfr. Wysiwyg://10/https://www.yale.edu/lawweb/avalon/wwii/tehran°htm.

Cfr. Pagani, Fabrizio, Quando è lecito intervenire in nome dell'umanità?, "Limes - Rivista Italiana di Geopolitica", n°4, 1999, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma, 241-248.

Cfr. Habermas, Juergen, Umanità e bestialità - Una guerra ai confini tra diritto e morale, estratto dal sito Internet www. Caffeeuropa.it.

Cfr. Pagani, op. cit., 243.

Cfr. Pagani, ibidem.

Habermas ritiene l'ermeneutica del sospetto - nel caso dell'attacco alla Yugoslavia - quanto meno senza sbocco: né il desiderio americano di allargare la propria influenza, né quello europeo della NATO di crearsi uno spazio nuovo e neppure quello europeo di difendersi dalle ondate di profughi sarebbero sufficienti a motivare un attacco così grave, rischioso e costoso.

Cfr. Pagani, ibidem.

Pagani, ibidem.

Cfr. Passy, Salomon, Ivanov, Lyubonir, La NATO al posto dell'ONU, "Limes - Rivista Italiana di Geopolitica", n° 4, 1999, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma, 151-158.

Cfr. Passy e Ivanov, ibidem.

Cfr. Passy e Ivanov, ibidem.

Cfr. Passy e Ivanov, ibidem.

Cfr. Habermas, ibidem.

Cfr. Bring, Ove, La NATO dovrebbe assumere l'iniziativa nel formulare una dottrina sull'intervento umanitario?, "Rivista della NATO", n° 3, Autunno 1999, 24-27.

Habermas, op. cit.

Cfr. Bring, ibidem.

Cfr. Bring, ibidem.

Uniting for Peace è una risoluzione adottata dalla Assemblea Generale dell'ONU nel novembre 1950 durante la guerra di Corea (1950-1953): la pace era sul punto di essere infranta e l'ONU si trovò bloccata dal veto espresso dall'Unione Sovietica in seno al Consiglio di Sicurezza. Con la Uniting for Peace si decideva che una qualificata maggioranza dell'Assemblea potesse in futuro assumere la responsabilità del mantenimento della pace in presenza di incapacità a farlo da parte del Consiglio di Sicurezza.

Cfr. Bring, ibidem.

Venturoni, Guido, Le iniziative del vertice di Washington: dotare la NATO degli "strumenti" per assolvere il suo compito nel prossimo secolo, "Rivista della NATO", n° 3, Autunno 1999, 8-11.






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