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LA SPECIALITA' DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

politica



LA SPECIALITA' DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO


II.1 - POTERI E DISCREZIONALITA'


Nei sistemi a diritto amministrativo il diritto pubblico disciplina i rapporti tra individuo e Stato, e tali rapporti si sviluppano secondo moduli tipici.

In questo contesto il potere amministrativo si configura come posizione soggettiva che la legge attribuisce ad un determinata autorità giuridica così da consentirle di porre in essere atti giuridici produttivi di effetti al fine di curare interessi pubblici[1].



In un sistema come il nostro, definito appunto a diritto amministrativo, il potere è semplice strumento, come tale, gli atti giuridici e gli effetti che da questi scaturiscono sono tipici, per cui il potere amministrativo si configura come capacità giuridica speciale che la legge assegna ad alcuni soggetti.

Per capacità speciale s'intende indicare l'attitudine specifica a formare atti di volontà particolare diretti a determinare effetti già configurati dalla legge stessa. I poteri di cui è costituita tale capacità sono a loro volta costituiti, modificati ed estinti dalla legge e quindi, in termini privatistici, il loro acquisto può essere definito a titolo originario, ed infatti i titolari di tali poteri non possono disporne liberamente.

Gli atti giuridici sono il risultato di un complesso procedimento in cui partecipano generalmente due soggetti: autorità amministrativa legittimata a porlo in essere ed il privato cittadino, ma il provvedimento come atto finale è imputato alla sola autorità amministrativa, come tale resta un atto unilaterale[2].

Abbiamo così individuato un primo carattere dell'agire amministrativo, del resto recessivo, l'unilateralità. Il secondo è l'imperatività: il contenuto e gli effetti che derivano dall'adozione dell'atto non sono il risultato della convergenza della volontà di tutti i soggetti coinvolti o di coloro che ne subiscono gli effetti, la volontà sottostante, quindi l'interesse meritevole di tutela è quello pubblico, degli altri interessi coinvolti l'autorità amministrativa agente deve tener conto.

Due sono quindi i caratteri fondamentali del potere amministrativo;

sul piano strutturale sia il contenuto che gli effetti dell'atto sono determinati unilateralmente;

sul piano funzionale l'interesse che si persegue appartiene alla collettività, quindi l'amministrazione appare in posizione servente, così come l'esercizio del potere appare doveroso.

Dall'esercizio del potere scaturiscono naturalmente dei rapporti giuridici, gli atti sottostanti provocano degli effetti che potremmo classificare come costitutivi, dichiarativi o estintivi.

Il cittadino o gli eventuali soggetti terzi si troveranno in due diverse posizioni: o di soggezione nel senso che dovrà subire gli effetti dell'atto posto in essere dall'autorità amministrativa a prescindere dalla propria volontà, oppure di onere se dall'atto dipende il soddisfacimento di un suo interesse mediante l'acquisto di un diritto e/o di uno status.

Eliminiamo quindi dalla successiva trattazione gli atti politici e di indirizzo: la Pubblica Amministrazione può infatti produrre atti di carattere politico solitamente non produttivi di effetti; nel caso in cui tali atti abbiano effetti giuridici, la legge predispone dei moduli tipici di azione. La differenza sostanziale sta nella tutela giurisdizionale, in quanto politici (o definiti tali) tali atti sono sottratti alla tutela giurisdizionali perché la loro "causa" coincide con i supremi interessi dello Stato, insindacabili.

Tutto il resto, o quasi, è racchiuso in moduli tipici, anche quando la Pubblica Amministrazione agisce tramite strumenti di diritto privato.

I moduli tipici si articolano attraverso l'utilizzo di due differenti poteri:

poteri discrezionali e poteri non discrezionali.

Nel caso di poteri discrezionali il potere amministrativo è conferito all'amministrazione delimitando un ambito più o meno ampio di scelta circa alcune misure da prendere in concreto per la realizzazione di un prefissato interesse pubblico.

I poteri non discrezionali non presuppongono invece alcuna scelta, se non la c.d. discrezionalità tecnica[3], la Pubblica Amministrazione deve seguire tutte le indicazioni della legge, sia per i tempi di attuazione che per le modalità .

Non possiamo ignorare anche l'esistenza di poteri amministrativi comunitari, che nella maggior parte dei casi vengono concretizzati direttamente dagli organi dell'Unione, sottostanno quindi alla disciplina comunitaria e restano di competenza esclusiva del giudice comunitario.

Il "fil rouge" dell'attività amministrativa resta comunque il principio di legalità, che si risolve in tipicità intesa sia verso il potere esercitato, sia verso il procedimento posto in atto, il contenuto e gli effetti dello stesso, sia e soprattutto nel fine da raggiungere.

Potremmo ipotizzare uno "Statuto" dell'agire amministrativo così riassumibile:

_ l'agire amministrativo non è autonomo, le possibilità di scelta sono legate alla discrezionalità;

_ l'esercizio del potere è sottomesso alle rigide previsioni di legge, ovvero al principio di legalità;

_ l'esercizio corretto dei principali poteri è sottoposto a controllo effettuato tramite organi esterni all'amministrazione decidente;

_ l'efficacia degli atti stessi può dipendere dall'esito del controllo;

_ gli atti posti in essere saranno sempre impugnabili;

_ la stessa amministrazione può modificare o annullare i propri atti in base al principio di autotutela.

Fonte di questo ipotetico Statuto[5], la Costituzione.

L'articolo 97 impone infatti il rispetto di due principi di organizzazione e comportamento della Pubblica Amministrazione:

" I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione".

Il buon andamento deve intendersi come buona amministrazione quale si addice ad un'organizzazione servente della collettività, l'imparzialità è un requisito essenziale nell'esercizio del potere che deve essere indirizzato al perseguimento di interessi pubblici, comunque non particolari, come modalità organizzativa, tale principio si rispecchia nell'obbligo di trasparenza e pubblicità dell'azione amministrativa.


II.1.1 - LA DISCREZIONALITA'


La posizione soggettiva della pubblica amministrazione nell'esercizio del potere non è di autonomia perché sempre vincolata nel fine, ed in questo senso parliamo di discrezionalità . La nozione di discrezionalità si collega e si completa con la necessità di un'azione amministrativa elastica, in grado di modificarsi per il miglior raggiungimento, nel caso concreto, dell'interesse generale imposto dalla legge. La legge non può e non deve disciplinare ogni minuzioso ambito in cui la P.A. può intervenire, ma è altrettanto necessario un controllo delle scelte che la P.A. compie nel caso concreto, onde evitare che vi sia arbitrio o eccesso di potere. Si tratta di verificare la legittimità sostanziale delle scelte compiute dalla Pubblica Amministrazione, perché la legge individua comunque l'autorità competente, il contenuto degli atti, gli adempimenti procedurali e formali, e soprattutto rende l'agire amministrativo funzionalizzato: vincolato nel fine.

Detto in altre parole alla Pubblica Amministrazione spetta, caso per caso, il compito di individuare l'interesse pubblico e la modalità della sua concretizzazione secondo l'analisi delle situazioni di fatto, dalle previsioni di legge, dalla ponderazione necessaria con gli altri interessi in gioco. La scelta della P.A. deve essere in una parola ragionevole, derivare cioè da una coerente analisi di tutti gli elementi coinvolti nel caso specifico: l'agire dell'amministrazione deve convergere alla massimizzazione dell'interesse primario a fronte della situazione concreta ed essere guidato in questo compito da un nesso logico.

La ragionevolezza si concretizza nell'acquisizione necessaria da parte della P.A. di tutti gli interessi in gioco e dalla successiva comparazione degli stessi, mantenendo nell'analisi un'imparzialità sostanziale, ovvero la capacità di applicare a situazioni identiche trattamenti identici e, a situazioni differenti, trattamenti differenti, addivenendo ad una soluzione adeguata e proporzionata.

Resta allora da individuare che cosa sia il merito: ambito per definizione svincolato di azione amministrativa.

Posta di fronte ad una pluralità di alternative tutte vincolate al medesimo fine, tutte legittime e ragionevoli, la P.A. può finalmente scegliere. La delimitazione di un tale ambito implica una severa distinzione anche sul piano delle garanzie di tutela e quindi sul piano della giurisdizione: solo la legge può indicare tassativamente quando e come il giudice competente avrà la possibilità di sindacare nel merito una decisione della P.A., il controllo di legittimità non ammette invece limiti.

Simmetricamente opposto ai controlli di merito ed ai poteri discrezionali, sta il potere non discrezionale, potere cioè caratterizzato dall'imperatività, dall'esclusività dell'attribuzione e dall'esclusione di una qualsiasi possibilità di scelta da parte della pubblica amministrazione[7].

Esiste o forse esisteva un cono d'ombra tra questi due opposti, rappresentato dalla c.d. discrezionalità tecnica: il cono d'ombra, elaborato dalla dottrina, copre l'esercizio di poteri non discrezionali inseriti in procedimenti discrezionali definiti complessi. Questa distinzione viene elaborata soprattutto per ciò che attiene al sindacato successivo all'azione amministrazione svolta.

L'Amministrazione è tenuta ad applicare la legge, le legge è la fonte che imputa il potere, è la fonte di determinate prescrizioni, prescrizioni che impongono a volte l'acclaramento di alcuni fatti senza alcun apprezzamento discrezionale; tali acclaramenti risultano mera esecuzione di legge, quindi in sede di sindacato giurisdizionale sull'esercizio del potere le attività tecniche, per quanto complesse, potrebbero essere riesaminate interamente. Eppure esiste una dottrina ormai consolidata secondo la quale nei casi in cui la legge prescrive acclaramenti complessi e tali acclaramenti siano comunque necessari, ritiene attribuita alla P.A. un potere discrezionale tecnico e quindi:

l'amministrazione può concedersi di compiere scelte limitate ovvero discrezionali;

il giudice non potrà riesaminare tali scelte interamente, ma solo per ciò che attiene alla ragionevolezza[8].

Abbiamo, in poche pagine, condensato tre principi, tre fattispecie fondamentali del diritto amministrativo: la discrezionalità, il merito e la discrezionalità tecnica. Ma, oltre alle definizioni più o meno comuni e consolidate, occorre qui sottolineare l'importanza di questi concetti all'interno della ricerca stessa. La P.A., come organizzazione, nasce e si sviluppa per la realizzazione di una funzione: la funzione pubblica, ovvero il perseguimento di quegli interessi che coinvolgono più o meno indistintamente tutta la collettività e che dalla collettività stessa, quale Stato, devono essere soddisfatti. Esiste una funzione, esistono degli organi ed è la legge a permettere che i due elementi si coordinino ponendo in alto dei principi inderogabili (il principio di legalità e tipicità, nonché il principio di difesa contro ogni tipo di violazione compiuta dalla P.A. stessa), ed in basso concedendo dei poteri giuridici attraverso cui gli organi possano porre in essere la funzione ad essi affidata. Per questo abbiamo analizzato, nel capitolo precedente, le origini, l'evoluzione e lo stato attuale del diritto amministrativo e della P.A., perché molti dei concetti che tuttora utilizziamo per descrivere tali fenomeni erano già presenti nell'ordinamento giuridico, ma assumono oggi un significato ben diverso, essendo mutato non solo l'ordinamento e le sue fonti, ma la realtà sottostante e gli interessi perseguiti.

La stessa discrezionalità, da sempre indice primo della specialità del diritto amministrativo e potere precipuo della c.d. quarta funzione, assume oggi un ruolo ed un significato molto diverso da quello che i giuristi liberali le attribuivano nella costruzione dello Stato del secolo scorso, ed ancora si è modificata dalla nascita dello Stato Costituzionale e sociale del 1948. Potremmo dire che la discrezionalità nasce come strumento della P.A. per imporre la realizzazione dell'interesse pubblico senza incontrare ostacoli, ambito di libero movimento, limitato solo da un mero controllo di legittimità "formale" dell'agire stesso da parte del solo giudice amministrativo: limite che, per molto tempo, è coinciso con l'unico mezzo di difesa che l'individuo titolare di un "mero" interesse legittimo aveva contro l'azione amministrativa stessa. Mutando la concezione di funzione amministrativa, da potere autoritativo a servizio, mutando la bilancia tra interesse pubblico ed interesse privato, la discrezionalità ed il controllo sulla stessa sono mutati, diremmo verso un assetto più democratico. Per questo, nella ricerca che svolgeremo, sembra riduttivo considerare la discrezionalità solo quale potere o ambito di scelta vincolato della P.A.. Anche perché la discrezionalità, così come la nozione di funzione pubblica, rappresentano, per l'analisi delle posizioni soggettive tutelate e della responsabilità della P.A., due elementi da cui non si può assolutamente prescindere. E' a fronte di queste due fattispecie che la tutela delle posizioni soggettive può non essere assoluta, ed è di fronte alle stesse che la P.A. può invocare margini di immunità. Per questo definirne i limiti è lo scopo ultimo della ricerca stessa. Quindi non tenteremo adesso di dare a priori un definizione né di discrezionalità, né di funzione p 333e48d ubblica, ma tenteremo di disegnarne i tratti durante tutta la ricerca, mescolando gli elementi che trarremo sia dal piano comunitario che internazionale, e sviluppando i due concetti in costante riferimento alle modifiche che si riflettono sia sulla tutela delle posizioni soggettive (e quindi sul piano della giustizia amministrativa) sia sui principi sottostanti la responsabilità della P.A..

E' d'altronde inutile negare che l'impostazione stessa della ricerca si fonda su di un'idea a priori almeno del concetto di discrezionalità, idea che tenteremo di consolidare ma che, per onestà, deve essere a grandi linee esposta.

Attualmente, considerate tutte le variabili che abbiamo posto alla base del diritto amministrativo, il termine discrezionalità viene qui inteso come il contenitore ed il mezzo di sviluppo di almeno quattro elementi;

il primo si lega alla tradizione storica del concetto stesso di diritto amministrativo: in questo primo senso la discrezionalità coincide con la specialità del potere e del diritto amministrativo, specialità che distingue l'organizzazione e la funzione amministrativa sia dalle altre funzioni pubbliche che dall'azione dei privati.

Il secondo profilo è la conseguenza diretta della specialità attribuita alla funzione amministrativa, in questo senso la discrezionalità coincide con il potere di decidere e di porre in essere atti giuridicamente rilevanti di natura strettamente unilaterale, ovvero anche contro la volontà dei destinatari degli effetti.

Se queste due definizioni appaiono "a favore" della P.A., sia come apparato che come centro di potere, le successive ne rappresentano il limite stesso.

La discrezionalità non coincide con la libertà di scelta né con l'uso politico o arbitrario del potere: la P.A. agisce tramite il potere discrezionale proprio perché tale potere è soggetto al controllo giurisdizionale. La discrezionalità, soprattutto dopo la Costituzione e grazie anche all'operato degli stessi giudici amministrativi, è anche strumento di controllo dell'agire amministrativo: il sindacato di legittimità, per quanto sia effettivamente limitato sia negli strumenti d'indagine sia in quelli di reazione, si costruisce attraverso l'accertamento del rispetto dei parametri di legalità e di tipicità dell'azione amministrativa, ma anche, e soprattutto, di tutte quelle figure sintomatiche che discendono dall'eccesso di potere e che scrutano, il più a fondo possibile, la struttura del provvedimento e prima ancora dell'azione amministrativa.

L'ultimo significato che possiamo allora attribuire alla discrezionalità è quello di strumento di tutela del cittadino verso la P.A. stessa, ovvero verso quello stesso soggetto istituzionale che esercita la discrezionalità come potere. La legge 241/1990 altro non è che la codificazione degli strumenti di controllo e quindi degli strumenti di tutela attivabili dal cittadino leso contro una sostanziale lesione da parte della P.A. in azione. e contro un utilizzo errato del potere discrezionale. Per questo la discrezionalità non rappresenta più un ambito di immunità per la P.A., né un limite invalicabile alla tutela delle posizioni soggettive che le stanno di fronte.

In conclusione il termine discrezionalità si arricchisce di tre prospettive; la discrezionalità è intesa in breve come specialità, come potere, ma anche come strumento

di controllo e di tutela.

L'altro fulcro della ricerca, ovvero la nozione di funzione pubblica, segue da sempre un percorso parallelo alla nozione di discrezionalità, i due concetti sono talmente intrecciati che è difficile dire quale dei due sia l'effetto e quale la causa. Tale nozione verrà però analizzata nella parte finale della ricerca; la definizione di funzione pubblica necessita infatti uno studio comparato dei tre diversi concetti di cui sono portatori i tre ordinamenti giuridici che abbiamo analizzato. La scelta merita una giustificazione: la funzione come tale determina e giustifica i mezzi che utilizza, quindi si potrebbe obiettare che dovrebbe essere la funzione, in questo caso la funzione pubblica, quale sorgente delle altre problematiche, il primo scoglio da superare. In realtà, partendo dalla definizione di funzione pubblica, essendo essa strettamente legata all'ambito statale e all'ordinamento interno, sarebbe stato molto più difficile estrarre una nozione pluridirezionale capace quindi di adattarsi a tre diversi ordinamenti, una nozione comune ma nuova rispetto a quella fondata solo sul sistema giuridico nazionale. Al contrario, è sembrato più opportuno segnalare lo sviluppo e la metamorfosi di tutti gli elementi che caratterizzano la funzione, estrapolando poi una visione "empirica".


II.2 - LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: PRINCIPI GENERALI


A fronte di queste considerazioni si apre il problema della giustizia amministrativa.

Una tale esigenza si manifesta con lo Stato di diritto stesso, nella misura in cui le posizioni soggettive dei cittadini devono essere protette, sia verso gli altri cittadini che verso la pubblica amministrazione. Chiamando in causa lo Stato di diritto, si riporta alla luce il principio della separazione dei poteri, che, se inteso in senso assoluto, impedirebbe al potere giurisdizionale di sindacare l'azione amministrativa, è noto invece che la corretta interpretazione pretende il controllo del potere giurisdizionale anche sull'azione amministrativa, ponendo però dei limiti.

Il sistema di giustizia amministrativa italiano si fonda sul criterio della posizione giuridica subiettiva, la competenza del giudice si decide in base alla posizione soggettiva che si fa valere in giudizio: se il cittadino è titolare di un diritto soggettivo perfetto si rivolgerà al giudice ordinario, se il cittadino è titolare di un interesse legittimo attiverà la giurisdizione amministrativa, salvo i casi di giurisdizione esclusiva.

Il problema non è solo descrittivo[9]; innanzitutto abbiamo individuato una duplice tipologia di giudici a cui il cittadino può rivolgersi ma, un tale modello, quello italiano, ha come base la preventiva distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo, distinzione a cui corrispondono un diverso con diversi poteri giudice, quindi una differente tutela per il cittadino che invoca la lesione. Nella giustizia amministrativa si rispecchia in gran parte tutto l'assetto dell'ordinamento della Pubblica Amministrazione e, se mi è permesso, anche il grado di democraticità e tutela dei diritti del cittadino dell'ordinamento citato.

Per comprendere gli attuali vorticosi cambiamenti, è necessario un breve excursus sull'evoluzione della giustizia amministrativa nazionale.

Nel 1861, anno dell'Unità senza la Capitale, l'idea liberale impose la giurisdizione unica: attraverso la legge 2248 del 1865 (legge Lanza) si abolì, con l'allegato E, il contenzioso amministrativo: così i diritti soggettivi trovarono tutela di fronte al giudice ordinario, mentre gli interessi legittimi potevano essere tutelati solo tramite il ricorso gerarchico. Il sistema monistico non si dimostrò in grado di garantire una sufficiente tutela, fu la destra storica a spingere per l'approvazione della Legge Crispi, la numero 5992 del 1889, con cui venne istituita la IV Sezione Giurisdizionale del Consiglio di Stato.

Prima dell'unità gli Stati italiani erano caratterizzati da un sistema di giustizia amministrativa fondato sul contenzioso amministrativo secondo il modello francese. In Piemonte, l'influsso francese era, per ragioni storiche, ancora più penetrante: già dal 1831 esisteva il Consiglio di Stato, che dal 1859, dopo la legge Rattazzi, diviene giudice di appello rispetto ai Consigli di Governo . Il sistema a duplice giurisdizione si fondava su un riparto di competenze per materia, quelle indicate dalla legge erano di competenza del giudice amministrativo, le residue del giudice ordinario. Con la Legge 2248 del 1865 il nuovo principio fu la distinzione dei giudici sulla base della situazione soggettiva, prendendo come riferimento stavolta la Costituzione Belga del 1831 . Tale riforma rispondeva alle esigenze liberali del Paese e tentava contestualmente di salvaguardare il principio di efficienza dell'operato amministrativo. Il sistema, come già detto, non funzionò e, nel 1889, si riesumò, con opportune modifiche, il sistema a duplice giurisdizione. Già all'epoca si prevedevano tre tipologie di ricorsi, ma non esisteva un riferimento esplicito all'interesse legittimo, categoria inserita dalla giurisprudenza come criterio di ripartizione della competenza del giudice: non occorre stupirsi, la finalità del legislatore di allora era di assicurare l'efficacia e la legittimità dell'azione amministrativa, la tutela dei cittadini giunge solo incidentalmente.

L'assetto della giustizia amministrativa non ha subito poderose modifiche da allora.

Oltre alle modifiche occasionalmente portate dal legislatore, la definizione dell'assetto della giustizia amministrativa avviene con la Costituzione del 1948.

Attualmente viviamo in uno Stato democratico che è, nel contempo, uno Stato di diritto, sociale, pluralistico ed inserito a pieno ritmo nel processo di integrazione europea e internazionale: qual è adesso il ruolo della giustizia amministrativa?

Abbiamo già detto che l'apparato di giustizia amministrativa di uno Stato deve corrispondere al modello di amministrazione ed al rapporto amministrazione-cittadino, quale definito dalla Costituzione.

Nel passaggio tra Stato parlamentare liberale e Stato democratico pluralista, l'amministrazione perde progressivamente il suo carattere unitario ed accentrato, così come lo Stato. Tali caratteri erano lo sfondo, nello stato liberale, di un sistema di giustizia amministrativa incentrato a garantire la semplice legalità dell'atto, in ossequio ad un rigido rispetto del principio di supremazia della legge: l'unico sindacato possibile da parte del giudice è la verifica della legittimità. Potremmo dire che nel periodo anteriore alla Costituzione "Giudicare l'amministrazione era amministrare" , il rapporto sottostante era in definitiva impari, tra uno Stato-amministratore ed il cittadino. Ma se poniamo nella prima parte della Costituzione principi come l'uguaglianza e il pluralismo, l'Amministrazione ed il giudice del suo operato devono seguire il cambiamento.

Il principio di uguaglianza non solo formale, ma soprattutto sostanziale, l'impegno della Repubblica ad azioni positive ed il principio di solidarietà pongono il cittadino in una nuova posizione rispetto all'amministrazione che eroga servizi e fornisce utilità, da "Puissance publique" a "Service publique"[14]; non solo, ma anche quando l'agire amministrativo è potere, il principio ispiratore non è lo stesso, non più la legge di per sé sola sopra a tutto, ma la legge e gli interessi dei cittadini coinvolti.

Nel capitolo precedente abbiamo già individuato come nello Stato sociale l'agire amministrativo si trasforma, si moltiplica ed assume nuovi strumenti, allo stesso tempo la giustizia amministrativa si adegua, perdendo anch'essa parte della specialità a favore di una maggiore indipendenza ed imparzialità del giudice: obiettivo principale la tutela piena e completa delle posizioni soggettive dei cittadini.

L'attuale sistema di giustizia non ha una sola fonte, come per l'ordinamento generale della Pubblica Amministrazione, anche qui confluiscono Costituzione, legge ordinaria e fonti sovranazionali.

Dalla Costituzione apprendiamo:

La ripartizione della giurisdizione sulle controversie, di cui è parte l'Amministrazione, tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in base al criterio delle diverse situazioni giuridiche soggettive: diritto soggettivo e interesse legittimo, salvo i casi di giurisdizione esclusiva (articoli 103 e 113).

Il mantenimento al vertice del sistema dei giudici amministrativi del Consiglio di Stato, che conserva anche le funzioni consultive[15] (articoli 100 e 103).

Dal punto di vista organizzativo e sulle tipologie d'azione:

A)  L'istituzione, accanto al Consiglio di Stato, di giudici amministrativi regionali di primo grado (articolo 125, secondo comma).

B) Il principio di piena indipendenza dei giudici amministrativi anche e specialmente nei confronti del Governo della Repubblica (articolo 108).

C) Il principio della pienezza ed effettività del diritto di azione e di difesa, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione ed anche in relazione agli interessi legittimi (articolo 24).

D) Il principio della completezza degli strumenti di tutela giurisdizionale, quale che sia il giudice adito o l'atto impugnato in adempimento al progressivo superamento dei privilegi processuali della Pubblica Amministrazione ed al superiore principio di uguaglianza (articolo 113).

Al livello immediatamente inferiore, la fonte ordinaria si costituisce di leggi che appartengono addirittura al passato liberale:

si è mantenuto fondamentalmente intatto il vecchio impianto basato sulle già citate leggi del 1865 e del 1889. Così come rimane principio inviolabile l'articolo 4 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo che fa divieto al giudice ordinario di incidere sull'atto amministrativo, non è stato neanche tentato un coordinamento tra la disciplina dei ricorsi di fronte al Consiglio di Stato previsto dal T.U. n.1054 del 1924 e la legge di attuazione dei TAR, la n.1071 del 1971.

C'è chi intravede già nella duplice giurisdizione un limite alla piena tutela del cittadino, sistema che in Italia discende direttamente dalla Costituzione: il diritto di azione e di difesa del cittadino non deve avere come primo ostacolo la sola difficoltà di scegliere a quale giudice rivolgersi, senza contare le conseguenze che , sul piano della tutela concreta, ciò implica per il solo cittadino .

Se il problema restasse sulla carta quello della scelta del giudice, i problemi del sistema di giustizia amministrativa italiano sarebbero inesistenti, la fase critica invece si apre nell'individuazione delle differenze sostanziali di poteri del giudice, strumenti di tutela e garanzie per il cittadino, l'unico, ricordiamo, a cui si chiede di scegliere.

Che il giudice ordinario abbia un ruolo poco incisivo deriva dalla legge del 1865 e dalla "svogliatezza" del Legislatore che poco ha utilizzato l'apertura concessa dall'ultimo comma dell'articolo 113; lo stesso giudice amministrativo non ha la possibilità di indagare l'azione per così dire non formalizzata della Pubblica Amministrazione, il modello impugnatorio gli concede l'annullabilità dell'atto amministrativo, ma lo rende quasi impotente nel costringere l'Amministrazione stessa ad agire correttamente, ad ottemperare. Ed il giudizio di ottemperanza grava ancora una volta sul cittadino, ulteriore impedimento ad una rapida ed effettiva tutela[17].

Parlando ancora di tutela effettiva, è innegabile il profondo limite che ad essa viene posto negando la risarcibilità degli interessi legittimi, limite ribadito anche dal recente decreto legislativo 80/1998, il cui articolo 35 è stato oggetto di numerosi quanto infruttuosi rinvii alla Corte Costituzionale[18]. Lo stesso contraddittorio di fronte al "potente" giudice amministrativo risulta spesso carente, quantomeno impostato a favore della Pubblica Amministrazione, nella misura in cui sono stati stabiliti i tempi di presentazione delle memorie da parte della stessa. L'istruzione probatoria può superare il filtro documentale solo nei casi di giurisdizione esclusiva, e solo grazie al decreto 80 del 1998 e ad alcune sentenze della Corte Costituzionale in materia di pubblico impiego.

Le modifiche apportate per il superamento di tali carenze non soddisfano: innanzitutto perché derivano da interventi della Corte Costituzionale, organo fondamentale dello Stato ma non organo legislatore, e, in secondo luogo, perché le leggi emanate in materia hanno carattere settoriale e spesso rispondono a richieste perentorie del legislatore comunitario.

Comunque il legislatore decida di agire per questo poi analizzeremo la nuovissima legge 205 del 2000, il rischio è quello di evitare interventi che comportino violazioni del principio costituzionale di uguaglianza, in quest'ambito letto coordinatamente con gli articoli 24 e 113 della Costituzione. La soluzione infatti non sembra potersi rinvenire nello spostamento brusco di intere materie da un giudice all'altro, evitando che ad esempio un diritto soggettivo trovi di fronte al giudice amministrativo minor tutela o che situazioni sostanzialmente identiche siano tutelate differentemente in base alla giurisdizione di legittimità piuttosto che di esclusività dello stesso giudice.

La riforma, necessariamente organica, non è un'esigenza solo nazionale, l'Italia fa parte dell'Unione Europea[20] ed è firmataria della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo: ciò implica non solo il rispetto di principi costituzionali ed internazionali, ma anche la prontezza di riflessi necessaria ad esaudire il processo di armonizzazione che anche la giustizia amministrativa sta subendo nell'Unione Europea, creando standard comuni di strumenti, efficacia e tempi di realizzazione di tutela.

Appurato che prima del 1998 le modifiche agli istituti della giustizia amministrativa in Italia sono praticamente inesistenti, e che le modifiche intervenute successivamente come la Sentenza della Corte di Cassazione n.500/1999 e la legge 205/2000 rispondono non ad una riorganizzazione dell'assetto giurisdizionale completa ed organica, ma tentano soluzioni parziali a problematiche molto più complesse; tentiamo almeno teoricamente di individuare le problematiche sottostanti nazionali e quelle di "creazione" comunitaria, perché un'ipotesi che giustifichi quest'ulteriore intervento alluvionale può essere rintracciata nell'esigenza di rispondere all'integrazione comunitaria nel minor tempo possibile: eppure spesso nel diritto si è dimostrato come la fretta non coincida con l'efficacia e la coerenza, elementi fondamentali di un ordinamento nel suo complesso.

L'excursus che segue parte, per necessità di completezza, dall'analisi delle posizioni soggettive tutelate verso l'azione amministrativa: in quest'ottica cercheremo di analizzare il concetto di interesse legittimo nella sua evoluzione dottrinale e attraverso l'analisi di due ordinanze della Corte Costituzionale, nelle quali si rintraccia l'orientamento poi alla base della Sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Cassazione. Infine analizzeremo la l.205/2000 quale ulteriore sviluppo della sentenza citata, tentando poi di delineare l'assetto finale che tali cambiamenti hanno apportato al sistema nazionale di tutela dei cittadini, evidenziandone limiti ed elementi di derivazione comunitaria.



II.3 - LA NUOVA TUTELA DELL'INTERESSE LEGITTIMO: DUE ORDINANZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE


Ad un primo sguardo dagli anni 90 ad oggi la metamorfosi della Pubblica Amministrazione appare totale, eppure l'unica legge generale resta la 241 del 1990, il resto è caduto addosso al diritto amministrativo come scrosci d'acqua, impedendo uno sviluppo armonioso non solo internamente ma anche nei riguardi di quella armonizzazione che ci viene imposta dall'Unione Europea. Come già ribadito, se si modifica l'assetto dei poteri, degli strumenti e dei principi sottostanti l'azione amministrativa, si modifica, o meglio si deve modificare anche l'assetto degli strumenti di controllo verso la Pubblica Amministrazione.

Partiamo da lontano: l'interesse legittimo, elemento discriminante e caratterizzante dell'ordinamento amministrativo italiano.

Giuseppe Guarino definiva ironicamente l'interesse legittimo come "quella posizione soggettiva legittimante che sorge in relazione a norme che per definizione non si occupano di esso", altri come Nigro[21] già nel 1987 aprivano al porta ad una scoperta angosciante: e se questa figura fosse realmente mitologica, si perdoni l'ossimoro.

Occorre, entrati a pieno titolo nel nuovo millennio, riflettere almeno sull'attuale significato ed utilizzo che di questa categoria, vera o fittizia che sia, viene fatto.

Il diritto pubblico, non in quanto pubblico, ma in quanto diritto, è in continua mutazione, soprattutto quando trova davanti a sé una realtà differenziata e articolata ed una relativa differenziazione e articolazione della terminologia. Nel caso dell'interesse legittimo sono stati elaborati una serie quasi infinita di qualificazioni: strumentale, partecipativo, oppositivo, processuale, materiale, individuale, diffuso, collettivo. La definizione generale che più riscuote successi[22] sembra essere:

posizione di vantaggio data ad un soggetto dell'ordinamento in ordine ad un bene oggetto di potere amministrativo e consistente nell'attribuzione al medesimo soggetto di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile l'interesse al bene.

Abbandonando il pleonastico linguaggio giuridico, l'interesse legittimo è una posizione soggettiva attiva (quindi di vantaggio), posizione legata ad un bene. Tutto sta nel definire "bene".

L'interesse legittimo non è correlato ad un bene, perché secondo la precedente definizione, l'ordinamento tutela i diritti collegati al bene. L'interesse legittimo si collega ad un'utilità che il cittadino può ottenere in quanto titolare di una posizione soggettiva attiva, non solo verso il potere amministrativo in senso stretto, ma anche in sede giurisdizionale, tanto amministrativa quanto ordinaria.

Il diritto soggettivo non necessita invece di alcuna relazione, quindi la differenza potrebbe essere equivalente al rapporto che intercorre tra diritto soggettivo assoluto ed un diritto soggettivo relativo, come un diritto di credito. Eppure l'interesse legittimo diversamente rispetto al diritto di credito non richiede un adempimento solo per l'utilità del titolare, l'esercizio del potere di pretendere l'attività dovuta dalla Pubblica Amministrazione giova non solo al titolare dell'interesse legittimo ma anche all'autorità stessa che realizza in tal modo le sue finalità istituzionali.

Torniamo alla definizione che i pionieri del diritto amministrativo davano di interesse legittimo: interesse indirettamente tutelato dall'ordinamento nella misura in cui sia collegato ad un superiore interesse pubblico. Basta ribaltare la concezione per arrivare ai giorni nostri: l'interesse legittimo è direttamente oggetto della tutela dell'ordinamento, ed è l'interesse pubblico un risultato indiretto della tutela accordata al primo.

Definiamo allora interesse legittimo come potere di pretendere un'utilità derivante dal legittimo esercizio d'una potestà. Con qualche precisazione.

Il titolare dell'interesse legittimo può essere sia un privato cittadino che un soggetto pubblico, o un soggetto "sociale". Il potere di pretendere sussiste solo a fronte di un'attività doverosa sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, ma preesiste indipendentemente dalla circostanza che sia o meno fatto valere ed abbia quindi natura sostanziale[23].

Perché dunque stupirsi di una posizione soggettiva di chi si trova di fronte ad un soggetto (titolare della potestà) cui l'ordinamento attribuisce il potere di agire nell'interesse non suo proprio ma dell'istituzione in cui e per cui opera: una tale circostanza si riscontra in tutti gli ordinamenti ad elevata presenza di potestà amministrativa. Il caso italiano acquista carattere di originalità perché l'interesse legittimo qui è assunto come criterio di riparto di giurisdizione.

Il proliferare delle qualificazioni prima citate intorno all'interesse legittimo non deve stupire: se l'azione amministrativa si modifica e si moltiplica è proprio per rispondere a nuove esigenze, a nuovi interessi.

Molte delle difficoltà concettuali che l'interesse legittimo si trascina dietro gli derivano dalla sua relativa giovinezza, è una fattispecie nata in un ordinamento in cui l'altra categoria contrapposta, il diritto soggettivo, aveva ormai raggiunto un altissimo livello di elaborazione dottrinale. E' naturale che per molto tempo l'interesse legittimo sia stato analizzato con l'occhio del civilista e rilevare che esso offriva una tutela apparentemente minore. Opinione del resto rafforzata da effettive deficienze di tutela e base di tutte le teorie dell'affievolimento, della degradazione e della realizzazione indiretta dell'interesse in questione[24]. La configurazione dell'interesse legittimo come situazione sostanziale differente ma equiparata al diritto soggettivo si consolida solo con la Costituzione .

L'articolo 24, I comma della Costituzione Italiana recita infatti:


" Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.


Mentre l'articolo 113 della Costituzione garantisce:


" Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa.


Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.


La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa."


Ma se il cammino del diritto soggettivo sembra essersi fermato con la Costituzione, quello dell'interesse legittimo è appena cominciato: attualmente non esiste più una contrapposizione netta tra le due figure, il secondo si è molto avvicinato al primo tanto che l'ascrizione di una posizione ad una o all'altra categoria risulta ormai il frutto di una scelta del legislatore o dell'interprete. La tutela oggi garantita all'interesse legittimo è ampia, e il ruolo dello stesso è cambiato.

Al fine di rendere concreto questo mutamento, tentiamo di ricercarne il cammino in alcune sentenze della Corte Costituzionale, per comprendere il percorso di dottrina e giurisprudenza che sta alle spalle della Sentenza n.500/1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e della nuova legge 205 del 2000.

Con un ordinanza di manifesta infondatezza del 1988, la numero 867[26], la Corte Costituzionale rigetta la questione di legittimità dell'articolo 1 della legge 517 del 1977 in materia di istruzione pubblica nella parte in cui non garantisce ai genitori, in veste di legali rappresentanti dei figli, la possibilità di ricorrere al giudice ordinario contro i provvedimenti dell'insegnante in merito al passaggio degli alunni stessi dall'una all'altra classe.

In particolare la supposta illegittimità costituzionale si fondava sul presunto contrasto della norma in esame con gli articoli 2, 3, 24, 29, 30 e 34 della Costituzione; il giudice a quo, il Pretore di Sampierdarena, invoca infatti l'esistenza di un diritto assoluto non adeguatamente tutelato e tutelabile di fronte al Giudice amministrativo nella misura in cui la legge definisce la posizione dei genitori e dei figli come interesse legittimo.

Qui non interessa la tutela accordata a genitori e figli nella carriera scolastica, ma balza agli occhi ancora una volta la contrapposizione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, e, maggiormente la discriminante della minor tutela garantita ai primi rispetto ai secondi. La Corte Costituzionale risponde in poche righe alla presunta gerarchia di tutela:




" ..Che appare evidente la manifesta infondatezza della questione, in quanto nessuno degli articoli della Costituzione anzi detti garantisce, in relazione alla carriera scolastica, un diritto soggettivo assoluto, mentre il riconoscimento al riguardo di un interesse legittimo appare idoneo a garantire adeguata tutela (costituzionalmente garantita ex artt.24 comma1, 103 comma 1, 113).(.)".


In sostanza si afferma che la tutela giurisdizionale accordata all'interesse legittimo nel processo amministrativo è adeguata e non minore (anzi) rispetto a quella garantita dal diritto soggettivo. Questo profilo merita un approfondimento, proprio per confermare la contestazione che per lungo tempo hanno avuto le teorie del "sottosviluppo" dell'interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo. Le stesse espressioni utilizzate, e poco sopra riportate, come interesse indirettamente protetto e le difficoltà della dottrina a pervenire ad una sua definizione univoca ed unitaria, hanno implicato da sempre una certa aurea di incertezza, nonostante lo stesso dettame costituzionale ne ribadisse la piena ed autonoma esistenza. Il cammino compiuto dall'interesse legittimo tramite la giurisprudenza e la legge è stato lungo ma attualmente in continua espansione: gli interessi legittimi pretensivi e partecipativi sono le figure che meglio contengono gli aspetti salienti del cambiamento che ha coinvolto l'intero apparato amministrativo . Con l'individuazione e l'espansione delle categorie di tali interessi, parallelo al processo di progressiva erosione dell'autoritarietà dell'azione amministrativa e del suo atteggiarsi come un'attività di servizio e genericamente comunitaria, l'interesse legittimo si è svincolato dal cono d'ombra del diritto soggettivo. L'archetipo del diritto soggettivo pieno e perfetto, inteso come situazione piena e potenzialmente assoluta, è rimasto fermo al diritto di proprietà, l'archetipo dell'interesse legittimo non è più l'interesse oppositivo che cerca di contrastare la degradazione del diritto soggettivo, ma anche e soprattutto l'interesse tendente ad ottenere dall'apparato amministrativo servizi e prestazioni nonché l'interesse ad una più penetrante condivisione e cogestione del potere pubblico. E' sulla pretesa che l'interesse legittimo deve fare leva, ed ha fatto forza per estendere la propria azionabilità non più e non solo alla legittimità formale del procedimento amministrativo e del relativo provvedimento, ma verso il riconoscimento di nuove posizioni giuridiche attive a cui l'ordinamento si è lentamente aperto, come il c.d. diritto alla salute e all'ambiente, il diritto di accesso e il diritto di partecipazione al procedimento.

Coeva all'espansione della categoria generale degli interessi legittimi è stata l'evoluzione dello strumento processuale amministrativo. Non a caso la Corte ha fatto riferimento, nell'ordinanza citata, per sottolineare l'adeguatezza della tutela giurisdizionale, a due aspetti del processo amministrativo: il sindacato sulla discrezionalità amministrativa attraverso le varie figure di eccesso di potere e la tutela offerta in sede cautelare[28]. Il riferimento alla valutazione della discrezionalità amministrativa dimostra una mutata concezione del processo amministrativo, non più semplice strumento di verifica della legittimità formale nell'interesse della sola pubblica amministrazione, sibbene un sistema di monitoraggio dell'attività discrezionale stessa.

Per questo molti sostengono che la soluzione non sta nell'abolizione dell'interesse legittimo[29], mentre è comunemente accettato che l'interesse legittimo come strumento di ripartizione delle giurisdizioni sia un criterio superato o da superare.

E' significativo anche il riferimento che fa la Corte allo strumento cautelare soprattutto in ambito di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per sottolineare l'alto grado di effettività raggiunto.

Il problema è verificare se effettivamente il sindacato sull'esercizio del potere amministrativo mediante la figura dell'eccesso di potere e l'utilizzo della tutela cautelare siano strumenti sufficienti a garantire adeguata tutela al cittadino. Valutare in sostanza se il processo amministrativo, così come strutturato, risponde ad alcuni parametri generali quali la rapidità, l'adeguatezza e l'effettività[30] dello strumento processuale in genere. Nel processo civile ordinario, ad esempio, si è sempre privilegiato il secondo aspetto, atteggiamento che poteva essere comprensibile ad inizio secolo; la rapidità non pareva allora una primaria necessità, data anche l'estrema lontananza degli organi di giustizia amministrativa e del minor intervento dello Stato (e del suo apparato amministrativo) nella società, così come l'effettività restava in secondo piano proprio in ragione dell'essenza stessa del processo amministrativo: strumento idoneo a garantire l'unità e l'efficienza dell'operato dell'azione amministrativa, per cui l'esecuzione della sentenza restava un esercizio di potere discrezionale, comunque a favore della P.A.. Dato lo sviluppo attuale, sia dell'azione amministrativa che del rapporto tra cittadini e amministrazione, il processo amministrativo ha mostrato tutti i suoi limiti. A molto è servita la spericolata giurisprudenza dei TAR e del Consiglio di Stato, ma dato che in Italia non vige il principio dello Stare Decisis, non è bastata l'opera dei giudici. La rapidità da un secolo a questa parte non è certamente aumentata, allo stesso tempo la tutela cautelare resta uno strumento limitato e a volte impraticabile; passi avanti sono stati fatti nell'utilizzo della fattispecie dell'eccesso di potere, eppure gli strumenti istruttori restano limitati e formali. L'effettività è aumentata con il potenziamento del giudizio di ottemperanza e con l'inserimento delle sentenze di primo grado esecutive ope legis immediatamente: sennonché, in questo caso, spesso si è costretti a trovare soluzioni compromissorie a discapito del cittadino leso.

Quindi il problema non è nella definizione ontologica dell'interesse legittimo, ma nel grado di tutela accordato a tale fattispecie (che esista o meno non deve interessare).

Seguendo il cammino della Corte Costituzionale, giungiamo al 1998: l'ordinanza n.8 del maggio di quell'anno ha ad oggetto, in riferimento alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti all'illegittimo diniego della concessione edilizia per la realizzazione delle opere relative alla captazione delle acque, danni invocati dall'Ente Risorse idriche Molisane contro il Comune di Civitanova del Sannio, la questione di legittimità sollevata dal tribunale di Isernia, in riferimento agli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione e dell'art.2043 del Codice Civile.

Tale ordinanza rileva perché rappresenta il momento immediatamente precedente la Sentenza 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione (che analizzeremo subito dopo).

Entrambe le posizioni espresse, sia quella del giudice a quo, che della Corte Costituzionale, hanno infatti quale presupposto l'orientamento costante della Cassazione sia per ciò che concerne l'interpretazione dell'art.2043 C.C. sia per la costante negazione[31], che da tale interpretazione deriva, della risarcibilità degli interessi legittimi.

L'ordinanza acquista quindi importanza nella misura in cui riesce ad evidenziare le macroscopiche problematiche legate al particolare atteggiamento della Cassazione verso la tutela degli interessi legittimi. Problematiche a loro volta direttamente intrecciate con l'interpretazione dell'art.2043 C.C., ed a cui lo stesso legislatore tenta di dare una risposta parziale con il D.Lgs. 80/98 pochi mesi dopo l'ordinanza stessa.

Se l'art.2043 è l'unico oggetto a cui ruotano intorno i tre soggetti giurisdizionali coinvolti, diverse e distanti restano le tre posizioni espresse (direttamente quelle della Corte Costituzionale e del Tribunale di Isernia, indirettamente quella della Corte di Cassazione).

Il giudice a quo concentra il ricorso sulla presunta illegittimità costituzionale dell'art.2043, ponendosi così in linea con l'interpretazione che dello stesso fa la Cassazione, identificando (erroneamente, come ammetteranno le Sezioni Unite stesse nella sentenza 500/99) l'articolo quale unico limite alla risarcibilità dell'interesse legittimo.

La Corte Costituzionale invece riesce a guardare più avanti, insinuando, sulla base del riconoscimento della piena legittimità costituzionale dell'art.2043 quale norma primaria della responsabilità aquiliana, il sospetto che l'errore sia solo nel sistema fino ad allora sostenuto dalla Cassazione.

Sistema in forza del quale la stessa Corte è costretta a dichiarare inammissibile la richiesta del giudice a quo.

Quindi analizzando le dinamiche che sono alla base dell'ordinanza n.8/1998 sarà più semplice capire sia le ragioni che hanno condotto le Sezioni Unite a mutare orientamento, drasticamente rispetto a quello che sottende l'ordinanza in analisi, sia le ripercussioni che tale cambiamento ha avuto sul processo amministrativo e sulla configurazione della responsabilità della P.A..

Il giudice a quo, nel caso di specie, si richiama a quello che era un orientamento costante della Corte di Cassazione, orientamento che si assume univocamente consolidato nel senso di escludere la risarcibiltà del pregiudizio patrimoniale sofferto dal titolare di interesse legittimo conseguente all'illegittimo esercizio di attribuzioni amministrative e quindi la risarcibilità dei danni conseguenti all'illegittimo diniego della concessione edilizia, salvo che, ricorrendo situazioni di affievolimento, quali l'annullamento del provvedimento che ha illegittimamente degradato la posizione giuridica soggettiva riespansa per effetto della concessione, sia ammessa la tutela risarcitoria, e segnatamente nelle ipotesi di annullamento giurisdizionale dei provvedimenti di secondo grado, quali l'annullamento o revoca della concessione. Il Giudice a quo in sostanza solleva la questione di legittimità, in riferimento agli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione, dell'articolo 2043 del Codice Civile, nella parte in cui non prevede la "risarcibilità dei danni derivati a terzi dall'emanazione di atti e provvedimenti illegittimi, lesivi di interessi legittimi, aggiungendo che vi sarebbero diritti soggettivi coesistenti, quali, nel caso specifico, il diritto di iniziativa economica e quello all'integrità patrimoniale".

La Corte Costituzionale risponde:

"(.) La questione come prospettata dal giudice rimettente, è manifestamente inammissibile in quanto non si è verificato il presupposto in ogni caso necessario alla configurazione di una responsabilità dell'amministrazione in conseguenza di un atto amministrativo, cioè l'accertamento dell'illegittimità dell'atto o del comportamento dell'amministrazione, che la medesima ordinanza sottolinea essere ancora all'esame del giudice amministrativo di primo grado in sede di ricorso per l'annullamento.

Infatti la previa definizione della controversia sulla illegittimità dell'atto di diniego della concessione edilizia costituisce - in mancanza di diversa regolamentazione del legislatore, anche se è stata auspicata una unificazione per evitare una duplicità di giudizi con competenza ripartita - un indispensabile antecedente logico giuridico e che di conseguenza la dichiarata rilevanza della questione è meramente ipotetica, essendo prematuro il dubbio di legittimità costituzionale."

L'ordinanza in questione[32] sembra innestarsi sui principi elaborati dalla Corte di Cassazione. Essa reca, anzitutto, l'affermazione implicita ma inequivoca che l'articolo 2043 è applicabile soltanto ai diritti soggettivi; in seguito che il presupposto necessario alla configurazione della responsabilità dell'Amministrazione è il previo accertamento della illegittimità dell'atto di diniego della concessione edilizia. La necessità di questo preventivo accertamento dimostra l'appiattimento della Corte sulle posizioni della Cassazione in tema di riparto di giurisdizioni: nel caso di diritti affievoliti la Cassazione esige il previo annullamento dell'atto illegittimo ai fini del risarcimento del danno. Ciò in quanto la Cassazione aveva costruito la situazione soggettiva del privato come estinta di fronte all'esercizio del potere da parte dell'Amministrazione, residuando in sua vece un interesse legittimo che facoltizza il privato a ricorrere davanti al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento dell'atto. Solo dopo l'eventuale annullamento si reintegra la situazione soggettiva di diritto la quale, quindi, sarebbe stata lesa dall'atto illegittimo e, di conseguenza, il soggetto che ha subito il danno può richiedere al giudice ordinario il risarcimento. Dato questo meccanismo, appare evidente che quale che sia il motivo, formale o sostanziale, che ha giustificato l'annullamento, quest'ultimo consentirà al privato di esercitare l'azione di responsabilità dinanzi al giudice ordinario. Ma nel nostro ordinamento non esiste l'istituto del previo accertamento della legittimità dell'atto da parte del giudice amministrativo, affermare la necessità del previo annullamento pregiudiziale di questo da parte della giurisdizione amministrativa significa che la Corte Costituzionale aderisce alla teoria dell'affievolimento del diritto quando l'amministrazione è investita del potere di incidere sulle posizioni giuridiche dei soggetti: se il risarcimento del danno è ammesso soltanto nei confronti del diritto soggettivo, questo di fronte al potere dell'Amministrazione riemerge soltanto dopo l'annullamento dell'atto, che ripristina la situazione soggettiva precedente. Se allora la Corte avesse aderito senza esitazione alle regole che implicano la differenza tra i diritti affievoliti e i così detti diritti fievoli ab origine, questa adesione parrebbe del tutto viziata sul piano logico, in quanto avrebbe dovuto respingere la questione. Ma poiché il sistema, al di là delle apparenze, è quale si è cercato di spiegare, il recepimento delle regole generali del riparto formulate dalla giurisprudenza della Cassazione comporta anche quella della necessità del previo annullamento dell'atto che si assume lesivo anche quando trattasi di un interesse pretensivo, come nel caso di specie.

In realtà questo assunto implica una serie di problemi.

Potrebbe avere un fondamento nell'ipotesi di interessi legittimi che non siano diritti condizionati, infatti il giudice ordinario è privo di giurisdizione in ordine ad essi. Quindi il previo accertamento della legittimità dell'interesse legittimo non può che essere fatta dal giudice amministrativo. Questa pregiudizialità è necessaria peraltro soltanto ove si costruisca l'accertamento dell'illegittimità dell'atto come antecedente logico dell'azione di risarcimento. Sarebbe preferibile sostenere che altro è la tutela dell'interesse legittimo che si attua mediante l'annullamento del provvedimento illegittimo, altro è l'azione risarcitoria in cui sia certa la violazione di una norma che tutela un interesse meritevole di tutela .

A ben veder la Corte contraddice il sistema. Infatti sostenere che la questione pregiudiziale costituisce un antecedente logico-giuridico significa che l'azione di risarcimento del danno per la lesione dell'interesse legittimo è ammissibile. Non si tratta quindi di un'adesione all'impostazione data dalla Cassazione, secondo cui la questione dell'irrisarcibilità degli interessi legittimi è questione non di giurisdizione ma di merito. Qui il problema non era quello della proponibilità della domanda ma dell'ammissibilità della tutela risarcitoria, come si evince dal fatto che dalla definizione della controversia secondo la Corte dipende la decisione della causa e cioè se l'interesse legittimo sia risarcibile o no. Se così non fosse, la questione della pregiudizialità sarebbe del tutto fuori luogo in quanto la domanda non potrebbe essere accolta, ostandovi l'articolo 2043: implicitamente la Corte ammette la risarcibilità degli interessi legittimi pretensivi. Poiché la controversia sulla legittimità del diniego non è ancora stata definita dal giudice amministrativo, la Corte Costituzionale afferma che la rilevanza della questione è meramente ipotetica[35].

E' dunque evidente che il problema dell'antecedente logico giuridico è collegato con quello della sospensione: infatti, o ha ragione il giudice rimettente che ha reputato necessario risolvere la questione di costituzionalità prima di sospendere, o sarebbe stato necessario affermare che il giudice ordinario poteva sospendere il giudizio in attesa della definizione del giudice amministrativo sulla questione di legittimità dell'atto. La questione è che la risoluzione del processo amministrativo è collegata non con il problema della sospensione, ma con il diverso profilo dell'accettazione, da parte della Corte Costituzionale, della tesi della Cassazione sul riparto della giurisdizione.

Indubbiamente la Corte Costituzionale avrebbe operato meglio sciogliendo definitivamente il nodo.

A sostegno della soluzione prospettata dalla Corte Costituzionale per la risoluzione definitiva sull'interpretazione dell'art.2043 C.C: giunge l'articolo 35 del successivo decreto legislativo n.80 del 1998; infatti al primo comma recita testualmente:

"il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 32 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto"[36].

Il dato legislativo ha ampliato non soltanto le ipotesi in cui il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva ma anche le situazioni soggettive suscettibili di tutela risarcitoria, ricomprendendo tra di esse non soltanto i diritti ma anche gli interessi legittimi. Sembra al riguardo poco plausibile la distinzione che il Consiglio di Stato ha tentato di introdurre nell'ambito della giurisdizione esclusiva tra diritti ed interessi perché l'inequivocità del dato testuale ( lettera e) dell'articolo 33) riguarda controversie in cui la situazione soggettiva lesa è tradizionalmente un interesse legittimo, così come l'articolo 34 non prevede nessuna limitazione verso gli interessi in questione.

Ecco da quali contrasti giurisprudenziali e dottrinali nasce, forzatamente, la Sentenza 500 del 1999.



II.4 - LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE N.500/1999.


La sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rileva sotto due profili: la risarcibilità degli interessi legittimi da una parte e le ripercussioni che una tale ammissione ha imposto all'assetto della giustizia amministrativa dall'altro .

Un'analisi corretta della stessa impone quindi di seguire lo stesso filo logico che si rintraccia nella sentenza: esiste infatti un nesso logico - giuridico che coinvolge la concezione dell'interesse legittimo quale situazione giuridica soggettiva e, passando per una nuova interpretazione dell'art.2043 del C.C., espande la responsabilità extracontrattuale della P.A., sfociando in una riforma implicita del sistema di giustizia amministrativa.

La prima parte dell'analisi si fonderà quindi sul percorso compiuto dalla giurisprudenza della Cassazione rispetto alla categoria dell'interesse legittimo.


II.4.1 - LA RISARCIBILITA' DELL'INTERESSE LEGITTIMO

Nonostante la dottrina definisse da tempo "pietrificata" la giurisprudenza della Corte di Cassazione in merito all'applicabilità dell'art.2043 del C.C., la Suprema Corte, rivendica un costante cammino verso un'interpretazione elastica del principio ivi contenuto.

Effettivamente la Corte ha costruito un progressivo ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano, partendo dai rapporti tra i privati.[38]

La dottrina ha sicuramente apprezzato questo sforzo interpretativo, ma restava incomprensibile il motivo per cui la Corte stessa ribadisse l'applicabilità dell'art.2043 ai soli diritti soggettivi, mentre contemporaneamente tentava di mascherare situazioni giuridiche soggettive da diritti soggettivi per garantirne comunque una tutela. Come se non fosse possibile modificare in alcun modo l'art.2043 o l'interpretazione che da sempre di quell'articolo si dava, e fosse più semplice dichiarare volta per volta nuove situazioni giuridiche soggettive tutelabili, attraverso voli pindarici volti a far riaffiorare da qualche parte un diritto soggettivo. Sarebbe stato sufficiente interpretare l'articolo del Codice Civile quale norma primaria che identifica una categoria generale: il danno ingiusto, ovvero la lesione ingiustificata di un interesse che l'ordinamento tutela.

Ed ecco che qui si inserisce la problematica dell'interesse legittimo: la Cassazione ha, fino alla sentenza in analisi, negato la risarcibilità di tale posizione, come se l'interesse sottostante non fosse meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, ma, allo stesso tempo, ha compiuto miracolose trasfigurazioni di alcune figure di interesse legittimo in diritto soggettivo. Tali finzioni giuridiche erano possibili concentrando l'attenzione del giudice verso il c.d. interesse materiale sotteso all'interesse legittimo.

L'interesse legittimo, come già si è tentato di dimostrare, non è una situazione soggettiva meramente processuale, rispetto alla quale non è ipotizzabile un danno, ma si costruisce intorno all'aspettativa del privato verso un bene della vita, aspettativa che, in termini di sacrificio o insoddisfazione, può concretizzarsi in danno.

Per questo la Cassazione parte dalla definizione, innovativa rispetto alla sua giurisprudenza, per quanto ormai affermata, di interesse legittimo:

"L'interesse legittimo va quindi inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene."

L'interesse legittimo emerge insomma solo di fronte al potere amministrativo che può soddisfarlo o sacrificarlo[40].

Prima di questa sentenza il meccanismo di eventuale tutela si fondava sulla tecnica sopra esposta di ampliamento dell'area della risarcibilità tramite l'elevazione dell'interesse legittimo a diritto soggettivo.

La tecnica si basava in sostanza sulla teoria dei c.d. diritti affievoliti, ovvero diritti soggettivi illegittimamente compressi da un atto amministrativo, per cui eliminando l'atto riaffiorava il diritto soggettivo risarcibile.

Questa finzione giuridica si fondava sulla necessità di non modificare l'interpretazione dell'art.2043: per cui la tutela effettiva veniva garantita solo agli interessi legittimi oppositivi trasfigurati in diritti soggettivi, eliminando tutta la categoria, del resto in via di espansione, degli interessi legittimi pretensivi.

La Cassazione ammette l'impossibilità di mantenere una simile linea interpretativa: la svolta però non deriva solo dall'analisi delle precedenti pronunce, ma anche da fattori esterni, ormai non più trascurabili. Le stesse Sezioni Unite riconoscono l'importanza della normativa comunitaria[41] e di alcune scelte compiute dal Legislatore, quali ulteriori segnali che era tempo di affrontare il problema alla radice: l'art.2043 del C.C. comprende o meno anche gli interessi legittimi?

La Corte, prima di dare la risposta definitiva, richiama quale fulcro del ripensamento il nuovo assetto costruito dal D.Lgs. 80/1998, non tanto elencando il contenuto della normativa, ma sottolineando l'importanza del fatto che la ripartizione di competenza del giudice effettuata in quell'occasione dal legislatore abbandona il tradizionale riparto tra diritto soggettivo ed interesse legittimo: se ciò è vero, tale distinzione perde sicuramente di efficacia anche con riguardo all'applicabilità della responsabilità aquiliana nei confronti della P.A., e quindi cade l'ultimo privilegio del diritto soggettivo rispetto all'interesse legittimo.

"E' noto che l'opinione tradizionale, formatasi dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942, secondo la quale la responsabilità aquiliana si configura come sanzione di un illecito, si fonda sulle seguenti affermazioni: l'art.2043 C.C. prevede l'obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta che si qualifica come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria; (..)la responsabilità aquiliana postula quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e non iure"

Come le Sezioni Unite riconoscono, non vi è quindi nessuna limitazione all'applicabilità di un tale principio, né un'implicita esclusione degli interessi legittimi. Da ciò deriva la considerazione che l'area della risarcibilità non è definita da altre norme, l'art.2043 è norma generale che disciplina la lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento, lesione che deve avere determinate caratteristiche, mentre non vi sono riferimenti al tipo di interesse da tutelare[42].

Aggiunge la Corte di Cassazione, "Una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha funzione di riparazione di un danno ingiusto, e che è ingiusto il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la loro qualificazione in termini di diritto soggettivo, risulta superata in radice, per il venir meno del presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi legittimi quale corollario della tradizione lettura dell'art.2043 (.).

La lesione di un interesse legittimo, al pari di quello di un diritto soggettivo o di un altro interesse giuridicamente , rientra nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto ".

Prima di passare all'analisi, sul piano processuale, di una tale impostazione, occorre sottolineare l'importanza di un tale passaggio per la ricerca qui compiuta. Le Sezioni Unite pongono l'accento su un aspetto fondamentale: la non rilevanza del piano formale, ma soprattutto la preminenza di quello sostanziale.

Ed in tema di tutela di situazioni giuridiche soggettive, è questo principio che regge l'intera ricerca qui esposta: proprio perché è l'aspetto sostanziale a dominare che possiamo parlare dei diritti soggettivi comunitari e della loro tutela, ed è proprio in forza di tale aspetto che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo può introdursi nel processo amministrativo interno. Esistono principi generali, tra cui senz'altro l'art.2043 che traduce il principio generale del neminem laedere, e il principio dell'effettività della tutela, ribadito negli art.6. e 13 della CEDU, che, per loro natura, non conoscono limitazioni formali, ma applicazione sostanziale e funzionalizzata alla maggior estensione possibile. Rispetto a tali principi non esistono esclusioni di concetto, né per i soggetti che subiscono la lesione ed hanno quindi diritto ad una tutela giuridica effettiva, né per i soggetti che compiono atti o comportamenti lesivi, siano essi privati o poteri pubblici: quanto meno le eccezioni devono essere limitate il più possibile.


II.4.2 - LE RIPERCUSSIONI SUL PROCESSO AMMINISTRATIVO.


La sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha provocato, in ordine ai rapporti tra pubbliche autorità e cittadini, innovazioni e mutamenti che interessano non soltanto il diritto sostanziale, ma anche il diritto processuale, in quanto vengono profondamente modificate le tutele giurisdizionali contro gli atti e i provvedimenti illegittimi delle amministrazioni. Nasce così una nuova nozione del concetto di danno ingiusto: ovvero lesione di interessi giuridicamente protetti, quale che sia la qualificazione finale di detti interessi e senza, in particolare, che ne sia determinante la strutturazione come diritti soggettivi perfetti. D'altra parte risultano anche modellati ex novo i rimedi a disposizione del cittadino contro l'illecito esercizio della funzione pubblica, eliminando la cosiddetta pregiudizialità necessaria del processo amministrativo di legittimità riguardo a quello civile di danni:

" (.) rispetto al giudizio che, in termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo; qualora l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, perché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'articolo 2043 del C.C."[43]

Nell'evoluzione della giustizia amministrativa la sentenza deve essere considerata un essenziale completamento dell'evoluzione del processo che partendo dall'immunità sovrana ha via via sottoposto le pubbliche amministrazioni al controllo di giudici indipendenti, in controversie instaurate da cittadini che lamentavano illegalità commesse in loro danno. Nella cronologia sono essenziali i richiami soprattutto a:

Allegato E della l. 2248 del 1865

Evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione di Roma dagli anni 1877 al 1881[44]

Istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con la l. 5992 del 1889

Inserimento dei principi dello Stato di diritto nella Costituzione del 1948

Modificazioni apportate dal diritto e dalla giurisprudenza comunitaria sulla responsabilità verso terzi per violazioni di norme comunitarie a partire dalla Sentenza Francovich del 1991[45]

La sentenza in questione è parsa a molti l'anello mancate per chiudere il cerchio: mancava la tutela degli interessi legittimi e le Sezioni Unite l'hanno imposta, spazzando via un dogma che sembrava resistere da sempre. Eppure questa decantata svolta non pare lineare, né consapevole: esistono infatti degli angoli bui, come se la decisione della Cassazione fosse stata forzata da elementi esterni, ed anche se l'ordinamento si dichiarava da tempo, tramite la voce della dottrina, pronto ad accogliere la svolta in questione, mancassero ancora degli elementi.

Storicamente la nozione di interesse legittimo è correlata alla figura dell'interesse oppositivo, prima sotto il versante processuale[46], e, in seguito, sotto quello sostanziale, come interesse alla legittimità dell'azione amministrativa e appunto come posizione sostanziale correlata ad un bene.

L'orientamento giurisprudenziale[47] affermava, prima del 2000, e per molti anni, che per la proponibilità avverso la pubblica amministrazione dell'azione di risarcimento del danno, non è sufficiente l'annullamento di un atto amministrativo, ma è necessario che l'atto amministrativo abbia leso un diritto soggettivo del privato cagionando a quest'ultimo un danno. Se il cittadino è titolare esclusivamente di un interesse legittimo, la tutela giurisdizionale di detto interesse si esaurisce nella pronuncia di annullamento dell'atto stesso da parte del giudice amministrativo.

Contemporaneamente, però, la giurisprudenza civile estendeva sempre più le mobili frontiere del danno ingiusto risarcendo le lesioni alle aspettative del familiare di fatto, all'integrità del patrimonio, alla perdita di chanches, al possesso, finanche a comprendere gli interessi legittimi nei rapporti tra privati, arrestandosi sempre però di fronte alla maestà della P.A..

Neppure il diritto comunitario era riuscito a smuovere la giurisprudenza "pietrificata"[48] delle Sezioni Unite, rimanendo del tutto estraneo all'argomento in questione l'orientamento assunto dalla Corte di Giustizia C.E. in merito alla responsabilità dello Stato per la mancata attuazione delle direttive comunitarie, qualificando come eccezionale la responsabilità per la violazione delle disposizioni del diritto comunitario o delle relative norme di recepimento in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture prevista dalla direttiva CEE n.665 del 1989 e della successiva l.142/1992.

Nel corso della XII Legislatura fu anche presentato alle Camere un disegno di legge per modificare l'articolo 2043, il Parlamento neanche discusse la questione.

Nessun flusso impetuoso di cambiamento pareva investire il diritto amministrativo sostanziale e processuale: allora perché nel 1999 la Cassazione impone la svolta?

Analizzando il testo della Sentenza sono evidenziabili alcuni passaggi controversi.

La Corte, dopo un lungo excursus dettagliato sullo stato della legislazione e della giurisprudenza, afferma di dover "riconsiderare l'interpretazione costante formatasi sul concetto di danno ingiusto, alla luce della complessiva evoluzione della legislazione pubblicistica e, in particolare, della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 80/1998 con il quale è stata data attuazione alla delega contenuta nell'articolo 11 della l.59/1997 in quanto non può negarsi che la suindicata disciplina incide in modo significativo sul tema della risarcibilità degli interessi legittimi, sia sotto il profilo strettamente processuale sia sotto il profilo sostanziale in quanto coinvolge il grande tema dell'ambito della responsabilità civile ex articolo 2043 C.C.".

Sembra quindi che, anche se in seguito la motivazione torna a concentrarsi sull'interpretazione dell'articolo 2043, il dato decisivo sia stato costituito dall'entrata in vigore dell'art.35 del D.Lgs. 80/1998 quale norma attuativa del principio generale della risarcibilità degli interessi legittimi.

Se il riconoscimento della risarcibilità dell'interesse legittimo ha costituito l'aspetto più visibile ed eclatante del contenuto della decisione, l'effetto più dirompente, sotto il profilo del riparto della giurisdizione, dell'unità dell'ordinamento e, in sintesi, della certezza del diritto, è costituito dal superamento del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa. Tale principio presuppone, ai fini della valutazione della risarcibilità di una posizione giuridica lesa da una atto illegittimo, il preventivo annullamento di quest'ultimo. Questo profilo ha una rilevanza enorme ed è giunto del tutto inaspettato se si pensa che solo un anno prima, nel 1998, la Corte Costituzionale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità Costituzionale dell'articolo 2043 sollevata dal Tribunale di Isernia proprio perché mancava il preventivo annullamento, configurato dalla Corte Costituzionale, in mancanza di modifiche alla l.142/1992, "l'antecedente logico e giuridico indispensabile per decidere la causa".

Le Sezioni Unite, ignorando il dictum dell'Alta Corte, affermano invece che non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento in quanto non può trovare conferma alla stregua del nuovo orientamento che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. Dichiarano ancora le Sezioni Unite "Qualora la illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'articolo 2043 C.C."

La sentenza in commento realizza un'innovazione di estrema importanza nel perfezionamento delle caratteristiche di uno Stato di diritto, ossia di un ordinamento nel quale la Pubblica Autorità non goda di privilegi più o meno ammantati di tecnicismi giuridici, ma che comunque si risolvevano in sostanziali ingiustizie nei confronti del cittadino.

Nell'intento di completare il quadro delle innovazioni che si sono introdotte con la sentenza, le Sezioni Unite nell'ultima parte della motivazione hanno ritenuto di affermare che l'azione per il risarcimento del danno può essere esercitata senza il preventivo annullamento dell'atto lesivo. Ciò sia nel campo degli interessi pretensivi che oppositivi.

Già parte della dottrina[51] aveva affermato, in contrasto con la precedente giurisprudenza, la esplicabilità della doppia tutela nei confronti della P.A. che ha emanato l'atto. In applicazione dell'Allegato E della l.n.2248 del 1865, l'atto amministrativo sarebbe stato disapplicato dal giudice ordinario, che in tal modo avrebbe potuto conoscere dell'illiceità dell'azione amministrativa e condannare al risarcimento del danno. Eppure la giurisprudenza, con l'assenso della maggior parte della dottrina, riteneva tuttavia che, istituito il giudice degli interessi con la l. 5992/1889, una simile possibilità ne avrebbe aggirato la sfera giurisdizionale perché il giudice ordinario avrebbe conosciuto della illegittimità dell'atto non incidenter tantum, ma principaliter.

La Cassazione ha ritenuto di mutare orientamento, considerando che la precedente giurisprudenza di segno opposto era basata sulla necessaria ricerca di un diritto soggettivo da tutelare nell'azione di risarcimento del danno: il diritto affievolito si riespande e la giurisdizione diventa quella ordinaria. Con il mutamento giurisprudenziale, non essendo più necessario basare l'azione del risarcimento sul diritto soggettivo, verrebbe a mancare quella necessaria pregiudizialità dell'annullamento, quale presupposto della riviviscenza di tale situazione soggettiva. Per l'applicazione dell'articolo 2043 sarebbe quindi sufficiente far valere l'illegittimità dell'azione amministrativa direttamente innanzi al giudice ordinario.

Le Sezioni Unite prospettano inoltre un più ampio scenario del riparto delle giurisdizioni, alla luce del Decreto Lgs. 80/1998: alcune materie verrebbero attribuite al giudice amministrativo con pienezza di cognizione esclusiva e risarcitoria, mentre negli altri campi si realizzerebbe analoga concentrazione di tutela innanzi al giudice ordinario, come prevede l'articolo 68 del Decreto Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'articolo 29, comma1, del D.Lgs 80/1998, in materia del lavoro.

Una riforma seria[52] della tutela del cittadino doveva sicuramente essere orientata nel senso della concentrazione innanzi ad un unico giudice delle azioni di annullamento, di tutela di diritti ed interessi e di risarcimento del danno, nella generalità dei casi siamo ancora vincolati alla separazione tra l'azione di annullamento e quella di risarcimento del danno. L'omissione dell'azione di annullamento in molti casi costituisce un comportamento non corretto di un danneggiato che deve tendere a ridurre i danni, secondo quanto la giurisprudenza generale in tema di responsabilità aquiliana gli impone.

Non sembra d'altra parte coerente con un sistema ispirato alla logica della non sovrapposizione di competenze che due giudici possano indifferentemente affrontare, sia pure ad effetti solo in parte diversi, lo stesso identico problema: l'azione base appare essere quella di annullamento e, tra tutte le forme di tutela, la primaria è sempre quella di reintegrazione in forma specifica, essendo il problema risarcitorio un completamento di quanto la reintegra non è in grado di realizzare. Solo di fronte ad eccezionali situazioni o regole che impediscono la reintegra[53], il risarcimento coprirà il valore della mancata reintegra: in tutti gli altri casi la reintegra soddisfa la maggior parte del danno ed il risarcimento è destinato a coprire solo la differenza. La doppia tutela determinerebbe una serie di inconvenienti, non sempre facilmente risolvibili dal giudice e talora difficili anche per il legislatore.

L'esigenza di certezza dell'azione amministrativa ha indotto il legislatore a stabilire la regola della decadenza nella impugnazione degli atti amministrativi; l'azione di responsabilità, sottoposta alle normali regole di prescrizione, verrebbe normalmente intentata contro situazioni in cui esiste un atto amministrativo inoppugnabile per avvenuta decadenza: imporre alla P.A. il risarcimento equivarrebbe a sottoporla ad una notevole pressione verso un annullamento d'ufficio, con ciò vanificando gli obiettivi di certezza dall'azione stessa, che la regola della decadenza mira a garantire, non solo nei confronti della P.A., ma anche nei confronti dei controinteressati. Inoltre l'assenza dei controinteressati nel giudizio di responsabilità ne esclude il diritto di difesa che avrebbero avuto nella più lineare azione di annullamento contenzioso, pur potendo la vicenda concludersi in loro danno, con l'annullamento d'ufficio motivato con l'interesse della P.A. a contenere il risarcimento del danno. La lungaggine della doppia fase giurisdizionale costituisce sicuramente un onere anomalo per il cittadino, che potrebbe anche figurarsi come privilegio per la controparte P.A., ma questo aspetto del problema non può trovare la soluzione in un parallelismo di giurisdizioni.

Le Sezioni Unite, riconoscendo la risarcibilità, ai sensi dell'art.2043, dei danni derivati dall'emanazione di atti amministrativi illegittimi hanno introdotto dei mutamenti che interessano non soltanto il piano sostanziale, giacché è stata ampliata l'area della responsabilità nelle relazioni tra privati ed amministrazioni, ma anche la sfera processuale, perché, stabilendosi che il giudice ordinario possa valutare alla stregua di illecito civile l'atto amministrativo, è stato attribuito ad esso, seppure sotto le forme e con gli effetti della disapplicazione, il sindacato diretto sulle scelte dei pubblici poteri, sino ad oggi gelosamente riservato alla giurisdizione speciale amministrativa[54]. La Suprema Corte ha conservato il collegamento tra il momento di carattere sostanziale e quello di natura processuale. Così oggi, ammessa la responsabilità della Pubblica amministrazione per la lesione degli interessi legittimi, è affermata la possibilità del ricorso immediato alla tutela risarcitoria in sede civile, allo scopo di porre rimedio alla ferita causata alla posizione del privato, a prescindere dal previo annullamento del provvedimento e nonostante la sua attuale esistenza ed efficacia. Le cose non subiscono sconvolgimenti, se si prendono le mosse dalla risarcibilità delle ferite provocate agli interessi legittimi: ancora una volta, il magistrato ordinario, cui deve essere proposta l'azione di danni, è chiamato a valutare la legittimità dell'atto e a disapplicarlo, per ristorare il pregiudizio denunciato, con la sola variante, che la responsabilità può essere riconosciuta anche se il provvedimento è lesivo di un'originaria posizione di interesse legittimo pretensivo.

In altre parole la risarcibiltà o meno degli interessi legittimi non ha ripercussioni automatiche sul principio della pregiudizialità necessaria del giudizio amministrativo di legittimità rispetto a quello civile di danni; questo aspetto che coinvolge, in definitiva, i rapporti tra i due processi, dipende, piuttosto, dalle interpretazioni in ordine al riparto delle giurisdizioni e dall'individuazione dei poteri cognitivi del giudice civile, chiamato a pronunciare sulla pretesa di risarcimento, e, quindi, in definitiva, dall'ambito di operatività dell'istituto della disapplicazione[55].

Prendendo le mosse dal profilo inerente la giurisdizione, considerando che il riparto si fonda sul criterio del petitum sostanziale, vale a dire sul tipo di situazione soggettiva per cui è chiesta protezione con la domanda giudiziale, l'azione di risarcimento, come regola generale, deve essere proposta di fronte al giudice ordinario: il ricorrente fa valere sempre un diritto soggettivo, anche quando denuncia la lesione di un interesse legittimo. A parte i casi di giurisdizione esclusiva è il giudice civile, che , in quanto giudice dei diritti, è chiamato a stabilire se dalla condotta tenuta sia derivata in capo all'amministrazione un'obbligazione risarcitoria; questa situazione soggettiva è distinta dalla posizione giuridica la cui violazione è fonte di danno ingiusto; esclusivamente la prima è oggetto di accertamento autoritativo, mentre la seconda ha funzione di mero elemento pregiudiziale, da conoscersi incidenter tantum, e, di conseguenza, in quanto tale, è incapace di determinare la giurisdizione .



Tuttavia, la pretesa di danni è devoluta alla cognizione del giudice speciale nelle materie per le quali è prevista la giurisdizione amministrativa esclusiva, considerato che le controversie attribuite ai tribunali amministrativi possono avere ad oggetto anche i diritti[57].

In conclusione la nuova giurisdizione esclusiva, che il legislatore ha attribuito al giudice amministrativo in materie di primissimo piano quali urbanistica, edilizia e servizi pubblici, consente in numerosissimi casi la concentrazione, dinanzi allo stesso ordine, della tutela di annullamento e di quella risarcitoria; il controllo di legittimità dell'atto è compiuto da un unico giudice, il quale, in modo coerente e, soprattutto, con identità di giudizio, valuta, sotto i diversi aspetti, la condotta dell'amministrazione.

Dunque, con riferimento a queste vicende sostanziali, non si pongono quei problemi di coordinamento delle decisioni e di sovrapposizione dei controlli, che inevitabilmente, sorgono dalla decisione delle Sezioni Unite, allorché la domanda di danni e quella di impugnazione dell'atto siano attribuite a due distinte giurisdizioni.

Semmai è rilevante che, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, la Corte di Cassazione nel momento stesso in cui opera la svolta storica nel senso di ammettere la risarcibilità sin qui graniticamente negata, esce di scena e lascia al giudice amministrativo, in particolare al Consiglio di Stato, il non lieve compito di affrontare lo stesso problema della risarcibilità dell'interesse legittimo[58].

Questa soluzione pone dei problemi interpretativi:

innanzitutto posta l'autonomia delle due giurisdizioni non è chiaro cosa succeda in caso di conflitto (soprattutto cosa succeda al povero ricorrente, che già prima doveva scegliere il giudice a cui rivolgersi). In secondo luogo può l'amministrazione essere costretta a pagare una somma di denaro in conseguenza di un atto giudicato invece legittimo dal giudice amministrativo in quanto competente per materia? Ed inoltre non si capisce che cosa dovrebbe fare il giudice amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza se costretto ad annullare un atto da lui stesso in precedenza ritenuto legittimo, ma disapplicato incidentalmente dal giudice ordinario nel giudizio civile di risarcimento.

Fondamentalmente non sembra diretta ad una maggior tutela una riforma che può provocare il rischio di giudicati divergenti, un sistema contraddittorio che si pone, tra l'altro, in netto contrasto con gli indirizzi politici del Legislatore[59] e con le affermazioni della Corte Costituzionale.



II.4.3 - LA RESPONSABILITÁ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ED IL PROBLEMA DELL'IMPUTABILITÁ.


Nel sistema precedente alla sentenza in esame la pubblica amministrazione era tenuta al risarcimento del danno provocato dall'inosservanza dei suoi obblighi primari, i quali possono essere o specifici (si tratterà allora di responsabilità contrattuale) o generali (il così detto principio del neminem ledere e quindi di responsabilità extracontrattuale). Il danno è ingiusto soltanto se risulta leso un diritto soggettivo (assoluto o relativo); per contro non integrava i presupposti dell'articolo 2043 la condotta che incideva su interessi, pur rilevanti per l'ordinamento, tutelati nelle forme dell'interesse legittimo .

Ai fini dell'accertamento dell'elemento soggettivo, in tutte le ipotesi di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo, la colpa della struttura pubblica è in re ipsa: l'imputazione avviene sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa.

Talvolta la responsabilità extracontrattuale dell'amministrazione non si ricollega all'emanazione di un provvedimento. Ciò accade quando il fatto antigiuridico consiste in un comportamento, che, sebbene finalizzato alla soddisfazione di un pubblico interesse, è tenuto o in totale assenza di atto o al di là di quanto previsto dall'atto. In queste ipotesi non essendovi alcuna attribuzione da salvaguardare, né un provvedimento amministrativo capace di incidere sulle situazioni soggettive vantate dal privato, degradandole o affievolendole, di modo che esse conservano consistenza di diritto soggettivo perfetto, trova integrale applicazione la disciplina di diritto comune; la condotta dell'amministrazione, se reca pregiudizio alla sfera patrimoniale altrui e se è contra ius, viene sanzionata, come di consueto, con l'obbligo di risarcire. Unica è la tutela ammessa contro questi comportamenti: la reazione all'illecito è costituita dalla proposizione delle ordinarie domande di fronte al giudice civile; per contro, non rinvenendosi l'adozione di alcun atto in senso proprio, non sussiste spazio per l'instaurazione del giudizio amministrativo di legittimità[61].

Di regola, invece, la responsabilità delle autorità è riconducibile all'esercizio di un pubblico potere, che si manifesta con l'adozione di un atto amministrativo. La produzione del danno può dipendere o dalla mera emanazione del provvedimento o dalla divulgazione e soprattutto dalla esecuzione dello stesso. In ogni caso la valutazione della liceità del comportamento dell'amministrazione presuppone il sindacato sulla legittimità dell'atto, in quanto, se questo è legittimo, la lesione della posizione giuridica del privato è giustificata, mentre, nel caso contrario, è senza titolo e contra ius. Nell'ultima fattispecie considerata, quando cioè si è in presenza di atti amministrativi, vengono in rilievo, i casi in cui questi, in via eccezionale, non siano in grado di produrre effetti rispetto alla situazione di diritto soggettivo perfetto del cittadino, affievolendola al livello di interesse legittimo; ciò può accadere o perché il provvedimento è nullo o perché il diritto soggettivo del privato, essendo relativo a libertà fondamentali costituzionalmente protette, è non cedevole anche ad opera di atti esistenti e quindi efficaci . Poiché nonostante l'adozione del provvedimento, il diritto soggettivo sopravvive e conserva la propria originaria consistenza, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, al quale è consentito disporre immediatamente il risarcimento del danno, per effetto della non applicazione dell'atto amministrativo pregiudizievole. Il magistrato civile è chiamato, nelle ipotesi di inesistenza di potere, a verificare se l'amministrazione non avesse in radice la facoltà di sacrificare le originarie situazioni di diritti non degradabili di colui che lamenta la lesione, mentre, in presenza di diritti non degradabili, a sindacare la legittimità del provvedimento sotto il profilo dei tradizionali vizi dell'incompetenza, dell'eccesso di potere e della violazione di legge .

La Sentenza 500/1999 ha valenza innovativa esclusivamente riguardo alle ipotesi in cui la fonte dell'incisione sia costituita da un atto amministrativo, capace di degradare le situazioni di diritto soggettivo del privato. Invece nulla risulta mutato rispetto a quei casi in cui la condotta pregiudizievole è posta in essere in assenza di provvedimento, o, nonostante l'adozione di un atto formale, per essere questo inesistente oppure il diritto soggettivo non cedevole, di fronte all'azione amministrativa; in queste ultime fattispecie, invero, il cittadino vanta contro la Pubblica Amministrazione posizioni non di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo pieno, per cui, oggi come ieri, ha a disposizione la tutela innanzi al giudice ordinario, la quale può anche assumere, ed in realtà spesso assume, le forme del risarcimento del danno.

Ultimo profilo meritevole di osservazioni riguarda la necessaria presenza dell'elemento soggettivo per il perfezionamento della responsabilità aquiliana della P.A..

Il sistema generale dell'illecito civile si fonda sul principio di colpevolezza. In materia di responsabilità civile della P.A. la giurisprudenza, prima della sentenza n.500 del 1999, si era consolidata nel senso di ritenere sufficiente, ai fini della configurabilità dell'elemento colposo, la semplice illegittimità dell'atto amministrativo. Infatti sia la violazione formale di norme giuridiche riguardante l'emissione di atti giuridici, sia il sostanziale cattivo uso del potere pubblico conferito, presuppongono necessariamente la sussistenza della colpa di una struttura pubblica che deve essere appositamente organizzata e qualificata per agire secondo i principi di legalità, imparzialità e buon andamento espressamente prescritti dall'articolo 97 Costituzione. Questa impostazione consente la configurazione di una colpa specifica della P.A. che rende superflua la necessità di una complessa e difficoltosa indagine sulla sussistenza dell'elemento soggettivo.

Su questo specifico punto, la Cassazione, compiendo la terza "rivoluzione" afferma che "non sarà invocabile, ai fini dell'accertamento della colpa, il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo: l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente[64], ma della P.A. intesa come apparato , che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione."

Quindi si impone la necessità di una specifica indagine sulla colpa della P.A.. Questa impostazione appare contraddittoria.

La specifica indagine sulla sussistenza dell'elemento soggettivo della P.A. è sempre stata correlata al comportamento del singolo funzionario: secondo la sentenza, invece, l'atteggiamento colposo che il giudice deve accertare in concreto mediante una specifica indagine non è quella del singolo funzionario agente, ma quella dell'apparato amministrativo.

Non si riesce a comprendere come si possa rinvenire indici della presenza di un determinato atteggiamento psicologico all'interno di un apparato amministrativo. Non a caso, quando si è voluto dare rilevanza ad una lettura integrale dell'articolo 2043 C.C., si è ricondotta la colpa all'atteggiamento interiore del funzionario; altrimenti, in una lettura maggiormente pregnante dell'articolo 28 della Costituzione, occorre necessariamente individuare la colpa nella violazione delle norme giuridiche di legge e buona amministrazione.

Una prima lettura interpretativa ha cercato di armonizzare i due principi suggerendo di ritenere colpevoli i comportamenti della Amministrazione derivanti da carenze organizzative e di funzionamento della P.A.. Ciò però non vuol dire altro che considerare la P.A. responsabile ex articolo 97 della Costituzione e articolo 1 della l.241/1990 .

Inoltre la necessità di accertare la colpa della P.A. comporta un aggravamento della posizione del danneggiato, costretto a provare concretamente, anche mediante presunzioni, un atteggiamento psicologico. Ciò consente alle Sezioni Unite di utilizzare la valutazione della sussistenza dell'elemento psicologico e selezionare le fattispecie cui concedere tutela e assumere un notevole potere discrezionale per quanto riguarda il complessivo assetto giuridico tra cittadino e P.A..



II.5 - LA LEGGE 205/2000: MODIFICHE AI MECCANISMI DI TUTELA


La sentenza della Cassazione n.500/99 ha rimesso in moto l'intera ridefinizione delle situazioni soggettive, sia per quanto riguarda le mobili frontiere dell'illecito civile, sia per quanto attiene le tecniche di tutela giurisdizionale. Non a caso, la denuncia unilaterale del concordato giurisprudenziale del 1930 per opera del giudice di legittimità ha comportato un immediato irrigidimento dei giudici amministrativi .

Mentre dall'assetto enunciato dalla Ordinanza 165/1998 della Corte Costituzionale, dall'analisi dei lavori preparatori della Commissione Bicamerale per l'attuazione della l. 59/1997, dalla lettura degli articoli 33 e 35 D.Lgs. 80/1998, e, dal progetto di legge dell'attuale l.205/2000 si evinceva il principio generale della necessaria pregiudizialità dell'annullamento dell'atto illegittimo e, quindi, della necessaria scelta del giudice amministrativo come organo giudiziario in capo al quale concentrare la competenza giurisdizionale, le Sezioni Unite hanno cercato di precedere il Legislatore approntando un ferma ed efficace tutela nell'ambito di una centrale, piena ed esclusiva giurisdizione del giudice ordinario.

Il Legislatore ha risposto a distanza di un anno, con la Legge 205/2000, riconoscendo il principio della risarcibilità degli interessi legittimi, ma ne ha attribuito la competenza al giudice amministrativo, in modo da potere concentrare in unico giudizio sia le questioni relative all'annullamento dell'atto illegittimo, sia quelle consequenziali dei danni e delle prestazioni patrimoniali connesse.

La Legge citata è stata non a caso definita la "risposta del legislatore all'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la 500 del 1999"[68] e sembra togliere ogni spazio di giurisdizione al giudice civile sui diritti al risarcimento del danno conseguente all'emanazione di un atto che implichi la violazione di un interesse legittimo.

Evidentemente il giudice amministrativo appare più adatto ad essere il giudice naturale dei rapporti tra cittadini e P.A., essendo quello maggiormente esperto e competente sul corretto esercizio dei pubblici poteri e sulle problematiche connesse, titolare del potere di annullamento degli atti amministrativi illegittimi e di imposizione di comportamenti attivi alle Amministrazioni renitenti mediante il giudizio di ottemperanza.

L'anomalia creata dalle Sezioni Unite, che poteva o doveva avere un effetto devastante nell'intero sistema amministrativo, è stata quindi riassorbito, dall'intervento del Parlamento che ha però omesso di adeguare le strutture organizzative alle finalità prefissate[69].

Con la legge 205 il Legislatore ha inteso mirare ad un duplice obiettivo: rendere più celere il processo amministrativo, e accrescere la sua efficacia. Ma come gli stessi autori della legge ricordano, ad esempio Pellegrino, Cerulli Irelli e Acquarone, la legge nasceva con dei propositi diversi, tra i quali spiccava la volontà di ridurre e limitare i poteri del giudice amministrativo.

Dai diversi settori politici ed economici, infatti, era stata sottolineata la necessità di procedere in tempi rapidi all'esecuzione dei lavori appaltati dalla Pubblica Amministrazione, obiettivo spesso frustrato dalle sospensive del giudice a seguito di ricorso giurisdizionale. Con la legge in questione si è giunti ad una situazione opposta, e cioè ad una legge che amplia in maniera decisiva l'ambito dei poteri del giudice amministrativo (modifica necessaria e coerente una volta introdotta la disposizione sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con il decreto legislativo n.80/1998).

E' indubbio che la sentenza 500 del 1999 abbia fortemente influito sul testo legislativo in esame. Sino a tale sentenza, il quadro legislativo nelle materie di maggior impatto economico-sociale era caratterizzato, da un lato, dall'ampliamento dei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (introdotta dal D.Lgs. 80/1998), e, dall'altro, dalla norma c.d. salva cantiere di cui all'articolo 19 D.L. 67/97 convertito con la legge n.135/1997[70].

La sentenza 500 del 1999 arriva inaspettatamente sul tavolo del Legislatore: ci fu allora un raro esempio di lungimiranza, non seguito però da una profonda riflessione, né da una chiara volontà di riforma; era certo però che di lì a poco vi sarebbe stata una proliferazione di cause risarcitorie contro la P.A., e che ciò avrebbe potuto ulteriormente appesantire il contenzioso trattato dal giudice civile e dallo stesso giudice amministrativo. A ciò si aggiunga la risposta della Corte Costituzionale ai ricorsi contro il Decreto 80/1998, ed in particolare contro l'articolo 33: la Suprema Corte dichiara illegittimo l'articolo in esame per eccesso di delega. Da tale decisione potevano discendere precise conseguenze, e cioè che una serie di giudizi già iniziati davanti al giudice amministrativo sarebbero stati dichiarati affetti da difetti di giurisdizione, con conseguente onere di riproporre gli stessi davanti al giudice ordinario e il naturale prolungarsi della durata certo già non trascurabile dei processi.

La legge 205/2000 concepita come provvedimento limitativo dei poteri del Giudice Amministrativo, ha poi dato luogo ad una mini riforma del processo amministrativo. La riforma incide non soltanto sulle norme processuali, ma è destinata ad avere riflessi sostanziali nel quadro dei rapporti tra cittadini e Pubblica Amministrazione.

La legge insomma si inserisce certamente come momento decisivo nella progressiva evoluzione dalla giurisdizione per l'amministrazione alla giurisdizione per gli amministrati, una giurisdizione cioè specializzata in tutte le vicende che coinvolgono il pubblico e generale interesse.

La vera riforma si rinviene nelle disposizioni che si propongono di assicurare al giudice amministrativo una concreta indipendenza; dall'altra è condensata in poche righe, ovvero nelle modifiche che la legge attraverso l'articolo 7 ha portato all'articolo 35, comma 4 del D.Lgs. 80/98 e dalla lettura coordinata di quest'ultimo con l'articolo 7 della Legge 1034/1971, eliminando tutti i dubbi sulla consistenza e la natura dell'interesse legittimo.

La norma coinvolge tutta l'attività giurisdizionale del giudice amministrativo, e testualmente prevede che egli conosca anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e gli altri diritti patrimoniali consequenziali.

La sensazione che il testo intenda riferirsi alla sola giurisdizione sui diritti è fugata dalla contestuale disciplina voluta dal primo comma del nuovo articolo 35 del D.Lgs. 80/1998, oltre al fatto che ogni altra parte della disposizione è rimasta sostanzialmente immutata rispetto alla vecchia formulazione; il legislatore infatti ribadisce da un lato la riserva all'a.g.o. delle questioni di stato e dell'incidente di falso, ma dall'altra espressamente si propone di abrogare l'articolo 13 della l. 142/1992 ed ogni altra disposizione che prevede la devoluzione all'a.g.o. delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi.

La legge avrebbe cioè replicato non soltanto con una dovuta precisazione sul concetto di diritto patrimoniale consequenziale, ma addirittura con una rivoluzione copernicana che coinvolge lo stesso ruolo del giudice nella valutazione sull'an, quomodo e quantum del risarcimento dell'interesse legittimo. Ad una prima lettura si è portati a ritenere che al giudice amministrativo. sia attribuita la generale potestà di conoscere tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche in forma specifica, ed ai diritti patrimoniali consequenziali[71].

Si può forse ritenere che la correzione tenda opportunamente a colmare quei vuoti sistematici che la sentenza n. 500/1999 delle Sezioni Unite ha creato nel sistema provvedimentale; se è frutto di ordinaria civiltà giuridica riconoscere l'obbligo di risarcire l'interesse legittimo leso, e se, secondo il canone generale del neminem laedere, il danno deve essere riparato dall'Amministrazione, la riserva al giudice specializzato più coerentemente consente che della materia egli pienamente si occupi, facendo seguire, ove effettivamente richiesto, il risarcimento al giudizio sulla legittimità dell'atto ed alla pronuncia di annullamento. Piuttosto, ed è quanto rileva, occorreva porre rimedio al ruolo non satisfattivo svolto dal mero annullamento dell'atto, ed in questi ambiti la novella sembra volersi inserire, onerando la parte, com'è lecito ritenere, di dedurre contestualmente sia le domande proprie del giudizio di legittimità che quelle strettamente afferenti la pretesa risarcitoria consequenziale.

Per comprendere a fondo la supposta rivoluzione è indispensabile parlare anche della nuova tutela cautelare. Anzi, se è corretta l'interpretazione proposta, il nuovo conformarsi complessivo per gli amministrati della giurisdizione di legittimità ed esclusiva fornisce i primi spunti atti ad inquadrare l'atipicità apparentemente indefinita della potestà cautelare[72].

In termini più specifici, allo scontato superamento della obsoleta sospensiva[73] è stato poi collegato l'individuazione di nuove frontiere, aperte all'intervento del giudice amministrativo nelle controversie concernenti interessi legittimi; se infatti la giurisdizione di legittimità può esercitarsi fino a comprendere la reintegrazione (per equivalente o risarcimento) dell'interesse leso, non può che considerarsi pacificamente acclarato che ad evitare l'irrimediabile lesione nelle more della decisione del merito può e deve sempre tendere il potere cautelare nella giurisdizione di legittimità.

Attraverso il suo intervento, quindi, il Giudice è chiamato, per il legame indissolubile fra le frasi successive (cautelare e di merito), ad evitare nell'immediato che si determini un pregiudizio grave ed irreparabile dell'interesse sostanziale; sicché, qualora il pregiudizio, pur grave, sia però integralmente sanabile con la decisione finale e con il risarcimento, alla tutela cautelare non dovrebbe potersi accedere, grazie al definitivo superamento del limite connaturale al sistema pregresso (inidoneità del mero annullamento ad eliminare il pregiudizio effettivamente subito) e in passato giusta causa per l'uso, talvolta eccessivo, della misura[74].

Certamente più ampia si prospetta in astratto la funzione del potere cautelare nella giurisdizione esclusiva.

Se si tratta di diritti, sarà infatti sempre compito del G.A., nelle materie che la legge gli riserva, garantire in modo pieno la situazione soggettiva, attuando poteri che nel concreto possono addirittura apparire più ampi rispetto a quelli concessi al G.O..

Basti dire che l'articolo 700 C.P.C., come tutto il Capo III del Codice, cui il sistema sembra volersi ispirare, trascurando però la specificità del processo amministrativo, presuppone "il fondato motivo di temere che, durante il tempo occorrente a far valere il diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da pregiudizio imminente ed irreparabile".

Il sistema di tutela cautelare dei diritti, allora, rischia di profilarsi parzialmente sbilanciato, così come avviene, per altro verso, e sempre per limiti intrinseci alla disciplina processuale, sull'impraticabilità di altri strumenti tipici di tutela cautelare, propri del giudizio davanti all'AGO.

E' innegabile che l'articolo 3 della l.205/2000 impone una nuova visione del meccanismo cautelare, abbandonando la vecchia visione esclusivamente impugnatoria, collegata alla sospensione degli effetti dell'atto. E questa è una conseguenza naturale delle convinzioni, maturate nella giurisprudenza post-costituzionale, su natura e consistenza della posizione soggettiva.

In questa prospettiva non ha più neanche senso distinguere tra contenuto positivo o negativo dell'atto sottoposto alla verifica di legittimità, ma occorre incentrare l'attenzione sull'entità degli interessi contrapposti e sull'esercizio dell'attività, da svolgere conformemente ai parametri cui la legge impone di ispirarla. Non si può ancora parlare di vera giurisdizione sul rapporto, in quanto immutata è rimasta la disciplina concernente sia gli obblighi di devoluzione, sia la tassatività dei vizi, sia infine, l'oggetto principale della giurisdizione di legittimità. Né sembra possibile invocare l'abbandono del principio cardine di separazione, con quanto ne segue sulla persistente e piena operatività del divieto di interferenza (valido per tutta la giurisdizione).

Ma proprio l'esigenza di riformulare la disciplina del potere, accedendo a meccanismi meno rigidi della mera sospensione e prospettando l'atipicità dell'intervento, sembra dare nuova veste a temi da anni dibattuti nella giurisprudenza cautelare, specie nel momento in cui occorre fissare gli ambiti entro i quali il Giudice può operare il suo intervento della norma processuale. Il punto nodale continua ad identificarsi nel rapporto con la discrezionalità riservata, che genera, ancorché tendenzialmente compressa dalle norme sul procedimento, vincoli e confini ai poteri cautelari.

La legge 205/2000, se da una parte opportunamente opta per la tendenziale atipicità del potere, imposta anche dalla necessità di adeguamento ai richiami comunitari - volti a garantire sempre e comunque la tutela giurisdizionale cautelare del cittadino dell'Unione[75] - dall'altra non sembra astenersi dall'individuazione di confini determinati, entro i quali l'esercizio di quel potere può essere consentito al Giudice.

Al di là dei presupposti di accertata gravità, al di là del nesso causale con l'elemento necessariamente genetico del pregiudizio stesso, la norma individua due limiti precisi nella giurisdizione sull'interesse. Richiede cioè che il pregiudizio allegato sia destinato a prodursi irreparabilmente durante il tempo necessario a giungere ad una decisione sul ricorso e che le misure adottate siano le più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso.

A ciò fanno eco l'obbligo di espressa motivazione sul pregiudizio riscontrato e sui profili che inducono ad una ragionevole previsione sull'esito del ricorso, nonché il preventivo obbligo di verificare l'integrità del contraddittorio e di svolgere la necessaria attività istruttoria, obblighi che indiscutibilmente ridimensionano l'atipicità, escludendo che il giudice possa effettivamente considerarsi ormai svincolato da qualunque limite.

Il nodo da sciogliere resta ancora quello delle ordinanze, la cui coerenza con l'ordinamento sembra oggi più che mai in crisi; ferma la riserva di discrezionalità, sembra cioè possibile solo un ristretto margine di sostituzione nelle forme sia del silenzio inadempimento che del comportamento inerte, che però non potrà spingersi fino a determinare, con l'ordinanza, effetti che non si colleghino alla mera inerzia ma presuppongano determinazioni in positivo[76]. La misura cautelare propulsiva non sembra invece potersi spingere fino ad imporre la riadozione dell'atto, previa eliminazione dei vizi contestati; si tratterebbe di una vera e propria anticipazione e sostituzione della pronuncia nel merito e non di garanzia interinale degli effetti che quella, pronosticamente, potrebbe assicurare. Ancora non potrà consentire di realizzare immediatamente l'interesse pretensivo a conseguire l'atto ampliativo, considerato che, anche in questo caso, né di effetto strutturalmente interinale, né di pregiudizio connesso casualmente al tempo per la decisione del ricorso si tratterebbe, ma di vera e propria ingiunzione pronuncia anticipata nel merito.

In conclusione, ancora una volta l'aspetto realmente problematico della tutela cautelare si conferma quello incidente sul rapporto tra giurisdizione ed effettiva discrezionalità, riservata alla P.A.. L'unico apporto che il legislatore ha voluto fornire per la sua soluzione è stato quello di svincolare il giudice dalle strettoie che il potere cautelare di mera sospensione gli imponeva, ma al contempo di delimitare gli ambiti entro i quali possano adottarsi le misure più adeguate per evitare interinalmente effetti irreparabili e gravi, senza privare la P.A. della discrezionalità e/o fissare già in questa fase una diversa e definitiva regolamentazione del rapporto controverso: compito del giudice resta cioè quello di indirizzare l'Amministrazione nell'alveo di un corretto esercizio della scelta, senza imporre l'immediato adeguamento ad un giudizio, che per definizione è sommario e meramente prognostico, sulla legittimità, né ordinare la conseguente conformazione ad una scelta di volontà, non già ad una regola di valutazione del comportamento.

L'ambito di più incisiva innovazione processuale è la tutela cautelare nella giurisdizione esclusiva, specie avuto riguardo alle controversie sui diritti soggettivi di natura patrimoniale[77].

In altri termini emerge e si rinnova il vero limite coessenziale non solo al potere cautelare, ma anche all'intera giurisdizione di legittimità, e cioè la riserva della discrezionalità amministrativa, oltre che, ovviamente, l'esigenza primaria di provvedere in via interinale e non definitiva.

Vero è che gli spazi relativi alla discrezionalità riservata, grazie alla legge 241/1990, si sono opportunamente ristretti. Al di là dell'obbligo di garantire il contraddittorio, la procedimentalizzazione ha infatti consentito al giudice maggiori possibilità di accesso al fatto ed al contempo ha dato rilevanza oggettiva ai parametri dell'economicità ed efficienza, intesi come criteri inderogabili dell'azione amministrativa. Nel concreto, detti criteri ben possono essere utilizzati per riscontrare l'azione, richiamando l'agente alla loro osservanza ove manifestamente e macroscopicamente violati.

Ancora, e sempre nel concreto, ausilio determinante al riscontro giudiziale delle scelte potranno fornire i criteri non codificati, ma in giurisprudenza consolidati per oggettività, della ragionevolezza e proporzionalità.

Su queste basi, sembra incontestabile che il giudice possa effettuare valutazioni obiettive della scelta discrezionale, anche da operare, avvalendosi se necessario della motivazione resa esplicita; od ancora, stabilire se nella scelta si riscontri un adeguato bilanciamento tra interesse pubblico concreto e sacrificio imposto all'interesse del privato.

Sembra cioè che, seguendo un procedimento molto simile a quello che da decenni ha condotto la giurisprudenza della Suprema Corte alla valutazione di carenza in concreto del potere amministrativo, al giudice amministrativo le nuove realtà consentano verifiche della scelta secondo criteri e regole operative oggettivizzate. Al di là di questi limiti però, che esprimono i confini entro i quali può sollecitarsi una revisione del giudizio riservato alla P.A. continua a sopravvivere un settore intangibile alla giurisdizione, tanto più quando è chiamata ad esercitare i poteri cautelari conferiti dalla legge.


II.6 - CONCLUSIONI SULL'ASSETTO DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO


La struttura del processo risulta dopo l'entrata in vigore della l. 205/2000 alquanto modificata, anche se altre modifiche si renderanno nel prossimo futuro necessarie. In origine il processo amministrativo era un processo essenzialmente monoverifica[78], tutto incentrato cioè su un'unica udienza, nel corso della quale veniva svolta perfino l'attività istruttoria .

Tale struttura processuale era prevista ed utilizzata non solo per la giurisdizione generale di legittimità ma anche per le altre due competenze giurisdizionali speciali ed aggiuntive, quella di merito e quella esclusiva, nelle quali sarebbero dovuti venire in rilievo non solo atti ma anche comportamenti e che comunque avrebbero comportato una maggiore attività istruttoria. Ed è comune la constatazione che il rito delle due competenze speciali ed aggiuntive si è dovuto nel corso del tempo piegare al rito della giurisdizione generale di legittimità, al punto che recenti aperture del giudice delle leggi sono cadute nel nulla . Nel sistema originario del processo amministrativo tutta l'attività, ivi compresa quella istruttoria, veniva svolta in occasione dell'udienza di merito. Nonostante la possibilità di attivare il potere presidenziale, tutta l'attività istruttoria finiva per confluire nell'unica udienza prevista, essendo raro il caso in cui l'accordo tra le parti necessario per la c.d. fase istruttoria presidenziale veniva raggiunto.

La struttura essenzialmente monoverifica del processo amministrativo tuttavia è venuta a mutare sia pure in modo non eclatante a seguito dell'istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e dell'impetuoso sviluppo che ha finito per avere la fase cautelare del giudizio.

L'ipertrofia della fase cautelare nasceva non solo dall'aumentato numero delle controversie e dal conseguente allungarsi dei tempi per la fissazione del merito del ricorso, ma anche dall'esigenza di sottoporre la controversia ad un vaglio preliminare, al fine di ottenere incombenti istruttori senza attendere l'udienza di merito. Il processo amministrativo è così divenuto un processo "a doppia verifica", nel quale l'udienza di merito (fissata a distanza di molti giorni dalla data di deposito del ricorso) è quasi sempre preceduta da una camera di consiglio per l'esame preliminare della domanda di sospensione e per l'emissione degli eventuali incombenti istruttori che si rendono necessari.

Tale struttura, tuttavia, ha subito dei mutamenti ad opera di una serie di norme di settore, le quali hanno previsto dei riti alternativi ed abbreviati. Una delle prime procedure accelerate è stata quella prevista dall'articolo 25 della l.241/1990 che prevede i ricorsi contro il diniego, anche tacito, di accesso agli atti amministrativi, in termini strettissimi (30 giorni) e da concludersi in Camera di Consiglio.

Ancora più significativa la già citata Legge salva cantieri, la n. 135/1997, che all'articolo 19 aveva previsto un procedimento speciale ed accelerato per le controversie in materia di appalti ed espropriazioni, stabilendo che il giudice Amministrativo può decidere la controversia già in sede di esame della domanda preliminare di sospensione con sentenza in forma abbreviata.

Il processo amministrativo è divenuto in tal modo un processo a doppia verifica eventuale[81], nel senso cioè che l'udienza di merito, deputata a effettuare la seconda verifica, poteva anche mancare nell'ipotesi in cui il giudice amministrativo avesse ritenuto matura la causa già in sede di esame della domanda preliminare di sospensione ed avesse in quella sede deciso pertanto di definire la causa allo stato degli atti, e cioè con sentenza in forma abbreviata.

La nuova legge finisce per estendere tali forme accelerate di definizione delle controversie a tutti i giudizi, anche se non prevede dei riti alternativi in funzione del tipo di competenza giurisdizionale esercitata. E' evidente infatti che la giurisdizione esclusiva, specie a seguito del suo ampliamento ad opera del D. Lgs. 80/1998 e della recente apertura delle Sezioni Unite con la 500/1999, richiederebbe un diverso rito, in funzione dei maggiori adempimenti istruttori che sono richiesti per la definizione di tali controversie. Su questo versante la legge si rivela lacunosa ed incompleta. Non c'è dubbio che la previsione di riti alternativi ed abbreviati, se estesamente applicata, potrà velocizzare il processo amministrativo, eliminando i ricorsi ripetitivi e a volte pretestuosi. In particolare tutta la disciplina contenuta dall'articolo 9 (la possibilità di decidere in Camera di Consiglio tutti i ricorsi manifestamente fondati, infondati, inammissibili od improcedibili) può costituire l'arma in più di cui il giudice amministrativo ormai dispone per decidere velocemente. In tal modo si eviterà quindi quella inutile duplicazione che è costituita dalla fissazione di una udienza di merito in tutti quei casi in cui già in sede di domanda sospensiva la causa sembra matura per la decisione. Molto dipenderà in ultima analisi dall'interpretazione che il giudice amministrativo darà alla norma.

Di contro non sembra aver fatto una buona scelta il Legislatore prevedendo l'ulteriore estensione dei canali preferenziali previsti per alcune tipologie di controversie ritenute più importanti di altre ed in generale la previsione di termini espressamente ridotti non solo per i difensori ma per gli stessi giudici nonché di requisiti particolarmente stringenti e, sotto alcuni profili, irrazionali per la concessione di misure cautelari per alcuni tipi di controversie.

La nuova legge ha invece sprecato un'occasione, che era quella di ridefinire meglio i contorni della nuova giurisdizione esclusiva ex. Artt.33 e 34 del D.L.vo.80/98. Riproponendo tali articoli pressoché immutati si sanerà il vizio di eccesso di delega rilevato recentemente dalla Corte Costituzionale[82], ma rimarranno impregiudicati i problemi interpretativi che le richiamate norme avevano posto, problemi, come l'occupazione acquisitiva, che hanno attirato sull'Italia anche l'attenzione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

Sembra, in definitiva che né le Sezioni Unite né il legislatore abbiano colto l'occasione per risolvere in radice il problema della giustizia amministrativa in Italia, né della tutela delle situazioni soggettive di fronte alla P.A. e del regime della responsabilità extracontrattuale della stessa.

Le Sezioni Unite avevano individuato nell'interpretazione dell'art.2043 C.C. il problema ab origine della difficoltà di equiparare, almeno sul piano della tutela, interessi legittimi e diritti soggettivi. Nel fare tale scelta hanno ricordato come sia la dottrina, sia il legislatore comunitario che quello nazionale avessero da tempo spinto in tale direzione. La soluzione era giusta: sul piano della responsabilità aquilina l'interesse legittimo è tutelato allo stesso modo dall'ordinamento, non vi è alcuna differenza tra questa fattispecie e il diritto soggettivo. La Suprema Corte ha volutamente tralasciato di definire categoricamente le due fattispecie, ha posto la questione sul piano sostanziale.

Il legislatore nazionale, seguendo il diritto comunitario, aveva nel 1998, in materia di pubblico impiego, adoperato la stessa scelta attribuendo la giurisdizione di intere materie o in sede esclusiva al giudice ordinario o in sede esclusiva al giudice amministrativo. Il presupposto logico è lo stesso: se si abbandonano le definizioni formali di interesse legittimo e diritto soggettivo, possiamo finalmente riconoscere l'art.2043 quale norma primaria, e, allo stesso tempo, possiamo attribuire ad un solo giudice ed in modo esclusivo la giurisdizione di intere materie, garantendo un tutela effettiva ed efficace per il cittadino, eliminando il criterio del petitum sostanziale, criterio che si fonda su definizioni formali di interesse legittimo e diritto soggettivo. Entrambe le mosse andavano nella direzione giusta, nessuna delle due è giunta alle conclusioni ultime di una tale impostazione; la 205/2000 non ha effettuato un totale riparto di giurisdizione per materia, ma ha creato un corsia preferenziale ad alcune, esponendosi anche a valutazione di compatibilità costituzionale, in riferimento all'art.3, I e II Cost, e al combinato disposto degli artt.24 e 113: l'eccezione anzi le eccezioni, create rispetto al sistema generale della giustizia amministrativa sono troppe e troppo profonde rispetto all'assetto di base, facendo perdere stabilità ed univocità al sistema stesso. Eppure tale legge nasce, non solo come risposta alle necessità politiche e sociali suindicate, ma anche come recepimento e sistematizzazione della rivoluzione compiuta dalle Sezioni Unite: rivoluzione a metà si disse, soprattutto per i problemi di coordinamento delle diverse giurisdizioni che la Sentenza implicava, e quindi ancora problemi di rispetto di tutela effettiva per il cittadino, oltre che imbarazzo per il giudice decidente.

L'opinione di chi scrive è che sia stato fatto in entrambi i casi un mezzo passo, la soluzione era forse una nuova geometria del sistema amministrativo: se tutti oggi ammettono che la parte sostanziale di esso è mutata, non si capisce perché, dato il legame indissolubile tra questo aspetto e la parte processuale, non si fa seguire anche alla giustizia amministrativa uno sviluppo quanto meno lineare e completo, ad esempio tramite una decisiva ripartizione per materia, che superi definitivamente la contrapposizione tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Tale binomio, è utile ribadirlo, ha senso se impostato per garantire una maggior tutela al cittadino e imporre il rispetto dei principi di legalità e tipicità dell'azione amministrativa. Non ne ha se non riesce più a garantire queste necessità di uno stato democratico, oltre al fatto che non è mai servita a facilitare l'ordinamento italiano verso l'armonizzazione imposta dall'ordinamento comunitario.

La l.205/2000 dal canto suo non fa altro che codificare alcuni principi già presenti nell'ordinamento, dall'altra parte ha esteso ulteriormente i procedimenti speciali. Ne abbiamo sottolineato la validità per il rimodellamento dello strumento cautelare, ma ancora resta molto lontana dall'affrontare seriamente il problema della giustizia amministrativa come sistema: come sistema di controllo della discrezionalità amministrativa che comunque deve esistere ma nel rispetto totale (e quindi senza deroghe , né canali di favore) delle posizioni soggettive sottostanti[83].

Per concludere lo studio dell'ordinamento nazionale, dopo aver tentato di evidenziare i limiti degli interventi sia giurisprudenziali che legislativi in materia di giustizia amministrativa, ci sembra opportuno analizzare un progetto di legge costituzionale che, a nostro avviso, parrebbe una soluzione eccellente alle problematiche sopraesposte.

Il 28 novembre 2000, l'onorevole Cerulli Irelli ( in veste di Deputato e non di Presidente della Commissione Bicamerale per la riforma della Pubblica Amministrazione) ha presentato alla Camera dei Deputati il progetto di legge costituzionale n.7465 per la modifica degli articolo 103 e 113 della Costituzione. Partiamo dal dato testuale del progetto, per poi tentare di ripercorrere il cammino che ha condotto all'elaborazione dello stesso, nonché le motivazioni del nostro incondizionato appoggio.

Il progetto si compone di due articoli:


Articolo 1

1. Il primo comma dell'articolo 103 della Costituzione è sostituito dal seguente:

"Sono organi della giurisdizione amministrativa i tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato. La giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge. E' riservata, in ogni caso, alla giurisdizione amministrativa la cognizione delle controversie riguardanti l'esercizio dei poteri amministrativi"


Articolo 2

Il primo comma dell'articolo 113 della Costituzione è sostituito dal seguente:

"Contro gli atti della pubblica amministrazione la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti"

Il secondo comma dell'articolo 113 della Costituzione è abrogato[84].

Tutta la prima parte di questa ricerca si è fondata sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, sulle diverse interpretazioni che tale distinzione ha subito e sul ruolo che tale binomio tuttora esercita per l'individuazione delle posizioni soggettive tutelate e per la configurazione della responsabilità della P.A.

Occorre a questo punto, prima di passare all'analisi dell'ordinamento comunitario e dell'ordinamento internazionale, ripercorrere a grandi linee l'argomentazione svolta nelle pagine precedenti e proporre una soluzione.

La distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, quale strumento per il riparto di giurisdizione, nel nostro ordinamento, tra giudice ordinario e giudice amministrativo, è stata introdotta, come già detto, dalla l.5992/1889, art.3 I comma (art.24, RD 1054/1924). Ma la norma, con la quale si attribuiva al giudice amministrativo la competenza sui ricorsi "contro atti e provvedimenti (.) che abbiano ad oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici" e che faceva contemporaneamente salva, sui ricorsi stessi, la competenza del giudice ordinario, poteva in realtà essere anche interpretata come strumento di riparto fondato sull'interesse reale perseguito dal ricorrente . Invece, com'è noto, e tuttora vigente, nonostante le innumerevoli eccezioni costruite dal Legislatore e dalla stessa giurisprudenza, la norma fu interpretata come fondamento del criterio di ripartizione ex causa petendi. Il fatto che nessuna delle due giurisdizioni (né quella ordinaria né quella amministrativa) risultasse (in base a tale interpretazione) completa , in vista della tutela effettiva della posizione che si presumeva lesa, ha creato molti dei problemi evidenziati nei paragrafi precedenti, problemi relativi all'inefficienza del sistema di giustizia amministrativa così congegnato. Né il principio della degradazione dei diritti soggettivi ad interessi legittimi ha risolto il problema.

A molti è sfuggito, ed ancora non appare chiaro, come un tale criterio di riparto abbia creato una forte instabilità del sistema, data l'opinabilità della qualificazione della situazione soggettiva sottostante. A sostegno di questa tesi crediamo sia sufficiente ricordare il carico da cui la Corte di Cassazione è sommersa per il contenzioso sul riparto di giurisdizione e la strada intrapresa dallo stesso legislatore, anche e soprattutto con la l.205/2000, di spartizione per materia. E d'altra parte, come vedremo nel capitolo successivo, il criterio del Petitum sostanziale non è risultato facilmente adattabile al diritto comunitario se non, in alcuni casi, in aperto contrasto sia con i Trattati sia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee.



La giurisdizione esclusiva, introdotta già nel 1924, fu prospettata quale soluzione (ed eccezione) per quelle materie particolarmente complesse in cui era più difficile individuare correttamente la posizione soggettiva da tutelare. Eppure la stessa Costituzione del 1948 ha legittimato definitivamente il sistema; e da questa scelta dell'Assemblea Costituente discendono, in parte, gli interventi giurisprudenziali e legislativi che abbiamo descritto come lacunosi e mai definitivi.

D'altronde il sistema delle fonti non è alterabile, ed essendo la nostra Costituzione rigida, sia il legislatore, che la Cassazione come i giudici amministrativi non avevano certo carta bianca per modificare il sistema nonostante gli evidenti problemi. Affermazione, questa, che non deve essere letta quale contraddizione delle critiche emesse contro tali soggetti istituzionali, né come giustificazione, ma semplicemente come la constatazione di un limite oggettivo alla ristrutturazione complessiva del sistema di giustizia amministrativa.

L'ultimo tassello della lenta metamorfosi della tutela delle posizioni soggettive nei confronti della P.A. è stata la l.205/2000, fondata anch'essa su un'eccezione, anzi sull'eccezione predisposta dall'art.113 Cost., nella parte in cui ammette la giurisdizione esclusiva nelle "materie indicate dalla legge", anzi in "particolari" materie individuate per legge. Da un'eccezione concessa, il legislatore ha creato altre eccezioni al sistema di giustizia confondendo, se ancora era possibile, il quadro.

In ogni caso ha mostrato timidamente il suo orientamento a favore di una definitiva ripartizione per materia, orientamento che la stessa Corte di Cassazione aveva colto, con la Sentenza 500/99, rispetto al D.Lgs.80/98.

Il progetto di L.Cost. n.7465 non giunge quindi inaspettato, oltre al fatto che anche la Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, nel testo mai giunto alle Camere, aveva predisposto l'art.119 in cui si prevedeva di affidare, al giudice amministrativo, la competenza "sulla base di materie omogenee indicate dalla legge, riguardanti l'esercizio di pubblici poteri"[87]

Se gli argomenti fin qua esposti sono quantomeno strutturati su di un nesso logico-giuridico, allora appaiono chiare le motivazioni di fondo del progetto presentato da Cerulli Irelli.

Affinché si giunga ad un completo riparto per materia, dobbiamo modificare la fonte primaria dell'ordinamento, essendo questa il limite ed il riferimento delle altre fonti normative nonché della funzione giurisdizionale nel suo complesso. Le modifiche proposte agli articoli 103 e 113 non creano inoltre alcun problema di coordinamento con l'articolo 24, quale norma primaria che sancisce il diritto, universalmente riconosciuto, di agire in giudizio; letteralmente al primo comma :

"Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento"

La distinzione, ivi contenuta, tra interessi legittimi e diritti soggettivi, non è infatti una contrapposizione , ma il riconoscimento, il più ampio possibile, del principio che vedremo ribadito dagli artt.6 e 13 della CEDU nonché dalla Carta Europea dei Diritti dell'Uomo all'art.47.

La dizione "interessi legittimi" contenuta nell'art.24 Cost. non fa altro che ribadire la validità e l'estensione del principio enunciato dall'articolo stesso anche per le controversie riguardanti la P.A. Modificando gli articoli 103 e 113 il binomio, interesse legittimo - diritto soggettivo, permane sì in Costituzione, ma quale ponte per una sempre maggiore tutela anche e soprattutto verso la P.A., e non più quale limite o fonte di ingiusti margini di irresponsabilità ed immunità a favore della c.d. quarta funzione. Scomparirebbe così il criterio di riparto di giurisdizione fino ad ora criticato, con tutti i dubbi di legittimità che ancora si trascina.

Il fine ultimo è quello di affidare al giudice amministrativo tutte le controversie in cui la P.A. abbia agito nell'ambito dei pubblici poteri (salvo specifiche previsioni di legge). Quando la P.A. agisce quale soggetto comune, ogni suo comportamento o atto avente rilevanza giuridica è lasciato alla giurisdizione ordinaria.

Resta chiaramente intatto, anche se sintetizzato nel nuovo primo comma, l'attuale secondo comma dell'art.113, anch'esso norma primaria che vieta qualsiasi limitazione o esclusione alla tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A.[88].

Se il progetto costituzionale verrà ripreso nella prossima legislatura, non solo sarebbero sanate molte delle antinomie del sistema di giustizia amministrativa interno (e ciò interessa molto da vicino i problemi affrontati in questa ricerca), ma troverebbero facile soluzione anche i problemi di coordinamento tra ordinamento nazionale, diritto comunitario ed i principi della CEDU. Problemi che, come vedremo, non sono marginali, ma che soprattutto non sono di mero interesse giuridico, toccando da vicino la tutela delle posizioni soggettive, tutela che spesso coincide con il rispetto dei diritti dell'uomo così come prevista dalla CEDU e dal diritto comunitario.




Cfr. S.Romano, "Poteri, potestà" in "Frammenti di un dizionario giuridico", Milano, 1947 e per lo studio dell'evoluzione storica del concetto di potere amministrativo A. Cerri, "Potere e Potestà", in Enc.Giur., Roma, 1990.

Cfr. G.Guarino, "Atti e Poteri Amministrativi" in Dizionario Amministrativo, Milano, 1983.

In realtà attualmente anche tale discrezionalità è fortemente posta in discussione, almeno per ciò che riguarda la sindacabilità o meno da parte del giudice. L'argomento è ben approfondito attraverso il commento della sentenza del Consiglio di Stato , Sez.IV, n.601/1999 e della nuova l.205/2000 da L. Ieva, "Valutazioni tecniche e decisioni amministrative", in Giust.it, n.11/2000.

Da non confondere in alcun caso con gli atti dichiarativi, in cui effettivamente non c'è nessuna discrezionalità per la Pubblica Amministrazione, ma non c'è neanche l'utilizzo di alcun potere. Si tratta di atti meramente dichiarativi e quindi non di esclusiva competenza della P.A.. In ogni caso non producono alcun effetto, si limitano ad accertare la realtà dei fatti, e permangono sotto le norme di diritto comune, così come la loro impugnazione va attivata presso il giudice ordinario.

Ancora differenti sono i c.d. poteri certificativi, finalizzati solo alla creazione di certezza su di un fatto o un rapporto.

Un tale statuto riassume l'insieme di regole, così come identificate da Cerulli Irelli, "Corso di diritto amministrativo", op.cit.

Cfr. C.Mortati, "Note sul potere discrezionale", Roma, 1936.Una visione innovatrice invece in L.Benvenuti, "La discrezionalità amministrativa", Padova, 1986.

Cfr. le diverse ma complementari definizioni di potere discrezionale e merito che V. Cerulli Irelli da prima in "Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità", in Dir.Proc.Amm., 1984, pp. 459 e ss. e poi in "Corso di diritto amministrativo", op.cit.

Vedi V.Onida, "La discrezionalità amministrativa ed il sindacato giurisdizionale", in Giorn.Dir Amm., 1995, pp. 669 e ss.

Per una esegesi più approfondita dei meccanismi di giustizia amministrativa, vedi P.Virga, "Diritto amministrativo", Vol. II, Milano, 1999 e M.Nigro, "Giustizia Amministrativa", Bologna, 1994.

L'evoluzione storica segue le tappe indicate da P.Virga, "Diritto amministrativo", vol. II, op.cit .

Al giudice ordinario furono così affidate tutte le controversie sia tra privati che tra pubblici e privati. Furono aboliti i Consigli del Contenzioso. Restavano operativi la Corte dei Conti e il Consiglio di Stato.

Le ragioni del fallimento furono plurime: innanzitutto vi era all'epoca una profonda omogeneità tra la magistratura e la burocrazia, il che si rifletteva in una carenza di indipendenza da parte dei giudici, una sorta di spirito di gruppo che impediva un controllo severo ed efficace; ma vi erano anche motivazioni strettamente giuridiche, infatti, secondo l'impostazione di allora il provvedimento illegittimo produceva comunque i suoi effetti e, superato il controllo preventivo della Corte dei Conti, trasformava il diritto soggettivo sottostante in interesse legittimo passibile di tutela solo attraverso il ricorso amministrativo. La Legge abolitiva del contenzioso aveva in sostanza lasciato l'operato della Pubblica Amministrazione senza un controllo giudiziario efficace. Solo con la caduta della destra, comincia "la c.d. battaglia per la giustizia nell'Amministrazione" ( Cfr. Spaventa).

Cfr. S.P.Panunzio, "Il ruolo della giustizia amministrativa in uno stato democratico", in Pol.Dir., 2000, pp.1 e ss.

Come ebbero a dire M.Hauriou e L. Duguit già all'inizio di questo secolo.

Sulla compatibilità tra le due funzioni, si è discusso molto, soprattutto in sede di Bicamerale: se la Pubblica Amministrazione deve essere indipendente dal potere esecutivo, come può il Giudice amministrativo di ultimo grado essere contemporaneamente organo consultivo del Governo? Le proposte avanzate prevedevano l'istituzione di una Corte di Giustizia Amministrativa, giudice indipendente dall'apparato politico-esecutivo, relegando il Consiglio di Stato ad organo consultivo del Governo. Si tratta ancora oggi di un problema reale, che ha attirato l'attenzione anche della Corte di Strasburgo, in relazione all'articolo 6 della Convenzione che l'ha istituita; nel 1995 la stessa Corte, con la sentenza Procola, ha accusato il Lussemburgo di violazione del citato articolo 6 nella misura in cui il Consiglio di Stato del piccolo Stato rivestiva contemporaneamente funzioni consultive e giurisdizionali, pregiudicando la tutela dei cittadini.

Nel 1997, durante le consultazioni che accompagnarono la fine della Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali, lo stesso Presidente del Consiglio riconosceva l'inadeguatezza di un simile riparto. Cfr. Atti della Bicamerale, presso il sito del Parlamento Italiano.

Non a caso la stessa Corte Costituzionale, nella Sentenza 419/1995, aveva indicato nel secondo comma dell'articolo 113, il presupposto per sviluppare una tutela effettiva ed immediata del cittadino, perché, sottolinea la Corte, è proprio la Costituzione a non ammettere limiti per la tutela giurisdizionale contro la P.A., né individuando particolari mezzi di impugnazione, né individuando alcuni atti.

Non stiamo trascurando la sentenza numero 500/1999 della Corte di Cassazione, né la recente legge 205/2000. Per analizzare entrambe e le conseguenti modifiche è necessario analizzare le problematiche a cui con questi interventi si è tentato di dare risposta.

In particolare le Sentenze 146/1987 e 190/1985.

Una volta tanto potremmo sfruttare come ammonimento sentenze emesse dalla Corte di Lussemburgo che hanno colpito altri paesi le cui problematiche ci assomigliano molto: ad esempio la sentenza del 19/9/1996, c-236/95 di condanna della repubblica Ellenica; oggetto della sentenza era il ritardo nella recezione di una direttiva sugli appalti, ma ciò non ha impedito alla Corte di dare una severa occhiata al sistema di giustizia amministrativa greco, rilevando molte delle carenze che già abbiamo evidenziato nel nostro.

Cfr. M.Nigro, "Ma cos'è allora questo interesse legittimo?", in Foro.it, 1987, pp. 231 e ss.

Cfr. Eccellenti autori come P.Virga, S.Romano, V.Caianello e A.Romano.

Per l'impostazione iniziale dello sterminato argomento dell'interesse legittimo, A.Piras, "Interesse legittimo e giudizio amministrativo", Milano, 1962.

A sostenere fortemente la validità dell'interesse legittimo, anche contro il diritto soggettivo vedi tra gli altri, G.Virga, "La rivincita dell'interesse legittimo", in Giust.Amm., 1990, pp. 83 e ss.

Tale considerazione non vuole in alcun modo contraddire o ignorare il fatto che tutti i maggiori studiosi del diritto amministrativo in Italia, da Giannini a Cerulli Irelli e Virga indicano come nascita dell'interesse legittimo il 1889, collegandolo al contesto "giudiziario" che coinvolse il Consiglio di Stato (la legge Crispi n.5992 del 1889 istituisce infatti la IV sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato con competenza generale di legittimità per il sindacato degli atti amministrativi lesivi di interessi legittimi). La concezione della Costituzione come punto di partenza è semplicemente più utile nell'ambito di questa ricerca.

Il commento dell'ordinanza prende spunto dalla nota allegata di G.Virga, in Dir.Amm, 1997, pp.325

Vedi per tutti P.Virga, "Diritto amministrativo", Vol. I e II, op.cit.

Cfr. Ordinanza n.867 del 21/07/1988: "(.) Il riconoscimento di un interesse legittimo a riguardo appare idoneo a garantire adeguata tutela alla posizione soggettiva degli interessati ai quali, con ricorso agli organi di giustizia amministrativa, è assicurato il controllo giudiziale della legalità dell'azione dell'amministrazione (scolastica), attraverso la valutazione dell'esercizio della discrezionalità amministrativa, e ove ne ricorrano le circostanze, l'annullamento degli atti illegittimi, accompagnato dalla possibilità di tutela cautelare, in fase di sempre più incisiva espansione, in un ambito di esclusiva pertinenza del giudice amministrativo."

In tal senso confronta P. Virga, A. Romano, Cannada Bartoli, A.Schreiber.

Con questi termini intendiamo identificare delle caratteristiche generali di un qualsiasi strumento giurisdizionale: la rapidità indica la velocità della risposta data dall'ordinamento ad una posizione che si reputa lesa, con adeguatezza la predisposizione di mezzi idonei a garantire una risposta quanto più "giusta" e quanto più conforme alle norme ed ai principi posti dall'ordinamento giuridico, e con la previsione di mezzi idonei a garantire un'effettiva soddisfazione dell'interesse effettivamente leso. (Cfr. G. Virga, " La rivincita dell'interesse legittimo" saggio cit.)

Negazione, come vedremo, spesso incrinata dalle funamboliche teorie dell'affievolimento elaborate dalla stessa Cassazione prima del 1999)

Il commento all'ordinanza segue la Nota allegata di A.Angeletti, in Foro Amm., 1998, pp.261.

La teoria dei diritti affievoliti qui esposta è tratta da A.Sandulli, "La proporzionalità dell'azione amministrativa", Padova, 1998.

Il riferimento che la Corte fa all'articolo 13 della legge 142 del 1992 concreta semplicemente un argomento ad adiuvandum teso a dimostrare che anche per il legislatore quando vi è la giurisdizione del giudice ordinario ai fini dell'azione risarcitoria la previa definizione da parte del giudice amministrativo dell'illegittimità dell'atto costituisce antecedente logico-giuridico.

In ciò incorrendo certamente in errore; il problema in oggetto era costituito dalla risarcibiltà degli interessi legittimi, ove il giudice avesse sospeso il processo ai sensi dell'art.295 CPC avrebbe dovuto affermare che gli interessi legittimi pretensivi erano risarcibili, mentre il dato testuale, almeno come interpretato dalla Cassazione lo nega.

Se ci limitiamo a considerare la norma in questione non sono rintracciabili elementi di novità per quel che concerne la risarcibiltà dell'interesse legittimo. Ma se consideriamo le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva sulla base delle indicazioni contenute negli articoli 33 e 34, cui rinvia l'articolo 35, ci rendiamo conto che talune di queste controversie riguardano ipotesi in cui vengono in questione interessi legittimi. A mero titolo di esempio si veda le controversie di cui alla lettera e) del secondo comma dell'articolo 33 secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici e di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti all'applicazione della norma comunitaria o della normativa regionale e nazionale. Oppure le controversie devolute dall'articolo 34 aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia di urbanistica ed edilizia. In entrambe le ipotesi, secondo costante giurisprudenza, le situazioni soggettive lese consistono o possono consistere in interessi legittimi.

E' infatti da questo secondo aspetto che è possibile costruire un collegamento con la successiva l.205/2000; la legge citata sembra in parte tentare un riassetto del sistema di giustizia amministrativo dopo l'intervento delle Sezioni Unite. L'argomento sarà trattato più avanti.

Un primo significativo passo in questa direzione è rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità anche dei diritti relativi, e successivamente di diritti che soggettivi non erano, quale ad esempio la perdita di chances. In questo senso molte sono le sentenze di riferimento, tra cui n.174/1971, 2105/80, n555/1984, n.781/1992 e la n.4752/1993.

Vedi Sent.n.500/1999, punto 5 della Motivazione.

Come giustamente ribadiscono anche le Sezioni Unite, non rilevano qui le diverse qualificazioni che sono state attribuite all'interesse legittimo a fronte anche dei diversi poteri esercitabili dalla P.A., ciò che interessa è la tutela riconosciuta alla situazione giuridica quale categoria generale: la risarcibilità o meno è principio a priori, se poi il caso concreto rientri o meno nella fattispecie sarà compito del giudice stabilirlo. Ciò che qui interessa è la risarcibilià dell'interesse legittimo, quali e quanti siano gli interessi legittimi è altra questione.

La Corte si riferisce in particolare alla l.142 del 1992, ovvero la norma di recepimento della direttiva comunitaria sugli appalti, la n.665/89. L'articolo 13 della l.142/1992 prevedeva infatti il risarcimento a favore dei soggetti che avessero subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavoro o fornitura. (Articolo abrogato poi dall'art.5 del D.Lgs.80/1998).Larga parte della dottrina aveva prospettato un'estensione analogica del principio comunitario a situazioni soggettive interne simili: la Corte di Cassazione ribadì che la norma contenuta nell'Art.13 della l.142/1992 aveva carattere eccezionale, quindi non estendibile.

La stessa Corte afferma che "Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori. Caratteristica del fatto illecito delineato dall'art.2043, inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione è infatti la sua atipicità. Compito del giudice è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché la sola lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un danno ingiusto (..)".

Confronta, Sentenza 500/199, numero 11.

Cfr. A. Bonasi , "La responsabilità dello Stato per gli atti dei suoi funzionari", in Riv.Ita.Sc.Giur., 1886, pp.3 e ss.

Abbiamo già analizzato le innovazioni apportate tramite il decreto legislativo 80 del 1998, innovazioni per materia, ma supportate obiettivamente da una regola generale. Rileva ai fini di una ricostruzione dell'evoluzione, la normativa che prevede il risarcimento del danno derivante da violazione di norme comunitarie in tema di appalti ( l. 142/1992 e successive modifiche). Pur avendo la Cassazione precedentemente sentenziato per la tassatività della previsione, imposta da direttive comunitarie ma ritenuta dalla stessa Corte una sorta di deroga ai principi dell'ordinamento italiano, la norma assume rilevanza significativa in questo momento di revisione dell'orientamento giurisprudenziale, tenuto conto del primato incontroverso dell'ordinamento comunitario.

E cioè mero interesse ad impugnare l'atto amministrativo illegittimo per ottenere l'annullamento.

Cfr. tra le altre, alcune sentenze della stessa Cassazione: n.1330/1951, n.2348/1961, n.1876/1977 e la 2041/1991.

Cfr. M.Nigro, "La responsabilità per lesioni di interessi legittimi", in Foro Amm., n.1, 1982, pp.215 e ss.

Ci si riferisce alle celebri Sentenze Francovich, alle successive Factortame II e Dillenkofer.

Quasi contemporaneamente le Sezioni Unite della Cassazione affermavano nella Sentenza n.1617/1995 che la mancata attuazione da parte dello Stato di una direttiva comunitaria non può costituire un fatto illecito, essendo l'attività legislativa caratterizzata da piena e assoluta discrezionalità, sussistendo, tutto al più, un obbligo di indennizzo.

Vedi ordinanza commentata nelle pagine precedenti.

Tra gli altri confronta A. Piras, "Interesse legittimo e giudizio amministrativo", op.cit. e P.Virga ., "La tutela giurisdizionale nei confronti della Pubblica Amministrazione", Milano, 1982.

Vedremo in seguito se la successiva l.205/2000 è stata all'altezza delle aspettative.

Vedi il caso dell'accessione inversa, ora oggetto di una Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'uomo (Vedi sentenze in commento nel Capitolo IV).

Per l'assetto precedente alla Sentenza 500/99 della Cassazione, vedi R.Caranta, "La responsabilità extracontrattuale della Pubblica Amministrazione", Milano, 1997.

Le conseguenze apportate dalla 500/99 sono state studiate seguendo, per l'assetto precedente la sentenza, tra gli altri M.Cafagno, "La tutela risarcitoria degli interessi legittimi", Milano, 1996.

In senso contrario si segnala R.Caranta., "La responsabilità extracontrattuale della Pubblica Amministrazione", op.cit.

Cfr. art.7, legge TAR, come modificato dall'art.35, IV comma, D.Lgs. numero 80 del 1998 che conferisce, in maniera espressa, al giudice amministrativo, nei settori dell'edilizia, dei servizi pubblici e dell'urbanistica, oltre alla consueta potestà di annullamento dell'atto impugnato, la facoltà di disporre la reintegrazione delle conseguenze patrimoniali dannose.

Vedi L.Moscarini, "Risarcibilità di interessi legittimi e termini di decadenza", in Giust.it, 2000, pp.21 e ss.

Anche se, come vedremo in seguito, neanche il Legislatore, con gli ultimi interventi normativi sembra aver l'intenzione di porre in essere una riforma razionale del sistema di giustizia amministrativa (vedi i successivi commenti alla l.205 del 2000), carenza che si ripercuote sull'intero sistema.

Quale excursus storico interpretativo si vedano tra gli altri: M.R. Morelli, "Il muro virtuale della irrisarcibilità degli interessi legittimi", in Giust.Amm., 1999, I, pp. 247 ss.

Cfr. A.Angeletti, "Responsabilità della pubblica Amministrazione in Italia e in diritto comparato", in Digesto, XIII vol., Torino, 1997.

Cfr. F. Bassi, " Diritti fondamentali e art.4 della l.2248/1865", in Dir Amm., 1988, p.606 ss.

In questo senso, ovvero di una tutela più completa di fronte al giudice ordinario confronta A. Caianello, "Diritto processuale amministrativo", Torino, 1994.

In tal caso sarebbe valutabile in termini di negligenza o imperizia.

In tal senso vedi Sentenza n.5883/1991.

Tale articolo recita: "l'attività amministrativa è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità secondo le modalità previste dalla presente legge".

Cfr. Sentenza TAR Puglia, n.418 del 1999 in cui il giudice amministrativo regionale ribadisce " la pronuncia di annullamento come un presupposto giudiziale indispensabile per procedere all'accertamento del danno".

Cfr. S.Giachetti, "La riforma infinita del processo amministrativo", in Giust.it, 2000.

Vedi anche G.Barballo, "La riforma del processo amministrativo. Le norme organizzative", in Giorn.Dir.Amm.,2000, pp. 1104 e ss.

Norma (D.L. 67/97) destinata ad essere applicata però ad un ambito di materie più limitato, cioè quello delle controversie in materia di opere pubbliche.

Non poche conferme nascono da riferimenti univoci che il testo fornisce, quali, nella lettura coordinata dell'articolo 7 della l.1034/1971, l'abrogazione dell'articolo dell'articolo 13 l.142/1992 che di eccezionale risarcimento dell'interesse legittimo per costante giurisprudenza si occupava, e la contestuale, quanto superflua per inesistenza dell'oggetto, eliminazione di ogni altra disposizione che all'AGO attribuisca le questioni afferenti il risarcimento dei danni da atti illegittimi.

Per organicità di lettura, non sembra possibile negare che la norma abbia voluto fissare i criteri fondamentali per il procedimento incidentale, coprendo ogni margine di dubbio e non casualmente riferendosi ad ogni ipotesi di conflitto, compresa fra le ipotesi estreme della esecutorietà dell'atto e, all'altro capo, del comportamento inerte.

Sopravvissuta del resto nel solo ricorso straordinario.

Tutti i commenti sulla l.205/2000 oltre agli autori già citati prendono spunto dagli Atti del Convegno "Il processo Amministrativo dopo la riforma", Palermo, 23 settembre 2000. Molti dei relatori non sono citati negli Appunti al Convegno disponibili in rete presso il sito della Facoltà di Giurisprudenza di Palermo.

Anche se poi la stessa Unione non applica al proprio ordinamento la stessa severità; come verrà approfondito più avanti esistono infatti gravi carenze di tutela dei diritti a livello comunitario proprio contro gli atti comunitari.

Con l'ovvio limite dell'ipotesi estrema di attività dovuta e vincolata ex lege, rispetto alla quale la P.A. sia addirittura rimasta inerte.

Si legga in proposito cosa dispone il combinato disposto degli articoli 3 ed 8 della legge in questione ed il rinvio che compiono al CPC.

Cfr. G.Virga, "I procedimenti abbreviati previsti dalla L.205/2000", in Giust.it, 2000.

Cfr. articolo 44 del T.U. Consiglio di Stato.

A tal proposito G.Virga, nel documento citato, prende spunto dalla Sentenza della Corte Costituzionale, n. 146/1987, che ha ritenuto ammissibili per le controversie in materia di pubblico impiego tutti i mezzi istruttori previsti nel processo del lavoro; sentenza , che nota ancora Virga, è rimasta del tutto inattuata per la mancanza di nuove forme e procedure per l'ammissione ed assunzione delle prove testimoniali.

Cfr. G.Virga , articolo citato.

Ci si riferisce alla Sentenza 172/2000 con cui si è risolto il dubbio di legittimità che circondava l'articolo in questione.

Andando avanti nella trattazione, soprattutto con riferimento al modello comunitario, speriamo di dimostrare come tutte le discussioni sulla dicotomia tra interesse legittimo e diritto soggettivo, sulla distinzione tra giudice ordinario o giudice amministrativo, siano del tutto inutili se non finalizzate al concetto sopraesposto.

Per completezza di esposizione riportiamo gli articoli così come attualmente previsti dalla Costituzione:

Art.103, I comma:

"Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi."

Art.113, I e II:

"Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.

Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti"

Interesse che può configurarsi come caducatorio ed allora la giurisdizione sarebbe spettata al giudice amministrativo, oppure risarcitorio, con la naturale assegnazione al giudice ordinario.

La tutela giudiziaria non può infatti tuttora utilizzare lo strumento dell'annullamento così come la tutela amministrativa quello risarcitorio, salvo i casi di giurisdizione esclusiva.

Cfr. Atti della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali" disponibili presso il sito della Camera dei Deputati (www.Camera.it)

Lo studio del progetto di L.Cost. qui in commento è stato con l'ausilio dei dati stenografici della seduta del 5 dicembre 2000 presso la Camera dei Deputati, giorno in cui il progetto è stato presentato e discusso in Aula.






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