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I REGIMI NON DEMOCRATICI

politica



I REGIMI NON DEMOCRATICI


Per capire e per apprezzare fino in fondo le differenze di qualità che intercorrono fra i regimi politici, è indispensabile disporre di criteri di classificazione chiari, precisi ed inequivocabili. All'inizio degli anni novanta i regimi democratici erano 58 mentre quelli non democratici erano addirittura 71. Il totale dei regimi democratici, inoltre, qualora 222i81c cambi, muta di poco. E' giusto rilevare, quindi che nel mondo, in special modo in Africa, nel Medio Oriente e in buona parte dell'Asia, i diritti dei cittadini non hanno alcuna garanzia di essere rispettati; in molti paesi i detentori del potere politico acquisiscono le loro cariche non attraverso procedimenti elettorali, ma attraverso l'uso della forza; i governanti esercitano il potere in maniera del tutto arbitraria e lo perdono, quando lo perdono, soltanto attraverso il ricorso alla forza. Tutti questi regimi con le loro peculiarità debbono essere considerati regimi non democratici. Due elementi sono comuni ai regimi autoritari e a quelli totalitari: da un lato, il tentativo coronato da maggiore o minore successo, di ridurre in maniera consistente oppure di eliminare del tutto il pluralismo politico; dall'altro, i criteri di assegnazione e di distribuzione del potere politico, che non sono mai basati sulle elezioni, comunque mai su elezioni libere, competitive, significative, ma sempre ed esclusivamente sul controllo e sul ricorso all'uso della forza. Sia i regimi autoritari che i regimi totalitari costituiscono modalità specifiche di regolazione dei rapporti di potere fra lo stato e le società, modalità risolte in assetti caratterizzati da maggiore o minore solidità a seconda delle loro origini, delle caratteristiche della loro instaurazione e delle sfide alle quali vengono sottoposti. I regimi autoritari o totalitari non hanno mai avuto una durata paragonabile a quelle di alcune democrazie, alcune delle quali sono peraltro ininterrotte (tra cui la Gran Bretagna). Dunque i regimi autoritari e, in special modo, i regimi totalitari sono, contrariamente ad opinioni diffuse, costruzioni, per quanto potenti ed oppressive, sempre fragili e precarie. Probabilmente, è proprio per la consapevolezza che il loro regime non ha basi solide che i leader autoritari fanno ricorso frequente e costante alla repressione e all'oppressione.



In letterature esistono due definizioni importanti:


quella di Linz per i regimi autoritari: sistemi a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su una ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili

quella di Brzezinski per i regimi totalitari


Le organizzazioni autorizzate a mantenere e a esercitare potere politico sono pochissime; vengono legittimate dal leader; hanno sfere riconosciute di autonomia alquanto circoscritte; non entrano in nessun modo in competizione tra loro. Sono dunque rarissime le variazioni suscettibili di fare la loro comparsa nella distribuzione del potere fra le poche organizzazioni sopravissute all'instaurazione del regime autoritario e ritenute accettabili. L'autoritarismo appare immobile per la persistenza delle stesse organizzazioni nel tempo senza concorrenza visibile. Vi è pluralismo ma solo per il fatto che esiste più di una organizzazione politicamente rilevante. Tuttavia il pluralismo non è competitivo: ad ognuna delle organizzazioni una sua parte di potere senza sovrapposizioni (che porterebbe alla competizione). Le organizzazioni sono strutturate al loro interno in maniera gerarchica: sono, per l'appunto, non responsabili. I loro dirigenti vengono cooptati fra coloro che hanno dimostrato lealtà e sostegno al leader e ai principi del regime autoritario. Le istituzioni militari, la chiesa (cattolica), la burocrazia statale, le poche , grandi associazioni di interesse ritenute accettabili dal detentore del potere politico autoritario e alle quali vengono riconosciute alcune sfere di attività specifica e di influenza autonoma sono anch'esse tipicamente autoritarie nelle loro procedure di funzionamento. Il potere fluisce dall'alto verso il basso, l'adesione al regime e l'ossequio al leader costituiscono i criteri utilizzati per selezionare i dirigenti di queste organizzazioni. Le organizzazioni stesse interiorizzano e applicano senza difficoltà tali criteri. Questa specie di pluralismo politico, per quanto limitato, serve a differenziare i regimi autoritari dai regimi totalitari, nei quali, invece, di pluralismo non ne è rimasto affatto, trattandosi di regimi monastici. L'esistenza di pluralismo politico spiega anche come mai i regimi autoritari sono riusciti e riescono a compiere una non cruenta transizione alla democrazia. Nei regimi democratici il pluralismo sarà sempre, almeno in linea di principio, illimitato, competitivo, responsabile. In un regime democratico si cercherà di eliminare le rendite di posizione, i vantaggi iniziali, l'uso di risorse improprie, fra gruppi che nascono spontaneamente e che si trasformano in virtù della responsabilità nei confronti dei loro membri  e di coloro che vogliano entrare a farne parte. Poiché Linz intende per ideologia un sistema di pensiero codificato, rigido, dotato di una logica stringente, con interpreti autorizzati che ne danno una lettura uniforme e vincolante, può formulare una distinzione abbastanza netta attribuendo ai regimi autoritari l'esistenza di mentalità, di insiemi di credenze meno codificate, meno rigide, con margini di ambiguità interpretativa, senza vestali investite di un ruolo specifico. In effetti, per Linz l'ideologia è soltanto parzialmente la formula politica di Gaetano Mosca che serve alla classe politica per mantenere il suo potere. E', al tempo stesso , un insieme di idee e un sistema di credenze diffuso fra i governati che, in vario modo, i capi del regime autoritario utilizzano, sfruttano e potenziano per ottenere acquiescenza ed obbedienza, talora, ma molto raramente, impegno attivo. La mentalità autoritaria più diffusa fa leva su una tradizionalissima triade - Dio, patria, famiglia - che si può ritrovare a fondamento di una molteplicità di esperienze autoritarie, anche a prescindere dal tipo di religione chiamata in causa, nelle quali i tre elementi costitutivi si combinano in quantità diverse a seconda del regime autoritario e delle persone. Poiché le mentalità autoritarie non sono rigide e derivano da forti componenti tradizionali sono più facilmente vulnerabili dalle sfide del cambiamento e della modernità. Dal canto loro i regimi comunisti (meno la Polonia e l'Ungheria), hanno certamente avuto a disposizione un'ideologia marxista-leninista che presentava caratteristiche di uniformità, rigidità, univocità e mirava a plasmare sistema politico e società, a fonderli. Va ricordato che il totalitarismo sovietico era tutto proiettato nel futuro, mentre nell'applicazione, per così dire, asiatica, recupera alcuni elementi tradizionali di un passato ritenuto fonte persistente di ispirazione. Il regime nazista non era attrezzato con una vera e propria ideologia, poiché il manifesto programmatico di Hitler, esposto in Main Kampf, non è in alcun modo paragonabile per consistenza, per consapevolezza e per coerenza al corpus dottrinario del marxismo-leninismo. Tuttavia, gli elementi escatologici del nazismo, la concezione del potere politico accentrato, verticistico, assoluto e il tentativo di fondare su un sistema di pensiero univoco un Reich millenario vanno oltre le semplici mentalità autoritarie e si avvicinano significativamente alla costruzione di una ideologia, sia pure caratterizzata da una commistione di elementi tradizionali e mitici con elementi moderni.

I regimi autoritari si costruiscono e si consolidano con riferimento a tradizioni politiche, sociali, culturali e religiose con base grosso modo nazionale, anche se talvolta mitica. Possiamo affermare che esistono mentalità in senso lato autoritarie, largamente simili, assimilabili e paragonabili in tempi e in luoghi, come si vedrà, anche molto diversi fra loro. Possiamo dunque affermare che i regimi totalitari esibiscono ideologie rigide ed i regimi autoritari mentalità flessibili, verrebbe quindi da dire che i regimi democratici non hanno né ideologie né mentalità, o meglio non le impongono meno che mai ufficiali. Possiamo tuttavia affermare che esiste non soltanto una mentalità democratica fatta di tolleranza per le diversità e di accettazione della competizione regolamentata e dei suoi esiti, dei conflitti e dei compromessi fra una molteplicità illimitata di attori politici, ma persino un'ideologia democratica e, naturalmente, si sono anche affermate religioni civili democratiche fatte non soltanto di diritti, ma anche di doveri. L'ideologia democratica si plasma intorno ai valori di libertà, eguaglianza, solidarietà. Per conseguire questi valori, per promuoverli e per proteggerli, i regimi democratici si affidano alla partecipazione politica spontanea dei cittadini, incoraggiandola e favorendola, ovvero semplicemente rendendola possibile e praticabile. I regimi totalitari, invece, mirano a mantenere le loro società in uno stato di mobilitazione imposta dall'alto che sia la più estesa, la più frequente e la più continua possibile: una rivoluzione permanente al fine di cambiare la società, ma anche di formare l'uomo nuovo. Nella sua definizione di regimi autoritari, Linz sottolinea che una mobilitazione estesa o intensa, mai comunque mirata a produrre una rivoluzione permanente, può caratterizzarli in alcuni momenti del loro sviluppo, soprattutto nella fase di instaurazione. Oppure la mobilitazione può diventare necessaria nel corso di sfide che vengano dall'interno, sotto forma di vera o presunta e manipolata sovversione, e dall'esterno, sotto forma di interferenze, quando appare importante rimotivare i sostenitori del regime. Una volta insediato, un regime autoritario rinuncia alle adunate oceaniche di mussoliniana memoria, spoliticizza le masse, tiene deliberatamente molto basso il grado di intervento politico esplicito e visibile nella società, favorisce, incoraggia e qualche volta esalta il riflusso nel privato. Al contrario, i regimi totalitari esigono impegno continuativo, impongono dall'alto mobilitazione frequente e intensa, cancellano i confini fra privato e pubblico, chiedono ai cittadini di devolvere alla politica tutto o quasi tutto il loro tempo libero, e non solo. I regimi totalitari si propongono di essere, in tutti i sensi, regimi di mobilitazione e temono la caduta della tensione dei loro sostenitori e, in generale, della popolazione, anche se talvolta finiscono per adattarsi a manifestazioni di consenso puramente formali e rituali. Un'ulteriore caratteristica che Linz attribuisce ai regimi autoritari è l'esistenza di un leader che esercita il potere politico entro i limiti mal definiti, essenzialmente arbitrari, eppure relativamente prevedibili. Questo leader non è l'espressione specifica di una delle organizzazioni sulle quali si fonda il regime autoritario, è piuttosto il punto di equilibrio accettabile per tutte le organizzazioni; comunque lo deve diventare. Le sue origini possono essere militari (Franco), partitiche (Mussolini), religiose (Khomeini). Nell'esercizio del potere autoritario esiste una forte componente personalistica, spesso (almeno inizialmente) con venature carismatiche, cosicché la maggior parte dei regimi autoritari dipende in maniera significativa dalla figura del loro fondatore. Proprio a causa di questa dipendenza, quando scompare il loro leader-fondatore, raramente i regimi autoritari riescono a superare la crisi di successione. Le enormi difficoltà della successione politica e del trasferimento di potere nei regimi autoritari derivano dal fatto che il leader autoritario non è più strettamente identificato con un'organizzazione specifica dalla quale faccia derivare il suo potere e all'interno della quale si possa individuare il successore, ma con situazioni che ha saputo abilmente sfruttare con doti politiche, con una combinazione di virtù e di fortuna. Quando il leader è il prodotto di organizzazioni (militare o religiosa), allora diventa teoricamente possibile, per quanto niente affatto probabile e facile, anche il superamento della crisi di successione. Laddove l'organizzazione portante del regime autoritario è costituita da un partito la crisi di successione ha maggiori probabilità di essere risolta in modo meno traumatico. Bisogna tuttavia anche dire che laddove esiste una organizzazione partitica ben strutturata, tendono a svilupparsi pulsioni e tensioni totalitarie. Il partito unico è infatti, lo strumento principale per l'acquisizione e per l'esercizio del potere politico nei regimi totalitari. L'eventuale costruzione di  un partito solidamente strutturato che monopolizzi il potere segnala quanto meno il tentativo di passaggio da un regime autoritario ad un regime totalitario e verrebbe osteggiata da tutte le altre organizzazioni del pluralismo limitato. Il potere del leader, in un regime autoritario, non riuscirà mai a diventare completamente arbitrario, poiché creerebbe troppi contraccolpi sia nel ristretto circolo dei collaboratori del leader, dove almeno alcuni probabilmente gli resisterebbero, sia nella più ampia configurazione delle organizzazioni autoritarie, che si sentirebbero minacciate nella loro limitata, ma effettiva autonomia. In un regime totalitario, invece, l'arbitrarietà del potere non ha limiti ed il leader può fare anche ricorso al terrore. Il terrore è l'essenza del potere totalitario. Per quanto alcuni autori ritengano che il terrore caratterizzi i regimi totalitari soltanto nella fase di instaurazione e di consolidamento e che i regimi totalitari maturi non ne avranno bisogno e non vi faranno ricorso, esiste anche una letteratura che sostiene il contrario, vale a dire la presenza del terrore, sotto forme diverse e meno visibili, ma non per questo meno reali, anche nel totalitarismo consolidato. Va ricordato che il terrore psicologico continuerà a persistere anche in assenza di esercizio attivo del terrore politico e a influenzare in maniera decisiva la vita quotidiana nei regimi totalitari. In Cina, le ondate di attività terroristiche furono minuziosamente preparate, incoraggiate ed alimentate dall'alto. Non furono esplosioni irrazionali di gruppi svantaggiati e ideologizzati. Al contrario, furono il prodotto di scelte razionali di attori consapevoli che perseguivano obiettivi individuali e che intendevano svolgere funzioni positive per il regime: rimobilitazione di gruppi a sostegno del regime, ricambio delle classi dirigenti, orientamento di energie collettive verso l'industrializzazione. Fisichella è pervenuto a considerare come caratteristica fondante dei regimi totalitari l'esistenza ovvero la costruzione di un universo concentrazionario. Questo universo non è soltanto una istituzione penale, creata per la punizione e la repressione di delitti e crimini, ma piuttosto una struttura politica per lo sradicamento del tessuto sociale mediante lo strappo e la cancellazione della società di interi settori e gruppi. Naturalmente, in regimi totalitari consolidati la necessità di un effettivo universo concentrazionario può essere relativamente contenuta seppur mai del tutto assente.

I regimi totalitari sono caratterizzati dall'esistenza di una ideologia ufficiale: un insieme di idee ragionevolmente coerenti che riguardano i mezzi pratici per cambiare totalmente e per ricostruire una società con la forza e con la violenza, fondata su una critica globale o totale di quel che è sbagliato nella società esistente o antecedente. L'ideologia totalitaria e, in qualche modo, utopica ed escatologica, vale a dire orientata alla definizione e al conseguimento di  fini ultimi da realizzarsi al di fuori e al di là dell'esistente. Secondo Friedrich e Brzezinski le altre caratteristiche distintive dei regimi totalitari sono:


la presenza di un partito unico

una polizia segreta notevolmente sviluppata

il monopolio statale dei mezzi di comunicazione

il controllo centralizzato di tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali, fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica

la subordinazione completa delle forze armate al potere politico


a questo riguardo va ricordata la famosa frase di Mao: il potere esce dalla canna del fucile, ma è il partito che controlla il fucile. E' importante sottolineare un aspetto di enorme rilievo per il mantenimento del potere totalitario: il monopolio statale dei mezzi di comunicazione (Goebbels, Stalin). Qualsiasi tipo di comunicazione non controllata e non censurata del regime può, infatti, produrre verità alternative in conflitto con quella ufficiale del regime. Di qui la grande paura degli scrittori come oppositori visibili e temibili dei regimi totalitari. Il concetto di totalitarismo non è stato facilmente accettato nella scienza politica e continua a rimanere piuttosto controverso. I suoi critici, in particolare Spiro e Schapiro, sono giunti fino a dichiararlo del tutto inutilizzabile perché legato alla guerra fredda e all'uso ideologico che ne è stato fatto contro i regimi comunisti. Cosicché, quello di totalitarismo sarebbe un concetto storicamente caduco e scientificamente inservibile. In verità, quanto alla sua origine, totalitarismo non è sicuramente un termine nato con la guerra fredda. Infatti, venne utilizzato per la prima volta dai critici e dagli oppositori liberali del fascismo italiano, che presentava alcune caratteristiche ovvero, meglio, tendenze totalitarie. Come si sa il fascismo non fu mai totalitario ed il nazismo nacque più di un decennio prima della guerra fredda. Tenendo fermo l'elemento cruciale del terrore, anche nella sua versione di universo concentrazionario, gli autori che analizzano i regimi totalitari hanno cura di sottolineare due fattori coadiuvanti indispensabili:


un grado di sviluppo tecnologico che consenta al controllo terroristico totalitario di dispiegarsi pienamente

la presenza di un partito unico organizzato in maniera da applicare questo controllo terroristico con estesa e profonda capillarità


Invece, la proprietà dei mezzi di produzione e la nazionalizzazione dell'economia non sono essenziali poiché quello che conta è chi comanda. Un'economia può rimanere capitalista e privata, per quanto fortemente concentrata, come quella nazista, ma essere indirizzata dal politico e, dunque, avere caratteristiche molto simili all'economia di comando caratterizzante i sistemi politici comunisti.

La varietà dei regimi totalitari è molto grande. Lasciando da parte, ma solo momentaneamente, i casi di autoritarismi tradizionali di tipo sultanistico, ovvero legati a caudillos, Linz ne distingue e ne enumera essenzialmente sei:


regimi autoritari modernizzati (Messico e Turchia a partire dalla prima guerra mondiale)

regimi fascisti

regimi di statismo organico con forte presenza di elementi clerico-fascisti

regimi autoritari emersi dopo la seconda guerra mondiale come presunte democrazie guidate dall'alto (Indonesia di Sukarno e il Pakistan)

regimi di presunto socialismo africano o islamico

regimi autoritari post-totalitari comunisti (non quelli derivanti dal crollo del comunismo, ma da sue trasformazioni post-staliniste)


Più di recente, Linz e Stepan hanno proposto una classificazione ancora più parsimoniosa e puntuale dei regimi non democratici:


regimi autoritari

regimi totalitari

regimi post-totalitari

regimi sultanistici


La categoria dei regimi sultanistici è tratta dall'analisi che Weber fece del patrimonialismo. Con il sorgere di un apparato amministrativo e militare puramente personale del detentore del potere, ogni potere tradizionale inclina al patrimonialismo e, con l'estremo ampliarsi del potere, al sultanismo.La forma sultanistica del patrimonialismo.non è razionalizzata in modo oggettivo, ma costituisce l'estremo sviluppo della sfera dell'arbitrio libero e della grazia. Per questo essa si distingue da ogni forma di potere tradizionale. E' vero che sono esistiti diversi autoritarismi di tipo sultanistico poi venuti meno, ma alcuni casi di sultanismo sopravvivono tuttora. Linz e Stepan menzionano esplicitamente esempi storici diversi ma tutti relativamente recenti: la Repubblica Centro-Africana di Bokassa, le Filippine di Marcos, l'Iran dello Shah, la Romania di Ceausescu, la Corea del Nord di Kim Il Sung, Cuba sotto Batista, il Nicaragua di Somoza, lo Zaire di Mobutu e l'Iraq di Saddam Hussein. Gli autoritarismi di tipo sultanistico non hanno nessuna ideologia in qualche modo elaborata e coerente; non hanno neppure mentalità distintive. Sono le idee del leader, talvolta raccolte in volumi, che definiscono i limiti dell'accettabilità e della variabilità delle posizioni politiche all'interno del regime. Gli autoritarismi sultanistici non necessitano di alcuna forma di mobilitazione dei sudditi. Essi distruggono qualsiasi pluralismo esistente prima della conquista del potere da parte del sultano, della sua famiglia e di un ristretto numero di collaboratori, che rimangono, peraltro, essi stessi del tutto esposti all'arbitrio e al capriccio del leader. I regimi sultanistici cancellano le differenze fra il privato e il pubblico per quanto riguarda la sfera di attività e di proprietà del leader. Dai sultanismi non riesce a sprigionarsi nessuna dinamica di transizione alla democrazia, poiché per lo più, questi regimi giungono a termine con la scomparsa del sultano, per morte naturale o per assassinio in seguito ad una congiura di palazzo; oppure, se le forze armate sono più forti della milizia personale del leader e sufficientemente compatte, in seguito ad un colpo di stato militare. Quel che importa ribadire è che i regimi sultanistici presentano caratteristiche peculiari e distintive, legate alla figura del leader e al contesto nel quale egli si trova ad acquisire il potere, e che la loro strutturazione, la loro dinamica, la loro trasformazione sono nettamente diverse da quelle dei regimi autoritari classici, come definiti da Linz.

Linz e Stepan individuano e definiscono tre sottocategorie di regimi in base allo stadio di post-totalitarismo cui sono pervenuti, vale a dire all'evoluzione dei rispettivi regimi già totalitari rispetto alle caratteristiche del pluralismo, dell'ideologia, della mobilitazione e della leaderhip.

I regimi di post-totalitarismo iniziale sono quelli che hanno appena intrapreso il processo di cambiamento. Essi non sono evoluti rispetto alle quattro caratteristiche costitutive appena ricordate, tranne che per un aspetto. La loro leadership non può più essere carismatica, poiché non è più quella del fondatore del regime, ma si è sostanzialmente trasformata in leadership burocratica ed è diventata spesso collegiale. Di conseguenza, esistono dei limiti più consistenti al dispiegarsi del potere personale del leader. Tuttavia, in assenza di significativi cambiamenti nell'autonomia dei gruppi, la transizione dei regimi di post-totalitarismo iniziale alla democrazia si presenta comunque difficile e complicata; alquanto improbabile senza una rottura sistemica. E' il caso della Corea del Nord.

Più importanti sono i mutamenti che caratterizzano il post-totalitarismo congelato, poiché comportano anche la tolleranza di alcune attività critiche della società civile che sono suscettibili di tradursi nella comparsa di gruppi ed associazioni. Tuttavia, il regime post-totalitario congelato mantiene intatto o quasi l'insieme dei suoi meccanismi di controllo. Dunque, la possibilità e il ritmo di transizione saranno segnati proprio dalla dinamica della comparsa dei gruppi e delle associazioni e dallo scongelamento del controllo del partito sulla società.

Infine, nel post-totalitarismo maturo soltanto il ruolo del partito come componente cruciale del regime non viene ancora messo in discussione. Tutte le altre componenti, l'ideologia, che è diventata tanto ripetitiva quanto irrilevante, talvolta accompagnata oppure resa obsoleta dalla comparsa di elementi tecnocratici; la mobilitazione, che si è ripiegata su se stessa ed è sostanzialmente inaridita e terminata; il neo-pluralismo sociale, che viene quantomeno tollerato, ma che non trova sbocchi politici, sono profondamente cambiate. Nel momento in cui il partito, per ragioni diverse, talvolta anche per eccesso di fiducia nei suoi mezzi, nel suo radicamento e nell'illusione di un consenso acquisito per conformismo, ovvero, più di frequente, al contrario, per timore di essere spazzato via, decide di misurare il suo potere con altre forze politiche e sociali, la transizione diventa possibile (non sembra essere il caso della Cina causa Tien-an-men del 1989).

Secondo Linz e Stepan, è di decisiva importanza non confondere il processo di riattivazione del pluralismo nei regimi che da autoritari iniziano la transizione verso la democrazia con il processo che porta alla nascita di un nuovo, per lo più inusitato, spesso, in precedenza, mai esistito, pluralismo dopo l'esperienza totalitaria. Non soltanto questo secondo processo è molto più complicato del primo, ma si sviluppa in maniera alquanto differenziata a seconda dei rapporti che si instaurano tra i gruppi che si organizzano nella società e quelli che, tentando di trasformarsi, mantengono parte del potere acquisito nell'ambito delle istituzioni del regime totalitario. Nei regimi autoritari, il pluralismo limitato si trasforma, diventando responsabile di fronte ai suoi componenti, allargando le sue maglie e facendo posto a nuovi gruppi sociali ed economici.

Nei regimi totalitari, il pluralismo può emergere quando fa la sua comparsa una dialettica potere politico/società, che finisce per incrinare il regime totalitario e che si manifesta sotto tre forme diverse:









può essere il prodotto di una scelta consapevole della leadership totalitaria che mira a mantenere il potere controllando il grado di apertura del regime

può derivare da un inarrestabile decadenza delle componenti totalitarie: un'ideologia che si svuota, una mobilitazione che diventa puro rituale burocratico, la comparsa di sacche di resistenza al partito o di isole di relativa autonomia, l'invecchiamento della leadership

il post-totalitarismo può essere il prodotto di una conquista sociale ad opera di gruppi che, per ragioni diverse, si erano visti riconoscere qualche spazio di organizzabilità nella sfera economica e socio-culturale, oppure lo avevano gradualmente conquistato, non come attori autonomi, ma come articolazioni consentite dal partito unico: scrittori, scienziati, manager, persino dirigenti politici nelle federazioni di partito e nei governi locali.


Naturalmente, le prospettive di una transizione che conduca a regimi democratici relativamente consolidati sono di gran lunga migliori laddove il post-totalitarismo sia stato conquistato dalla società come, ad esempio in Ungheria e di gran lunga peggiori quando la decadenza delle strutture totalitarie si traduce, in assenza di alternative praticabili, in un vero e proprio collasso del regime (come in URSS prima e dopo Gorbaciov). Tuttavia se un regime implode non potrà più tornare in vita e non necessariamente sfocerà in un regime democratico stabile. In alcune condizioni potrà sfociare in un regime sultanistico sia, più probabilmente, in un regime autoritario di pluralismo limitato e non responsabile (metà anni novanta per alcuni paesi dell'Europa centro-orientale e delle ex repubbliche sovietiche). Indietro non si è in grado di tornare; avanti, verso un regime di pluralismo competitivo, non sanno, non vogliono e non riescono ad andare per le possenti resistenze dei gruppi privilegiati sotto il precedente regime e non del tutto sconfitti.

In generale, si può affermare che, nel corso dell'allargamento del suffragio e dell'espansione della partecipazione politica, si producano tensioni fra i gruppi sociali già collocati all'interno del sistema politico in posizione di rilievo, vale a dire i detentori del potere, e gruppi sociali relativamente, ma non completamente, emarginati, cioè non del tutto privi di risorse, che definiremo sfidanti. Lo scontro può anche portare alla transizione alla democrazia se i detentori del potere sono abbastanza forti e abbastanza intelligenti da controllare tempo e ritmo delle concessioni politiche. Se no, ha luogo la fase autoritaria. A tutela dei loro interessi, i detentori del potere debbono quindi dar vita ad un vero e proprio regime autoritario con la collaborazione di tutte le istituzioni e di tutte le organizzazioni che si sentano minacciate da una democratizzazione incombente, disordinata, sregolata. Al contrario si può avere un processo di democratizzazione. Dall'altro lato, i regimi autoritari risultano essere il prodotto di una democratizzazione tentata in maniera troppo rapida, rimasta incompiuta e ripiegatasi su se stessa. In particolare, sulla scia della prima guerra mondiale, le domande di partecipazione e di influenza politica provenienti dalle masse mobilitate, e fino ad allora tenute fuori dal sistema politico, andarono oltre i limiti che i detentori del potere reale, economico, burocratico, militare, erano disposti ad accettare. Si innescò, come disse Gramsci, il sovversivismo delle classi dirigenti che facilitarono il rovesciamento della nascente democrazia. In altri casi, infine, il potere delle classi dirigenti appariva comunque declinante e il potere delle classi popolari ascendente e nessuno dei due gruppi aveva solide convinzioni democratiche e tentava un compromesso sulle regole. La vittoria delle classi popolari organizzate in modo, per quei tempi, alquanto moderno attraverso il partito unico si caratterizzò come rivoluzione. Costretto ad assumere compiti di modernizzazione socio-economica il partito unico creò un regime autoritario in Messico e, in rapidissima sequenza autoritario e totalitario in Russia. Il fascismo italiano si situa all'incrocio delle molte spiegazioni possibili e ne è compartecipe. Infatti, in Italia il fascismo sarebbe stato quasi del tutto inconcepibile in assenza delle dislocazioni sociali e politiche causate dalla prima guerra mondiale. Come movimento politico il fascismo rappresentò la reazione delle classi dirigenti ad una sfida abortita delle classi popolari. Costruì il suo successo attraverso una consapevole mobilitazione secondaria dei ceti medi, soprattutto della piccola borghesia, mobilitazione favorita dal loro panico di status a fronte della sfida dei settori popolari organizzati dai socialisti e dai comunisti. Quando il fascismo si rese conto che non aveva la forza per assoggettare tutte le altre istituzioni, si piegò a trasformarsi in regime e diventò accentuatamente e specificatamente autoritario. A quel punto, il fascismo italiano scelse di adeguarsi al pluralismo limitato, non competitivo, non responsabile delle istituzioni già esistenti: la monarchia, le forze armate, la chiesa cattolica, le organizzazioni padronali, da cui era circondato e che non aveva saputo sconfiggere e di cui non sarebbe riuscito a liberarsi. Gradualmente, dopo la presa del potere, le manifestazioni di mobilitazione dei sostenitori del regime diventarono limitate e sporadiche. Quanto al Duce, egli esercitò, in effetti, il suo potere in maniera discrezionale ed arbitraria, ma sostanzialmente prevedibile. Il fascismo italiano (come altri fascismi di quegli anni) rinunciò sostanzialmente a plasmare la società. Si limitò a dominarla, a opprimerla e, saltuariamente, a reprimerla in maniera selettiva, controllandone il ritmo e la natura del cambiamento, e assecondando una limitata modernizzazione socio-economica, che sarebbe ugualmente avvenuta e che, secondo alcuni studiosi, sarebbe stata persino più rapida in un regime politico più aperto e più esposto ai conflitti e alla competizione sociale, politica internazionale. Le differenze specifiche fra i diversi regimi fascisti dipendono, per l'appunto, dalla misura in cui ciascuno di loro si manifestano le caratteristiche distintive dell'autoritarismo. Tuttavia, le somiglianze fra i diversi regimi autoritari, e più specificamente fra i regimi fascisti, in termini di limitata pluralità delle organizzazioni tollerate, di scarsa e di rara mobilitazione politica, di sopravvivenza di mentalità tradizionali che non diventano ideologia formalizzata, di potere discrezionale, ma non totalmente sregolato del leader, sono notevolmente superiori alle differenze, per lo più derivanti dal diverso grado di sviluppo socio-economico e dall'esposizione a fattori internazionali che, infatti, Salazar e Franco cercarono consapevolmente e preveggentemente di contenere. Forse anche il fascismo italiano sarebbe durato di più se si fosse tenuto fuori dalla guerra e i regimi mediterranei di Portogallo e Spagna furono tollerati dalle democrazie occidentali dal contesto internazionale della guerra fredda. Insomma, i regimi autoritari classici hanno manifestato una notevole capacità di durata. Meno duraturi sono risultati, invece, i regimi autoritari contemporanei comparsi con caratteristiche distintive dopo il 1945.

Il profilo della maggioranza dei regimi autoritari comparsi nel secondo dopoguerra, e non soltanto in America latina, è segnato dal ruolo, per lo più essenziale, che vi viene svolto dalle organizzazioni militari: le forze armate diventano il gruppo dominante senza il quale il regime autoritario non si instaurerebbe e non potrebbe persistere. Talvolta le forze armate accettano, esigono o svolgono un ruolo diretto di governo. Huntington ha definito pretorianesimo il fenomeno dell'intervento dei militari in politica.

Si ha un pretorianesimo oligarchico quando la partecipazione politica è limitata a cricche e clan. I militari intervengono nel caso di disordine sociale ed hanno come obiettivo limitato l'acquisizione di qualche privilegio di carriera e di staus. Alcuni di loro entreranno temporaneamente a far parte dei governi condividendo, uti singuli, il potere con civili politicamente affini, ma per  un periodo di tempo relativamente limitato. Il livello di violenza sarà basso poiché i civili che vengono detronizzati e quelli che si trovano all'opposizione non sono organizzati, non saprebbero mobilitare i loro pochi sostenitori e non intendono, comunque, rischiare la loro incolumità.

Si ha un pretorianesimo radicale quando la partecipazione politica è estesa fino a ricomprendere le classi medie. I militari intervengono con la classe media contro i settori che vogliono estendere la partecipazione alle classi popolari. Gli ufficiali condividono gli obiettivi delle classi medie, essendo anch'essi entrati a farne parte oggettivamente, in termini di condizione socio-economica e di stili di vita, ma anche soggettivamente, in termini di aspirazioni. Nel pretorianesimo radicale i governi militari, o comunque con una consistente presenza di ufficiali, durano grosso modo il tempo di preparare le elezioni generali oppure di far raffreddare la temperatura politica, magari escludendo dalla competizione elettorale, per qualche tempo, le forze politiche sgradite. Il livello di violenza può diventare elevato soltanto se il partito delle classi medie spodestato si oppone al golpe e riesce a mobilitare i suoi sostenitori. Altrimenti, nello spazio all'incirca di un anno, si torna alle urne, esercizio frequente, se quei settori delle classi medie sgraditi ai militari continuano a vincere le elezioni.

Si ha un pretorianesimo di massa quando la partecipazione politica risulti per l'appunto estesa fino a ricomprendere anche le masse popolari, organizzate in partiti di sinistra oppure mobilitate in movimenti, anche populisti. In questo caso, l'intervento dei militari qualche volta inteso a bloccare preventivamente l'accesso al governo dei rappresentanti delle masse popolari ovvero, più di frequente, ad escluderli dal governo se già in carica, accusandoli di essere responsabili delle tensioni e dei conflitti sociali, si traduce inevitabilmente in veri e propri governi militari di durata variabile, raramente breve, cioè per il solo tempo necessario a rimettere in funzione le procedure elettorali, magari manipolandole opportunamente al fine di restituire il potere a civili graditi. Più di frequente, le istituzioni militari hanno deciso di organizzare il loro intervento, che implica sempre un costo, con l'obiettivo di procedere alla costruzione di un vero e proprio regime militare di durata indeterminata per plasmare un sistema politico totalmente diverso. Il livello di violenza può diventare molto elevato qualora il partito delle classi popolari, spesso bene organizzato, radicato sul territorio, dotato di consenso diffuso, decida di resistere opponendo la forza dei numeri a quella delle armi. La conoscenza della collocazione dell'organizzazione militare nel sistema politico e dei suoi rapporti con i politici civili costituisce l'elemento più importante per analizzare la dinamica dei colpi di stato e dei governi militari. Naturalmente il colpo di stato deve trovare l'approvazione, o almeno la non opposizione di gran parte degli ufficiali altrimenti rischia serie difficoltà.

Il districarsi delle istituzioni militari dalla sfera politica risulta sempre un processo alquanto complicato. Assume abitualmente tre forme:


una sconfitta politica dei militari spesso derivante da una sconfitta militare (giunta greca del 1974 per l'annessione di Cipro, sconfitta per i generali argentini nel 1982, delegittimazione popolare al referendum per Pinochet nel 1988)

un disimpegno volontario, spesso di fronte all'ostilità della società, ma negoziato (Uruguay 1985)

un golpe nel golpe, con la sostituzione degli ufficiali interventisti ad opera di ufficiali costituzionalisti che si impegnano a restituire il potere ai politici (Perù dopo il 1974 e Nigeria anni settanta, ottanta e novanta) magari negoziando, l'impunità ed ottenendo qualche privilegio


In generale, i governi esclusivamente militari non hanno lunga durata. Anche se non sono al governo in prima persona i militari costituiscono parte integrante, spesso decisiva della coalizione governativa autoritaria dominante in diversi paesi: Iraq (fino al 2003), con forti componenti sultanistiche, in Siria, Egitto, Libia. In America latina si sono anche avuti tentativi di costruire ed istituzionalizzare veri e propri regimi militari e per qualche tempo sembrò che questi tentativi potessero generalizzarsi, estendersi, consolidarsi e avere duraturo successo. Uno studioso argentino, O'Donnell, giunse a teorizzare la nascita e il consolidamento di regimi definibili come burocratico-autoritari, destinati a mettere profonde radici e a durare più a lungo dei loro predecessori, quasi indefinitamente. Le caratteristiche distintive dei regimi burocratico-autoritari, variamente riformulate dall'autore sono le seguenti:












la base sociale è rappresentata da una borghesia oligopolista e transnazionale

gli specialisti della coercizione, i militari, hanno un ruolo decisivo

i settori popolari sono esclusi

le istituzioni democratiche e i diritti di cittadinanza sono liquidati

il sistema di accumulazione capitalista rafforza le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse sociali

la struttura produttiva viene transnazionalizzata

criteri di presunta neutralità, obiettività e razionalità tecnica vengono utilizzati per spoliticizzare le tematiche salienti

i canali di accesso alla rappresentanza, chiusi per i settori popolari e gli interessi di classe, servono le forze armate e le grandi imprese oligopolistiche


Secondo O'Donnell i regimi burocratico-autoritari avrebbero condotto a compimento il processo di industrializzazione con la massima esclusione dei settori popolari. In questo vi è una differenza importante tra i regimi burocratico-autoritari e quelli autoritari tradizionali: questi ultimi hanno l'obiettivo implicito di contenere il ritmo del mutamento socio-economico, di controllarlo e, se possibile, di rallentarlo al fine di evitare una mobilitazione dei settori popolari ed, eventualmente, di rintuzzare le richieste di qualche libertà d'azione da parte dei settori della classe media. Al contrario dei regimi comunisti quelli autoritari hanno problemi con lo sviluppo socio-economico in special modo se non voluto dal regime: cominciano le tensioni che porteranno alla transizione poiché gli indesiderati cambiamenti socio-economici hanno creato le condizioni, fra le quali la comparsa di una pluralità di gruppi e di associazioni, per un superamento del pluralismo limitato. Storicamente, invece, i regimi comunisti hanno avuto come obiettivo esplicito, dichiarato e costitutivo quello di produrre cambiamento, di creare sviluppo economico, di trasformare la società, spesso attraverso industrializzazione e alfabetizzazione forzate, di pervenire al benessere, nonché, naturalmente, alla comparsa dell'uomo nuovo in una società senza classi. L'insoddisfazione, anche della nomenklatura, per il non raggiungimento degli obiettivi ha aperto la strada alla transizione, ma con tutte le differenze, esplorate in precedenza, che derivano dal grado di post-totalitarismo: iniziale, congelato, ovvero maturo, già conseguito.

I regimi burocratico-autoritari non hanno saputo viaggiare nel tempo e nello spazio e la loro esperienza sembra essersi esaurita. L'analisi ha probabilmente esagerato sia la compattezza delle elite che si coalizzano per acquisire e mantenere il controllo sul governo sia la praticabilità dell'esclusione totale delle classi popolari dal sistema politico ed ha probabilmente sottovalutato le tensioni interne alle stesse organizzazioni militari. In ogni caso si può dire che in società complesse per costruire un regime autoritario bisogna avere una repressione medio-alta che può essere data solo da organizzazioni militari potenti e coese. Queste organizzazioni devono essere adeguatamente ricompensate dalla borghesia oligopolistica che a sua volta vuole proseguire il processo di industrializzazione. Quando queste condizioni vengono meno i regimi burocratico-autoritari vengono meno (anni settanta e ottanta). Oggi in America latina, con tutti i suoi limiti, la democrazia sembra essere abbastanza consolidata. La transizione dai regimi autoritari caratterizzati da una presenza cospicua o dominante dei militari è, peraltro, fortemente condizionata dalla natura dell'organizzazione militare al governo. Come hanno rilevato Linz e Stepan, si possono avere due casi generali:









nel primo caso è l'istituzione militare in quanto tale, rimasta gerarchicamente intatta, che decide tempi e modi della transizione e che negozia con i civili qualora questi siano adeguatamente organizzati e rappresentativi, oppure sceglie i civili ai quali restituire il potere politico

nel secondo caso, se gli ufficiali insediatisi al governo hanno sovvertito la gerarchia dell'organizzazione militare, come i colonnelli greci o, in condizioni piuttosto diverse, i capitani portoghesi, la transizione si presenta alquanto complicata. Da un lato, l'organizzazione militare in quanto tale non è in grado di negoziare, se prima non ha ricomposto la sua gerarchia interna; dall'altro, non è in grado di garantire una transizione controllata fintantoché essa stessa non si è ricompattata


Un regime può anche collassare ma il ritorno alla democrazia prevede, e non è semplice, l'inclusione delle classi popolari in procedimenti di partecipazione politica influente. Il merito di O'Donnell consiste nell'aver riportato l'attenzione sui rapporti fra sviluppo economico, partecipazione politica ed azione di governo. Il suo difetto è stato quello di aver assolutizzato questi rapporti senza coglierne le intrinseche contraddizioni. Più precisamente, O'Donnell ha sottovalutato la persistente vitalità di alcuni gruppi, organizzazioni civili, confessioni religiose, movimenti per i diritti, partiti, sindacati, che non si sono fatti eliminare dai regimi militari. E ha sopravvalutato sia la compattezza e l'operatività delle istituzioni militari sia il grado di coincidenza dei loro interessi con quelli delle associazioni imprenditoriali e padronali in senso lato. In sostanza i regimi autoritari sono intrinsecamente instabili. Dopo la transizione, per quanto riguarda il ruolo dei militari, ritroviamo tutte le possibili formule che intercorrono fra i due estremi del controllo pieno dei civili sui militari e viceversa. Se vi sono dissidi tra i politici al governo o all'opposizione vi sono le tentazioni di cedere ai militari il controllo su alcune o molte politiche pubbliche consentendo loro di esercitare influenza politica generale. Oggi, tuttavia, le spinte alla democrazia e quindi al contenimento del ruolo politico dei militari, sembrano decisamente prevalenti in tutti i paesi latino-americani tranne che in Venezuela.

In sintesi possiamo dire che i regimi autoritari sembrano maggiormente in grado di pilotare i loro cambiamenti e in parte di trasformarsi, ad esempio se si sviluppa il sistema socio-economico che porta ad un pluralismo di gruppi che non possono più essere controllati. Oggi si coagulano ancora regimi autoritari intorno ai militari ed intorno ad organizzazioni religiose integraliste. Quanto ai regimi totalitari possiamo affermare che essi crollano, magari attutendo il loro crollo grazie a qualche previa, limitata, trasformazione interna.




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