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STRATEGIE DI SVILUPPO INTERNAZIONALE

economia



STRATEGIE DI SVILUPPO INTERNAZIONALE


Spiegare la sovrapposizione che spesso si riscontra tra i paradigmi teorici delle strategie dell'internazionalizzazione e quelli interpretativi delle modalità di attuazione delle strategie. Su quali argomenti dovrebbero focalizzarsi i due paradigmi?


Non è semplice fare riferimento a teorie e paradigmi non ambigui che riescano a dare una univoca interpretazione del fenomeno dell'internazionalizzazione. In letteratura i paradigmi propri di una strategia internazionale spesso si sovrappongono a modelli e meccanismi descrittivi delle modalità di attuazione delle strategie.

A rigore, i "paradigmi e le strategie di sviluppo estero" sono quelli che chiariscono "cosa" si vuol fare (entrare/uscire da mercati; acquisire/dismettere attività; ecc.); le "modalità di attuazione delle strategie" vanno invece inquadrate nella sfera organizzativa dell'impresa, e chiariscono "come" penetrare in un mercato.



Famoso è il dibattito sull'appartenenza o meno delle scelte di integrazione alla sfera organizzativa o strategica: in letteratura l'integrazione è considerata una "strategia" di sviluppo dimensionale, ma sembra più logico farla rientrare tra le "modalità di attuazione" delle strategie.

I paradigmi delle strategie d'internazionalizzazione sono finalizzati a definire il VETTORE DELLA CRESCITA (direzione, intensità e verso della crescita); i paradigmi delle modalità di attuazione delle strategie riguardano, invece, il problema della ricerca delle forme organizzative che meglio possono supportare lo sviluppo, ed il problema della ricerca della più razionale allocazione delle risorse tra modalità alternative.

E' chiaro, tuttavia, che in una visione unitaria del processo strategico che deve guidare l'imprenditore nel perseguire le sue scelte, strategie e modalità di attuazione delle stesse rappresentano problematiche strettamente correlate, che portano ad una circolarità del processo decisorio, ed è presumibile che proprio l'esistenza di questo processo circolare "strategie-modalità" sia stata una delle determinanti della sovrapposizione tra le diverse concettualizzazioni teoriche.


Descrivere l'INTERNALIZATION THEORY della Reading School e le teorie di Coase e di Williamson sull'internazionalizzazione:


L'Internalization theory della Reading School occupa un ruolo centrale nel filone di studi dell'international business theory. Alla base di tale teoria vi è l'assunto che le imprese multinazionali perseguono decisioni di crescita dimensionale attuate mediante investimenti diretti all'estero (creazione di mercati interni), allorquando i mercati esterni sono inesistenti oppure imperfetti. Per "mercato interno" si intende l'impresa e tutte le attività dell'impresa internalizzate; per "mercato esterno" si intendono tutti quei mercati in cui l'impresa non opera con relazioni di proprietà; per "mercato imperfetto", infine, si intende un mercato che si discosta da quello di concorrenza perfetta, con imperfezioni di costi tali da consentire alle multinazionali di entrare alla grande in quel mercato replicando la loro formula imprenditoriale, di conseguire vantaggi firm-specific (difficilmente appropriabili dai competitori), e di godere quindi di una sorta di protezione nei loro mercati interni.

Per Coase (1937) l'impresa tende a preferire relazioni cooperative al suo interno, piuttosto che relazioni di mercato, fino al punto in cui i costi relativi all'organizzazione di un'ulteriore transazione all'interno dell'impresa non siano uguali ai costi che la medesima transazione determina allorquando viene effettuata in una struttura di mercato imperfetta. Infatti le multinazionali procedevano all'internalizzazione delle attività estere fintanto che i costi di tale operazione erano minori dei benefici che potevano trarre acquistando sbocchi sul mercato estero. Tuttavia la matrice fondamentale della teoria dell'internalizzazione è da riscontrarsi nella "teoria dei costi transazionali" di Williamson (1975; 1991), che offre anche una base metodologica per la determinazione delle transazioni da internalizzare: "la migliore strategia è quella che persegue la ricerca dell'efficienza (economizing), nell'ottica dicotomica gerarchia-mercato", enfatizzando così il ruolo assegnato alle relazioni organizzative nelle scelte strategiche e creando il presupposto per la sovrapposizione tra paradigmi teorici delle strategie d'internazionalizzazione e paradigmi interpretativi delle modalità di attuazione delle strategie stesse.


Quali tendenze in campo economico internazionale hanno portato all'esigenza di sviluppare nuove professionalità manageriali? Quali conoscenze sono oggi richieste?


Agli inizi degli anni '80, con Porter (1980; 1987) si consolidarono, nella letteratura e nelle mentalità dei manager d'impresa, i fondamenti teorici delle strategie, competitive e globali, e si affermò la concezione che la gestione strategica doveva essere considerata alla stregua di un processo teso a sviluppare e ad utilizzare la strategia come guida dell'attività operativa delle organizzazioni. Quindi la strategia assume definizioni teoriche che si discostano dalla teoria delle multinazionali e, soprattutto, dalla teoria dei costi transazionali di Williamson. Si sviluppano anche nuovi termini di confronto per le scelte strategiche: dalla comparazione tra singola impresa e suo mercato, si passa ad un confronto tra l'impresa ed i suoi "competitori", ad un'analisi della concorrenza effettiva e potenziale, e delle altre forze legate all'ambiente in cui l'impresa opera. Nascono, pertanto, nuove esigenze conoscitive per le imprese che devono anche imparare a sviluppare una propensione all'accettazione dei rischi ed alla riduzione dell'ansia legata all'incertezza che spesso porta all'inerzia ed al rifiuto del cambiamento. Nelle scelte d'internazionalizzazione entra pertanto in gioco, l'allargamento delle conoscenze dei manager d'impresa, e da ciò discende anche che le decisioni 535h77f attinenti alle modalità di attuazione delle strategie di sviluppo internazionale sono strettamente dipendenti dalle conoscenze già acquisite o dalla concreta possibilità di riuscire ad accedere a nuove conoscenze. Tale bisogno è tanto più avvertito quanto più distanti sono le regole del gioco dei nuovi ambiti in cui competere, rispetto a quelle proprie dei contesti in cui le imprese operano.

Strategie, barriere culturali dei contesti esteri, modalità alternative di attuazione delle strategie e problematiche legate all'ingresso nei mercati più difficili sono, pertanto, le competenze manageriali oggi richieste e le tematiche più significativamente coinvolte nel dibattito sul tema delle strategie di sviluppo internazionale delle imprese.


Descrivere il paradigma di Bain struttura - performance. Su quali punti gli economisti d'impresa possono non concordare?


In base al paradigma struttura - performance di Bain (1956) gli economisti industriali affermavano che, analizzando la struttura di un settore (capital o labour intensive) e l'organizzazione del settore (oligopolio, monopolio, concorrenza perfetta), la struttura del settore determina le performance dell'impresa. Gli stessi economisti industriali, però, nel tentativo di verificare queste affermazioni, riscontravano che alcune imprese di uno stesso settore, pur avendo una stessa struttura, conseguivano performance diverse. In realtà il paradigma di Bain trascurava completamente l'effetto della leva strategica, che può permettere alle imprese di raggiungere, attraverso l'utilizzo di strutture simili a quelle dei concorrenti, risultati e posizionamenti competitivi più vantaggiosi. Proprio perchè le risultanze empiriche non sostenevano l'approccio teorico, i seguaci di Bain non facevano altro che segmentare il settore in sub-settori con caratteristiche diverse, giustificando così le diverse performance di imprese operanti in uno stesso settore. Così nel '68 la formulazione del paradigma divenne: struttura - settore - sub-settore - condotta - performance, dove per "condotta" si intendeva una sorta di marketing, che proprio in quegli anni faceva la sua comparsa nelle imprese americane e che garantiva il miglioramento delle performance.

Il principale errore degli economisti era quello di non "entrare" nell'impresa: essi infatti analizzavano statisticamente il settore, i risultati dell'impresa, i profitti, la struttura e la dimensione dell'impresa, le barriere all'entrata e l'elasticità della domanda, cercando di spiegare con questi parametri le performance aziendali, non comprendendo che invece potevano essere le ottiche strategiche, ed in particolare il marketing, a portare a determinati risultati.


Descrivere il modello del CVP (internazionale) del Vernon e le critiche mosse a tale modello:


Nel modello del Ciclo di Vita del Prodotto (CVP) del Vernon (1966) la prima fase e quella di introduzione e sviluppo: in questa fase la funzione di produzione non è stabile, e l'impresa cerca di consolidare la propria posizione prima sul mercato domestico, tentando di evitare la nascita di concorrenti imponendogli barriere che ne impediscano l'entrata o la sopravvivenza nel mercato; quando poi la funzione di produzione si stabilizza (il prodotto è maturo sul mercato domestico) il prodotto si impone all'estero. In uno stadio avanzato della fase di maturità, quando si va verso il declino, si cerca la "localizzazione", cioè la replica della formula imprenditoriale nei paesi dove c'è dotazione fattoriale, manodopera a basso costo, paradisi fiscali, ecc. Per esempio, si pensi ai prodotti informatici americani arrivati in Italia solo dopo dieci anni, quando ormai erano a funzione di produzione stabile negli U.S.A.; negli anni '70, poi, molte multinazionali sono arrivate in Italia sfruttando le leggi straordinarie per il Mezzogiorno.

Il modello del CVP del Vernon fu successivamente rivisitato da alcuni studiosi, in particolare alla luce della c.d. sourcing strategy, ovvero "strategia delle risorse" (Davidson, 1982), la quale consiste in un insieme di assunti che deve guidare le imprese nelle scelte relative alla localizzazione produttiva, all'internalizzazione o meno delle risorse esterne ed all'esternalizzazione di componenti.

Rapp (1973) critica il modello di Vernon con delle osservazioni precise: egli evidenzia che il CVP non riesce ad interpretare l'appropriazione dei vantaggi firm-specific degli innovatori da parte degli imitatori. Gli innovatori, infatti, nel caso in cui vogliano perseguire strategie di mercato, possono utilizzare in modo distorto le risorse possedute e lasciare che gli imitatori man mano entrino nel mercato ed imitino l'innovatore con un'allocazione ottimale delle risorse (senza sprechi): c.d. free riding.

Una teoria è accettabile solo se è in grado di interpretare qualsiasi fenomeno, ed il CVP del Vernon, che non è in grado di interpretare il fenomeno del free riding verificatosi in molti mercati negli anni '70, non è quindi accettabile.


Descrivere il pensiero della Penrose sull'impresa e sull'espansione (anche internazionale) dell'impresa:


La Penrose (1959) ha posto l'enfasi su una visione dell'impresa come "insieme di risorse produttive", fisiche ed umane: tali risorse, diversamente combinate, forniscono all'impresa un peculiare insieme di "servizi" da impiegare nel processo di produzione. Le possibilità di utilizzo pieno dei servizi variano, per la Penrose, al variare delle "conoscenze" che si posseggono circa le caratteristiche, i sistemi di utilizzo e di migliore sfruttamento delle risorse.

La spinta all'espansione (verso nuovi mercati, o nel mercato domestico con nuovi prodotti) si ha allorquando all'interno dell'impresa ci sono delle risorse i cui servizi non sono utilizzati appieno. La Penrose non parla ancora di internazionalizzazione, ma di "diversificazione connessa al mercato", ed afferma che quando l'impresa si immette in nuovi mercati con beni già in produzione, ottiene risultati analoghi a quelli raggiunti con la diversificazione produttiva. L'ingresso in mercati non familiari comporta gli stessi problemi della diversificazione: bisogna allargare le conoscenze. Lo stock di conoscenze permette all'impresa di implementare le scelte di espansione, ed in gioco entrano non solo le conoscenze già possedute, ma anche quelle necessariamente da acquisire sul mercato, ovvero, nell'ambiente nel quale l'impresa opera. Per la Penrose, i cambiamenti ambientali contribuiscono non solo ad accrescere lo stock di conoscenze, ma a modificare il "significato" che le risorse rivestono per l'impresa, ed a determinare le risposte manageriali ai cambiamenti in funzione di ciò che l'impresa "vede" intorno ad essa.


Sono presenti nel pensiero di Ansoff le strategie dell'internazionalizzazione (implicitamente o esplicitamente)?


Ansoff (1965) è il primo che ha dato una sistemazione teorica alle strategie di sviluppo. Egli utilizzò uno strumento per definire le possibili strategie adottabili da un'impresa: la matrice di Ansoff (matrice delle "strategie prodotto/mercato").

Sull'asse delle ordinate abbiamo le "missioni"; sull'asse delle ascisse abbiamo le tipologie di "prodotti". La missione è un particolare compito che l'impresa assegna ai prodotti, e da svolgere presso i clienti: in altre parole, è un obiettivo che l'impresa si propone di raggiungere tramite l'offerta dei suoi prodotti; la tipologia dei prodotti riguarda le scelte di ampliamento produttivo verso i prodotti già esistenti o verso nuovi prodotti.


Fig.1: Matrice di Ansoff



Le diverse alternative di sviluppo sono segmentate a seconda che la strategia si realizzi con:

missioni e prodotti già esistenti strategia di "penetrazione del mercato"

missioni esistenti e prodotti nuovi strategia di "sviluppo del prodotto"

missioni nuove e prodotti già esistenti strategia "sviluppo del mercato"

missioni e prodotti nuovi strategia di "diversificazione"

Le strategie di internazionalizzazione possono essere implicitamente ricondotte alle ultime due tipologie di strategie elencate, se e solo se, i segmenti di mercato sono considerati da un punto di vista geografico e se la diversità territoriale si traduce in una clientela diversa che impone nuovi compiti da assegnare ai prodotti.

Per quel che concerne le strategie di diversificazione Ansoff, pur offrendo un quadro completo di scelte strategiche, lascia spazio a "zone d'ombra", in quanto non segna una netta demarcazione dei confini definitori delle diverse opzioni ottenibili di diversificazione.



Descrivere le ipotesi di Rumelt sulla "diversificazione internazionale". Tali ipotesi si sono dimostrate, successivamente, robuste?


Quello di Rumelt (1974) è il lavoro più significativo. Egli pone l'enfasi sui vantaggi che le imprese ottenevano qualora si diversificavano internazionalizzandosi, affermando che in questi casi si ottenevano performance migliori. La sua teoria fu detta "International diversification theory". Essa fu definita come un'entrata in nuovi mercati che implicava necessariamente uno sviluppo delle competenze manageriali. Nel pensiero di Rumelt essa consiste nell'ingresso in nuovi mercati, acquistando, però, le imprese fornitrici o distributrici: era dunque una diversificazione uguale all'integrazione a monte o a valle, ma attuata con attori appartenenti a nuovi paesi.

Questa teoria ha ricevuto enormi consensi per tutti gli anni '80, tanto da divenire una ricetta da seguire per tutte le imprese che perseguivano obiettivi di sviluppo internazionale. Negli anni '90, però, le ipotesi di Rumelt non si sono sempre dimostrate statisticamente robuste nelle analisi incrociate tempo-spazio. A fronte di un'ipotesi di relazione positiva tra performance della diversificazione e livello di internazionalizzazione, alcuni (Hoskisson e Hitt, 1990) non hanno individuato alcuna significativa relazione fra le due variabili, e c'è stato addirittura chi (Sambharya, 1995) ha concluso le sue ricerche affermando che esiste una relazione inversa tra internazionalizzazione e diversificazione. Quest'ultimo aggiunge, però, che pur in presenza di un tale tipo di relazione, l'interazione tra le due strategie porta ad un sostanziale aumento delle "performance" delle imprese.


Descrivere il concetto di globalizzazione per Ohmae e le critiche mosse a tale concetto:


Dall'inizio degli anni '80 le strategie di sviluppo internazionale sono state enfatizzate come strategie di globalizzazione, nell'ipotesi di un allargamento sempre più esteso dei confini in cui operano le imprese, in un mondo libero da frontiere.

Al fine di comprendere il significato del concetto di globalizzazione, sembra opportuno soffermarsi sul pensiero di Ohmae (1989; 1991), lo studioso che, oltre a Porter, ha dato un contributo alla concettualizzazione del tema.



Afferma Ohmae che, per operare con successo in un'ottica globale, occorre allontanarsi dal perseguimanto delle strategie di portafoglio, da ipotesi di convergenza (entrambe politiche tipiche delle imprese americane), dal dumping (politica tipicamente giapponese).

L'ottica di portafoglio è una strategia puramente finanziaria finalizzata alla continua ricerca di nuovi mercati in cui investire le eccedenze finanziarie per creare "piramidi di cash-flow"; le tecniche di dumping consistono nel vendere a prezzi più bassi per vincere la concorremza locale soprattutto nei mercati esteri; l'ipotesi di convergenza consiste invece nel replicare all'estero la formula imprenditoriale utilizzata nel mercato domestico. Ohmae sostiene che l'ipotesi di convergenza doveva essere sostituita da un'ipotesi di "equidistanza", nel senso che il management deve sviluppare una capacità di "valutazione neutrale", cioè, deve essere in grado di mettersi al centro dei mercati internazionali (senza farsi influenzare dalla propria cultura) e cercare di comprendere usi, stili di vita, abitudini di consumo, bisogni e comportamenti degli operatori dei vari mercati. L'ipotesi di convergenza fu alla base dell'iniziale fallimento della Coca-Cola in Giappone, non essendosi impegnati, i manager americani, a comprendere il mercato giapponese, non essendo, cioè, diventati prima "operatori interni" del mercato giapponese (non avendo internalizzato i comportamenti locali attraverso un processo di assimilazione svolto nel paese ospite). Perchè non bisogna mai dimenticare che, nonostante la globalizzazione, a culture diverse corrispondono diversità nei consumi.

Il principio di equidistanza, tuttavia, non porta necessariamente alla creazione di un "prodotto universale", capace di soddisfare bisogni trasversali ai diversi segmenti di mercato. L'esistenza del prodotto universale, nel senso di "domandato dappertutto", è un mito. L'esistenza di prodotti universali come la Coca-Cola o come i panini di Mac Donald's è dovuta a precise scelte di marketing delle imprese, finalizzate a scegliere la domanda di un determinato prodotto in tutti i mercati. L'agire delle imprese può "creare" la domanda in ogni paese: i panini di Mac Donalds's sono gli stessi dappertutto, ma mentre in America Mac Donald's è apprezzato per la velocità di consumo, in Italia, dove si usa consumare pasti in famiglia, Mac Donald's ha fatto leva sul segmento "giovani".

Per Ohmae, quindi, le imprese, una volta valutate in modo neutrale le diversità, cercano di trovare il giusto trade-off tra standardizzazione e personalizzazione del prodotto. Infatti mentre alcuni prodotti vengono accettati in determinati contesti in modo standardizzato, altri richiedono di essere personalizzati nella confezione, nella produzione, nella distribuzione. Dice Ohmae che è meglio orientarsi verso un "prodotto dominante": bisogna comprendere il "core" (fattore distintivo) del prodotto che è desiderato da tutti e personalizzare poi solo gli aspetti marginali, adeguando così il prodotto ai vari tipi di contesti. Tale conclusione, però, non è accettabile in quanto oggi si va sempre più verso la personalizzazione ed essa non riguarda solo gli aspetti marginali.

Resta, tuttavia, di fondamentale importanza un'affermazione di Ohmae: <<a fronte delle difficoltà di apprendimento della diversità comportamentale dei mercati, le imprese non devono chiudersi "a riccio" e focalizzare l'attenzione solo sul mercato locale>>. Un tale modo di gestire il proprio business può essere penalizzante ed un esempio è dato dalla crescente difficoltà riscontrata da imprese che operano soddisfacendo specificità locali di consumo o di produzione a resistere all'ingresso di concorrenti esterni ed a sopravvivere restando legati al mercato locale di sbocco.


Quali sono le dimensioni alla base del diamante della competizione delle nazioni di Porter? Quali critiche sono state mosse a tale modello?


Porter (1990) ha tentato di comprendere i meccanismi che determinano il successo globale di un paese, in un'ottica di vantaggio competitivo delle nazioni, quale risultante dell'agire di forze in esse operanti. Le ipotesi iniziali della ricerca si fondavano sull'assunto che la competitività di una nazione sia dipendente da quattro dimensioni che, nel loro insieme, compongono il "diamante della competizione delle nazioni" ("diamante" perchè ogni componente interagisce con le altre).

Le quattro dimensioni del diamante sono:

rivalità tra le imprese del mercato domestico: quanto più è elevata la rivalità sana (non basata sul prezzo) tra le imprese in campo domestico, tanto più si creano le premesse per acquisire vantaggi da parte di una nazione in campo globale, nel senso che si stimolano la creatività e lo spirito di iniziativa, e questo può facilmente tradursi in output maggiormente attrattivi, non solo per il mercato domestico, ma anche, e soprattutto per il mercato mondiale;

livelli di sofisticazione della domanda interna: quanto più è elevato il grado di sofisticazione della domanda interna, tanto più le imprese, per soddisfare il consumatore (customer satisfaction) devono sofisticare il loro prodotto, che così ha maggiori probabilità di successo all'estero. Nel descrivere questa dimensione Porter aveva in mente il Giappone: le aziende giapponesi hanno aperto la strada nel campo della microelettronica e dei piccoli elettrodomestici multifunzionali perchè i clienti giapponesi, che vivono in spazi ristretti, desideravano oggetti con tali caratteristiche;

presenza locale di fornitori e di servizi di supporto alle imprese: i servizi di supporto (trasporto, servizi informatici) aiutano le imprese ad imporsi nei mercati esteri, così come la presenza dei fornitori. In realtà per i fornitori di capitale (ad es. le banche) non è la semplice presenza che può aiutare l'impresa, ma il tipo di relazione che fra i fornitori e l'impresa si instaura. In Giappone esistono piccole imprese (keiretsu, cioè grappoli di imprese con al centro un'impresa guida, legate tra loro da relazioni incrociate di proprietà) per le quali la banca non è solo finanziatrice, ma è anche azionista dell'impresa, ed ha quindi l'interesse a che l'impresa consegua sempre buoni risultati, cosicché, quando le imprese sono in crisi la banca trasforma i suoi finanziamenti in capitale di rischio, ovvero in azioni. Un discorso simile va fatto anche per i fornitori di beni: si creano le premesse per il successo delle imprese in un'area, allorquando i fornitori hanno un ampio potere contrattuale ed hanno alleanze con l'impresa cliente. In tali casi è ottimo per l'impresa che i fornitori abbiano anche esperienze nel settore, in modo da poterle sfruttare per i propri fini: le aziende tedesche sono riuscite ad eccellere nel campo degli elettrodomestici perché moltissimi dei loro fornitori nazionali hanno esperienze nel settore;

presenza di dotazioni specifiche nel mercato domestico (non generiche, quali le dotazioni fattoriali): la presenza di manodopera qualificata e di infrastrutture rappresenta un chiaro vantaggio competitivo per le imprese sui mercati internazionali. L'assenza, ad esempio, di manodopera specializzata, come nei paesi Terzi Mediterranei, porta le imprese a delocalizzare l'attività produttiva con conseguenti costi di controllo e coordinamento delle attvità decentrate.

Per quanto riguarda le critiche, oltre alla considerazione che nel modello porteriano non vengono considerati alcuni fattori condizionanti, quali le componenti della cultura (per "cultura" si intende cultura (credi, valori) delle organizzazioni) ed il ruolo svolto dal governo (è il governo che decide quali settori sviluppare, ed è grazie alle attivtà del governo che nasce la manodopera qualificata e si incentiva la presenza dei fornitori di servizi di supporto alle imprese), per Reich (1990) i quattro criteri-guida del diamante porteriano sono così ampi da comprendere complessivamente quasi tutte le soluzioni disponibili per sostenere la competitività nazionale, e quindi sono inevitabilmente inficiati da indeterminatezza e danno scarse indicazioni ai policy makers. Per Reich non esiste alcuna ricetta magica che renda una nazione più competitiva e qualsiasi tentativo in questo senso è destinato a rimanere su livelli piuttosto alti di generalizzazione.

Inoltre, l'accelerazione dello sviluppo internazionale delle imprese, la forte spinta verso forme di partnership, spesso favorite da paesi ospiti, hanno contribuito ad affievolire i legami delle imprese con i loro paesi d'origine. Quindi, al riguardo, va notato che il vantaggio competitivo di un'impresa dipende più strettamente dalle capacità strategiche dei suoi manager di cogliere le opportunità dei diversi mercati, piuttosto che dalle condizioni favorevoli del paese domestico.

Va ricordato, inoltre, il principio dell'ubiquità del vantaggio competitivo: le moderne imprese non solo non tendono a replicare nei mercati esteri la loro formula imprenditoriale, ma tendono addirittura a decentrare singole attività della catena del valore nei paesi in cui si possono conseguire più vantaggiosi ritorni degli investimenti. Cade, così, la possibilità di collegare i prodotti al loro paese d'origine e, in definitiva, è questo il significato che occorre attribuire al prodotto universale, che va pertanto inteso come il risultato di un assemblaggio di componenti, materiali ed immateriali, provenienti dalle più svariate parti del mondo.


Descrivere il concetto di globalizzazione per Porter (strategie delle imprese nei settori globali):


Porter ha studiato il comportamento strategico delle imprese mediante due dimensioni: configurazione (delle attività della catena del valore) distinguendo "decentramento" (le attività vengono decentrate all'estero) e "concentrazione" (le attività vengono, in modo più elevato, concentrate nella stessa area che può essere il mercato domestico o no); coordinamento, cioè la relazione che il manager centrale pone in essere con i manager periferici: più basso è il coordinamento più non c'è l'azione di guida da parte del manager centrale (che delega autonomia al manager periferico), mentre se il coordinamento è alto l'autonomia del manager periferico è più limitata. In tal caso i meccanismi utilizzati per il coordinamento sono altamente formalizzati ed il coordinamento, in realtà, diviene "controllo".


Fig.2: Tipologie di strategie internazionali nei settori globali



All'incrocio fra coordinamento e configurazione troviamo le quattro strategie di internazionalizzazione analizzate da Porter:

quando il coordinamento è basso e il decentramento è elevato, la strategia è multidomestica, cioè la casa madre opera nei vari paesi in maniera indipendente attraverso una replicazione all'estero di unità operative simili alla casa madre. Tale strategia è caratterizzata da una dispersione delle attività della catena del valore tra i paesi in cui l'impresa opera e da un'ampia autonomia lasciata alle unità periferiche (l'ottica multidomestica è tipica delle imprese U.S.A. negli anni '60-'70; questa è la "strategia" portata avanti dalla IBM negli anni '70);

se il coordinamento è alto si passa all'Investimento Diretto all'Estero (I.D.E.) coordinato: anche in questo caso si ha la replica della formula imprenditoriale, però c'è il coordinamento del manager centrale. Il mercato è coordinato dalla casa madre e si presuppongono, per questa strategia, elevati livelli di formalizzazione e di specializzazione;

quando è elevata la concentrazione ed il coordinamento è alto, si ha la strategia globale (da notare che ciò non vuol dire che non si decentrino attività della catena del valore, bensì che non si replica all'estero). L'ottica globale presuppone una "specializzazione" (la strategia sottesa): se si concentra una determinata attività, ad esempio l'approvvigionamento, significa che l'impresa si sta specializzando nell'approvvigionamento. La strategia globale presuppone un'attenzione sul "core-factor",  una specializzazione su attività che vale la pena concentrare in un'unica area;

l'ultimo quadrante corrisponde alla c.d. strategia di esportazione con mercato decentrato: Porter ha trovato dei casi di imprese che concentravano tutto nel paese d'origine decentrando solo il mercato. In realtà non era il mercato ad essere decentrato, bensì l'attività di vendita (il mercato era fatto a livello centrale).

Porter afferma che bisognerebbe passare dall'ottica multidomestica all'ottica globale; bisogna, inoltre, cercare un compromesso tra basso ed alto coordinamento (entrambi i casi portano vantaggi e svantaggi); la concentrazione porta dei vantaggi quali le economie di scala (che possono essere: a. dinamiche di apprendimento, cioè, quanto più si lavora specializzandosi tanto più si cresce sulla curva dell'apprendimento, che può essere sia operativo, learning by doing, sia cognitivo, ossia un apprendimento di conoscenze; b. statiche riduzione del costo medio unitario all'incremento della produzione), sia svantaggi (con la concentrazione si limita la possibilità al manager periferico di trasferire le sue conoscenze al manager centrale).

Da quanto detto risulta difficile cogliere la capacità esplicativa del modello porteriano quale tipologia delle strategie di internazionalizzazione perseguibili dalle imprese. Esso appare, invece, più significativamente esplicativo delle "modalità" attraverso cui le imprese organizzano le risorse disponibili in campo internazionale.


Quali trade-off occorre ricercare nelle scelte relative alla configurazione ed al coordinamento? (e perchè?)


I compromessi sono da ricercare tra concentrazione e decentramento e tra coordinamento basso e alto (vedi fig.2).

Consideriamo il primo trade-off concentrazione/decentramento: scegliere la giusta posizione di compromesso fra queste due possibilità significa saper scegliere tra acquisizioni di economie di scala, rese possibili dalla concentrazione, e l'accelerazione del processo di apprendimento che discende dalla possibilità che hanno le unità decentrate di stringere più stretti contatti con operatori stranieri, portatori di comportamenti, credi e conoscenze diverse.

La concentrazione geografica, permettendo di operare in un paese o in un cluster di paesi omogenei, consente una notevole riduzione dei costi di coordinamento; il decentramento geografico delle attività, invece, aumenta le capacità manageriali di gestire le specificità dei singoli contesti, permette la riduzione dei costi indotti da una concentrazione spaziale delle attività (costi di stoccaggio, di trasporto) e dà la possibilità di poter effettuare pratiche specifiche di hedging (copertura del rischio), per ogni mercato in cui la multinazionale opera. La copertura dei rischi è maggiormente sentita dai manager delle imprese multidomestiche, in quanto con l'aumentare della dispersione geografica delle attività, cresce l'incertezza dei manager centrali indotta dalla necessità di dover competere indipendentemente paese per paese.

Analizziamo ora il trade-off per il coordinamento: bisogna scegliere tra il "controllo stretto" del processo di apprendimento, che porta a minori costi di coordinamento (il controllo stretto però vincola la libertà d'agire dei manager periferici ed il processo di apprendimento cognitivo) e la "libertà" lasciata ai manager periferici che nell'indurre una maggiore creatività e responsabilizzazione dei singoli, porta anche a limitare il processo di apprendimento collettivo.

In pratica nello scegliere tra coordinamento alto e basso si decide di conferire o no una delega di autonomia ai manager periferici da parte dei manager centrali, e quanto più basso è il coordinamento maggiore è l'ampiezza della delega conferita.

Bisogna fare un'opportuna distinzione terminologica fra coordinamento alto e controllo. Per alcuni autori "controllo = alto coordinamento". In realtà "coordinamento alto" vuol dire: riunioni continue con i manager periferici, trasmissione delle conoscenze; mentre il "controllo" è assenza di coordinamento, perché se si controllano semplicemente i risultati non si coordina. Il controllo si fa su qualcosa che si è programmato in precedenza, il coordinamento avviene in itinere, durante il processo.


Quali vantaggi si conseguono nell'agire globale (alla Porter)?


Per operare in un mercato globale, alla Porter, le imprese multinazionali devono avere la capacità di concentrare e coordinare le attivtà della catena del valore per conseguire vantaggi competitivi firm-specific (l'impresa globale deve, in qualche modo, concentrarsi e specializzarsi, facendo crescere così le proprie competenze distintive conseguendo vantaggi firm-specific) e vantaggi comparati location-specific (l'impresa che decentra, lo fa per sfruttare l'ubiquità del vantaggio competitivo, i vantaggi che derivano da una certa area location-specific o country-specific).



Se questo è l'agire globale di Porter (ricerca di vantaggi competitivi e comparati), allora il paradigma porteriano non è un paradigma delle strategie di internazionalizzazione, perchè le scelte di decentramento/concentrazione e di coordinamento alto/basso sono scelte organizzative, non strategiche. L'impresa quando decide di essere globale o multidomestica, ha già stabilito la sua strategia di internazionalizzazione.

Anche se guardiamo il modello in un'ottica "relazionale" osserviamo che esso attiene alle modalità di attuazione delle strategie: quando si decide di decentrare, quando si dà l'attività a terzi indipendenti o ad una propria consociata, si tratta in sostanza di decisioni di "make or buy" (fare per conto proprio o acquistare dal mercato) e decisioni di questo tipo attengono alla sfera organizzativa, non strategica; si decide, in pratica, quali relazioni di mercato instaurare.


Descrivere compiutamente il paradigma dell'internazionalizzazione basato sullo sviluppo delle competenze distintive:


Il successo dei business intrapresi viene determinato non solo dalle scelte strategiche, ma anche dalla capacità manageriale di creare relazioni competitive e collaborative con i fornitori dei fattori e delle tecnologie. Nella individuazione delle relazioni ottimali che le imprese devono porre in essere con le forze dell'ambito competitivo entrano in gioco le competenze distintive (core factor) possedute (che permettono all'impresa di renderla quasi unica sul suo mercato), le quali fanno soprattutto riferimento alla capacità dei manager di saper combinare le risorse disponibili, in modo da poter acquisire più forza, o meno debolezza, nei confronti degli attori concorrenti dell'impresa.


Fig.3: La dimensione del business da intraprendere  



Le competenze distintive sono: a) competenze tecnologiche: possibilità dell'impresa di sfruttare la tecnologia per creare prodotti innovativi; b) competenze di mercato: capacità che ha l'impresa di combinare le risorse disponibili e quelle investite nelle attività di mercato per vincere la gara competitiva: riguardano le combinazioni delle conoscenze dell'impresa su come aggredire segmenti di mercato in cui essa opera; c) competenze organzzative: si combinano spesso con quelle di mercato per creare la formula imprenditoriale di successo; d) competenze finanziarie: la creazione di centri di netting, di rifatturazione, permette alle imprese di conseguire utili finanziari che devono, o dovrebbero, essere reinvestiti nella gestione caratteristica; e) competenze di general management: sono competenze di conduzione generale dell'impresa. L'importante è che queste competenze siano trasversali lungo tutta la catena del valore, dall' approvvigionamento alla vendita, e per il successo, è importante che queste competenze si abbiano anche lungo il sistema del valore, ossia l'insieme di catene del valore dell'impresa e degli altri attori con cui l'impresa ha delle relazioni collaborative, di mercato o, naturalmente, di proprietà.

Afferma Dunning (1989) che non basta il possesso di un core asset (attività distintiva) per assicurare il successo del business, ma occorre che si crei nell'impresa, lungo punti diversi della catena del valore, un sistema di asset complementari che riescano a coordinare l'asset posseduto. Dunning dice, con un linguaggio da economista, che le risorse non bastano, ci vogliono capacità manageriali per organizzarle, e queste capacità si acquistano con le suddette competenze distintive, le quali si sviluppano solo con le conoscenze: sono le conoscenze che creano le competenze distintive. E' proprio questo insieme di competenze complementari, dice Dunning, che può difendere l'impresa dall'appropriazione da parte degli imitatori di una specifica conoscenza, originariamente firm-specific.


Descrivere il "circolo virtuoso" che si instaura tra conoscenze e strategie di sviluppo:


Relativamente alle modificazioni che si realizzano nel patrimonio delle competenze distintive, in funzione dei cambiamenti dell'ambito competitivo indotti dalle nuove attività intraprese, possiamo definire le diverse alternative strategiche di sviluppo dell'impresa.

Operiamo innanzitutto alcune precisazioni terminologiche: se l'ambiente in cui si vuole entrare è familiare le competenze crescono in modo "tendenziale" o "continuo", nel senso che le competenze che si aggiungono allo stock di competenze già possedute non sono significativamente diverse da quelle preesistenti (ciò che accade, per esempio, ad un'impresa italiana che vuole commerciare in Spagna); se l'ambito competitivo in cui si vuole entrare non è familiare le competenze distintive da sviluppare saranno significativamente diverse da quelle già possedute, e si dice che l'incremento (o lo sviluppo) delle competenze è "discontinuo". Inoltre, la crescita delle competenze in un'impresa può essere "a somma positiva, negativa  o nulla", proprio come il vettore della crescita di un'impresa: la somma è "positiva" quando al patrimonio si aggiungono conoscenze (e quindi competenze); "negativa" quando si dismettono competenze (ad esempio quando si licenzia un manager specializzato); "nulla" quando la differenza fra conoscenze dismesse ed acquisite, sempre a causa dell'internazionalizzazione, è nulla.


Fig.4: Competenze distintive e strategie d'impresa



si ha "diversificazione" allorquando si realizza nell'impresa un incremento "discontinuo" ed "a somma positiva" dei core-factor, cioè, quando nuove e diverse competenze distintive si aggiungono (e non si sostituiscono) alle precedenti. Ciò accade quando, per esempio, un'impresa italiana vuole entrare in Giappone, in Cina o in Russia: se si entra in un ambiente simile, le forze dell'ambito competitivo sono diverse e così c'è bisogno di acquisire altre conoscenze, diverse da quelle già possedute, di modo che il patrimonio cumulato di conoscenze aumenti "a somma positiva" (perché altre conoscenze si aggiungono) e lo sviluppo delle competenze distintive avvenga in modo "discontinuo" (perché le conoscenze che si aggiungono sono nuove rispetto a quelle già possedute). Quanto detto si avvicina al pensiero della Penrose, la quale affermava che, qualora si entri in mercati non familiari, si hanno gli stessi effetti di una diversificazione produttiva. Allorquando le nuove e diverse competenze distintive acquisite evidenziano sinergie con le conoscenze preesistenti si configura la c.d. "diversificazione concentrica"; quando, invece, non presentano alcuna connessione con esse si configura la c.d. "diversificazione conglomerale" (da notare lo stretto collegamento che si evidenzia fra le strategie di diversificazione concentrica ed il concetto di integrazione verticale);

facciamo il caso della stessa impresa italiana che si è diversificata, ad esempio, in Giappone, e facciamo il caso che questa diversificazione sia stata un "flop", perché l'impresa non ha avuto successo in quel business: in questo caso l'impresa deve ritornare indietro, con grave danno, e le conoscenze acquisite per diversificarsi si dismettono, cioè diminuiscono. E' questo il caso del "ricentraggio", o "eliminazione dei rami secchi" (si ritorna al core: questo accade quando l'impresa era diversificata, altrimenti non si ritorna al core, perché da questo, in realtà, non ci si era mai allontanati), che si ha quando si dismettono competenze (alla fine la crescita del patrimonio di conoscenze sarà "nulla", o "negativa" se le competenze ora dismesse avevano occupato un ruolo importante all'interno del patrimonio stesso) e lo sviluppo delle competenze distintive è "continuo" (o "tendenziale"). Ci si può chiedere perché tale sviluppo sia "continuo" e non, invece, "discontinuo", visto che le competenze dismesse erano, all'epoca dell'acquisizione, competenze "nuove" per l'impresa: le competenze, all'epoca della dismissione, facevano parte dello stock di competenze distintive dell'impresa, e quindi non erano "nuove", perciò lo sviluppo (che in questo caso è negativo, quindi è "inviluppo") delle competenze è "tendenziale";

la "riconversione" è una vera e propria rivisitazione completa del business aziendale, e si ha quando il patrimonio delle conoscenze non si sviluppa (crescita "a somma negativa o nulla"), perché conoscenze "vecchie" (che costituivano il vecchio business) vengono sostituite da conoscenze "nuove" (che costituiscono il nuovo business); questa novità nelle conoscenze, inoltre, fa sì che lo sviluppo delle competenze distintive avvenga in modo "discontinuo". La riconversione si attua in situazioni di crisi endogene o indotte da fattori esterni (ad es. normative restrittive), ed in questo si differenzia dal turn-around, il quale si attua deliberatamente, anche per migliorare la profittabilità dell'impresa. Un riorientamento del business non è sempre indotto da situazioni di crisi; inoltre, cosa più importante, nel turn-around non si abbandonano i vecchi business, ma si rivisitano. E quindi il turn-around si può attuare tramite strategie di ricentraggio, espansione o diversificazione: non è una strategia, bensì un mix di strategie. Ecco perché non compare esplicitamente nel modello;

quando la crescita del patrimonio cognitivo è "a somma positiva" ed avviene in modo "continuo" abbiamo il caso dell'"espansione": una riorganizzazione del patrimonio cumulato già presente in azienda, una crescita con conoscenze che si aggiungono, ma conoscenze familiari, non nuove. Proprio alla Penrose, si utilizzano i servizi delle risorse non utilizzate. Così accade, quindi, quando entriamo in mercati familiari (appartenenti al nostro stesso cluster): un'impresa italiana che si internazionalizza per espansione, probabilmente si dirigerà verso il mercato spagnolo o francese.

Con questo nuovo paradigma dell'internazionalizzazione si crea un "circolo virtuoso tra conoscenze e strategie", nel senso che le conoscenze possedute sono la base per mettere in atto strategie, ma una volta che le strategie richiedono, come abbiamo visto, conoscenze nuove che si cumulano con le precedenti, si può arricchire lo stock di conoscenze possedute, e il processo si ripete qualora si decide di attuare un'altra strategia. Il circolo virtuoso che si instaura è: conoscenze strategie incremento delle conoscenze.

Si amplia così lo stock delle conoscenze e si possono implementare strategie di sviluppo.

Tale circolo virtuoso rappresenta per le imprese una continua fonte di opportunità, ma anche una costante presenza di minacce che impongono alle moderne organizzazioni l'adozione di una elevata flessibilità strategica e di una cultura d'impresa aperta al cambiamento.


In sintonia con la scuola di Uppsala, processi di internazionalizzazione e processi di apprendimento presentano punti di omogeneità e di difformità: quali?


I risultati delle ricerche svolte dagli studiosi dell'Uppsala School (Svezia) enfatizzano l'evoluzione per fasi che caratterizza il modello di sviluppo delle attività internazionali.

Gli studiosi svedesi affermano che il processo di internazionalizzazione delle imprese è per sua natura lento, in quanto basato sulla crescita dell'apprendimento che si snoda lungo un percorso sequenziale, la cui cumulatività è assicurata dai trasferimenti da paese a paese.

D'altro lato non sembra accettabile l'ipotesi che il tipico modello di internazionalizzazione segue un percorso di sviluppo che parte dall'esportazione indiretta, seguita dalla concessione di licenze, per terminare poi con gli investimenti diretti all'estero. L'integrazione dei meccanismi competitivi e la crescita di modelli di reti internazionali inter-organizzative, che caratterizzano le moderne economie permettono un posizionamento iniziale delle conoscenze delle imprese su livelli più elevati della curva dell'apprendimento, accelerandone così i ritmi di crescita.


Descrivere il parallelismo che può riscontrarsi tra il paradigma delle strategie dell'internazionalizzazione, basato sullo sviluppo delle competenze distintive, ed il paradigma dello sviluppo innovativo (traiettorie tecnologiche):


La traiettoria tecnologica costituisce la direzione, il sentiero che l'impresa decide di intraprendere nel processo di cambiamento tecnologico. Posta quindi all'interno di un paradigma definisce l'ottica dalla quale normalmente si agisce per la risoluzione dei problemi (sulla base, appunto, di un paradigma tecnologico).

Secondo i paradigmi descrittivi delle traiettorie di sviluppo innovativo, le attività innovative, pur partendo da motivazioni economiche, si muovono lungo traiettorie tecnologiche, delimitate da successivi stadi di abbattimento delle frontiere tecnologiche che, per effetto delle stesse innovazioni, continuamente si spostano.

E' implicito, in questo concetto, una forma di parallelismo con il paradigma delle strategie di internazionalizzazione basato sullo sviluppo delle competenze distintive, in quanto è presente un processo circolare di diffusione delle conoscenze ed una visione dell'impresa come soggetto attivo e consapevole del cambiamento.

Analizzare questa sovrapposizione consente di individuare problemi e difficoltà di uno sviluppo innovativo su segmenti di mercato non familiari e, pertanto, caratterizzati dalla stessa incertezza che incombe sull'innovatore. All'interno di un paradigma, il processo di sviluppo procede secondo caratteri di cumulatività, essendo tale processo basato sull'apprendimento; logicamente, nel momento in cui si sviluppa un nuovo paradigma teorico, le traiettorie di sviluppo delle conoscenze non sono ancora ben definite e, in tali casi, riescono a trarre vantaggi solo le imprese che sono riuscite a situarsi lungo il circuito informativo, ossia le imprese che più tempestivamente sono riuscite ad acquisire informazioni e conoscenze circa i mercati più innovativi; quando poi le conoscenze si affinano, si delineano traiettorie ben precise lungo le quali ogni impresa decide di posizionarsi in relazione alle proprie scelte strategiche. Tale processo, come detto, è di natura ciclica, per cui le condizioni di stabilità permangono fino al momento in cui si affermerà un nuovo paradigma. Inoltre, è proprio l'esistenza della molteplicità di vie di sviluppo da seguire che sprona le imprese verso continui miglioramenti, e solo le imprese che sanno "fare strategia" riusciranno a scegliere le vie più giuste.


Descrivere il concetto di internazionalizzazione per diversificazione. Quali vantaggi discendono dall'operare in cluster omogenei di paesi? (riferire anche il pensiero di Teece)


In un'ottica di sviluppo discontinuo a somma positiva delle conoscenze e competenze distintive, si configura la strategia di diversificazione (internazionalizzazione per diversificazione). Da questo punto di vista sono necessarie nuove conoscenze per allocare l'output aziendale nei nuovi mercati, essendo in questi significativamente diverse le regole della concorrenza che discendono dall'operare congiunto delle cinque forze competitive (vedi fig.3). Il livello di complessità cresce esponenzialmente all'aumentare della diversità dei vari contesti rispetto a quello domestico.

L'internazionalizzazione per diversificazione raggiunge migliori performance se la strategia si attua "a piccoli passi", specialmente se i contesti in cui si vuole penetrare si presentano instabili ed incerti relativamente ai ritorni potenzialmente conseguibili a seguito dell'attuazione della strategia stessa.

Le ricerche passate sul tema si erano concentrate sul tema della diversificazione conglomerale. Negli ultimi decenni l'attenzione è stata focalizzata sulla diversificazione geografica di tipo concentrico, ossia sui casi in cui lo sviluppo dell'impresa avviene all'interno di cluster relativamente omogenei di paesi. Sono vari gli autori che hanno espresso un loro pensiero al riguardo:



  • secondo Vachani (1990), nei casi di internazionalizzazione per diversificazione, le imprese che operano in cluster relativamente omogenei di paesi hanno maggiori opportunità di conseguire profitti più stabili, sfruttando in modo ottimale il proprio bagaglio conoscitivo;
  • per Grant (1987), le multinazionali che operano in paesi psicologicamente vicini sostengono minori costi di coordinamento e possono trarre benefici in termini di economie di scala;
  • partendo dal pensiero di Hymer (1960), il quale affermava che un ruolo importante nella teoria delle multinazionali era ricoperto dal "patrimonio oligopolistico di beni intangibili" dell'impresa (ownership advantage) che permettesse loro di competere in ambiti non familiari, successive ricerche hanno enfatizzato la connessione esistente tra il livello di somiglianza dei cluster di paesi in cui operano le multinazionali e la capacità delle imprese di sfruttare a proprio vantaggio la dotazione delle suddette invisible assets (attività invisibili) possedute;
  • per Teece (1986), la vicinanza fisica spinge le consociate ad attivare meccanismi di scambio delle conoscenze tecnologiche, perseguendo, così, l'obiettivo di realizzare più elevati livelli di efficienza produttiva e commerciale, attraverso le economie di scopo che si raggiungono quando le nuove competenze sono correlate sinergicamente a quelle preesistenti;
  • per Buckley, Casson (1976) e Ronen (1986) dal punto di vista culturale, la vicinanza permette alle imprese di standardizzare più facilmente alcune attività, come il marketing, e di ridurre pertanto i costi e la complessità delle operazioni manageriali.

Quali pericoli discendono da una internazionalizzazione per diversificazione di tipo conglomerale?


Una tale strategia non garantisce di per sé la sopravvivenza sul mercato per due ordini di motivi:

con l'aumentare della distanza cresce l'esigenza di nuove conoscenze, cresce l'incertezza percepita dai manager (circa le previsioni di impatto delle azioni da intraprendere sulle performance aziendali) ed aumenta l'esposizione al rischio delle imprese;

in secondo luogo, i livelli elevati di incertezza percepita creano nei manager una situazione di inerzia, che, a lungo andare, porta a situazioni di fallimento delle politiche di penetrazione prefissate.

Va inoltre notato che la maggiore attenzione richiesta per lo sviluppo di nuove attività può condurre ad una maggiore difficoltà nel mantenimento delle posizioni competitive raggiunte in attività già consolidate; e ancora, una continua espansione in mercati non familiari porta l'impresa ad avere a che fare con problematiche sempre nuove, le competenze per risolvere le quali, si trovano ad un livello ancora basso della curva di apprendimento. Questo impedisce lo sviluppo della routine e riduce la possibilità di coordinare le varie attività in modo efficace ed efficiente.


Descrivere il concetto di strategie di ricentraggio. Quali strategie di ricentraggio sono state poste in essere dalle grandi imprese internazionali e perché? (descrivere almeno tre casi tra quelli di break up, asset swap e di specializzazione incrociata posti in essere dalle grandi imprese internazionali)


La strategia di ricentraggio porta a concentrare il campo d'azione sul core, liquidando sia le attività prive di una ragion d'essere, per crisi di domanda oppure per crisi da inefficienza (taglio dei rami secchi), sia le attività non strettamente correlate alle attività centrali dell'impresa. Nel primo caso si configura come una vera e propria strategia di sopravvivenza; nell'altro caso accelera, nel lungo periodo, il processo di crescita dell'attività strategica.

Dalla fine degli anni '80 si è assistito, soprattutto in U.S.A., ad uno smembramento delle conglomerali e ad una riallocazione delle risorse così liberate nelle attività core. Tali processi di ridimensionamento sono una naturale conseguenza delle strategie di diversificazione troppo spinta degli anni precedenti, che avevano portato all'insorgere di diseconomie di coordinamento, ad effetti distorsivi nel meccanismo allocativo delle risorse, alla non riproducibilità, in tutti gli asset, delle competenze distintive e, al limite, al fallimento del business complessivo.

Tra il 1988 ed il 1996, le grandi imprese internazionali dei settori delle telecomunicazioni, dell'informatica e dell' elettronica hanno posto in essere strategie di ricentraggio attraverso processi di break-up, di spin off e, in alcuni casi, di asset swap:

  • l'Unilever ha ceduto, nel 1991, l'attività di packaging, non strettamente rientrante nelle sue attività core, attraverso processi di spin off, attuati con ex-dipendenti dell'area logistica;
  • in tema di break-up, la Kodak, nel giugno 1993, ha ceduto la sua divisione di chimica per ridurre la massa dei debiti accumulata negli ultimi anni e per concentrarsi sulle attività strategiche del settore video-fotografico;
  • nel 1993, la AT&T ha dato luogo al break up più rilevante della storia americana, attuando la cessione di tre grandi divisioni: "servizi di telecomunicazione", "apparecchi per telecomunicazione" e "informatica"; nel 1996 ha completato la disintegrazione, cedendo la società NCR e Lucent, del settore informatico;
  • nel 1992 si realizza un caso tipico di specializzazione incrociata: l'inglese Imperial Chemical Industries (ICI) e l'americana Dupont pongono in essere un asset swap: la Dupont cede il business degli acrilici alla ICI, mentre l'ICI cede il business del nylon. Oltre al rafforzamento produttivo nei settori core, l'asset swap ha permesso ad entrambi i partner di ricentrarsi sui mercati core (internazionalizzazione per ricentraggio): il Nordamerica per l'ICI e l'Europa per la Dupont.

Anche nel settore finanziario si è assistito ad un fenomeno simile e molte società finanziarie hanno adottato un approccio maggiormente selettivo dei mercati geografici da servire:

  • la Lloyds Bank  ha ceduto le sue filiali nell'Europa continentale ed in Nord America, per focalizzarsi nei mercati più familiari e nelle attività di clearing;
  • molte banche americane, come ad esempio la J.P. Morgan, hanno ceduto attività marginali, come quella di "custodia titoli", ad operatori specializzati.

Descrivere le determinanti della specializzazione cui sembrano tendere le moderne economie. Attualmente, come si specializzano le imprese?


La specializzazione a cui sembrano tendere le moderne economie fonda le sue radici non solo sulle differenze di costo delle produzioni dei diversi paesi, ma anche su altre determinanti quali: la tendenza alla globalizzazione dei mercati dei fattori e dei beni; la presenza di minori barriere all'entrata nei diversi settori dell'economia.

Per quanto riguarda la globalizzazione: il perseguimento di una strategia globale, nel richiedere un elevato coordinamento delle attività decentrate, ha spinto le imprese a concentrare l'attenzione su competenze distintive sinergicamente interrelate e, quindi, più facilmente coordinabili da parte del management aziendale.

Per quanto riguarda la seconda determinante (la maggiore penetrabilità dei settori): l'estensione dei confini settoriali delle attività d'impresa, indotta dallo sviluppo di nuove tecnologie trasversali (di più facile accesso ed appropriabili a minor costo) ha, infatti, portato il management ad assumere posizioni maggiormente difendibili.

Attualmente, la ricerca dell'efficienza e di una posizione maggiormente difendibile dalla concorrenza effettiva e potenziale ha portato le imprese a specializzarsi, oltre che per prodotto, anche per fasi di lavorazione (in un'ottica di filiera di produzione, in modo da configurare strutture sequenzialmente interdipendenti) e per attività della catena del valore (in un'ottica di vantaggio competitivo che discende dal sapere esternalizzare attività della catena ad imprese terziste: nelle moderne imprese questo porta all'esternalizzazione anche del marketing, delle attività di R&S, degli approvvigionamenti, della logistica e così via).


Quali erano le determinanti "tradizionali" delle scelte di internazionalizzazione?


Prima degli anni '70 per le imprese americane l'internazionalizzazione era considerata tappa obbligatoria del processo di crescita dell'impresa e, da un punto di vista sequenziale, era fase immediatamente successiva all' espansione nei mercati locali. Le determinanti delle scelte d'internazionalizzazione erano da riscontrarsi:

  • nella debole connessione sistemica esistente nella struttura oligopolistica statunitense, oppure nella rivalità oligopolistica delle imprese;
  • nei più contenuti costi del lavoro all'estero;
  • nel continuo apprezzamento del dollaro sulle valute straniere che incoraggiava le imprese statunitensi a sostituire le esportazioni con gli investimenti diretti all'estero;
  • nella limitatezza delle competenze disponibili, che portava a scegliere l'internazionalizzazione come alternativa alla diversificazione nel mercato interno.

Chandler ha evidenziato le fasi sequenziali di sviluppo delle grandi multinazionali americane: nelle fasi iniziali le organizzazioni cominciano a concentrare risorse monetarie e conoscitive nei core business e nell'ambito dei confini domestici; dopo aver raggiunto un solido vantaggio competitivo nei mercati domestici, le imprese procedono, in un'ottica di espansione internazionale, con strategie d'integrazione verticale, strategie di diversificazione correlate e, infine, con strategie di diversificazione conglomerale.

Quindi, l'internazionalizzazione per diversificazione era vista come fase finale del processo di crescita indotto dalle opportunità di investire risorse in eccesso in attività generatrici di valore. La strategia era generalmente finalizzata all'investimento di un eccesso di liquidità sui fabbisogni richiesti dagli investimenti correnti.

Concretizzandosi le determinanti dell' internazionalizzazione essenzialmente in una ottimizzazione del portafoglio d'impresa, i limiti condizionanti le scelte decisionali riguardavano, perciò, la sfera finanziaria dell'attività d'impresa, poichè il finanziamento delle nuove attività doveva essere autoprodotto, e questo implicava, nelle aziende, la necessità di  elevata presenza di "eccedenze di cash flow".

L'internazionalizzazione era considerata percorso obbligato della crescita dell'impresa, specie quando i beni prodotti si trovavano in una fase di maturìtà/saturazione del mercato domestico.


Quali sono le determinanti delle scelte di internazionalizzazione nell'ottica delle moderne imprese?


La spinta alla diversificazione in nuovi mercati o in nuove attività produttive si riduce a due determinanti teoriche:

l'esistenza di risorse e conoscenze non utilizzate (alla Penrose);

la necessità di monitorare comportamenti di mercati, produzioni, settori (apertura di finestre cognitive), al fine di cogliere le opportunità che possono emergere.

Per quanto riguarda il primo punto, recentemente, in teoria, si enfatizza l'entrata in nuovi business quale strumento che permette alle aziende di colmare "vuoti di offerta" (c.d. ingresso nei vuoti di offerta), situazioni in cui la domanda risulta insoddisfatta per carenza o, al limite, per inesistenza dell'offerta. Questa situazione può verificarsi a causa di opportunità non colte dalle imprese locali ed è sfruttabile dai concorrenti che posseggono le necessarie competenze distintive. Sono queste le determinanti che hanno spinto le imprese giapponesi a penetrare nel mercato americano e che hanno decretato il successo della strategia incrementale nipponica.

Passando al secondo punto, per "finestra cognitiva" si intende quella tipologia di finestre che le imprese aprono nelle aree interessate per apprendere i meccanismi prevalenti di mercato (finestre di mercato), oppure per conoscere tecnologie innovative che si stanno sviluppando in determinati ambienti, per eventualmente appropriarsene (finestre tecnologiche). Anche la collaborazione tra imprese può essere intesa come "apertura di finestre cognitive", se essa si concretizza in una joint-venture con una qualsiasi forma di partecipazione al capitale del partner.

In ultima analisi, "aprire finestre cognitive" significa essere presenti alla frontiera delle conoscenze ed acquisire la possibilità di agire in anticipo sui concorrenti.


E' vero affermare che il "nuovo modo di competere" dei manager è centrato maggiormente sul sapere e sulla conoscenza, piuttosto che sui profitti e la redditività? (se no, perché?). Quali sfide ambientali devono oggi essere affrontate dai manager?


Per l'acquisizione di migliori posizionamenti competitivi e per intraprendere azioni adeguate al cambiamento, occorre conoscere, acquisire informazioni, saperle interpretare, soprattutto quando si vuole operare in ambiti internazionali. La spinta all'espansione internazionale delle moderne imprese proviene proprio dal bagaglio d'esperienza creato attraverso lo sviluppo del processo conoscitivo.

Quanto detto sembrerebbe voler affermare che un nuovo modo di competere del management è quello centrato maggiormente sul sapere e sulla conoscenza, piuttosto che sui profitti e sulla redditività d'impresa. Questo però non è vero, perché la conoscenza e la redditività sono due variabili interdipendenti che insieme creano le premesse per l'efficace ed efficiente agire imprenditoriale (l'una), e denotano la capacità dell'impresa di accettare le sfide e rispondere ai mutamenti ambientali con risposte pronte ed appropriate (l'altra). E così deve necessariamente essere in quanto non è possibile ipotizzare un ambiente stabile ed immutato nel tempo. L'ambiente è peculiarmente, irreversibilmente ed ineliminabilmente vario e variabile, caratteristiche che, col loro agire combinato, lo portano a definire come "turbolento".

Le sfide ambientali che oggi mettono a dura prova gli skills manageriali riguardano in primo luogo l'affermarsi di nuove tecnologie, che ha reso più fluidi i confini dei mercati e dei settori, intensificando la concorrenza tra le imprese, attraverso una diminuzione delle barriere all'entrata; in secondo luogo, la nascita di nuovi materiali e l'utilizzo degli stessi nelle produzioni hanno spesso ampliato la presenza di prodotti concorrenti e sostitutivi, che hanno contribuito a minare la posizione competitiva delle imprese sui propri mercati; inoltre, l'ampliarsi dei confini dei mercati di sbocco e la lontananza degli stessi, le crescenti difficoltà finanziarie e valutarie in cui si trovano molti paesi hanno fatto crescere gli ostacoli alle trattative, rese ancora più difficili dalle possibili asimmetrie culturali dei paesi di origine e di destinazione.

Queste sfide ambientali accelerano i tassi di sviluppo del circuito che, partendo dalle stesse, e attraverso i maggiori input informativi richiesti, genera nuove azioni e logiche comportamentali manageriali e, quindi, nuove sfide.







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