Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

LAVORO IN K. MARX LA QUESTIONE DEL LAVORO - La divisione del lavoro nell'Ideologia tedesca (1845-46)

economia



LAVORO IN K. MARX

LA QUESTIONE DEL LAVORO

La divisione del lavoro nell'Ideologia tedesca (1845-46)



Nell'Ideologia tedesca (qui citata come La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1974) Marx (ed Engels) afferma che la "coscienza tribale" porta alla divisione del lavoro non in seguito a una rottura sociale ma spontaneamente: in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e della popolazione (p. 50). Da notare che per Marx la "coscienza tribale" implica la "proprietà tribale" e quindi già una società divisa in classi, che non ha nulla a che fare col comunismo primitivo né con le società preschiavistiche: infatti nella società tribale è prevista la presenza degli schiavi. Nell'Ideologia tedesca ancora non ci s'immagina l'esistenza di un comunismo primitivo, o comunque questo non è oggetto d'interesse.

Marx sostiene che esistono due forme di divisione del lavoro: una spontanea, naturale, istintiva e qui Marx dice che la prima divisione è quella "nell'atto sessuale", in quanto la donna è preposta in maniera più esplicita, diretta, alla riproduzione della specie.



L'altra divisione del lavoro è basata sulla forza fisica, il bisogno, il caso (p. 51), ed è per così dire "relativa", non costituendo un vero problema sociale. Infatti, "la divisione del lavoro diventa una divisione reale solo nel momento in cui interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale"(ib.): cosa che non si verifica nella società tribale, dove essa non è che "un prolungamento della divisione del lavoro nella famiglia"(p. 38), e la schiavitù si sviluppa "con l'aumento della popolazione e dei bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto"(ib.).

Ora facciamo attenzione. Lasciamo perdere il fatto che Marx non spieghi il passaggio dal comunismo primitivo alla società tribale e che dia per scontata la presenza dello schiavismo in quest'ultima o comunque che supponga uno sviluppo spontaneo dello schiavismo nel tribalismo (cosa, in realtà, tutt'altro che assodata). Ciò che ci preme sottolineare è che la vera divisione del lavoro che produce qualcosa di inedito, in senso negativo, è quella che separa il lavoro manuale da quello intellettuale.

Infatti, "da questo momento in poi -dice Marx- la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la 'pura' teoria, teologia, filosofia, morale, ecc."(p. 51).

Per Marx questo non costituisce "problema" ma anzi il "senso della storia", poiché indica la differenza tra uomo pensante e animale o uomo non pensante, istintivo, tribale. Marx infatti parla di "coscienza da montone o tribale"(p. 50).

La stranezza di questo modo di ragionare, dovuto probabilmente al fatto che le conoscenze storiche erano ancora approssimative, si riflette laddove Marx è poi costretto ad affermare che contestualmente a questa divisione del lavoro, da manuale a intellettuale, che pur dà origine alla coscienza, si forma la pratica dello sfruttamento del lavoro altrui, cioè si forma lo schiavismo vero e proprio.

Qui evidentemente mancano dei passaggi logici, poiché non ha senso che da un lato la divisione del lavoro favorisca la nascita della coscienza e dall'altro questa stessa divisione porti l'uomo pensante a vivere contraddizioni insostenibili, anzi così intollerabili che ad un certo punto Marx si sente indotto a chiedere la fine della stessa divisione del lavoro. La possibilità che gli individui non entrino in contraddizione "sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro"(p. 51).

Infatti è proprio un difetto di questa divisione l'assegnare a individui differenti ciò di cui ognuno avrebbe bisogno e diritto: "l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo"(ib.). In forza di questa divisione si crea una "coscienza idealistica", che altro non è se non una rappresentazione astratta di individui isolati, l'espressione mistificata di conflitti sociali, di "ceppi e barriere molto empirici"(p. 52).

Marx ed Engels arrivano persino ad affermare con grande sicurezza che "divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche"(ib.), in quanto una è la forma del contenuto dell'altra. Infatti, "la divisione del lavoro... fondata sulla divisione naturale [nel senso di spontanea] del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l'una all'altra, implica in pari tempo... la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già la sua prima forma nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell'uomo"(ib.). In una parola, "i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà"(p. 37).

Il difetto di questa tesi sta proprio nell'aver estrapolato la prima, rudimentale, forma di schiavitù presente nella famiglia dal contesto sociale in cui essa s'è formata. Storicamente infatti non si è passati da una schiavitù limitata nell'ambito familiare a quella più estesa nell'ambito della società, tra persone non consanguinee, non imparentate.

Il potere di vita e di morte che il "pater familias" aveva sulla propria donna e sui figli era una conseguenza della società divisa in classi, e quindi un effetto dell'affermazione già sociale del principio della proprietà privata. In tal senso la prima forma di divisione del lavoro non si verifica tanto nell'ambito della famiglia, tanto in quello della stessa comunità, tra uomo libero e schiavo, e non può essere considerata come frutto di semplici determinazioni quantitative e progressive. L'introduzione di una differenza di così grande valore, basata sul rapporto di forza, determinerà la discriminazione tra uomo e donna.

Resta comunque interessante che il giovane Marx avesse nei confronti del precapitalismo maggiori forme di attenzione che non nel suo periodo inglese ma non è da escludere che questa parte sia stata scritta da Engels, che poi riprenderà, ampliandola, nella Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato.

Quel che è certo è che Marx considerava o comunque accettava l'idea che la divisione del lavoro è un'attività in contraddizione con "l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci... [interesse] che esiste anzitutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso"(p. 52). Questa idea non traeva forse la sua ispirazione dalle formazioni sociali precapitalistiche?

Anche quando Marx parla esplicitamente del capitalismo, non c'è apprezzamento, nell'Ideologia tedesca come invece negli studi inglesi, per la divisione del lavoro, poiché essa determina "la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale"(p. 37).

Marx inoltre qui anticipa un argomento che svilupperà a Londra: "fintantoché gli uomini si trovano nella società naturale [istintiva, non consapevole]... l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire..."(p. 53). Negli studi inglesi Marx arriverà a dire che questa potenza estranea è la stessa organizzazione di produzione e riproduzione del capitale.

Ma ciò che più lascia perplessi sono le conclusioni operative su questo discorso. Per realizzare il socialismo Marx ed Engels non pensano affatto a recuperare le dimensioni sociali del precapitalismo, ma anzi sperano ch'esse vengano definitivamente distrutte dal capitalismo, in modo che la stragrande maggioranza della gente sia priva di proprietà. Così la reazione al capitalismo sarà non solo su basi del tutto nuove, ma anche inevitabile. Di qui l'apprezzamento del fatto che la produzione capitalistica permette agli uomini di realizzare delle "relazioni internazionali"(p. 57), in opposizione al localismo della produzione feudale.

Il proletariato, per farsi valere come classe, in opposizione non solo alla borghesia, ma anche ai contadini proprietari della terra, deve conquistarsi il potere politico, "per rappresentare a sua volta il suo interesse come l'universale..."(p. 54). Il grande sviluppo delle forze produttive capitalistiche porterà, a motivo della proprietà privata dei mezzi produttivi, a negare tale proprietà alla massa della popolazione; porterà anche a una ricchezza mal distribuita. Se i lavoratori vedranno da un lato la loro miseria generale e dall'altro la ricchezza particolare di pochi capitalisti, si ribelleranno inevitabilmente.

Riflessioni sulla divisione del lavoro

In una società produttiva -aveva ragione Marx nelle sue opere giovanili- non dovrebbe mai essere troppo marcata la divisione del lavoro, e comunque non dovrebbe essere oggetto di costrizione, perché un lavoratore non può essere costretto, direttamente dalla politica o indirettamente dall'economia, a fare sempre le stesse cose.

Posta la socializzazione dei fondamentali mezzi produttivi, la divisione del lavoro dovrebbe riguardare solo un aspetto del lavoro collettivo, una sua particolare attività: nel senso che l'uomo può accettare, liberamente, di specializzarsi in un dato ramo produttivo o anche semplicemente in un'attività utile o apprezzata dalla collettività, senza che questo vada a detrimento della sua esigenza di completezza e di globalità.

Un lavoratore si sente realizzato quando anzitutto può provvedere ai propri bisogni essenziali, cioè quando è in grado di gestire autonomamente la risposta a un bisogno. Una divisione del lavoro avrebbe senso o per le necessità non essenziali (p.es. le comodità, il surplus, fino alle espressioni artistiche), oppure, se per le necessità essenziali, per quelle al cui soddisfacimento chiunque possa in qualche modo contribuire.

Un contadino può aver bisogno dell'idraulico per fare l'impianto di casa propria, ma non può averne bisogno in maniera assoluta, cioè come se la realizzazione di quell'impianto dipendesse unicamente dalla capacità dell'idraulico. Se un lavoratore dipende in toto da un altro lavoratore, esisterà sempre la possibilità che l'uno si arricchisca a spese dell'altro. La dipendenza, al massimo, può avere un senso se è relativa e, possibilmente, reciproca.

In generale vanno evitate tutte quelle forme di lavoro che possono essere utilizzate per ricattare economicamente o anche solo moralmente chi non svolge la medesima attività. La sottomissione alle competenze altrui dovrebbe essere vissuta come scelta spontanea, senza alcuna forma di costrizione.

Cioè l'uomo potrebbe concedersi alla divisione del lavoro se potesse rinunciarvi in qualsiasi momento. Questo ovviamente significa che le condizioni concrete dell'attività lavorativa vanno tenute costantemente sotto controllo. Non fa problema la specializzazione in sé, la professionalità, ma il fatto ch'essa sia il frutto di un'espropriazione della possibilità di rispondere ad esigenze vitali.

Un lavoratore è completo quando sa provvedere per gran parte alla totalità dei suoi bisogni, o quando sa che la dipendenza dagli altri lavoratori rappresenta non una minaccia alla propria autonomia, ma una fonte di sicurezza.

Riflessioni sul lavoro astratto

L'idea di voler considerare "sociale" la produzione capitalistica e "individuale" quella pre-capitalistica fu un errore che Marx si trascinò sino agli ultimi anni della sua vita, allorquando il contatto col populismo russo (non dimentichiamo che, nel momento in cui venne pubblicato, il Capitale ebbe più successo in Russia che in Europa occidentale) gli fece aprire gli occhi sul valore delle risorse umane e sociali di un'esperienza rurale come quella dell'obscina.

In effetti, l'aver basato la socialità della produzione capitalistica sul "lavoro astratto" fu un'operazione più filosofica che non storiografica.

La socializzazione dei produttori, inerente al fatto che si trovano insieme a lavorare in fabbrica, è solo una maschera strumentale alla realizzazione di un profitto privato, e se vogliamo considerare "sociale" il fatto che i produttori vengono trasformati in ingranaggi che devono far funzionare la macchina che fa accumulare capitali, allora bisogna dire che i sistemi schiavistici dell'età pre-cristiana erano non meno "socializzanti" dell'attuale capitalismo.

La cosiddetta "cooperazione dei produttori" è contingente alla loro specifica mansione, tant'è che in occasione delle crisi periodiche di sovrapproduzione il loro licenziamento tronca di netto ogni forma di socializzazione produttiva. Il capitalismo, seguendo in questo la dottrina calvinista, ha posto il lavoro al di sopra dell'uomo perché ha posto il profitto al di sopra del lavoro.

E i lavoratori occidentali riescono a sopportare questa situazione disumana solo perché, mentre pensano di non avere alternative, il capitale riesce a dare loro, per sopravvivere, quello che riesce a togliere ai lavoratori del Terzo Mondo.

Marx aveva ben capito che dietro la merce - che gli economisti borghesi volevano far passare come un prodotto neutro, frutto di una libera contrattazione - c'era un rapporto sociale basato sullo sfruttamento e che tale sfruttamento trovava degli addentellati nell'alienazione religiosa. Tuttavia, il pregiudizio che nutriva nei confronti della religione lo indusse a scorgere come unica vera forma di socializzazione, nelle economie pre-capitalistiche, quella della fase dello scambio dei prodotti, che inevitabilmente era ben poca cosa rispetto a quella borghese vera e propria, in quanto basata sulle eccedenze o comunque sull'acquisto di beni particolari, che non potevano essere autoprodotti dalla comune agro-artigianale.

In sostanza egli guardava il pre-capitalismo non come realtà a sé, coi suoi pregi e difetti, ma come una realtà del tutto inferiore a una che in virtù della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico era riuscita a trasformare completamente lo stile di vita a milioni di persone.

Quando Marx diceva che se nel capitalismo la socializzazione è un a-priori della merce, nel pre-capitalismo è invece un a-posteriori, non si rendeva conto di attribuire al concetto di "socializzazione" una valenza meramente economico-produttiva, tralasciando di considerare gli aspetti socio-culturali.

Nel mondo rurale del feudalesimo ci si sentiva socializzati anche quando si svolgevano mansioni isolate o di poche persone. Non era tanto (o solo) il lavoro che teneva uniti, quanto il valore che si attribuiva allo "stare insieme": era la vita che dava un significato al lavoro. E questo nonostante la tristissima esperienza del servaggio e l'insopportabile peso del clericalismo.

Marx non ha compiuto una vera rivoluzione culturale, in quanto si è servito della falsa rappresentazione capitalistica della socializzazione per screditare non solo l'esperienza religiosa pre-borghese (il che si può capire), ma anche l'esperienza sociale sottesa a quella religiosità.

Eppure proprio quell'esperienza ci fa capire che un lavoro non acquista il carattere della "socialità" nel momento stesso in cui si diventa "macchine umane" a fianco di altre "macchine fisiche" o nel momento in cui il bene prodotto viene scambiato.

Un lavoro è "sociale" se lo è l'esistenza in cui esso si manifesta. E' la pratica del valore sociale delle cose che dà al lavoro un carattere di socialità, a prescindere dall'effettivo scambio dei prodotti e dal fatto stesso di lavorare più o meno insieme.

Infatti, se in una società è assente il concetto di proprietà privata (che comunque nel Medioevo esisteva, ma in forme molto più sopportabili di quelle odierne, in quanto la capitalizzazione delle derrate era vincolata al consumo che se ne poteva fare e l'accumulo di terre aveva più che altro lo scopo di soddisfare ambizioni di potere politico o di prestigio personale), ogni bene prodotto è prodotto per tutti, è "sociale" per definizione, come un aspetto immanente alle cose.

Viceversa, nel capitalismo un bene diventa sociale solo quando si trasforma in merce, cioè quando viene scambiato contro denaro sul mercato. Se, per un qualunque motivo (p.es. la sovrapproduzione o la concorrenza di un prodotto analogo), non potesse esserci lo scambio, il bene resterebbe invenduto e, benché frutto di un collettivo di produttori aziendali, esso non avrebbe alcun carattere di socialità; il che dimostra, in maniera evidente, come lo scambio serva per realizzare un'attività antisociale per antonomasia: l'accumulo privato di capitali.

E' stata proprio la trasformazione del concetto di valore da etico a economico (p.es. ha valore solo ciò che ha un prezzo o che permette di realizzare profitti) che ha distrutto ogni forma di socializzazione. Se Marx avesse analizzato senza pregiudizi ideologici le formazioni pre-capitalistiche si sarebbe accorto che la misura del valore delle cose non sta tanto (o solo) nel tempo socialmente necessario per produrle, quanto piuttosto nell'importanza etica, culturale che la comunità attribuisce loro. Una cosa può avere molto valore anche se per produrla è occorso un tempo relativamente breve, non viene venduta sul mercato e i mezzi impiegati per produrla non sono di gran pregio: è il caso del vino per i contadini romagnoli, simbolo principale di un intero stile di vita.

Il tempo di lavoro socialmente necessario è una definizione astratta se applicata al sistema capitalistico, in quanto la determinazione dei prezzi delle merci tiene conto solo in minima parte di quella definizione. Non essendoci un valore "etico" delle cose l'instabilità, inclusa quella economica, è la regola sotto il capitale (lo dimostrano continuamente la sfrenata concorrenza, l'inflazione, i licenziamenti in caso di sovrapproduzione, il ricorso all'avventurismo bellico ecc.)

Oggi non è più così pacifico che una libertà formale sia sempre meglio di una servitù reale.

Differenza tra schiavismo e lavoro salariato

Il lavoro salariato è uno sfruttamento più sofisticato, più speculativo, dello schiavismo, in quanto, da un lato, garantisce la libertà formale (giuridica), dall'altro nega ogni libertà sociale, se non di dispone di proprietà adeguata.

Il lavoro salariato presuppone che l'imprenditore si ponga come unico scopo dell'esistenza l'accumulazione di capitali, cioè il possedere per possedere.

Mentre gli schiavi servivano per lavorare la terra, per edificare palazzi e monumenti, per le faccende domestiche, ecc., il lavoro salariato invece serve per accumulare quattrini, che in buona parte non vengono neppure reinvestiti per allargare la produzione.

Si determina così la netta prevalenza degli aspetti finanziari su quelli produttivi e il capitalismo assume sempre di più le caratteristiche delineate da Lenin nel suo libro sull'Imperialismo.

LAVORO PRODUTTIVO E IMPRODUTTIVO
(K. Marx, Lavoro produttivo e improduttivo, Editori Riuniti, Roma 1992)

Nelle sue analisi (antecedenti al Capitale, nel caso del libro in questione) sul lavoro produttivo e improduttivo, Marx ha messo in evidenza cose di straordinaria importanza, a riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, che per la costruzione del futuro socialismo democratico bisogna cercarne qui le premesse materiali fondamentali.

Anzitutto egli ribadisce continuamente, a chiare lettere, che in presenza della proprietà privata dei mezzi produttivi non è possibile una vera democrazia sociale, basata su una equità di tipo produttivo, in quanto non è possibile eliminare lo sfruttamento del lavoro. Altrove Marx ed Engels diranno, e Lenin s'incaricherà di verificarlo concretamente, che se lo sfruttamento può essere ridotto in virtù della contrattazione sindacale, è solo con la rivoluzione politica che si può eliminarlo, quella rivoluzione in grado di realizzare la proprietà sociale dei mezzi produttivi.

Se il denaro si presenta in maniera indipendente, al cospetto del lavoratore, come un potere la cui oggettività appare in tutta la sua estraneità, la trasformazione del lavoratore in operaio salariato è inevitabile, a meno che il lavoratore non disponga di mezzi produttivi adeguati (o comunque di risorse adeguate) per diventare capitalista. Tale trasformazione è specifica del capitalismo, in quanto solo in questa sistema sociale il lavoratore è da un lato salariato, cioè sottoposto alla volontà del capitale, e dall'altro cittadino giuridicamente o formalmente libero.

Marx non si pone la domanda se la trasformazione del denaro in capitale va considerata come un processo storico inevitabile: la dà per scontata ("il denaro è destinato a funzionare come capitale", dice a p. 23). E più estesamente: "sebbene il denaro che si trova in possesso del compratore di capacità lavorativa... diventi capitale solo mediante questo processo [capitalistico]... tuttavia è capitale in sé [cioè in fieri, in potenza]: per la forma indipendente in cui sta di fronte alla capacità lavorativa... fin da principio il denaro ha di fronte agli operai la determinatezza sociale che lo rende capitale e gli dà il comando sul lavoro"(ib.).
E' noto che Marx non è mai riuscito a chiarire l'origine storico-culturale di questa contrapposizione di capitale e lavoro, in quanto le sue analisi economiche e storico-economiche non si sono mai intrecciate, se non en passant, con quelle che avrebbe dovuto fare sulla teologia, specie quella cattolico-romana, che ha in sostanza posto le basi della "cosificazione della persona", poi sviluppate dal protestantesimo sino all'elaborazione dell'altro, decisivo, aspetto del feticismo borghese, che porterà alla nascita del capitalismo: la "personalizzazione delle cose" (vedi il punto 7 in questo elenco).

Un lavoratore indipendente, in quanto padrone dei propri mezzi produttivi, cioè un artigiano o un agricoltore, da un lato è capitalista e dall'altro è un salariato di se stesso, ma egli è comunque destinato, nel sistema capitalistico (specie quello in cui è sviluppato il macchinismo), a trasformarsi in un piccolo capitalista che sfrutta lavoro altrui, oppure in operaio salariato, indotto a ciò dalla concorrenza dei capitalisti più forti (p. 43). Tertium non datur Proprio perché mentre l'unione tra capacità lavorativa e proprietà dei mezzi produttivi appare sotto il capitalismo come accidentale, la separazione tra i due elementi è invece la regola (p. 42).

Il vero lavoro produttivo per il capitale è unicamente quello che produce plusvalore, immediatamente, per cui essere "produttivi", nel sistema capitalistico, non è per il lavoratore una fortuna bensì una disgrazia, per quanto l'essere "salariato" sia, per chi è privo di proprietà, un'esigenza di sopravvivenza.
Portando le cose all'estremo non sarebbe azzardato sostenere che un'azienda capitalistica può decidere di chiudere anche se il suo bilancio non è passivo, proprio perché il criterio di produttività è relativo al plusvalore accumulato e non tanto al fatturato complessivo.

Al capitale, la cui personificazione è il capitalista, interessa ciò che lo valorizza, non gli interessa il soddisfacimento di bisogni immediati, né il lavoro come prestazione di servizi, né una semplice circolazione di denaro che serve per acquistare merci. Tutto ciò gli può interessare solo nella misura in cui, indirettamente, contribuisce alla realizzazione di plusvalore, che è una parte di lavoro non pagata, cioè la differenza tra il salario pattuito e la capacità creativa del lavoro, in grado di aggiungere un surplus al valore alla merce. L'imprenditore non paga il lavoro, ma la forza-lavoro, cioè la capacità di lavorare in maniera creativa, aggiungendo valore alle merci, oltre il tempo sufficiente a riprodurre la stessa forza-lavoro.

Nelle pagine dedicate al lavoro produttivo di questo volumetto antologico, a volte s'incontrano riferimenti alla teoria del feticismo, che Marx svilupperà in maniera magistrale nel Capitale, secondo cui "ciò che distingue [il capitalismo] da tutte le forme precedenti, è il fatto che il capitalista non esercita il suo dominio sull'operaio grazie a qualche qualità personale, ma solo in quanto egli è "capitale""(p. 13). Si ha quindi un capovolgimento di ruoli: una "personificazione della cosa" (il capitale che impiega lavoro) e una "cosificazione della persona" (l'operaio come mezzo per produrre plusvalore). E' il "lavoro oggettivato" (capitali, materiali, mezzi...) che prevale sul "lavoro vivo" del lavoratore (l'impiego della forza-lavoro). Quindi in definitiva tutto si contrappone all'operaio: cooperazione, manifattura, fabbrica, ivi inclusa la scienza e la tecnica che stanno dietro ai diversi processi produttivi.

Non volendo ammettere la natura dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, la borghesia sostiene che qualunque lavoro che produce valori d'uso e di scambio è produttivo: col che essa si limita a contemplare lo scambio degli equivalenti che avviene nella fase immediatamente precedente allo sfruttamento vero e proprio, che è la fase dello scambio di lavoro (inteso come merce) contro denaro (inteso come capitale in sé). (cfr pp. 38-39, 61

Il vero lavoratore produttivo nel capitalismo non è il singolo operaio ma quello complessivo, manuale e intellettuale, soggetto a una determinata suddivisione di mansioni, la cui ricomposizione si verifica unicamente nel prodotto finale: la merce. Per operaio complessivo si deve intendere anche quello che estrae materie prime, quello che le lavora, quello che le distribuisce ecc. (p. 51).
La produzione tuttavia non è "sociale" perché l'operaio è "complessivo". Il realtà il carattere "sociale" appartiene unicamente al capitale, l'operaio resta un individuo isolato, una rotella dell'ingranaggio, che non ha neppure piena consapevolezza di ciò che fa. Per organizzare la produzione in maniera "sociale", dal punto di vista del lavoratore, bisogna prima abolire la proprietà privata dei mezzi produttivi.

In genere, precisa Marx, il vero lavoratore produttivo per il capitale è quello che permette al capitale di separare nettamente il lavoratore dalla merce prodotta: il che è possibile anzitutto in virtù del macchinismo. I lavori fruiti come servizi (p.es. un insegnante che tiene corsi) possono generare plusvalore per l'imprenditore, ma essendo legati alla persona costituiscono una quota insignificante rispetto agli altri lavori produttivi (p. 58).

Per poter sussistere, il capitalismo, essendo basato sull'ingiustizia sociale dello sfruttamento del lavoro altrui, ha bisogno di dotarsi di tanti lavoratori improduttivi a scopo ideologico o apologetico (i cosiddetti servitori del sistema e dello Stato): il che contrasta con la funzione prioritaria assegnata dalla borghesia al lavoro produttivo. E nel Capitale verrà detto che lo sfruttamento capitalistico delle macchine non ha diminuito ma aumentato il numero degli "schiavi domestici moderni" o "classe dei servitori".

Marx inoltre sostiene che tutto quanto non viene reinvestito in mezzi produttivi e di sussistenza, ma consumato come reddito in articoli non riproduttivi, solo per "soddisfare capricci, desideri ecc.", da parte del capitale, inevitabilmente frena lo sviluppo della ricchezza (p. 59). La produzione di oggetti di lusso rientra nel concetto di lavoro produttivo, ma un eccessivo consumo di questi oggetti è indice di un minor investimento nei mezzi di sussistenza necessari.

Oltre il concetto di lavoro produttivo

Fatta la rivoluzione politica, cioè dando per scontato che il capitale non può rinunciare spontaneamente a sfruttare il lavoro, e affermata la proprietà sociale dei mezzi produttivi (sociale, non statale, altrimenti si ricade nell'assurdità di un socialismo amministrato dall'alto), come sviluppare il socialismo democratico in chiave umanistica?

Posto che la dignità della persona umana non può essere data stricto sensu dal lavoro, ovvero che la sua identità non può dipendere, ipso facto, da un'attività che dovrebbe acquisire il suo significato dallo stesso essere umano, ha ancora senso parlare di "lavoro produttivo" e "lavoro improduttivo"? Queste categorie borghesi non devono forse essere superate? A livello etico l'unica differenza ammissibile dovrebbe essere quella tra "lavorare" e "oziare", nel senso che "chi non lavora non mangia", a meno che non sia impedito da qualcosa di oggettivo (malattia, handicap, età ecc.).

A livello economico occorre ribadire la necessità di affermare.

Nel socialismo democratico non ha senso distinguere tra "lavoro" e "hobby", tra "tempo di lavoro" e "tempo libero". Lavorare è una necessità per poter vivere fisicamente, perché la ricerca di cibo, la fabbricazione di una casa, di un mezzo di trasporto o di un abito è comunque "lavoro", ma qualunque attività creativa che aiuti a vivere spiritualmente, intellettualmente, culturalmente, artisticamente, cioè in maniera immateriale, ha la stessa dignità del lavoro svolto per la sopravvivenza materiale e per la riproduzione della specie.

Una ripartizione del reddito sulla base del lavoro non ha senso nel socialismo democratico, poiché non ha senso stabilire dei criteri d'importanza per le mansioni che si svolgono. Ognuno deve lavorare sulla base delle proprie capacità e possibilità e, sotto questo aspetto, ogni lavoro è importante ai fini della conservazione e riproduzione della comunità. Le responsabilità sono di natura etica e per queste non ci può essere compenso materiale. Quindi il reddito va equamente distribuito per soddisfare esigenze basilari, materiali e immateriali. Il resto è surplus. Prima viene il sociale, poi l'individuale. Il sociale deve poter garantire uno standard vitale per tutti; posto questo, l'individuale può anche andare alla ricerca di un plus particolare.



GENESI DELLA RENDITA FONDIARIA CAPITALISTICA
(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 47)

Marx delinea estesamente il concetto di rendita feudale (cosa che peraltro aveva già fatto alle pp. 285-296 del I libro del Capitale): è pluslavoro non retribuito; rendita e plusvalore coincidono in quella parte di tempo che il contadino è costretto a impiegare per il proprietario terriero. Cioè fintantoché il contadino lavora per sé, coi mezzi e la terra che possiede, non c'è sfruttamento. L'eccedenza del prodotto ottenuto dal lavoro nel proprio campo, dipende dalla differenza del tempo impiegato per sé e il feudatario.

Ovviamente la rendita è servaggio. Il produttore non è libero, non lo è neppure quando le corvées si trasformano in obbligo tributario. Non lo è semplicemente perché il produttore non è "proprietario" della terra che lavora, ma solo "possessore". La terra gli viene concessa in usufrutto, sub conditione della prestazione gratuita di lavoro o di prodotti, e in tale concessione egli esercita la propria autonomia (sempre relativa), sino alla gestione di una sorta di industria domestica rurale.

Non c'è vera e propria divisione del lavoro nel mondo rurale, che possa portare allo sfruttamento del lavoro nel tempo che il produttore può riservare a se stesso, alla riproduzione di sé e della propria famiglia.

Marx si rende conto che questo modo di produzione è diverso da quello schiavistico di epoca romana o delle piantagioni americane a lui coeve: "lo schiavo lavora in condizioni di produzione che appartengono ad altri e che quindi non sono autonome"(p. 1057).

In Asia -prosegue Marx- il principale schiavista è lo stesso Stato, "il più alto proprietario terriero", per cui "rendita e imposte coincidono": "non vi è proprietà privata della terra, pur essendovi il possesso e l'uso sia privato che comune di essa"(ib.).

Nel feudalesimo la rendita è frutto di una coercizione extraeconomica (il rapporto di dipendenza personale) ed è limitata da vari fattori: "il produttore diretto deve possedere abbastanza forza lavorativa... il terreno che egli coltiva deve essere sufficientemente fertile"(p. 1059), altrimenti non potrebbe lavorare gratis su quello del feudatario.

In una situazione del genere (che prescinde da guerre, carestie e pestilenze), è abbastanza normale che il servo della gleba viva in condizioni di sicurezza economica. Il feudatario, infatti, non ha interesse a sfruttarne il lavoro oltre un certo limite, in quanto la rendita che ottiene gli è di regola sufficiente a condurre un'esistenza agiata.

Un indizio di progressiva emancipazione economica del produttore è dato dalla trasformazione della corvée in rendita in prodotti. Quando si è obbligati a cedere un certo quantitativo di prodotti, stabilito preventivamente, il contadino "svolge il pluslavoro sotto la propria responsabilità"(p. 1061) e non ha più bisogno d'essere sorvegliato.

Ovviamente tale mutamento conserva i caratteri tipici della rendita in lavoro, e cioè: "quasi assoluta autosufficienza acquisita dalla famiglia agricola"(p. 1063), "indipendenza dal mercato e dal movimento produttivo e storico della porzione della società estranea ad essa"(ib.); "condizioni sociali stazionarie"(ib.); "condizioni di stagnazione tanto nel processo di produzione quanto nei rapporti sociali corrispondenti ad esso, tramite la semplice continua riproduzione di se stessi"(p. 1060). Tutto ciò per Marx non costituisce un vantaggio, come a prima vista può sembrare, ma un grande limite.

"Per fortuna" -direbbe Marx- che la stagnazione viene compromessa quando i proprietari pretendono una rendita in prodotti che eccede i limiti naturali, come fanno p.es. i colonizzatori inglesi in India. Quando accade questo nelle colonie, è perché nella madrepatria s'è già verificata un'altra trasformazione della rendita, da quella naturale a quella monetaria.

Il mutamento progressivo della rendita in prodotti (che, dice Marx, non sostituisce mai completamente le corvées) in rendita in denaro è un segnale preciso della presenza invadente del mercato, in cui il denaro può essere speso e guadagnato. Ora non solo il contadino deve andare sul mercato per trasformare i suoi prodotti in merci contro denaro, al fine di pagare il tributo o il prezzo della rendita, ma anche il proprietario terriero, il latifondista, accede al mercato per spendere il denaro ottenuto dal contadino. "Il carattere di tutto il modo di produzione viene più o meno alterato"(p. 1064).

Finisce in sostanza il primato dell'autosufficienza alimentare, dell'autogestione del processo produttivo... e l'eccedenza viene vincolata ai meccanismi del mercato. Il prezzo della rendita è chiaro, ma non altrettanto il modo in cui si riuscirà a pagarlo, in quanto sul mercato le fluttuazioni dei prezzi delle merci dipendono dal gioco della domanda e dell'offerta.

La rendita in denaro dunque presuppone:

"un notevole sviluppo del commercio, dell'industria cittadina, della produzione di merci in genere e quindi della circolazione monetaria"(p. 1065);

"che il prodotto possegga un prezzo di mercato e che venga venduto più o meno al suo valore"(ib.);

una trasformazione del possesso in proprietà di tutte quelle condizioni di lavoro estranee alla terra, come attrezzi agricoli, bestiame, cose mobili ecc.

Marx dice che questa trasformazione della rendita, quando si cercò d'introdurla in epoca romana, finì sempre coll'essere sostituita nuovamente dalla tradizionale rendita in prodotti. Anche in Francia prima della rivoluzione. Infatti, "la rendita monetaria deve provocare nel suo ulteriore sviluppo la trasformazione della terra in libera proprietà del contadino oppure deve generare la forma tipica del modo di produzione capitalistico, la rendita pagata al fittavolo capitalista"(p. 1066).

Il rapporto padrone-servo si trasforma da "personale" a "contrattuale". Dunque il contadino si deve trasformare o in fittavolo o in proprietario: in entrambi i casi egli dovrà servirsi di operai salariati, lavoratori agricoli a giornata. La terra può addirittura essere affittata a capitalisti di città, "fino ad allora rimasti estranei alla campagna"(p. 1067).

"Il fittavolo diventa il vero comandante di questi operai agricoli e il vero sfruttatore del loro pluslavoro, mentre il proprietario terriero non si mantiene in rapporto diretto... monetario e contrattuale che con tale fittavolo capitalista"(p. 1068). Il fittavolo sfrutta come un capitalista i salariati agricoli e quindi ricava dei profitti, dopodiché cede una quota prestabilita di canone al proprietario della terra, che la riceve come rendita, come parte del plusprofitto. "La cifra più o meno grande da lui consegnata è in media determinata, come limite, dal profitto medio che il capitale rende nelle sfere di produzione non agricole e dai prezzi di produzione non agricoli regolati da tale profitto medio"(ib.). Cioè in pratica si tratta di quel profitto medio e di quel prezzo di produzione da esso regolato che "sorgono nella sfera del commercio urbano e della manifattura"(p. 1069).

La rendita in denaro presuppone la divisione tra città e campagna. "Mentre nel Medioevo -dice Marx- la campagna sfrutta politicamente la città, laddove il feudalesimo non ha dovuto cedere il passo a uno straordinario sviluppo delle città, come accadde in Italia, la città dal canto suo, ovunque e universalmente, sfrutta da un punto di vista economico la campagna coi suoi prezzi di monopolio, il suo sistema fiscale, la sua organizzazione corporativa, la sua diretta frode commerciale e la sua usura"(ib.).

Marx non prende in esame le contestuali lotte politiche condotte dai contadini. La sua analisi economica non s'intreccia con quella politica, sociale e culturale, neppure in un caso così drammatico come il passaggio alla rendita in denaro, che indica, incontestabilmente, la metamorfosi di un'economia prevalentemente rurale in una prevalentemente mercantile, che le è in tutto opposta. Sembra che Marx qui voglia limitarsi a una sorta di "fenomenologia dell'economia" che ha più basi filosofiche che storiche. C'è un passo in cui egli afferma che la rendita, per trasformarsi in profitto, ha bisogno non solo del modo di produzione capitalistico, ma anche di "importare idee da paesi capitalistici"(p. 1073): questo aspetto però non lo approfondisce. Beninteso, non gli sfuggiva il fatto che nei paesi cattolici tendesse a predominare la rendita, mentre in quelli protestanti tendesse a predominare il profitto, ma si è sempre rifiutato di collegare, in un'analisi sistematica, gli aspetti economici a quelli religiosi.

La mezzadria viene esaminata come forma intermedia tra la rendita in prodotti naturali e la rendita monetaria; essa comunque fa parte, in generale, di una società votata all'accumulazione di capitali, ed è, nella fattispecie, in relazione alla debolezza del fittavolo, il quale ha bisogno dei capitali del proprietario (anche solo come beni strumentali: mezzi di lavoro, bestiame, sementi ecc.). Il risultato della lavorazione della terra viene ripartito secondo certe proporzioni.

Più interessante sono le pagine dedicate alla proprietà parcellare, in cui il contadino è del tutto autonomo, il capitalismo poco sviluppato, il capitale poco concentrato e con una netta prevalenza della campagna sulla città. Il contadino vende sul mercato solo l'eccedenza, in quanto lo standard produttivo è l'autoconsumo.

Questa forma di proprietà, che indubbiamente è la più significativa risposta ai limiti del servaggio e a tutte le forme di rendita feudale, e che costituisce un efficace muro di sbarramento contro le pretese del mercato, non viene analizzata da Marx in riferimento a contesti storici, politici, culturali; per lui è soltanto una variante delle altre forme di gestione della terra.

Marx sembra apprezzarne il lato autonomo del lavoro, che rende i contadini autosufficienti economicamente, ma poi li vede solo come persone "isolate" e quindi "deboli", incapaci di contrastare la forza del capitale, che avanza inesorabile. Infatti essi -dice Marx- si dissolveranno dopo che la grande industria avrà mandato in rovina l'industria domestica rurale (p. 1077); dopo l'esaurirsi delle capacità produttive dei terreni; dopo l'usurpazione delle terre comuni (boschi, pascoli...) da parte dei latifondisti; dopo l'affermarsi della concorrenza della produzione agricola su ampia scala, condotta con metodi di tipo capitalistico.

Marx si dilunga come non mai nell'elencare gli aspetti negativi di questa gestione autonoma della terra. "La proprietà parcellare esclude per sua stessa natura: lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, le forme sociali di quest'ultimo, la concentrazione sociale dei capitali, l'allevamento del bestiame su larga scala e un'applicazione progressiva della scienza"(ib.).

Marx non vede una lotta di resistenza da parte di questa categoria di contadini, ma solo un limite economico rispetto alla forza del capitale. Questa proprietà viene rifiutata perché non abbastanza capitalistica. In realtà tutti i motivi addotti come pretesto per giustificarne il superamento, ivi inclusi quelli citati a p. 1078: "usura" e "sistema fiscale", non sono motivi endogeni a questa forma di proprietà ma esogeni. E' una proprietà limitata nel senso che il suo limite è la forza del capitale, che si sviluppa esternamente.

Marx rifiuta la proprietà parcellare attribuendole dei limiti che non le appartengono e che acquistano un senso solo se vengono rapportati alle pretese del capitale borghese. E non s'avvede che la proprietà capitalistica della terra si sviluppa appunto perché quella parcellare non viene difesa politicamente (e militarmente). Marx dà per scontata la dissoluzione della proprietà parcellare nell'ambito della società borghese, quando proprio questa proprietà avrebbe potuto ostacolare enormemente lo sviluppo della proprietà capitalistica.

E' molto strano che Marx non abbia pensato che tale proprietà avrebbe dovuto essere rivendicata politicamente, ovvero espropriata con una riforma agraria che spezzasse il latifondo e la grande proprietà, invece che essere acquistata economicamente, con capitali che ovviamente il contadino non poteva avere e per i quali rischiava di finire nelle mani degli usurai.

E' evidente che una terra parcellare formatasi non in seguito a lotte politiche antifeudali, ma in seguito a una transizione inevitabile verso il capitalismo, non faceva che impoverire i suoi acquirenti, se questi la finalizzavano unicamente all'autoconsumo.

L'opposizione unilaterale di Marx alla proprietà privata gli ha impedito di vedere come potesse essere regolamentata quantitativamente una determinata proprietà agricola rispetto ai bisogni riproduttivi effettivi di una famiglia o di gruppi di famiglie rurali. Marx vuole soltanto una proprietà sociale della terra; tuttavia una proprietà del genere presume il recupero di molte tradizioni del precapitalismo.

In realtà bisogna porre unicamente il principio secondo cui nessuno può sfruttare arbitrariamente il lavoro altrui. Che poi un lavoratore preferisca una gestione sociale della terra e non quella individuale o familiare, non deve essere questo un motivo per impedirgli di avere una proprietà privata.

L'importante è di permettere ai lavoratori di esistere nella sicurezza di una proprietà, sociale o individuale non importa. E' assurdo sostenere che una conduzione "razionale" delle colture agricole sia possibile solo nella proprietà "sociale" della terra. Marx vuole imporre il collettivismo sull'individualità nella gestione della terra.

E' molto sconsolante la conclusione di Marx: "Se la piccola proprietà terriera genera una classe di barbari [sic!] che per metà sono estranei alla società [qui sottintesa quella borghese], in cui sono mischiati tutta la rozzezza delle forme primitive della società [!] e tutti i dolori e la misère dei paesi civili, la grande proprietà terriera corrompe la forza lavorativa nell'ultima sfera in cui essa riversa le proprie forze naturali e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della linfa vitale delle nazioni, nella stessa campagna"(p. 1085).

Per Marx insomma dalla campagna, sia essa di Scilla o di Cariddi, non può venir nulla di buono, almeno finché non sarà il proletariato industriale a dettarne le nuove regole di gestione.

LA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO
(K. Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976)

Premessa

La III sezione del III libro del Capitale è interamente dedicata a un problema già individuato dagli economisti classici borghesi, cui però -secondo Marx- non era stata data una soluzione soddisfacente: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Per quanto gli economisti odierni facciano ancora di tutto per censurare le opere di Marx (basta p. es. vedere con quanta supponenza egli venga liquidato in un qualunque manuale scolastico di economia politica), resta il fatto che Marx non può essere considerato alla stregua di un socialista utopista o di un filosofo che si dileggiava di economia. La stragrande maggioranza delle sue opere sono il frutto di un lavoro molto faticoso di lettura e di interpretazione di testi classici dell'economia politica.

Poiché purtroppo (per la borghesia) le sue dottrine economiche sono strettamente legate alla prassi rivoluzionaria e alla realizzazione di un'alternativa globale al capitalismo, non si è voluto tener conto che molte delle teorie economiche di Marx non sono che la ricerca di nuove soluzioni a vecchi problemi, di fronte ai quali la stessa borghesia s'è trovata come impotente.

Questo per dire che si dovrebbero quanto meno prendere in esame le sue proposte risolutive in sé e per sé, prescindendo dagli sviluppi politico-rivoluzionari che potrebbero avere e che in effetti nella storia hanno avuto, p.es. con i tentativi, poi falliti, del "socialismo reale".

Una teoria dovrebbe essere dimostrata fallace per una sua intrinseca debolezza, messa in rapporto a teorie analoghe elaborate su un medesimo argomento, e non tanto (o non solo) per come essa è stata successivamente applicata, anche perché la responsabilità di chi elabora determinate teorie non può essere considerata uguale a quella di chi ha poi cercato di metterle in pratica.

La sezione è divisa nei seguenti capitoli:

descrizione del fenomeno e spiegazione della legge che lo determina;

tentativi degli imprenditori borghesi di porvi rimedio;

i motivi per cui il fenomeno non può essere risolto con metodi capitalistici.

L'analisi svolta in tale sezione è molto importante, poiché colpisce al cuore, in una delle sue contraddizioni più radicali, il sistema capitalistico. Questa legge viene considerata da Marx come la più importante della moderna economia politica, mai compresa da nessuno. Essa infatti dimostra che lo sviluppo delle forze produttive, provocato dal capitale, oltre un certo punto sopprime l'autovalorizzazione del capitale stesso.

Marx, che sostanzialmente aveva già elaborato la legge nel manoscritto del 1857-58 (Gründrisse), avrebbe dovuto metterla nel I libro, ma non poté farlo perché le sue analisi sul commercio estero e sul capitale azionario (con cui l'impresa cerca di porre rimedio alla caduta del saggio di profitto) non erano ancora sufficientemente sviluppate.

In questa sezione Marx era comunque riuscito a impostare i termini della questione in maniera metodologica, dimostrando dove gli economisti classici avevano sbagliato e come si sarebbe potuto superare in via di principio i loro limiti.

Prima di parlare di questa legge è però necessario fare una piccola introduzione su come si forma il saggio del profitto. Dopodiché bisognerà parlare dei rapporti tra Marx e Ricardo, poiché l'elaborazione di quella legge dipese proprio da quel confronto teorico.

Il saggio del profitto

Che cos'è il tasso o saggio di profitto di un'impresa capitalistica? E' il rapporto (in percentuale) tra il plusvalore e tutto il capitale anticipato: quello variabile (i salari) e quello fisso o costante (macchinari, materie prime, trasporti ecc.).

Questa però non è una definizione "borghese" ma "marxista" del profitto, in quanto la borghesia si rifiuta di riconoscere l'esistenza del "plusvalore", che secondo il marxismo è una parte di lavoro non pagata.

Secondo Marx, il plusvalore viene determinato dal fatto che la forza-lavoro (la classe operaia) immette nella merce prodotta un valore superiore al valore della propria stessa forza, un valore che può anche essere del 100% e oltre.

Come si fa a calcolare il plusvalore? Guardando il salario medio che occorre per riprodurre la stessa forza-lavoro. Il salario viene stabilito in maniera anticipata, in rapporto a un certo quantitativo di ore di lavoro (o, nel caso del salario a cottimo, in rapporto a un certo quantitativo di merci prodotte in un determinato tempo). Questo significa che se per il capitalista sono sufficienti 4 ore di lavoro per riprodurre la forza lavorativa impiegata, le altre 4 ore costituiscono plusvalore, cioè pluslavoro non pagato, che in questo caso è del 100%. Nella vendita di merci ad alto valore aggiunto, il plusvalore può arrivare anche al 200% o 300% e oltre. Ma a questi tassi ci si può arrivare anche nei paesi dove il costo del lavoro, delle materie prime, della vita in generale è molto basso.

Come noto la classe borghese vuol invece far credere che la forza-lavoro sia pagata al giusto prezzo e che il profitto si realizzi unicamente nel momento in cui la merce viene venduta sul mercato. Quindi esteriormente nella società borghese il "plusvalore" appare come "profitto", cioè come risultato finale di tutto il capitale anticipato. Alla borghesia conviene considerare il capitale variabile (salari, contributi sociali) come parte di quello costante, cioè non come fonte di "entrata", ma come fonte di "spesa", poiché in questo modo può occultare la dinamica dello sfruttamento. Le entrate, per la borghesia, sono soltanto quelle derivate dal capitale circolante, dalla vendita delle merci.

Secondo Marx il saggio del plusvalore è dato dal rapporto tra il plusvalore (PV) estratto dallo sfruttamento della forza-lavoro e il capitale variabile anticipato (V), espresso nella formula: PV / V. Di conseguenza il saggio del profitto non è che il rapporto tra la massa del plusvalore e tutto il capitale anticipato: costante (C) e variabile (V). Donde la formula: PV / C+V, ovviamente moltiplicata per 100.

Tutta la lotta del capitale contro il lavoro è, secondo Marx, finalizzata ad aumentare il più possibile il saggio del plusvalore: di qui il prolungamento della giornata lavorativa, la riduzione del costo del lavoro (che può essere ottenuta minacciando licenziamenti o chiusura dell'impresa, oggi diciamo: delocalizzandola), l'aumento dell'intensità o della produttività del lavoro (p.es. tenendo aperta l'azienda 24 ore al giorno, oppure automatizzando taluni processi). Oggi si assiste anche a tentativi di far acquistare azioni dell'impresa quotata in borsa agli stessi operai che vi ci lavorano.

In tal modo è evidente che quanto maggiore è la quota di capitale variabile investita (anticipata), tanto superiore (a parità delle altre condizioni) è il saggio del profitto. Detto altrimenti: può ottenere più profitti, in percentuale, un'impresa che investe meno nel capitale costante e di più nel capitale variabile.

Il saggio del profitto non dipende solo dallo sfruttamento della manodopera, ma anche dalla velocità di rotazione sul mercato: senza un mercato non esisterebbe neppure il capitalismo.

E dipende anche dalla capacità dell'imprenditore di economizzare sul capitale costante e di far funzionare al meglio le macchine: non esisterebbe il capitalismo senza rivoluzione tecnico-scientifica. D'altra parte è questa stessa tecnologia che permette un maggior sfruttamento della manodopera quanto a intensità e produttività: basta guardare oggi l'impiego dell'elettronica nella produzione.

Tuttavia l'imprenditore non opera in un'isola deserta: sul mercato non ci sono soltanto gli acquirenti delle sue merci. Ci sono anche imprenditori concorrenti, che producono merci identiche o analoghe, che possono risultare competitive sia nei prezzi che nella qualità. Ogni imprenditore cerca di acquisire il più presto possibile posizioni monopolistiche.

Gli economisti classici

Già Smith s'era accorto della caduta tendenziale del saggio del profitto, ma l'aveva attribuita unicamente al fattore della concorrenza, nel senso che con il procedere del processo di accumulazione del capitale si sarebbero esauriti i campi di investimento profittevoli e l'accresciuta concorrenza tra i capitali avrebbe fatto diminuire progressivamente il saggio di profitto

Ricardo gli aveva obiettato che la concorrenza poteva al massimo ridurre i profitti ad un livello medio nelle diverse branche d'industria, livellandone il saggio, ma non poteva abbassarlo in maniera tendenziale, altrimenti la capacità produttiva ad un certo punto si sarebbe ridotta a zero, visto che la concorrenza era inevitabile. E poi con l'aumento dei redditi aumenta la domanda (sia di beni di consumo che di mezzi di produzione), per cui anche i profitti devono per forza tornare a salire. Se non ci riescono è perché il problema va cercato altrove.

Ricardo pensò d'averlo trovato nel fatto che, secondo lui, con l'aumento della produzione aumenta anche la popolazione, la quale per essere sfamata necessita di maggiori investimenti nell'agricoltura, ma siccome l'agricoltura rende meno dell'industria (in quanto vi è scarsità di terreni fertili da poter mettere a coltivazione), anche gli investimenti sono minori, sicché i prezzi agricoli (in primis quelli del grano) vengono tenuti alti dai proprietari fondiari. Questo ha un'incidenza sui salari, che non possono scendere al di sotto delle capacità riproduttive della manodopera industriale.

La soluzione secondo Ricardo stava nel penalizzare le rendite fondiarie relative al grano, favorendo di quest'ultimo l'importazione dall'estero, a prezzi molto più contenuti, e quindi abolendo i dazi che proteggevano la produzione nazionale.

Marx interviene in questo dibattito virtuale precisando che la concorrenza non potrebbe abbassare il saggio medio del profitto in tutte le branche d'industria, se questa legge non fosse anteriore alla stessa concorrenza.

La validità della legge

La caduta tendenziale del saggio di profitto può essere considerata una legge obiettiva, in grado di spiegare, ancora oggi, la teoria del crollo inevitabile del capitalismo?

Qui anzitutto va detto che è quanto meno assurdo pensare che il capitalismo possa crollare semplicemente perché le sue leggi economiche lo portano inevitabilmente al crollo.

Marx si limitò a dimostrare che un sistema economico basato sulla proprietà privata prima o poi è destinato a crollare (com'erano crollati tutti i sistemi antagonistici precedenti al capitalismo), dunque per motivi oggettivi, intrinseci allo stesso sistema, ma non ha mai preteso di dire che tale crollo sarebbe avvenuto spontaneamente, né che i capitalisti non avrebbero fatto di tutto per evitarlo, per procrastinarlo ad libitum, facendone pagare tutte le conseguenze alle classi più deboli.

Nel Capitale viene anzi prospettata la soluzione della socializzazione della proprietà dei mezzi produttivi, proprio per evitare il crollo del capitalismo.

Una trasformazione pacifica del capitalismo in socialismo avrebbe fatto risparmiare - nella visione di Marx - lacrime e sangue a milioni di lavoratori.

Ma egli non s'era mai illuso sulla possibilità che una tale transizione avvenisse in maniera pacifica. La poneva come pura ipotesi, ben sapendo che i lavoratori devono prepararsi alla rivoluzione se i capitalisti oppongono resistenza alle necessità della transizione.

Il funzionamento della legge

Marx riuscì a dimostrare che il profitto di un'impresa che investe di più nel capitale costante e sfrutta meno lavoratori, è più piccolo in percentuale dell'impresa che investe di meno e sfrutta di più (ovviamente, in entrambi i casi, in rapporto al capitale complessivo impiegato).

Vediamo alcuni esempi tratti dal Manuale di economia politica di A. Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972, vol. I, p. 275). La legenda è semplice: c=capitale costante, v=capitale variabile, pl=plusvalore fissato al 100%, c/v= rapporto tra capitale costante e capitale variabile; l'ultimo dato è il saggio del profitto, espresso in percentuale. La formula del saggio di profitto è dunque la seguente: p=pl/(c+v). Il saggio del plusvalore è pl/v.

c=500

v=1.000

c/v=0,5


c=1.000

v=1.200

c/v=0,8


c=2.000

v=1.400

c/v=1,4


La legge è tale perché si verifica continuamente un aumento più significativo della parte di capitale investita in mezzi di lavoro e di produzione, rispetto a quella spesa per la forza lavorativa (capitale variabile). Questo perché ogni singolo capitalista, essendo interessato ad appropriarsi di profitti sempre superiori alla media, tende ad apportare migliorie tecniche alla produzione, affinché aumenti la produttività in una medesima unità oraria o con meno operai a disposizione.

Questa attività ha come conseguenza l'innalzamento della composizione organica del capitale sociale e l'abbassamento del saggio generale del profitto. Come dimostra ad es. questa tabella presa dal testo di E. Mandel, Trattato marxista di economia, ed. ErreEmme, Roma 1997, vol. I, p. 277 (in riferimento alla situazione dell'industria statunitense):

anno

capitale
fisso

capitale
circolante

salari
stipendi

profitti

tasso
profitto %







Va detto che il motivo di questa tendenza al ribasso del saggio di profitto dipende anche dal fatto che tra capitale e lavoro vi è un rapporto conflittuale, antagonistico, tale per cui quanto più è forte la resistenza del lavoratore allo sfruttamento, tanto più l'imprenditore è costretto a investire nei macchinari, aumentandone l'automazione, la produttività. L'imprenditore vuole sfruttare al meglio i propri macchinari, inducendo gli operai a produrre di più in meno tempo.

Non è quindi solo un problema di come affrontare la concorrenza intersettoriale, anche se indubbiamente questa concorrenza produce un problema non meno grave di quello della resistenza operaia allo sfruttamento. Infatti un aumento della produttività, ottenuto migliorando l'efficienza dei macchinari, non aumenta di per sé il saggio del profitto, proprio perché il prezzo delle merci, in un mercato concorrenziale, privo di monopoli, cala in ragione inversa alla loro quantità, nel senso che ogni singola merce contiene in sé meno lavoro umano. In assoluto il profitto lordo aumenta, in quanto si vendono più merci, ma in percentuale diminuisce.

Di qui le tendenze del capitale ad affluire verso i settori che producono sovraprofitti e quindi a defluire da quelli i cui profitti sono inferiori a una media astratta annuale, attorno a cui oscillano i tassi di profitto reali dei diversi settori industriali. Questa tendenza è molto evidente quando improvvisamente si vedono chiudere aziende di determinati settori che pur avevano bilanci in attivo.

L'ideale per un imprenditore sarebbe quello di esercitare un monopolio in un mercato aperto, dove non si ha bisogno di mettere il protezionismo per tutelare le proprie merci, ma dove non esiste neppure una valida concorrenza.

In una situazione del genere si investirebbe pochissimo nella ricerca e nella sperimentazione, cioè nel capitale costante, per cui i profitti sarebbero altissimi. I fatti però dimostrano che nel capitalismo le conquiste tecnico-scientifiche tendono a divulgarsi e, prima o poi, altri imprenditori le acquisiscono.

Gli imprenditori che, sotto il capitalismo, hanno bisogno di espandere la loro produzione, hanno vita facile finché non esistono validi concorrenti, ma appena questi si formano, non è più possibile gestire la produzione in mercati protetti dai prezzi delle merci rivali; si devono per forza fare ulteriori investimenti sui macchinari, posto che non si sia in grado d'intervenire sul costo del lavoro, avendo a che fare con una forte resistenza operaia (i tentativi padronali sono p.es. quelli d'impedire ai salari di crescere in maniera proporzionale all'aumento dei prezzi delle merci, oppure di diminuire gli oneri sociali).

In caso contrario gli imprenditori hanno di fronte a loro poche alternative: o vendono tutto, centralizzando i capitali in mano a poche banche o imprese finanziarie; o si associano ad altri capitalisti, concentrando quindi i capitali nelle mani di pochi grandi imprenditori (questi due fenomeni erano già visibili all'epoca di Marx); oppure, diremmo oggi, delocalizzando in regioni dove il costo del lavoro è molto basso; oppure trasformandosi in società finanziarie per praticare l'usura.

Nel periodo in cui Marx scriveva il Capitale le potenze europee risolsero il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto avviando una spaventosa ricerca di territori da colonizzare e in cui praticare l'esportazione dei capitali: praticamente dagli anni '70 del XIX secolo sino alla II guerra mondiale non si fece altro che suddividere il globo in zone di influenza, scatenando guerre catastrofiche.

Le colonie non sono state solo un mercato di sbocco per le merci capitalistiche o un luogo ove reperire materie prime a buon mercato o manodopera sottocosto, ma anche l'unica area in cui fosse possibile ampliare il capitale senza dover affrontare la concorrenza intrasettoriale.

Marx poté vedere questo fenomeno solo nella sua fase iniziale, ma lo vide bene Lenin, che lo analizzò nel suo testo sull'Imperialismo.

Le forme di difesa adottate dei capitalisti

Per frenare la caduta tendenziale del saggio di profitto gli imprenditori hanno adottato alcune misure, che si sono ripetute nel tempo:

svalutazione del corso della moneta, quindi svalorizzazione di una parte del capitale investito;

trasformazione di una parte del capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione;

sperpero improduttivo di una parte del capitale;

creazione di nuovi rami produttivi in cui occorre più lavoro immediato o poco sviluppato rispetto al capitale;

creazione di monopoli;

defiscalizzazioni del profitto;

riduzione della rendita fondiaria;

distruzione del capitale tramite conflitti bellici, su scala sempre maggiore;

accettazione di un minor tasso di sviluppo a fronte di un maggior volume del profitto lordo, in ragione della grandezza del capitale (Marx parla di "motivo di consolazione");

ai danni dei lavoratori vi sono varie strategie: riduzione del salario o degli oneri sociali; intensificazione dello sfruttamento (p.es. utilizzo del lavoro nero); maggiore intensità dei ritmi di lavoro; allungamento della giornata lavorativa; totale flessibilità della manodopera; crescita della disoccupazione per tenere bassi i salari, ecc.

Alcuni imprenditori (p.es. quelli della Toyota) hanno cercato di automatizzare al massimo la produzione, riducendo al minimo la presenza degli operai. All'inizio hanno ovviamente ottenuto profitti altissimi, in quanto si è potuto risparmiare sui salari ed essere competitivi sul piano dei prezzi, ma in seguito, quando gli stessi processi sono stati acquisiti da altre aziende, anche meno sviluppate, il saggio del profitto è tendenzialmente diminuito, proprio perché è aumentata l'offerta dei beni e diminuito il loro prezzo.

D'altra parte, una volta che l'utilizzazione della nuova tecnica si è generalizzata e il saggio di profitto è diminuito, nessun singolo capitalista ha convenienza a ritornare alla vecchia tecnica produttiva ai prezzi prevalenti, perché essa comporterebbe costi più alti ed un profitto minore di quello medio. L'aspetto più significativo della legge di Marx è quindi quello di mostrare che l'interesse dei singoli capitalisti non coincide con quello collettivo di classe, cosicché il risultato di comportamenti razionali individuali finisce per essere dannoso per i capitalisti nel loro insieme.

Anche se non bisogna mai dimenticare che lo sfruttamento capitalistico è in realtà lo sfruttamento della classe operaia da parte dell'intera classe dei capitalisti, poiché ogni singolo capitalista si appropria di una parte del plusvalore complessivo, creato da tutta la classe degli operai salariati. Questo perché sotto il capitalismo si ha la trasformazione del valore nel prezzo di produzione.

Verifica storica della legge

In Italia il tasso di sviluppo più significativo del reddito nazionale, in termini reali e non monetari, s'è verificato negli anni 1958-62, che non a caso vengono definiti col termine di "boom economico".

Infatti, in tutti i paesi industrializzati, durante i 25 anni successivi alla fine della II guerra mondiale si è avuto un periodo di espansione economica generalizzata e costante.

Ma nel corso degli anni '70 questa crescita è stata frenata dalla crisi del dollaro (e del sistema monetario internazionale, che porterà alle decisioni di Bretton Woods, in cui dollaro e oro non saranno più interscambiabili) e dalla crisi petrolifera iniziata nel 1973 con la quadruplicazione del prezzo del barile.

Il massimo storico del prezzo del barile venne raggiunto nel 1980 (più di 40 $), poi è cominciato a calare. Ma nel 1987 è ripreso a salire e oggi è quasi il doppio del 1980.

La spiegazione borghese attuale

La caduta tendenziale del saggio di profitto viene vista dagli odierni economisti borghesi come un elemento oggettivo del sistema capitalistico, connesso a una certa dinamica ciclica, che è la seguente:

nei periodi caratterizzati da disoccupazione i salari sono bassi e i profitti crescono. Le basse retribuzioni favoriscono gli investimenti, ma questa crescita dell'economia determina col tempo un aumento dell'occupazione;

quando aumenta l'occupazione, aumentano anche i salari e questo fa contrarre i profitti, che cominciano a calare, sicché diminuiscono gli investimenti, crolla l'attività produttiva, si entra in recessione, aumenta la disoccupazione;

di nuovo si torna al punto a.

Conclusioni

Il capitalismo trae il meglio di sé dallo sfruttamento della manodopera nella sua fase iniziale, quando la concorrenza non è tanto quella tra capitalisti dello stesso ramo, ma quella tra capitalista e produttore diretto (contadino o artigiano che sia).

Il capitalismo non può sussistere senza ampliare continuamente la sfera dei mercati o, in mancanza di questi, senza aumentare il tasso di sfruttamento della manodopera.

In un mercato mondiale un capitalista con macchinari avanzati può essere battuto dalla concorrenza di un altro capitalista avente macchinari meno avanzati ma con possibilità di risparmiare sul costo del lavoro.

Contro la tendenza al calo del saggio di profitto il capitalista coi macchinari più avanzati può affidarsi a qualunque soluzione, anche a quella bellica, in cui le distruzioni delle infrastrutture del proprio paese e/o del paese nemico possono servire, nel momento della ricostruzione, a far salire il saggio di profitto.

Se si vuole restare in un mercato globale, i capitalisti tecnologicamente più avanzati sono costretti a soccombere nel confronto con quelli che dispongono di un minor costo del lavoro e di un apparato tecnologico quasi equivalente (si pensi, al momento, cosa significa questo nel rapporto tra Cina e India da una parte e Occidente dall'altra).

Non ci si può difendere col protezionismo quando nello stesso tempo si pratica la delocalizzazione o si invoca la liberalizzazione dei mercati per collocare le proprie merci.

Non si può pretendere che negli scambi monetari la valuta del paese più competitivo abbia un corso maggiore di quello effettivo.

Soluzioni politiche ed economiche

Come ci si difende da questa legge dal punto di vista del socialismo democratico? Supponiamo per un momento che gli operai di un'azienda ne diventino i padroni effettivi e che non esistano condizioni esterne che impediscono di continuare a far funzionare l'impresa.

Essi continuano a lavorare come prima, ma ora possono dividere i profitti in parte equa. Possono liberamente decidere di lavorare più di quanto sarebbe loro necessario per riprodursi e, se lo fanno, decidono altresì di ripartirsi equamente il plusvalore ottenuto.

Essi sanno di dover piazzare le loro merci nel solito mercato, dove sicuramente incontreranno delle imprese concorrenziali gestite da privati capitalisti. Inoltre essi sanno che per l'acquisto della materia prima non potranno più comportarsi come il precedente imprenditore, che sfruttava non solo i propri lavoratori ma anche quelli che non gli appartenevano direttamente. Ora questi operai dovranno adottare uno scambio equo, pagando per le materie prime un giusto prezzo.

A questo punto cosa succede? Se tutto viene pagato a un giusto prezzo (materie prime, salari, stipendi, trasporti...), come si potrà reggere la concorrenza di quelle imprese che ancora si basano sullo sfruttamento? Non riescono a farlo neppure le imprese private quando si confrontano con quelle gestite dalla mafia. Un'impresa gestita da operai dovrebbe essere protetta dallo Stato, il che è assurdo, poiché lo Stato è uno strumento della classe borghese.

E' dunque evidente che non basta appropriarsi dei mezzi produttivi. Le aziende capitalistiche infatti sono state create per realizzare profitti sui mercati e non per soddisfare esigenze vitali. E' la loro stessa struttura ad essere irrimediabilmente viziata.

Occorre quindi riconvertire le aziende verso la produzione di beni di prima necessità, in modo tale che il valore d'uso torni ad avere il suo antico primato sul valore di scambio, e che l'autoconsumo delle unità produttive su territori locali, geograficamente limitati, prevalga sul mercato, riducendo al massimo la dipendenza da quest'ultimo. Si può pensare di reimpostare persino il baratto negli scambi locali, conservando la moneta solo per gli scambi internazionali.

Se non si procede in questa direzione, le alternative al momento sono due, di cui una, la prima, già fallita:

il socialismo burocratico di stato, dove le aziende appartengono allo Stato e tutti i lavoratori sono dipendenti statali, dove il plusvalore viene estorto dallo Stato, riconvertito parzialmente in servizi, dove i prezzi e le tariffe sono tenuti bassi, così come i salari e gli stipendi, dove non esiste un mercato col gioco della domanda e dell'offerta, dove tutto è pianificato dai ministeri statali e dove nei confronti del lavoro si ha un rapporto prevalentemente burocratico, per cui anche chi produce male o poco non subisce conseguenze significative, ecc.;

il socialismo di mercato cinese, dove le imprese possono anche essere gestite privatamente, sfruttando la manodopera con criteri capitalistici. Lo Stato permette che si sviluppi il capitalismo entro determinati limiti, in quanto si riserva di requisire in qualunque momento ogni tipo di azienda. La dittatura politica del partito al governo è il prezzo che la società paga allo sviluppo del capitalismo, e questo sviluppo è il prezzo che la dittatura paga alla mancata democratizzazione dello Stato.

In attesa di trovare una soluzione convincente alla caduta tendenziale del saggio di profitto, è bene rendersi conto che un qualunque ragionamento di sinistra che parli di aumentare la ricerca e l'innovazione, o di aumentare il PIL, senza parlare contestualmente di socializzazione della proprietà, alla lunga nuoce agli interessi degli operai e di tutti i lavoratori.

I sindacati, i partiti di sinistra non devono fare discorsi per incentivare la competitività delle imprese, ma per dimostrare che nonostante questa competitività il sistema resta invivibile per i lavoratori.

E in ogni caso i sindacati dovrebbero mettere all'ordine del giorno l'idea che le ritenute fiscali devono essere calcolate non sull'intero imponibile, ma solo sull'eccedenza che supera il minimo per riprodursi. Questo soprattutto in considerazione del fatto che gli operai, col plusvalore estorto, già contribuiscono al benessere economico.

Bisogna insomma rimettere in discussione il modello di sviluppo. Di per sé il concetto di "sviluppo" non indica un miglioramento delle condizioni di vita. Non possono più essere dei parametri "quantitativi" (pil nazionale, pil pro-capite ecc.) a indicare il tasso di eguaglianza sociale e di democraticità di un paese.

RAPPORTI E FORZE PRODUTTIVE

E' noto che il marxismo fa questo ragionamento di metodo storiografico: le forze produttive agiscono spontaneamente, a prescindere dalla volontà umana, entro una determinata formazione sociale, e lo fanno senza creare particolari sconvolgimenti sociali, finché però non giungono a maturazione, cioè finché non si sviluppano al massimo delle loro potenzialità (determinate da una certa tecnologia, divisione del lavoro ecc.). A questo punto lo sviluppo pacifico entra in collisione coi corrispondenti rapporti produttivi e l'evoluzione cede il passo alla rivoluzione, che può essere pacifica o cruenta, a seconda della maggiore o minore resistenza al cambiamento da parte di tali rapporti. In questo processo l'ideologia serve a o a giustificare o ad accelerare i processi. Il rivolgimento riporta le cose in equilibrio facendo progredire ulteriormente le stesse forze produttive, fino alla prossima crisi.

Questa tesi, che risente di un certo economicismo, è stata elaborata sulla falsariga dell'idealismo hegeliano, che vede nella contraddizione di tesi e antitesi un fattore di sviluppo storico.

In genere si dà molta importanza alla "contraddizione" quando manca un forte impegno politico a favore della "liberazione". Il "determinismo" di Marx può essere considerato come una conseguenza della sua accentuata posizione "teoretica", da "intellettuale", da "critico della società borghese" (specie nei suoi aspetti economici).

In realtà la contraddizione di per sé non porta né allo sviluppo né alla crisi: non è in sé un valore che ci indica la strada da percorrere. E' solo un fenomeno dell'esistenza caratterizzato da problemi che vanno risolti, e questi problemi, come spesso succede nella realtà, possono essere utilizzati sia per migliorare che per peggiorare una determinata situazione sociale.

Puntare sull'acuirsi delle contraddizioni (atteggiamento tipico dello stalinismo e, per molti versi, anche del trotskismo e del maoismo), al fine di sperare in un miglioramento spontaneo, automatico, della struttura sociale, significa non saper uscire dai limiti dell'estremismo. E dall'estremismo al terrorismo il passo è breve.

Con l'eccessiva importanza concessa alla contraddizione si è finiti col giustificare, accettandolo acriticamente, il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, o quello dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico, e ci si illude che la transizione dal capitalismo al socialismo avverrà da sé.

Le contraddizioni di per sé non possono essere il motore della storia, meno che mai quelle di natura antagonistica, che possono portare anche all'estinzione di una civiltà. Esse possono soltanto essere un'occasione perché si manifesti il valore positivo delle cose, che nelle società antagonistiche coincide anzitutto con la lotta di liberazione.

In realtà tra forze e rapporti produttivi, come tra struttura economica e sovrastruttura ideologica esiste uno sviluppo parallelo, relativamente autonomo, oltre che un'influenza reciproca. Anche le idee possono diventare, metaforicamente parlando, una "forza produttiva" se vengono debitamente socializzate.

Il fatto è che la relazione tra idee ed economia non è mai esplicita (quando lo è, è spesso banale). Solo con un certo sforzo intellettuale è possibile trovare una corrispondenza bilaterale, dialettica.

Oltre a questo va detto che secondo noi che il concetto marxiano di "rapporto produttivo" è una riduzione forzosa del concetto di "rapporto sociale" che aveva il giovane Marx, il quale aveva lasciata impregiudicata questa stretta aderenza del "sociale" con l'"economico".

"Rapporto sociale" voleva semplicemente dire tutto ciò che caratterizza la vita umana, quindi non solo economia, ma anche cultura, politica, sino alla semplice "relazione interpersonale". Nel giovane Marx il lavoratore era un attributo dell'essere umano.

E' possibile recuperare l'equilibrio umanistico del giovane Marx con la consapevolezza critica del Marx maturo?

RAPPORTI STORICI TRA CAPITALE COMMERCIALE, USURAIO E INDUSTRIALE
(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 36)

Premessa

Marx esordisce, nel cap. 36 del III libro del Capitale, dicendo che le forme antidiluviane del capitalismo sono il capitale commerciale e quello usuraio: in particolare senza il primo non ci sarebbe stato neppure il secondo. L'usuraio infatti è un tesaurizzatore di professione.

La presenza del capitale usuraio comporta due cose fondamentali: che "almeno una porzione dei prodotti venga convertita in merci" e "un certo sviluppo del denaro", una certa importanza attribuita all'uso del denaro. Ovunque esista un capitale commerciale, nessuno ha mai messo in dubbio la necessità di ricavare un interesse da un prestito finanziario.

In effetti, sono sempre esistite due forme di usura, che nella società schiavistica detenevano un ruolo molto importante e che invece sotto il capitalismo hanno un ruolo del tutto marginale: "l'usura tramite prestito di denari a grandi scialacquatori, soprattutto a proprietari terrieri" - ed è il caso praticato nel basso Medioevo; "l'usura tramite prestito di denaro a piccoli produttori, che mantengono nelle loro mani le condizioni del proprio lavoro [artigiano, contadino]". A queste forme si può aggiungere il prestito ai sovrani per le loro esigenze politiche o anche belliche.

Tutte queste forme di prestito non sono scomparse sotto il capitalismo, ma sono divenute forme subordinate di uso del denaro. A Marx, in particolare, non interessa far confronti etici sul modo di accettare o meno l'usura nell'evoluzione storica, ovvero di mostrare quando un prestito poteva essere considerato "usuraio" da rendere impossibile la restituzione dell'importo ricevuto, quanto piuttosto di far capire la differenza di priorità tra il capitale nel capitalismo e il capitale nel precapitalismo.

E a tale proposito scrive, significativamente: "Quanto tale processo [l'accumulo di grandi capitali usurai] faccia sparire il vecchio modo di produzione, come è accaduto nella moderna Europa [ma ciò vale anche per l'epoca schiavistica], e se faccia subentrare al suo posto il modo di produzione capitalistico, dipende completamente dal grado di sviluppo storico e dalle corrispondenti circostanze".

"Circostanze" che però Marx non ha mai individuato con precisione, proprio perché non erano economiche bensì culturali, connesse a una determinata concezione di vita. Infatti, a livello storico avrebbe dovuto essere del tutto naturale aspettarsi una transizione dall'economia schiavistica romana a quella capitalistica, visto che in quella schiavistica l'uso del denaro era molto più diffuso che nel corso del Medioevo. Perché questa transizione non avvenne? E perché nel Medioevo la ripresa del capitale commerciale e di quello usuraio si verificò anzitutto nell'Italia comunale?

Schiavismo

Marx afferma che "in tutte le forme in cui l'economia schiavistica... serve come mezzo d'arricchimento", lì esiste la possibilità che il denaro possa essere "valorizzato come capitale che rende interesse". Il periodo classico della Roma repubblicana e imperiale non si sottrasse a questa regola: infatti l'usura fu sempre tollerata, anche se si cercava di ridurre al minimo l'interesse annuale (entro il 4-5% sotto Traiano e Giustiniano).

Più in generale lo sviluppo del capitale usuraio cresceva col crescere della decadenza di quella civiltà (decadenza della fase repubblicana, che poi portò alla dittatura imperiale). E mentre questo capitale usuraio e quello per il commercio di denaro si svilupparono enormemente alla fine della repubblica, viceversa la manifattura si trovava "in condizioni assai inferiori allo sviluppo medio dell'antichità".

"Quando l'usura dei patrizi romani portò a un totale fallimento la plebe di Roma, cioè i piccoli contadini, questa forma di sfruttamento cessò e l'economia dei piccoli contadini dovette cedere il posto all'economia schiavistica vera e propria". I grandi proprietari fondiari si servirono dell'usura per spogliare dei loro beni i piccoli proprietari e anche per impadronirsi della loro persona.

Tuttavia, il capitale usuraio invece di sviluppare le forze produttive, le frenò, sicché l'economia schiavistica non fu un passo avanti rispetto a quella dei liberi artigiani e della piccola proprietà contadina, ma un passo indietro, che riuscì a sopravvivere - possiamo aggiungere - grazie alla continua espansione dell'impero o comunque grazie alla dittatura militare e alla corruzione politica.

L'usuraio distrugge l'economia tradizionale e riconverte nel peggio i capitali acquisiti. Divora tutto il plusvalore del piccolo produttore e senza reinvestirlo in una qualche attività produttiva. Se l'usura colpisce gli schiavisti o i latifondisti "il modo di produzione non cambia; solo si fa più pesante per chi lavora", cioè per lo schiavo o il servo della gleba.

Se il latifondista o lo schiavista non regge il peso dei debiti, può anche accadere che venga direttamente sostituito dall'usuraio, come nell'antica Roma fecero gli equites o cavalieri (ceto dei grandi commercianti, appaltatori e appunto usurai). "Al posto dei vecchi sfruttatori, il cui sfruttamento conservava un carattere in un certo senso patriarcale... subentrano nuovi ricchi, spietati e avidi di denaro", le cui funzioni di commercianti e appaltatori erano interdette all'aristocrazia senatoria. Il modo di produzione però resta lo stesso, anche in questo caso.

Per Marx insomma il paradosso sta in questo, che mentre in epoca romana il produttore era padrone dei propri mezzi e l'usura, facendolo diventare schiavo (a causa dei debiti), ne limitava anche la capacità produttiva; sotto il capitalismo invece lo schiavo salariato, pur ridotto così a causa dei propri debiti, contribuisce enormemente allo sviluppo della produzione.

"Solo allorché esistono anche le altre condizioni del modo di produzione capitalistico, l'usura rappresenta uno degli elementi che contribuiscono al sorgere del nuovo modo di produzione...". Marx tuttavia non spiega quali siano queste "altre condizioni". E' evidente infatti che lo sviluppo del macchinismo industriale fa parte, già di per sé, di una rivoluzione di mentalità.

"In tutti i modi di produzione precapitalistici, l'usuraio ha un effetto rivoluzionario solo in senso politico, in quanto distrugge e rovina le forme di proprietà sulla solidità della cui base, vale a dire la costante riproduzione nella medesima forma, poggia l'articolazione politica"(in Storia dell'economia politica, vol. III, Editori Riuniti 1993, p. 567). L'usuraio accumula, tesaurizza, ma non cambia il modo di produzione, se non peggiorandolo, cioè facendolo diventare schiavistico.

Infatti per cambiare questo modo di produzione occorre un rovesciamento di mentalità, di cui il mondo greco-romano non è stato capace: da schiavi in senso fisico (per debiti, per cause militari ecc.), il contadino, l'artigiano, il piccolo mercante diventeranno sotto il capitalismo schiavi in senso economico, in quanto giuridicamente verrà riconosciuta loro una personalità e quindi il diritto alla libertà.

Dunque il capitalismo non può nascere senza cristianesimo e in particolare non può nascere se non quando si è in presenza di una crisi strutturale di questa religione, tale per cui si possa continuare a parlare di libertà in sede teorica, mentre sul piano pratico si favorisce il suo contrario, la schiavitù, che questa volta è però salariata, cioè mediata dalla libertà formale e quindi da un formale contratto.

Feudalesimo

Marx cerca di trovare nel Medioevo le "altre condizioni" che favoriscono il passaggio dal capitale commerciale-usuraio a quello industriale, perché evidentemente non può trovarle nel modo di produzione antico (schiavistico o asiatico).

E fa alcune affermazioni apparentemente contraddittorie. "Nel Medioevo non esisteva in nessun paese un saggio generale dell'interesse. La chiesa proibiva a priori una qualunque forma di interesse. Leggi e tribunali proteggevano assai poco i prestiti". I divieti erano concentrati sull'idea di poter sfruttare il tempo per ottenere interessi senza lavorare.

Esisteva tuttavia l'usura, anzi proprio questi divieti facevano sì che il saggio d'interesse (privato) fosse particolarmente alto, al punto che era proprio il saggio usuraio dell'interesse a regolare il saggio di profitto del mercante, tanto più che il traffico commerciale e bancario erano molto ridotti. Anzi, ad un certo punto le università cattoliche ritennero "legittimo l'interesse per i prestiti commerciali".

Tali apparenti contraddizioni sono dovute al fatto che Marx non fa quasi mai differenza tra "alto Medioevo" (che per lui assomiglia troppo all'economia schiavistica perché meriti d'essere preso in considerazione) e "basso Medioevo", dove l'economia effettivamente passa da un livello semi-borghese, quando si riaprono i commerci con l'oriente, una volta conclusa l'ondata espansiva musulmana, a un livello di capitalismo commerciale e per molti versi anche manifatturiero (specie nell'Italia comunale e delle città marinare, ma anche nei territori delle Fiandre).

Nell'alto Medioevo l'usura era un retaggio del sistema schiavistico. Là dove domina il valore d'uso e l'autoconsumo l'usura ha ben poco senso. Può averne solo per i grandi proprietari fondiari che vogliono godersi la vita in maniera esagerata, ma questo è già un atteggiamento condizionato dalla mentalità borghese, non nel senso che i borghesi fossero scialacquatori, ma nel senso che le ricchezze da loro introdotte nella società portavano i ceti politicamente egemoni (quelli fondiari) a esibire ancora di più la loro ricchezza, i loro poteri.

Viceversa nell'alto Medioevo, una volta appagata l'esigenza di potere con la conquista delle terre e la soggezione dei contadini, non accadeva mai che le classi nobiliari si trasformassero, autonomamente, in agenti interessati a uscire dall'economia naturale. Era troppo forte la sfiducia che si aveva nelle attività mercantili, ritenute per definizione "disoneste".

Non può pertanto essere sufficiente sostenere che il capitalismo sia nato, sul piano etico, perché ci si voleva opporre al dissanguamento dell'economia provocato da un'usura dilagante. E' vero che le banche sono nate per prestare soldi ai ricchi, con interessi inferiori a quelli usurai, ma questo atteggiamento faceva già parte di una mentalità capitalistica consolidata. Il denaro prestato infatti doveva servire per produrre plusvalore. Da dove dunque viene questa mentalità?

Marx avrebbe dovuto analizzare in profondità i nessi tra economia e cultura feudale. Egli p.es. non dice nulla del fatto che per secoli la corte pontificia venne finanziata dalla vendita "a tariffe" delle indulgenze. Nel Cinquecento le lettere di indulgenza avevano assunto la caratteristica di moneta vera e propria, spendibile ovunque. Che cos'era questo se non un modo di fare usura speculando sulla credulità delle masse? Non era anche questo un modo di sfruttare il tempo, seppur quello dell'aldilà? Il credente qui non chiede denaro ma perdono, remissione di colpe, per sé o per i suoi parenti, ed è disposto a pagare una certa somma di denaro o a compiere determinate azioni di devozione, utili anch'esse ad aumentare il prestigio della chiesa romana, la quale si serviva del proprio potere politico per estorcere i risparmi di larghe masse popolari. Un favore concesso all'anima pagato materialmente.

Ma vediamo meglio se Marx dà una definizione di usura in rapporto all'epoca feudale. A p. 809 del III libro del Capitale cita i dati di K. D. Hüllman (1765-1846), riportati in Storia delle città nel Medioevo (1826). Sono tutti relativi ai tempi di Carlo Magno (in cui era considerato usuraio un tasso del 100%) e arrivano sino al XIV sec. Gli usurai generalmente erano gli ebrei, esclusi dagli uffici pubblici, e le disposizioni non si riferivano ai cristiani, per i quali era vietato un qualunque prestito che prevedesse un interesse (almeno sino a quando non compariranno i monti di pietà, anticamera delle banche).

Un freno alla piaga dell'usura verrà offerto dal moderno sistema creditizio, ma in questo caso - dice giustamente Marx - si è già in presenza del sistema capitalistico. Sicché l'unico freno "medievale" all'usura saranno i montes pietatis, che però venivano incontro non ai produttori ma ai consumatori. E in tal senso tali istituzioni pubbliche si configuravano come una forma di strozzinaggio legalizzato per i più poveri, per quanto a tassi inferiori a quelli privati. Marx qui è sarcastico: essi sono l'esempio più eloquente di come delle pie intenzioni si possano trasformare nel loro opposto appena vengono applicate.

Altri freni potevano essere le requisitorie etico-religiose di taluni personaggi del clero. Sono famosi nella storiografia medievale quei mercanti pentiti divenuti santi, come Godrich von Finchale, Omobono da Cremona, Giovanni Colombini... Da notare, peraltro, che l'idea di purgatorio, strettamente connessa a quella di indulgenza, nasce proprio da determinate premesse mercantili: il borghese può risparmiarsi l'inferno se, di tanto in tanto, compie opere di bene (lasciti, donazioni, testamenti a favore di situazioni di bisogno, ecc.).

E bisogna sottolineare anche un'altra cosa: gli ideali del predicatore urbano (appartenente a uno dei maggiori ordini mendicanti) erano completamente diversi da quelli monastico-rurali dell'alto Medioevo. Gli ordini cosiddetti "pauperistici", pur essendo nati contro la borghesia, finiscono col giustificarne l'operato, trovandole quelle motivazioni utili per continuare a svolgere loschi affari senza per questo smettere di sentirsi cristiana.

L'illusione generale di quel periodo fu quella di credere di poter ovviare ai pericoli del capitale usuraio senza rinunciare a quello commerciale. Responsabile principale di questa illusione fu la chiesa romana, che nei suoi vertici, a partire dal processo dell'urbanizzazione, dalla riscoperta universitaria dell'aristotelismo e dal fenomeno delle crociate, cominciò a tollerare ampiamente la trasformazione dell'economia naturale in economia mercantile, che a livello di politica estera si esprimeva secondo i canoni del colonialismo.

Il commercio venne ammesso a condizione che tutti rispettassero le stratificazioni sociali precostituite, le gerarchie tra i ceti. La chiesa romana tendeva a escludere a priori che i mercanti potessero servirsi della loro ricchezza per rivendicare un potere politico con cui ridimensionare quello clericale. La chiesa (e con essa il proprio braccio secolare: l'aristocrazia terriera) fece leva sull'egemonia politica di cui fruiva, nella convinzione di poter controllare agevolmente lo sviluppo del mercantilismo sul terreno sociale. La controriforma subentrò solo quando essa si accorse che questa convinzione non trovava un vero fondamento nella realtà.

Dopo aver perseguitato gli usurai, che col loro smodato guadagno mandavano in rovina gli onesti lavoratori, il predicatore cattolico (molti secoli prima di Lutero) fece due cose: 1) ammise la possibilità di un profitto equo, dando per scontata la presenza di una certa disonestà di fondo, intrinseca ad ogni business, in quanto l'acquirente di una merce non è in grado di stabilire con esattezza il margine di guadagno del mercante; 2) chiese semplicemente al borghese di compiere delle opere di carità, favorendo con la propria liberalità e magnanimità istanze provenienti dal mondo del disagio e della sofferenza. Cioè dopo aver elevato gli interessi materiali al rango di adempimenti di prescrizioni divine, il predicatore non riteneva più la disonestà dei mercanti rischiosa per il livello morale della società.

Finito di esaminare il Medioevo, la domanda fondamentale che Marx si pone è la seguente: perché il capitale usuraio medievale, pur potendo in taluni casi possedere il modo di sfruttamento del capitale, non riuscì a possederne anche il modo di produzione? Cioè per quale ragione il capitale usuraio non è stato capace neppure nel Medioevo di trasformare un bene prodotto dal lavoro in merce?




Capitalismo

Nel capitalismo -spiega Marx- non c'è bisogno, per arricchirsi, di separare il produttore dai suoi mezzi di produzione, come quando dominava l'usura; ma si parte proprio da questa separazione e la si sfrutta ammassando gli schiavi salariati all'interno di un'officina ove domina un processo lavorativo meccanizzato.

Quindi è assurdo sostenere, come fa H. C. Carey (1793-1879), che il capitalista sia migliore dell'usuraio o che il capitalismo sia un sistema meno esoso, meno violento, più democratico di quello schiavista. Anzi, secondo Marx, il capitale usuraio è, paradossalmente, meno "esoso" di quello capitalistico, proprio perché ha solo la pretesa di distruggere, favorendo una "situazione precaria in cui la produttività del lavoro sociale non è sviluppata".

Non a caso è proprio sotto il capitalismo che l'usura smette d'essere vietata, con la differenza che ora il produttore può rivolgersi alle banche. "Non è dall'anatema contro il capitale che rende interesse, ma invece dal suo riconoscimento che prendono le mosse gli iniziatori del moderno sistema creditizio". Marx tuttavia non spiega come sia potuto avvenire il passaggio dal "divieto" al "riconoscimento", perché qui sarebbe occorsa un'analisi di tipo storico-culturale.

Egli però riconosce che le prime associazioni creditizie sono antecedenti al sistema capitalistico vero e proprio, in quanto si ritrovano a Venezia e a Genova già nel XII secolo, quindi in ambienti cattolici borghesi proto-capitalistici. Esse venivano incontro alle esigenze del commercio marittimo (e di quello all'ingrosso), che voleva liberarsi dall'oppressione degli alti tassi usurai. Tali associazioni servivano anche ai commercianti che le avevano fondate per accrescere il loro già alto potere nelle città in cui risiedevano.

Questa pratica si sviluppò poi in Olanda nel XVII secolo e in Inghilterra nel XVIII. In particolare Marx sostiene che proprio in Olanda avviene la piena apologia dell'usura e la prima sottomissione del capitale produttivo d'interesse a quello industriale. Successivamente in Inghilterra non si polemizza più contro l'usura in sé, ma solo contro la grandezza dell'interesse, ed è qui che nascono le prime forme creditizie pubbliche. Nel XVIII sec. Bentham riconosce la libera usura come elemento della produzione capitalistica.

Ora però bisogna fare una precisazione. Sembra che Marx non faccia differenza tra "usura" e "capitale produttivo d'interesse", e in ogni caso afferma che quando il capitalismo s'impone l'usura e il capitale produttivo d'interesse vengono subito legittimati, cioè vengono riconosciuti come "un rapporto di produzione necessario" alla nascita del capitalismo, in quanto - dice Marx nelle Teorie sul plusvalore - l'usura è "un potente fattore della separazione delle condizioni di produzione dal produttore"(p. 566).

La differenza "etica" infatti secondo Marx non esiste, come non esisteva per Lutero, contrariamente a quanto pensava Proudhon: usura significa "prestare soldi"; capitale produttivo d'interesse significa "comprare soldi" per poterli investire. Anche questa seconda attività è una forma di usura da parte di chi presta il denaro.

A proposito di questo, Marx sostiene che Lutero aveva già capito che mentre nel mondo antico (Aristotele) si era in via di principio contrari all'usura, in quanto era sbagliato calcolare in anticipo un eventuale danno subito dal concedere un prestito, nel mondo cristiano invece ad un certo punto si cominciò a ritenere l'interesse un giusto compenso per il servizio prestato. Lutero, nel 1540, scriveva che l'usura era diventata in Germania un fenomeno così dilagante da apparire non un vizio ma una virtù, una forma di servizio alla collettività.

E tuttavia da questa usura, che rovina sia la ricchezza e la proprietà feudale che la produzione dei piccoli borghesi, artigiani e contadini, non nasce il capitalismo industriale (persino nella Germania luterana ciò avverrà molto tempo dopo rispetto a Olanda e Inghilterra, tant'è che si dovrà ricorrere a due guerre mondiali per recuperare il tempo perduto; stesso discorso ovviamente vale per l'Italia). Da notare comunque che se Lutero era contrario all'usura.

Dunque per quale ragione ad un certo punto il capitale che rende interesse viene subordinato a quello industriale? Per quale ragione si prese a regolare il saggio usuraio di interesse su quello del profitto dell'imprenditore? Marx dice che la motivazione è proprio quella di combattere l'usura. Grandi riserve di denaro vengono immesse sul mercato per renderne facile l'acquisto, e il monopolio usuraio dell'oro (da parte degli orefici) viene combattuto trasformando il denaro in una merce come altre merci, che può persino essere sostituito da forme di credito circolante non monetarie o che non hanno un equivalente in senso stretto con l'oro (banconote, cambiali ecc.).

Questo a prescindere dal fatto che lo stesso sistema creditizio è costretto, per poter funzionare, a dotarsi di grandi riserve di metalli pregiati. Di fatto "il carattere sociale del capitale - dice Marx - viene permesso e attuato dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario". Con le banche la produzione capitalistica supera i propri limiti individualistici e si socializza.

Quindi in sostanza se per un certo tempo l'usura era stata prevalentemente praticata dagli ebrei, specie dopo l'entrata in vigore del divieto ufficiale del 1176, che colpiva i cristiani, ora invece quest'ultimi si riorganizzano in una attività economica (quella bancaria) che apparentemente sembra svolgere un'azione benefica alla collettività, in quanto ne incrementa la produttività. Il cristianesimo, essendo una religione più evoluta dell'ebraismo, più capace di doppiezza (in quanto sa scindere, senza escluderli, i valori dall'interesse), si rivela essere la base ideologica più idonea per realizzare il passaggio dal capitalismo commerciale e usuraio a quello industriale.

Marx tuttavia non approfondisce la cosa, trovandosi, come spesso gli succede, in un circolo vizioso: com'è possibile infatti che il sistema creditizio sia stato un fattore propulsivo per lo sviluppo del capitalismo quando proprio il capitalismo ha legittimato tale sistema? Se il sistema creditizio porta al capitalismo, perché in Italia, che ha preceduto di alcuni secoli le altre nazioni europee, sul piano del capitalismo commerciale, non si è sviluppato alcun capitalismo industriale sino alla fine dell'Ottocento (da noi non solo si passò da un capitalismo commerciale avanzato all'orticoltura - come già disse Marx - ma addirittura molti mercanti, per sottrarsi ai rischi connessi alla loro professione, preferirono diventare usurai, dopo aver investito i capitali accumulati in beni immobili).

Per uscire da questa enpasse andava fatta un'analisi culturale delle sovrastrutture, in particolare di quelle religiose. Cioè andava affrontato il complesso tema del rapporto tra aspetto collettivistico (in ambito rurale) della religione cattolico-romana in contraddizione con l'aspetto individualistico (monarchico, autoritario) del potere politico ecclesiastico, e del rapporto tra aspetto individualistico (anarchico) sul piano sociale della religione protestante, in contraddizione con la socializzazione forzata ottenuta nella produzione capitalistica industriale. Marx, venendo da un paese protestante, vede solo il secondo aspetto e non approfondisce i nessi del protestantesimo col capitalismo, limitandosi a porli.

Il capitalismo infatti può nascere solo dalla decadenza di una società in cui la cultura dominante è in contraddizione con la pratica sociale. La prima contraddizione è quella politica, tra la gestione clericale del potere e gli ideali religiosi; la seconda contraddizione, che si forma lottando senza successo contro la prima, è quella sociale, in cui la pratica del dualismo (tra valori professati idealmente e interesse privato mostrato nella vita pratica) si diffonde a macchia d'olio in tutta la società civile. Il capitalismo trova quindi le sue basi politiche nel cattolicesimo e quelle sociali nel protestantesimo.

I nessi di economia e religione, peraltro, s'intrecciano in maniera molto complessa con lo sviluppo della tecnologia, strettamente inerente al fatto che lo sfruttamento capitalistico deve ora operare nei confronti di un soggetto anomalo: un povero giuridicamente libero. Occorre cioè sviluppare una mediazione che superi il limite del rapporto personale (quasi patriarcale), in cui lo schiavo o il servo della gleba era sì di proprietà del padrone, ma che, proprio a causa di tale dipendenza, rendeva il rapporto di lavoro o molto difficoltoso o poco produttivo.

E' anche grazie alla tecnologia che il rapporto di lavoro, da personale diventa contrattuale, in modo che l'operaio ha la percezione, illusoria, di sentirsi libero, di accettare liberamente la propria schiavitù, dalla quale, altrettanto liberamente, può illudersi di uscire.

Dunque il capitalismo non solo eredita e contribuisce a distruggere la proprietà personale dei mezzi produttivi del piccolo produttore, ma subordina a sé ogni forma di lavoro, sviluppando un sistema di relazioni che favorisce sempre più non solo l'espropriazione, ma anche lo sfruttamento del lavoro altrui e quindi il progressivo accumulo di capitali. Le banche concedono prestiti proprio a chi è disposto, investendoli, ad appropriarsi di lavoro non retribuito.

Sicché in epoca moderna il ricorso al capitale usuraio "tradizionale" è tipico solo del piccolo produttore, non dell'operaio salariato, il quale al massimo ricorre al monte dei pegni. Il motivo per cui il piccolo produttore si rivolge all'usuraio è che le banche preferiscono far credito (cioè fare "usura legalizzata") a clienti che offrono garanzie. Questo non significa che l'usuraio presti i soldi solo ai poveri; egli infatti li presta anche ai ricchi, solo che continua a non avere un reale interesse a che gli usurati li investano con profitto, benché egli non disdegni, sotto il capitalismo, la possibilità di diventare imprenditore proprio grazie ai capitali accumulati con la pratica dell'usura. Viceversa il salariato può mettersi nelle mani dell'usuraio al massimo come consumatore, per ricevere più di quanto potrebbe offrirgli il monte dei pegni.

Tuttavia, prosegue Marx, non tutti i mali vengono per nuocere. "I lavoratori, prima isolati, vengono ammassati in grandi officine, in un'attività ripartita e concatenata". Là dove c'era l'isolamento del produttore individuale, ora c'è il collettivismo forzato di molti ex-produttori, cioè di salariati nullatenenti. Il capitalismo "non permette più il frazionamento degli strumenti di produzione relativo alla piccola proprietà, così come non permette più l'isolamento dei lavoratori". Questo aspetto, secondo Marx, giustifica storicamente il passaggio dal feudalesimo al capitalismo.



Considerazioni

La sintesi che Marx fa di tutto il suo ragionamento è la seguente:

"tanto l'usura quanto il commercio sfruttano un modo di produzione già esistente, non lo generano...", anzi l'usura tende a renderlo più miserevole.

"Quanto più irrilevante è il ruolo sostenuto dalla circolazione nella riproduzione sociale, tanto più estesa è l'usura".

"L'usura genera insieme al ceto commerciale una ricchezza monetaria indipendente... getta sul lastrico il possessore delle vecchie condizioni di lavoro, essa svolge una funzione importantissima nel creare i presupposti del capitale industriale".

Come è facile accorgersi queste tesi si contraddicono a vicenda e in definitiva non fanno capire l'origine della mentalità capitalistica, i suoi presupposti culturali. Marx infatti non riesce a spiegare due cose:

com'è possibile che possa esistere usura là dove domina il primato del valore d'uso e dell'autoconsumo? L'usura presuppone sempre la presenza del capitale commerciale, ma questo a sua volta presuppone l'esistenza di una mentalità già orientata verso il mercato, che non ha bisogno dell'usura per diventare capitalistica, e che non diventa capitalistica solo per il fatto d'essere commerciale;

cioè come è possibile che l'usura diventi un presupposto per la formazione del capitalismo quando proprio tale presupposto è contrario a qualunque rivoluzione del modo di produzione?

Marx dà per scontato che entrambe le figure "usurate", proprietario terriero e piccolo produttore, andando inevitabilmente in rovina, finivano col permettere la concentrazione di "grandi capitali monetari". Tuttavia egli sa bene che questa concentrazione non è sufficiente, di per sé, a favorire la nascita del capitalismo, altrimenti questo avrebbe già potuto nascere in epoca greco-romana o anche in un territorio diverso da quello dell'Europa occidentale.

La transizione "dipende completamente dal grado dello sviluppo storico e dalle corrispondenti circostanze" - ha scritto Marx, precisando che ci vogliono "altre condizioni" (p. 808 del III vol. del Capitale), ma quando fa l'elenco delle condizioni che possono permettere all'usura di trasformarsi in uno dei mezzi di formazione del capitalismo, esse sono tutte conseguenze di uno stile di vita che è sostanzialmente già borghese: il lavoro libero (non legato al servaggio né alla proprietà dei mezzi produttivi), il mercato mondiale (conseguente alle conquiste coloniali), il dissolvimento della vecchia struttura sociale (feudi e comunità di villaggio), lo sviluppo del lavoro fino a un certo livello (grazie alla tecnologia), lo sviluppo delle scienze, ecc.

Proprio in quell'eccetera mancano le condizioni culturali. E se non si trovano queste condizioni si finisce inevitabilmente in un circolo vizioso, poiché da un lato si è costretti ad affermare che l'usura in sé non genera il capitalismo, e dall'altro ch'essa, poste certe premesse, ne rappresenta uno dei presupposti fondamentali.

Non solo, ma da un lato il capitalismo deve porsi contro l'usura, onde dimostrare il suo lato positivo (etico e pratico), dall'altro però la ufficializza attraverso le banche, oppure trasforma i capitali tesaurizzati in capitali produttivi, da investire in attività di sfruttamento della manodopera salariata. Come sia possibile che avvenga il passaggio da una forma di sfruttamento passivo o distruttivo (l'usura) a una forma di sfruttamento attivo, che produce ricchezza (plusvalore), Marx non lo spiega in termini ontogenetici, ma si limita a costatarne l'evento analizzandolo come un fenomenologo della società.

Marx cioè non ha saputo spiegare che l'usura è stata economicamente possibile proprio perché politicamente era dominante il clericalismo del cattolicesimo-romano, ovvero la concezione che faceva della religione cristiana l'ideologia in grado di permettere un'ambigua separazione tra i principi professati e la loro pratica applicazione.

Il clericalismo, che è l'espressione politica della fede, abituò i credenti a vedere teoria e prassi come due forme distinte, per molti versi opposte, di esperienza della fede. Questa alienazione fece poi sì che si formassero dei ceti, proto-borghesi, in grado di mostrare che la loro attività pratica, commerciale e/o usuraia, poteva risultare compatibile con le idee cristiane professate in sede teorica.

L'ambiguità di questa posizione verrà poi denunciata dal luteranesimo, ma per essere estesa a livello sociale, come patrimonio di tutta la collettività, che in tal modo non l'avrebbe più avvertita come una negatività. Il luteranesimo infatti non ha mai rappresentato un'alternativa reale alla crisi sociale del cattolicesimo-romano.

Marx era arrivato vicinissimo a capire questa cosa nella conclusione del capitolo 35 del Capitale, ove dice: "Il sistema monetario è intimamente cattolico -scrive Marx-, il sistema creditizio intimamente protestante... Come carta l'esistenza monetaria delle merci ha solo un'esistenza sociale [non materiale, come nella tesaurizzazione]. E' la fede... nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale che si autovalorizza [di qui, si può aggiungere, l'innegabile componente ateistica nel protestantesimo, ovvero la sfiducia nel valore sacramentale degli oggetti religiosi]. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dalla base cattolica, così il sistema creditizio non si emancipa dal fondamento del sistema monetario".

Quest'ultima frase, che avrebbe dovuto indurlo a riscrivere tutto il cap. 36, è come buttata lì, senza ulteriori spiegazioni. Infatti la chiesa cattolica medievale, ad un certo punto, aveva preso ad arricchirsi proprio col divieto all'interesse. Essa vietava una cosa sul piano teorico, mentre su quello pratico aggirava il principio, e lo faceva comportandosi da approfittatrice di chi era in necessità di affidarle in gestione o addirittura di vendere le proprie sostanze per saldare i debiti contratti.

Fu proprio la chiesa romana a fondare l'istituzione della "manomorta" . Quando tale prassi divenne la regola nel mondo ecclesiastico (nelle corporazioni religiose, negli istituti regolari ecc.), il mondo laico non poteva restarvi indifferente: o la eliminava con la forza o l'assumeva come propria.

Marx insomma aveva intuito chiaramente che per comprendere la nascita del capitalismo c'era di mezzo l'ideologia, ma non ha mai approfondito il nesso che la legava all'economia. Questo lo si vede bene anche quando chiosa alcuni passi di Lutero relativi all'usura. Probabilmente il suo disinteresse per le questioni religiose era dipeso proprio dall'incapacità del protestantesimo di approdare a una chiara visione laica e umanistica della vita.

E ciò lo portò poi non solo a sottovalutare l'importanza culturale (di consenso sociale, di legittimazione teorica di pratiche non cristiane) della sovrastruttura religiosa, ma anche a fraintendere la situazione delle comunità di villaggio feudali (alto Medioevo), facendo egli coincidere un modo tecnico di produzione economica con un modo di gestione sociale dell'economia (specie là dove dice che il capitalismo ha associato dei lavoratori dispersi, isolati).

In realtà, il fatto che il contadino medievale andasse da solo a lavorare la terra non significava ch'egli vivesse da isolato nel contesto della comunità di villaggio. Era molto più isolato l'operaio di fabbrica, che quando tornava dal lavoro si trovava a vivere in edifici urbani anonimi (veri e propri dormitori pubblici) di cui non conosceva neppure il vicinato, senza considerare che nel mentre lavorava in fabbrica la socializzazione extraeconomica coi "colleghi" risultava tempo sottratto alla produttività (cosa che d'altra parte ancora oggi è così). L'associazionismo operaio è stato in realtà una reazione alla massificazione coatta, all'estraniazione sociale.

Inoltre il fatto che gli strumenti produttivi di un contadino siano "primitivi" va messo unicamente in relazione con quelli adottati dal capitalismo, ma non può di per sé voler dire che fossero inadeguati alla produzione, in quanto questa necessita di un rapporto equilibrato con la natura, la quale ha precise esigenze riproduttive. Queste due sviste: di natura sociorurale e di natura ecologica, comprensibili per il periodo storico di Marx, oggi sarebbero imperdonabili.

E ora l'ultima osservazione. Le prime rivoluzioni politiche della borghesia (olandese nel 1579, inglese nel 1688, americana nel 1776, francese nel 1789) sono avvenute dopo molti secoli di attività socioeconomica borghese, la quale, come noto, è andata affermandosi all'interno della società feudale, facendosi largo tra un'economia naturale basata sull'autoconsumo.

E' stato un processo lungo e faticoso, che ha sconvolto completamente non solo l'economia europea, ma quella di tutto il mondo; ed è stato un processo che non ha coinvolto in maniera lineare o parallela gli stessi paesi l'hanno intrapreso. P. es. il superamento dell'economia naturale è iniziato nell'Italia comunale, ma con l'incapacità della borghesia nazionale di creare un unico mercato nazionale, un unico Stato politico e amministrativo, un'ideologia emancipata dal cattolicesimo-romano, l'Italia nel XV sec. inizia una decadenza economica da cui non si risolleverà più per almeno tre secoli.

L'iniziativa commerciale le verrà decisamente sottratta da Olanda, Francia e soprattutto Inghilterra, la vera artefice della rivoluzione industriale, la quale, dopo la sconfitta napoleonica, sarà anche la vera dominatrice del mondo, almeno sino a quando la rivoluzione americana non porrà le basi per un ulteriore sviluppo del capitalismo industriale in un territorio non europeo.

Oggi invece assistiamo a una nuova fase del capitalismo avanzato, condotta questa volta in zone geografiche che addirittura non sono occidentali, ma asiatiche, come la Cina e l'India, che insieme fanno 1/3 dell'umanità. E che non hanno quasi mai avuto a che fare col cristianesimo. Qui il capitalismo è un prodotto di importazione, mediato in India dal liberalismo borghese (importato prima dagli inglesi, poi dagli americani) e dall'induismo nazionale, e in Cina dal socialismo maoista "riveduto e corretto".

Si ha come l'impressione che in questi territori lo sviluppo del capitalismo non abbia bisogno di quelle doppiezze così tipiche dei paesi di religione cristiana... Dal latino "manus", cioè il diritto di alienare e trasmettere, cui però se si aggiunge "morta", significa "incapace, impotente di trasmettere". Era quindi lo stato dei servi della gleba o dei vassalli che, in forza di antichi diritti feudali relativi alla forma della subordinazione personale, erano privati della facoltà di disporre dei propri beni per testamento, quando non avevano discendenti maschi diretti: in tal caso, alla morte del subordinato, il signore diventava erede legittimo di tutti i suoi beni.
Fin dai primi secoli del Medioevo venne altresì designato un insieme di beni che, in quanto appartenenti a un ente, in genere ecclesiastico (perché affidati in gestione da un privato), non si trasmettono per successione, e raramente per atto tra vivi, e sfuggono perciò alle relative imposizioni fiscali.
I beni ecclesiastici, soggetti a manomorta, erano quindi legati da un vincolo di inalienabilità, e le disposizioni ad essi relative furono poi applicate agli stessi enti proprietari di questi beni.
L'età moderna sarà poi caratterizzata dallo scontro tra lo Stato, le cui entrate fiscali erano danneggiate dall'immobilità di questi beni, e la chiesa, che richiedeva la totale esenzione fiscale per il proprio patrimonio. Dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione si posero dei limiti alle esenzioni ecclesiastiche: in particolare in diversi Stati europei fu istituita, tra XIX e XX secolo, una tassa di manomorta.
L'abate Rosmini, fin dal 1832, denunciò apertamente la "servitù dei beni ecclesiastici" pubblicando un libro (Delle cinque piaghe della Santa Chiesa) che gli attirò l'odio dei gesuiti.
L'imposta di manomorta era in vigore in alcuni Stati italiani prima dell'unificazione nazionale ed aveva lo scopo di impedire l'eccessiva concentrazione delle ricchezze a favore degli enti ecclesiastici. Fino al 1929 questa imposta si applicava con un'aliquota del 7,20% sulle rendite degli enti ecclesiastici, e con un'aliquota dello 0,90% sulle rendite degli istituti di carità, di beneficenza e di istruzione. Per effetto della "equiparazione" concordataria, anche sulle rendite degli enti ecclesiastici venne applicata l'aliquota dello 0,90% (circolare del 10 aprile 1930). Le società anonime, costituite per l'amministrazione degli immobili appartenenti ad associazioni di culto non legalmente riconosciute, vennero esentate nel 1938 dall'imposta straordinaria sul capitale delle società commerciali stabilita con decreto 19 ottobre 1937, n. 1729. Ed ancora, il decreto 9 gennaio 1940, n. 2 esentò dall'I.G.E. le oblazioni fatte a favore di istituti religiosi. Considerata la pratica impossibilità in cui si trovava la pubblica amministrazione di esercitare qualsiasi controllo nel settore delle frodi fiscali, le zone di privilegio concesse alla Chiesa consentivano spesso ai privati, affaristi e plutocrati, di trarne profitto pagando una tangente sugli affari conclusi o sulle somme sottratte agli accertamenti fiscali, dietro il paravento delle organizzazioni ecclesiastiche. E siccome anche l'irrisoria aliquota dello 0,90% dava fastidio il regime democratico-cristiano provvide ad abolirla con la legge 21 luglio 1954, n. 608.
In sintesi, il clero cattolico ha sempre ritenuto immorale pagare le imposte. Questo modo di pensare ha origini remote e risale all'epoca in cui la Chiesa, autoproclamatasi "società perfetta", rivendicava il diritto al "privilegium immunitatis". Bonifacio VIII, nella costituzione "Clericis Laicos" del 1296, attribuì un carattere sacro alle esenzioni tributarie irrogando la scomunica a chiunque avesse osato imporre tributi ai beni posseduti dagli ecclesiastici. Per effetto di questa disposizione pontificia il clero e la nobiltà fecero accettare dai sovrani il cosiddetto "principio di perequazione", in virtù del quale i sacerdoti s'impegnavano a collaborare con le preghiere, i nobili con le spade ed i popolani con il denaro. Era inevitabile che, con l'andare dei secoli, la chiesa accumulasse un patrimonio assai rilevante di manomorta.


MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA

Leggendo il cap. XIII del I libro del Capitale, intitolato "Macchinario e grande industria", salta subito agli occhi la grande differenza che separa Marx da Lenin.

Dopo la sconfitta del proletariato industriale nella rivoluzione del 1848, Marx smise di credere nella possibilità di una vittoriosa rivoluzione comunista a breve termine, anzi arrivò a teorizzare che prima di tutto occorreva attendere l'esaurirsi della spinta propulsiva del capitalismo. Di qui il suo dedicarsi agli studi approfonditi di economia politica. La Comune di Parigi infatti lo coglierà del tutto impreparato.

Sotto questo aspetto ci si chiede quale valore possa avere un testo come il Capitale. Sul piano scientifico, quello appunto dell'economia politica, ne ha indubbiamente uno grandissimo, ma su quello politico? Potrà mai nascere una rivoluzione proletaria dalla lettura del Capitale?

Sino al confronto col populismo il Marx maturo restò fermo nella convinzione che la transizione al socialismo sarebbe potuta avvenire solo sulla base dell'acuirsi delle contraddizioni del capitalismo. Quale discepolo di Hegel, egli era convinto che il motore della storia fosse la "contraddizione", che deve svilupparsi al massimo livello, al fine di poter generare una nuova formazione sociale.

Come tale formazione concretamente si generi Marx lo lascia spesso al caso, al moto spontaneo delle circostanze. Saranno gli uomini a trovare, al momento opportuno, in forza di nuove condizioni storiche, i mezzi e i metodi migliori per superare le loro contraddizioni.

Marx ha fiducia piena nella storia, ritenuta una sorta di deus ex-machina, in grado di agire motu proprio, al punto che gli operai del Capitale sembrano doversi limitare a una mera lotta sindacale, riformistica, contro gli imprenditori privati.

Viceversa, Lenin si chiedeva se avesse ancora senso aspettare l'acuirsi delle contraddizioni capitalistiche quando quelle già esistenti erano più che sufficienti per capire che la battaglia andava condotta immediatamente contro il "sistema" del capitalismo e non tanto contro le sue storture più evidenti.

Non era infatti possibile accettare, in Russia, il passaggio dalla crisi strutturale del feudalesimo alla nascita del capitalismo, senza rendersi conto che il capitalismo produceva, nelle città ma anche nelle campagne, dei guasti superiori allo stesso servaggio.

Lenin ebbe subito chiaro, e con lui migliaia di bolscevichi, che più tempo si dava al capitalismo di mettere radici e più tempo ci sarebbe voluto per estirparle.

Più in generale si può dire che la superiorità di Lenin rispetto a Marx è pari a quella che separa un politico da un teorico. Lo stesso Capitale, che pur vede il capitalismo quasi esclusivamente nella sua fase concorrenziale, è stato scritto quando ormai il capitalismo era entrato nella fase monopolistica. Viceversa l'Imperialismo è stato scritto da Lenin quando i monopoli avevano dato vita al loro impetuoso sviluppo.


Marx afferma che "l'estensione universale della legislazione sulle fabbriche" (§ 9 di "Macchinario e grande industria", ed. Newton Compton del Capitale, p. 657) servì "per proteggere fisicamente e intellettualmente la classe operaia", tuttavia essa favorì pure "la concentrazione e il dominio esclusivo del regime di fabbrica".

Tale contraddizione, dal punto di vista del leninismo, sarebbe dovuta bastare per convincere la classe operaia sul fatto che qualunque rivendicazione sindacale, se non sostenuta da una forte esigenza rivoluzionaria, finisce col sortire l'effetto contrario a quello voluto.

Viceversa, Marx è convinto che quanto più si favorisce il "dominio esclusivo" del capitale, tanto più si "universalizza" la lotta contro tale dominio.

In altre parole, la lotta anticapitalistica, nella fase della manifattura o del capitalismo commerciale, non approdò al socialismo semplicemente perché il capitalismo non era ancora sufficientemente "concentrato" e quindi non lo era nelle fabbriche il proletariato.

L'unità organizzativa utile alla rivoluzione di sistema Marx la riteneva possibile solo come conseguenza della concentrazione dei capitali nelle imprese maggiori. Gli operai si sarebbero sentiti tanto più uniti politicamente quanto più lo sarebbero stati "fisicamente".

Questa logica deterministica è ben visibile anche a p. 639, laddove Marx ribadisce, con un'affermazione lapidaria, che "lo sviluppo delle contraddizioni di una forma storica della produzione è l'unico mezzo che offre la storia per la sua dissoluzione e trasformazione". L'istanza e quindi la prassi di liberazione vengono subordinate all'evolversi storico delle contraddizioni antagonistiche.

Essendo per sua natura "anarchico", il capitalismo, secondo Marx, era destinato all'autodistruzione o comunque al superamento da parte di quella classe che in ultima istanza non avrebbe accettato di lasciarsi coinvolgere in quella inevitabile rovina.

Lenin, pur partendo da premesse marxiste, perverrà a conclusioni praticamente opposte: il proletariato, anche se tutto concentrato nelle imprese capitalistiche, al massimo può giungere a una consapevolezza sindacale, in quanto non ha sufficienti possibilità (scientifiche, organizzative) per comprendere (agendo di conseguenza) che il sistema è in sé irriformabile. Sicché la coscienza che porta l'operaio a lottare in maniera irriducibile per il superamento del sistema, può essere sollecitata solo dall'esterno dei rapporti di lavoro.

Detto altrimenti: senza rivoluzione politica il capitalismo sarebbe stato in grado di superare le proprie crisi all'infinito, anche perché ne avrebbe sempre fatto portare il peso ai lavoratori.

Lenin capì chiaramente questo, ma non arrivò ad accettare, con pari risolutezza, il passaggio successivo, e cioè che gli uomini (non solo i militanti del partito ma l'intero popolo di una nazione), pur avendo coscienza della necessità della rivoluzione, vanno lasciati liberi di usare tale coscienza anche contro gli interessi della stessa rivoluzione.


Nel cap. XIII Marx ribadisce a chiare lettere che l'introduzione del macchinismo è servita unicamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l'economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Tuttavia, egli non ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono alla rivoluzione tecnico-scientifica, che poi servì da volano alla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l'industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria infatti ha la pretesa di superare tutti quei limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale presume di trionfare non solo sul lavoro ma anche sull'ambiente in cui esso si manifesta.

Marx lo dice nella nota 89 (ed è singolare che sia solo una nota): "La tecnologia mette in luce la condotta dell'uomo nei confronti della natura...". E tuttavia egli non compie alcuna analisi critica nei confronti della tecnologia in sé. Anzi, qualunque tecnologia che assoggetti la natura alle esigenze dell'uomo viene giustificata, con l'ovvia eccezione ch'essa non venga utilizzata per sfruttare il lavoro altrui.

Con lo sviluppo della macchina-utensile, che determinerà tecnicamente la nascita della rivoluzione industriale, s'inverte il rapporto di dipendenza del macchinario dal lavoratore. Questo non può essere considerato un processo naturale, anche se indubbiamente le scelte operate in determinate direzioni possono portare a conseguenze inevitabili.

I limiti "culturali" di Marx sono ben visibili laddove afferma, a proposito della fine della famiglia contadina o patriarcale, che "pur apparendo orrenda e disgustosa l'oppressione della vecchia famiglia operata dal sistema capitalistico, ciononostante la grande industria, con la parte grandissima che è attribuita alle donne, agli adolescenti e ai bambini d'entrambi i sessi nei processi produttivi che vengono svolti socialmente al di fuori della cerchia familiare, crea la nuova base economica per una forma più evoluta della famiglia e del rapporto tra i due sessi"(p. 641).

Cioè a dire, mentre prima le donne e i figli erano nettamente subordinati agli uomini e tutti al patriarca della famiglia allargata, ora, essendo tutta la famiglia ugualmente sottomossa al capitale, è di conseguenza aumentata la possibilità di costruire dei rapporti più democratici tra i sessi.

E' singolare che Marx non abbia sottolineato come, da un lato, nelle famiglie rurali del feudalesimo il dominio del signore o del patriarca era strettamente legato alla fisicità della sua persona e quindi a rapporti di tipo personale, la cui "forza" era in rapporto alle terre possedute o al ruolo riconosciuto per tradizione e non poteva comunque essere illimitata come sotto il capitalismo, dove il capitale si riproduce a prescindere dalla volontà del capitalista, e come, dall'altro, la nuova subordinazione al giogo del capitale non è sul piano fisico e sociale meno "orrenda" e "disgustosa" di quella feudale, mentre lo è senza dubbio molto di più sul piano morale, essendo mascherata dall'ipocrisia della libertà giuridica. Questo nei paesi del Terzo mondo è ancora oggi piuttosto evidente.

Per Marx è stato un grande progresso dell'umanità la socializzazione aziendale imposta dal capitale ai lavoratori; non solo perché quest'ultimi sono stati costretti a "stare uniti", a lottare insieme per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro (il lato politico della socializzazione), ma anche perché è proprio "con il carattere cooperativo del processo di lavoro [sottinteso: capitalistico] che si estende per forza di cose il concetto del lavoro produttivo e del suo strumento, del lavoratore produttivo"(p. 665, che è appunto il lato economico della socializzazione).

Tutte le rivoluzioni precomuniste sono fallite -sembra dire Marx- perché gli uomini erano anzitutto disuniti nell'ambito del lavoro. Dice infatti a p. 664: "appropriandosi individualmente gli oggetti di natura per le esigenze della sua vita, egli [il lavoratore] controlla se stesso. In seguito egli viene controllato".

Il che in sostanza significa che l'uomo preborghese controllava sì se stesso, ma in maniera individualistica; era "libero" (relativamente parlando) ma "isolato". Sotto il capitalismo invece è sì "schiavo", in quanto "controllato", ma è "associato".

Marx non ha mai accettato l'idea di una società preborghese (anzitutto "primitiva") composta da uomini e donne "liberi e associati". Tutto ciò che è "precapitalistico" è necessariamente "individualistico". Qui il lavoro intellettuale e manuale -dice Marx- era unito e non in contrapposizione, ma il loro prodotto era quello "immediato del singolo produttore" e non quello "comune di un operaio complessivo, cioè di più persone che lavorano in combinazione"(pp. 664-5).

Egli vede l'operaio sociale del capitalismo in antitesi non solo al servo della gleba (considerato un semi-schiavo) ma anche a un operaio individualista che non è mai esistito. Il fatto che le corporazioni feudali non potessero avere più di un certo numero di operai non stava affatto a significare ch'essi facessero un lavoro individualistico, cioè se anche il lavoro in sé poteva apparire individualistico, non lo era però il contesto in cui si svolgeva. E in ogni caso il lavoro dell'operaio moderno industrializzato è sempre stato molto più parcellizzato (e quindi alienante) di quello del garzone. Il moderno operaio è semplicemente l'ingranaggio di una macchina che non vede mai il suo prodotto finito nell'insieme.

Marx equipara chiaramente la vita rurale della Germania tardo-feudale della sua epoca con la vita industrializzata della classe operaia inglese, e preferisce senza riserve quest'ultima. Egli non ha mai smesso di paragonare il capitalismo col feudalesimo del basso Medioevo, cioè un capitalismo in atto con uno in potenza, e facendo questo ha sempre avuto buon gioco nel sostenere che l'uno era migliore dell'altro sotto tutti i punti di vista.

Egli non ha mai ipotizzato l'idea che la cooperazione sarebbe potuta nascere anche a prescindere dal capitalismo. Marx parla continuamente dei vantaggi della cooperazione dimenticandosi di precisare a quale prezzo essi sono stati raggiunti. Parla della cooperazione come se essa fosse separabile dal capitalismo. Teoricamente potrebbe infatti esserlo, ma storicamente non lo è stata, almeno nell'ambito della manifattura.

Non è solo questione che con la manifattura si aumentano gli operai da impiegare contemporaneamente. La macchina non è più uno strumento di lavoro in cui una parte del tempo viene sottratta in maniera coercitiva dal proprietario della terra; ora è uno strumento completo per il profitto capitalistico, al pari della stessa forza-lavoro. Il capitalismo non nasce utilizzando semplicemente in maniera diversa i tradizionali mezzi produttivi (perché improvvisamente arrivò a capire che con la cooperazione si poteva fare di più e di meglio), ma sin dall'inizio è volto a trasformare questi mezzi in strumenti sempre più efficienti per realizzare profitti che in sostanza sono fini a se stessi. Questa rivoluzione culturale Marx non l'ha mai esaminata a fondo.

D'altra parte a Marx non interessa sapere se nel mondo contadino esisteva la cooperazione. La cooperazione, per lui, è strettamente legata al macchinismo.

Marx non ha fatto altro che proiettare nel lontano passato la vita dei contadini tedeschi, che nonostante l'adesione alla riforma protestante rimasero sostanzialmente estranei allo sviluppo dei processi democratici del tempo (come d'altra parte la stessa borghesia tedesca),

Occorrerà il contatto col populismo russo prima che Marx riveda i suoi pregiudizi nei confronti del mondo contadino.

Del capitalismo Marx non avrebbe mai detto ch'esso poteva porsi solo come una delle possibili alternative storiche al declino del feudalesimo. Era troppo forte l'idea del capitale di connettere "lavoro" a "produttività" perché si potesse pensare a una transizione non altrettanto "esigente". Eppure proprio il capitalismo ha trasformato il lavoro altrui in un'occasione di rendita, esattamente come faceva, con molto meno calcolo, il feudalesimo nei confronti del servaggio.

La stessa equiparazione borghese di "lavoro" e "produttività" possiede dei connotati antiumanistici, poiché la misurazione del proprio lavoro in un rendiconto di tipo economico viola il principio etico secondo cui il lavoro è mezzo e non fine o comunque strumento di vita e non di profitto. Concepire il profitto come cosa fine a se stessa significa vedere gli uomini solo come strumenti di lavoro.

L'uomo deve lavorare per il bene della comunità e quindi per il suo stesso bene, ma la comunità non può sottoporre il suo lavoro a un valore di tipo matematico. Da un punto di vista sociale e non meramente economico, ciò che più conta è che, potendolo fare, l'uomo lavori e non se ne stia a oziare a spese della comunità.

Se vale il principio socialista: "Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo bisogno", non può esistere il concetto di "lavoro produttivo", in quanto ogni lavoro lo è e tutti in misura uguale. Quanto, nella realizzazione di tale principio, occorra la presenza di comunità autogestite, è facile capirlo.


Marx ha spiegato solo in maniera fenomenica il passaggio dalla produzione di plusvalore assoluto (che è caratteristica di ogni formazione sociale antagonistica) alla produzione di plusvalore relativo (che è tipica del capitalismo): non l'ha spiegato in maniera ontologica o culturale.

Egli ha connesso la nascita del capitalismo con il "culto dell'uomo astratto" elaborato dal cristianesimo, ma non ha mai svolto un'analisi sistematica di tale connessione, e chi ha preteso di farla -p.es. Weber o Sombart- l'ha fatto in maniera borghese.

Occorre riesaminare tutta la teologia cattolica, a partire dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, per giungere sino allo sviluppo del calvinismo, che è la quintessenza culturale del capitalismo. Se non si fa questo lavoro di ricerca si finisce col cadere in tautologie, da ritenersi ormai classiche nel marxismo, come la seguente: "la produzione di plusvalore assoluto costituisce il fondamento universale del sistema capitalistico e il punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo"(p. 666).

Se così fosse, non ci si potrebbe spiegare il motivo per cui lo stesso "fondamento universale" delle altre formazioni antagonistiche non s'è mai posto come punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo.

Marx, che si rendeva ben conto del circolo vizioso, spesso -non avendo affrontato la questione in maniera culturale- era costretto a dare delle risposte equivoche, contraddittorie, come per es. la seguente: "Il fatto che in una società sia predominante questa forma di sfruttamento [il capitale usuraio o il capitale commerciale] impedisce il modo di produzione capitalistico [che presuppone la libera vendita della forza lavoro], che tuttavia può trovare in essa una forma di transizione: fu il caso del tardo Medioevo"(p. 667).

Altrove però egli dirà che senza il "capitale commerciale" difficilmente può sorgere quello "capitalistico".

In realtà -ed è la storia che lo dimostra- fino a quando esiste un primato dell'agricoltura, la cultura che sorregge lo sfruttamento del lavoro difficilmente può favorire una transizione al capitalismo: cosa invece possibilissima se quel primato viene intaccato dallo sviluppo del capitale commerciale, cui ovviamente deve corrispondere, sul piano sovrastrutturale, una cultura opposta alla precedente.

La diretta e completa subordinazione del lavoro al capitale deve essere in qualche modo anticipata sul piano culturale, anche se qui gli strumenti teorici che si usano e lo stesso oggetto delle argomentazioni può risultare del tutto estraneo agli sviluppi sociali futuri. E' difficile sostenere che la nascita culturale del capitalismo tragga le sue origini dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, eppure le sue radici sono lì.

L'analisi culturale deve essere approfondita, anche per evitare di dire delle sciocchezze, come p.es. là dove Marx pretende di aver trovato una "base naturale" del plusvalore: "nessun ostacolo naturale assoluto può impedire a una persona di esimersi dal provvedere al lavoro necessario per il proprio sostentamento addossandolo sulle spalle di un altro"(p. 669).

Se l'uomo è per definizione un "essere sociale", questa sua qualità non è un prodotto solo culturale ma anche naturale, che implica delle regole la cui verità dipende dalla libera accettazione. Anche se una cultura può farlo sembrare tale, lo sfruttamento non può mai essere considerato "naturale".

L'ostacolo naturale assoluto allo sfruttamento è dato proprio dalla naturale socializzazione della vita umana, che può arrivare ad accettare le discriminazioni solo se interviene, artificiosamente, una cultura che si contrappone alla "tradizionale natura delle cose", una cultura fittizia, non popolare ma intellettualistica, che pretende di mettere in discussione quella consolidata da secoli di vita sociale, e che trova un terreno fertile in quelle realtà non sufficientemente consapevoli del valore delle cose.

La "spontanea produttività di plusvalore" è tipica delle società antagonistiche, ma era del tutto sconosciuta alle comunità primitive, che pur sono esistite per milioni di anni.

Per Marx le comunità primitive erano così arretrate da risultare assai simili alla socializzazione degli animali. Egli cita, in nota, "gli indiani selvaggi d'America" e nel testo parla di "cannibalismo".

Il fatto che fra gli indiani quasi tutto appartenesse alla comunità viene considerato possibile da Marx appunto perché "le forze produttive erano assai piccole; anche le esigenze..."(p. 669). Quindi in sostanza mancava lo sfruttamento a causa dell'arretratezza sociale della tribù!

"I rapporti secondo i quali il pluslavoro di una persona diviene condizione di esistenza di un'altra sorgono solamente quando gli uomini sono usciti tramite il lavoro dalla loro animalità, vale a dire solo quando il loro stesso lavoro è arrivato a un determinato grado di socialità"(p. 669). Dunque, il lavoro o meglio la forza-lavoro è tanto più fonte di valore quanto più si pone come unico mezzo in grado di far uscire una comunità primitiva dalla propria "animalità"!

Cos'è questo se non un modo ideologico di applicare al passato uno stile di vita moderno? In assenza di un'analisi culturale approfondita Marx è costretto ad affermare che l'uomo diventa tanto più facilmente "umano" quanto prima inizia lo "sfruttamento"! L'umanizzazione trova le sue fondamenta in ciò che la contraddice.

Di qui il rifiuto di considerare possibile l'idea che non tanto il lavoro sia fonte del valore, quanto piuttosto che sia il valore condiviso da una collettività a dare senso al lavoro.

Marx ha voluto usare categorie borghesi per ritorcercele contro la stessa borghesia: infatti se il lavoro è fonte del valore, la borghesia è una classe inutile perché vive sullo sfruttamento del lavoro altrui. Tuttavia, non è questo il modo di costruire un'alternativa globale al capitalismo.

E l'alternativa va cercata proprio nell'esperienza della comunità primitiva. Gli storici hanno sostenuto che Marx non ebbe idee chiare sullo sviluppo del comunismo primitivo perché allora gli studi critici erano molto scarsi, ma non si tratta solo di questo.

Prendiamo ad es. questa affermazione: "in quel periodo primordiale la parte della società che vive del lavoro di altri è nei confronti della massa dei produttori diretti proporzionalmente esigua, quasi insensibile"(p. 669).

Come se lo "scarso sfruttamento" del lavoro altrui fosse un difetto della comunità! Come se uno sfruttamento, seppur esiguo, debba per forza essere presente in ogni comunità primordiale! Come se il non-lavoro da parte di alcuni dovesse necessariamente coincidere con lo sfruttamento nei confronti di altri!

Chiunque può facilmente notare che non si tratta soltanto di mancanza di conoscenze. Tant'è che alla fine della sua argomentazione Marx, rendendosi conto di non aver saputo trovare una risposta convincente al problema della nascita del capitalismo, è costretto a concludere con un'affermazione generica: "Il rapporto capitalistico sorge su un terreno economico che è prodotto di un lungo processo di sviluppo... non è dono di natura, ma di una storia che comprende migliaia di secoli"(pp. 669-70).

Il processo evoluzionistico della storia qui viene chiamato in causa per giustificare un fenomeno di cui non s'è ben capita la genesi storico-culturale.

D'altra parte ancora più assurda è la risposta, di tipo "geografico" (alla Montesquieu), ch'egli qui dà a questo problema: "Non è il clima tropicale con la ricca vegetazione la madrepatria del capitale, bensì la zona temperata"(pp. 671-2).

Eppure poco prima egli aveva detto: "Quanto minore è il numero dei bisogni naturali da soddisfare in assoluto, e quanto più grande è la fertilità naturale della terra e la mitezza del clima, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario per il mantenimento e per la riproduzione del produttore"(p. 670).

Col che si potrebbe pensare che la comunità primitiva avesse meno bisogno di praticare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Invece secondo Marx è proprio il contrario: "tanto maggiore può quindi essere l'eccedenza del suo lavoro per altri..."(p. 670).

Ma allora -ci si può chiedere- perché il capitalismo non è per esempio nato nell'Egitto dei faraoni, che certo conosceva e praticava lo sfruttamento dell'uomo? Marx in sostanza sostiene che il capitalismo poteva nascere solo in una zona geografica la cui ricchezza naturale non fosse troppo rigogliosa, ma dipendesse dalla capacità dell'uomo di dominare la natura.

E riporta vari esempi, soprattutto in riferimento all'irrigazione dei suoli: antico Egitto, Lombardia, Olanda, India, Persia, Spagna, Sicilia...

Eppure proprio questa capacità lavorativa, riscontrabile in epoche e luoghi diversi, non spiega affatto il motivo per cui la nascita del capitalismo si sia verificata proprio in Europa occidentale, né la ragione per cui in molti dei luoghi citati da Marx il capitalismo si sia affermato solo in seguito al colonialismo europeo, cioè come una forzatura imposta da un agente esterno.

Insomma, quando Marx afferma che "la prosperità delle condizioni naturali favorisce sempre solamente la possibilità, mai la realtà del pluslavoro..."(p. 673), non si rende conto che se avesse approfondito la ricerca culturale avrebbe trovato indimostrabile questa teoria climatica anche solo per il concetto di "possibilità del pluslavoro".

Che il passaggio dalla possibilità alla realtà dipenda da fattori extranaturali, o che esso venga ritenuto impossibile semplicemente a motivo di determinati fattori naturali, bisogna in ogni caso trovare i fattori umani che hanno generato la transizione, altrimenti un qualunque nesso di clima e pluslavoro rischia di diventare una sciocchezza colossale.

Quando Marx parla di "valore della forza-lavoro" è sempre costretto a usare dei termini generici, benché la scienza economica esiga il contrario.

Questo sta appunto a significare che quando è in gioco l'essere umano qualsiasi determinazione quantitativa del suo valore rischia sempre di apparire approssimativa. Sotto questo aspetto sarebbe stato meglio dare una definizione qualitativa del valore dell'essere umano qua talis, anche a costo di finire nella tautologia.

In effetti, dire che "il valore della forza lavorativa è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza generalmente necessari all'operaio medio"(p. 679), è come dire che tale valore è, in sostanza, poco determinabile in maniera scientifica. Peraltro, se un operaio produce più del suo valore (cosa che determina il plusvalore, che è lavoro non pagato), non potrà mai esistere un salario matematicamente adeguato al valore della forza-lavoro.

Quando si parla di mezzi di sussistenza "generalmente" necessari a un operaio non specifico ma "medio", si finisce col cadere nell'opinabile, nel soggettivo. Non si può pretendere che un'oggettività dipenda da un'astrazione, specie quando è in causa l'essere umano.

O si parla, in maniera generica, del valore assoluto della persona umana; oppure si deve combattere la pretesa di trovare un riferimento scientificamente adeguato al valore della forza-lavoro. Se esiste un valore di tal genere, esso non potrà che oscillare fra un minimo e un massimo talmente diversi da rendere impossibile qualunque statistica attendibile.

Un operaio che lottasse solo perché sia riconosciuto il valore esatto della sua forza-lavoro, sarebbe un folle, poiché il suo essere "lavoratore" non occupa che 1/3 della sua giornata lavorativa. In realtà l'operaio ha bisogno che il valore della sua forza-lavoro non dipenda strettamente dal valore dei mezzi di sussistenza, altrimenti non gli resterebbe altro tempo per fare alcunché.

Lo stesso capitalista, che pur fa di tutto per limitare il salario al minimo indispensabile (alla riproduzione della forza-lavoro), sa benissimo che se l'operaio si limita a riprodursi non potrà mai diventare un acquirente delle merci ch'egli stesso produce.

Il valore della forza-lavoro è quindi, in realtà, il frutto di un continuo compromesso o, se si vuole, di una continua trattativa sindacale tra operaio e imprenditore. Il riferimento ai mezzi di sussistenza entra in gioco solo quando l'operaio rischia di essere licenziato o quando la sua prole non trova alcuna vera occupazione.

Il valore della forza-lavoro non è dato dal salario, che deve comunque permettere la riproduzione, poiché l'uomo non è solo ciò che mangia e il fine dell'esistenza umana non è quello di lavorare.

L'uomo ha bisogno di lavorare per riprodursi, ma ha tanti altri bisogni che non possono essere soddisfatti col lavoro o, se vogliamo, il fatto di doversi riprodurre non può coincidere strettamente coi bisogni di tipo materiale.

L'uomo deve potersi riprodurre come essere umano e non soltanto come lavoratore che produce dei beni. Il concetto di persona è antecedente a quello di lavoratore.

Possiamo accorgerci di questo solo nell'ambito di una comunità in cui l'individuo venga valorizzato anzitutto per quello che è e non per quello che fa.

Di una persona si devono stimare il carattere, i sentimenti, i pensieri, gli atteggiamenti, le virtù, le qualità morali...

Se si pone il lavoro come primo fattore di valorizzazione si pongono in essere, immediatamente, dei fattori discriminanti: p.es. tra uomo e donna, tra adulto e minore, tra abile e disabile, tra forte e debole, tra residente e immigrato, tra intellettuale e manovale ecc.

Se invece si accetta l'idea di valorizzare la persona per quello che è, occorre essere disponibili a veder emergere in questa persona le sue migliori caratteristiche.

Questo, si badi, non significa rinunciare all'idea che per eliminare il lavoro salariato occorra una rivoluzione politica, poiché è difficile credere che i capitalisti possano rinunciare spontaneamente alla possibilità di vivere di rendita sfruttando il lavoro altrui.

In una società socialista esisterà il plusvalore, il lavoro non retribuito? Sì, se sarà determinato dalla spontaneità e non dalla coercizione.

E potrà mai esistere l'idea di "profitto" se non ci sarà la possibilità di estorcere plusvalore dalla forza-lavoro? Senza coercizione economica o extraeconomica non ci può essere "profitto", intendendo con questo termine anche quella parte di lavoro non pagata. Ci può essere il guadagno o il ricavo, ma non un profitto di tipo capitalistico. Il plusvalore infatti rappresenta proprio la garanzia che il profitto si realizzerà in maniera automatica, semplicemente pagando degli operai al di sotto del valore che rendono.

Il plusvalore infatti è la possibilità che il capitale si è dato di sfruttare l'operaio dietro l'apparenza dello scambio degli equivalenti, che in questo caso consiste nell'offrire denaro (il salario) contro merce (la forza-lavoro).

A questa finzione il capitalismo è stato costretto proprio a causa del cristianesimo, che non avrebbe tollerato un ritorno allo schiavismo stricto sensu. Il lavoratore salariato è schiavo nell'apparenza della libertà. E tale apparenza è tanto meno sofisticata quanto meno presente è stato nei secoli il cristianesimo (come p.es. in molti paesi terzomondiali, dove il capitalismo s'è sempre comportato con molti meno scrupoli).

Nel socialismo reale il plusvalore esisteva in quanto lo Stato si era sostituito a tutti i capitalisti privati, illudendo i lavoratori ch'esso fosse lo "Stato di tutto il popolo".

In una società democratica, dove i mezzi produttivi sono socializzati e non statalizzati, il lavoro non direttamente retribuito può essere solo quella forma di lavoro la cui retribuzione viene devoluta in fondi particolari che riguardano i servizi sociali, per il bene comune.

In una società del genere il lavoratore è effettivamente padrone di ciò che produce, ma appunto perché fa riferimento a una comunità di appartenenza (di lavoratori e di cittadini, della città e della campagna), in cui può liberamente decidere cosa e quanto produrre per le esigenze locali e come ripartire i beni prodotti.

Occorrono unità relativamente piccole per organizzare al meglio la produzione e la distribuzione dei beni materiali. Anzi, forse per la distribuzione tali unità devono essere ancora più piccole di quelle della produzione.

A più riprese Marx ha sostenuto che i meccanismi del capitale sono coperti da una sorta di "velo mistico", che non esisterebbe se si producesse in maniera libera e pianificata.

Marx ha indubbiamente "strappato" questo velo, ma non ha saputo spiegare il motivo culturale per cui esso sia stato posto.

Oggi sappiamo che il capitalismo afferma in sede teorica ciò che nega in sede pratica, ma per sostenere un'incoerenza del genere esso ha avuto bisogno di grandi finzioni, in grado appunto di "mascherare" le sue insanabili, perché strutturali, contraddizioni.

Non è stato facile scoprire queste "finzioni". Gli economisti borghesi, p. es. (Smith, Ricardo ecc.), non riuscirono a comprendere la natura oppressiva del plusvalore semplicemente perché non volevano ammettere la natura oppressiva del sistema capitalistico. Loro vedevano solo un progresso nella giustizia economica, in quanto, a differenza del latifondista, l'imprenditore industriale appariva come un uomo capace di rischiare il proprio capitale, investendolo in attività produttive. E' il capitalista che dà lavoro agli operai e non il contrario.

In sostanza la domanda che ci si pone è la seguente: com'è nato questo processo, per il quale sono occorsi indubbiamente dei secoli?

La storia dell'Europa, negli ultimi duemila anni, passa attraverso continue e violente rotture nei confronti degli ideali originari del cristianesimo (lo stesso cristianesimo si pone come rottura col messaggio originario del Cristo): solo da una loro progressiva stratificazione poteva nascere una così potente negazione di quegli ideali.

L'accumulazione dei capitali è stata necessariamente preceduta da una grande accumulazione di successive e periodiche "rotture di valore" che si sono stratificate e sedimentate.

Che però la storia dell'antagonismo sociale sia a una svolta epocale è documentata dalla nascita stessa del socialismo, la cui ideologia, per la prima volta da quando esiste la lotta di classe, riporta agli uomini la necessità di tornare al comunismo primitivo, seppure in forme e modi diversi.

Il velo mistico è stato strappato, ma resta ancora appeso sul tabernacolo dell'ipocrisia,


Lo sviluppo industriale va ripensato a prescindere dalle conseguenze negative ch'esso ha generato sotto il capitalismo. Il primato dell'industria sull'agricoltura e sull'artigianato ha provocato conseguenze catastrofiche sull'ambiente e sulla vita sociale anche in quei paesi che hanno cercato di realizzare il socialismo (il fatto che questo il più delle volte sia stato "burocratico" e non "autogestito" non cambia le cose; anzi forse si può dire che un socialismo potrà essere veramente democratico solo quando sarà finito il primato dell'industria o comunque anche quando tale primato non esisterà più).

Certo, la fine di questo primato non è di per sé sufficiente a garantire la democraticità del socialismo; meno che mai lo è quando tale fine viene proposta come obiettivo strategico a quelle nazioni che in questo momento sono soggette a rapporti di tipo neocoloniale.

Una democrazia può essere garantita solo da se stessa, cioè solo dalla libertà umana. La fine del primato dell'industria può semplicemente servire a rendere più agevole il processo che condurrà alla democrazia, ma senza garanzie di sorta.

Il destino dei paesi terzomondiali non è quello d'imboccare la strada di una industrializzazione forzata, copiando i modelli occidentali, e non è neppure quello di continuare a subire il diktat delle potenze più industrializzate del mondo. Essi hanno piuttosto il compito di reagire politicamente alla loro sottomissione economica, allo scopo di porre le basi, sul terreno sociale, di uno sviluppo della società più conforme alle leggi della natura e alle caratteristiche della specie umana.










LA COOPERAZIONE


La prevalenza che Marx ha sempre concesso alla quantità rispetto alla qualità (seguendo, in ciò, la lezione hegeliana) la si può riscontrare anche nel cap. XI, dedicato alla Cooperazione. Per Marx "il punto di partenza della produzione capitalistica è costituito, sotto l'aspetto storico e concettuale, dall'operare di un numero abbastanza elevato di operai che avviene nello stesso tempo e nel medesimo luogo (o, se si vuole, nel medesimo campo di lavoro), volto a produrre, sotto il comando di un medesimo capitalista, uno stesso genere di merci"(p. 407), su scala quantitativamente molto elevata.

Questo modo di spiegare la genesi del capitalismo può aver valore sul piano fenomenologico, ma non su quello ontologico. Come spiegazione storica e concettuale, essa resta senza dubbio insufficiente.

Dire che "all'inizio la differenza [tra capitalismo e corporazioni medievali] è meramente quantitativa"(ib.), è come dire, implicitamente, che tra corporazione e capitalismo non vi è mai stata una vera rottura socio-economica, ma solo il passaggio obbligato da una formazione meno produttiva a una più produttiva.

Difficilmente Marx avrebbe ammesso che pur in presenza delle suddette condizioni "formali" per il sorgere del capitalismo, la corporazione avrebbe potuto continuare a restare corporazione per secoli e secoli. Difficilmente egli avrebbe ammesso che quelle condizioni non sussistevano nelle corporazioni artigiane appunto perché la ragione culturale che supportava la corporazione era di tipo pre-capitalistico, cioè "voluta" e non "casuale".

La fabbrica capitalistica non è nata semplicemente perché "l'officina del mastro non ha fatto che ingrandirsi"(ib.): anche là dove ciò fosse avvenuto, avrebbe dovuto per forza maturare, ad un certo punto, la consapevolezza che si stava costruendo qualcosa di radicalmente diverso dal tradizionale modo di produzione. La transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata anzitutto il frutto di una libera scelta, più o meno consapevole, o comunque non più obbligata in un senso di quanto non lo fosse in un altro. La necessità storica dell'affermazione del capitalismo è stata, se vogliamo, una diretta conseguenza del fallimento di una possibile alternativa democratica alla crisi del sistema feudale.

L'esigenza del capitalista di riunire in un medesimo campo di lavoro il maggior numero possibile di operai, riflette, già di per sé, l'esigenza di dare più peso alla quantità di ciò che si produce che non alla qualità di come lo si produce: il che implica l'assegnazione di un primato al valore di scambio rispetto a quello d'uso. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale.

L'interesse per il lavoro sociale medio, nell'ambito del capitalismo, implica la fine del lavoro creativo, di qualità, del singolo artigiano o dell'équipe di artigiani attorno a un medesimo manufatto, e la nascita del lavoro meccanizzato, di quantità.

Anche nel Medioevo c'era l'esigenza di determinare il lavoro sociale medio: infatti si parlava di "giusto prezzo". Solo che tale esigenza non era finalizzata alla determinazione matematica del profitto. Il "giusto prezzo" era una garanzia soprattutto per il consumatore: una garanzia di tipo etico-giuridico, per quanto proprio la necessità di stabilire un "giusto prezzo" riflettesse, indirettamente, un abuso economico da parte dei produttori.

Al di fuori di tale esigenza, la determinazione di una giornata lavorativa sociale media, nel feudalesimo, non avrebbe mai potuto portare a un'esatta determinazione del prezzo di una merce, per la semplice ragione che, quando vige il principio della qualità del lavoro, taluni oggetti, in realtà, non hanno prezzo, e lo scambio avviene su basi che non sono strettamente economiche. Nel senso che se si pone uno scambio di equivalenti, esso non va inteso in modo matematico (o finanziario), ma etico: due oggetti possono essere equivalenti anche se il loro valore monetario è diversissimo. E' la coscienza dei contraenti che decide l'equivalenza.

La visione economicista di Marx potrebbe avere un qualche significato se si partisse dal presupposto che lo sviluppo storico non è altro che il continuo e necessario superamento di determinate condizioni negative di esistenza materiale. Ma anche in questo caso (che è già di per sé inverosimile) sarebbe tutto da dimostrare -e Marx naturalmente non lo fa- che ogni superamento, per quanto limitato sia, costituisca sempre una fase progressiva rispetto alla situazione precedente. Marx cade in un semplicismo disarmante quando fa chiaramente intendere che il capitalismo, proprio perché ha superato il feudalesimo, rappresenta la positività nei confronti della negatività. O, peggio ancora, quando lascia intendere che il socialismo rappresenta la positività nei confronti del capitalismo, proprio perché il futuro è sempre migliore del presente.

Uno dei difetti principali dell'analisi economica di Marx è quello di voler applicare al sistema feudale dei criteri interpretativi che, al massimo, sono validi solo per il sistema borghese. Quando Marx afferma, p.es., che nel feudalesimo il saggio generale del plusvalore, a causa del modo individuale di lavorare, era impossibile determinarlo all'interno delle varie botteghe del mastro artigiano, in quanto s'imponevano di continuo, e necessariamente, delle differenze tra un operaio e un altro, nel medesimo lavoro, egli, così dicendo, fa astrazione completa dal "vero feudalesimo" e si crea, su misura, una sorta di para-feudalesimo che risulti di molto inferiore al capitalismo.

Per Marx infatti la compensazione economica delle differenze individuali degli operai, si otteneva, nel feudalesimo, solo a livello dell'intera società, "non per il singolo mastro artigiano"(p.410). Questo svantaggio individuale è stato superato dall'imprenditore capitalista proprio con la sua volontà d'essere "borghese" sino in fondo, con estrema coerenza.

Marx non sospetta neanche lontanamente che la suddetta compensazione a livello dell'intera società feudale potesse avere della ricadute positive sullo stesso mastro artigiano. Cioè che l'eventualità di lavorare in perdita, in un determinato caso, non pregiudicasse di per sé un feed-back positivo sulla propria attività, in termini non strettamente o non esclusivamente economici (si pensi p.es. alla sicurezza sociale). Per Marx il mastro artigiano concepisce se stesso in antitesi alle esigenze della società - proprio come il borghese sotto il capitalismo. La differenza sta nella scelta dei mezzi con cui affermare tale contrapposizione.

Dice Marx a p.412: "l'economia nell'uso dei mezzi di produzione non proviene che dal loro consumo comune nel processo lavorativo di molte persone". Qui sta la differenza tra artigiano e capitalista.

In realtà le cose non sono così semplici, altrimenti tale economia -si può pensare- si sarebbe potuta verificare anche nel feudalesimo, senza che per questo vi fosse il pericolo di far nascere il capitalismo. Un'altra, più profonda, ragione riposa invece nella volontà di ottenere un profitto economico individuale contro l'interesse sociale della collettività.

Paradossalmente è proprio tale ragione a far sì che l'uso "comune" dei mezzi lavorativi sia "sociale" solo in apparenza, essendo esso, di fatto, costrittivo per la totalità dei lavoratori. Mentre, all'opposto, il carattere "individuale" del lavoro feudale -sostenuto da Marx- è in realtà solo presunto, in quanto la maggioranza dei lavoratori, pur soggetta alle regole del servaggio, vive un relativo senso della collettività, conformemente anche all'ideologia religiosa di tipo cattolico e soprattutto di tipo ortodosso.

Fa specie che un attento economista come Marx non si sia accorto dell'esistenza di una forte socializzazione del lavoro anche nell'ambito del feudalesimo. E' singolare ch'egli non sia arrivato alla conclusione che se nel Medioevo il lavoro aveva un carattere meramente individuale, il capitalismo non avrebbe impiegato così tanti secoli prima di affermarsi. Non faremmo forse un torto all'intelligenza dell'uomo medievale, allorché lasciassimo intendere che gli occorrevano molti secoli prima di capire che un lavoro socialmente organizzato produce di più e meglio di un lavoro individuale? D'altra parte, se il problema di un maggior benessere socio-economico stava solo in questa migliore organizzazione produttiva, c'era forse bisogno di far nascere il capitalismo?

Ma la cosa più stupefacente nell'analisi di Marx, la sua contraddizione più macroscopica sta proprio nel fatto che mentre da un lato egli afferma che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era inevitabile, dall'altro sostiene che le condizioni di lavoro per l'operaio della fabbrica sono diventate, nel capitalismo, molto più disumane che nel feudalesimo. Infatti, "contrapponendosi per conto proprio le condizioni di lavoro all'operaio, anche la loro economia [leggi: nel senso di "risparmio"] si presenta come operazione particolare a lui assolutamente estranea..."(p.412). Cioè per Marx il capitalismo è nato a prescindere dalla volontà del lavoratore: esso è stato subìto, come prima lo erano il servaggio e lo schiavismo. Il vero protagonista attivo è stato solo il capitalista, il quale, a sua volta, non ha fatto che adeguarsi a un processo storico immanente.

Volendo, l'analisi di Marx potrebbe essere considerata giusta se la si applicasse a quella fase di passaggio del capitalismo da commerciale a industriale. Dice infatti alle pp.416-17: "A causa della mancanza di tale cooperazione, nell'Ovest degli Stati Uniti si spreca ogni anno una grande massa di grano, e nelle parti delle Indie Orientali in cui il dominio inglese ha tolto di mezzo l'antica comunità, si spreca ogni anno una grande massa di cotone".

Tuttavia, anche in questo caso bisognerebbe precisare che nella fase del capitalismo meramente commerciale, il modo di produzione dominante (nell'Europa occidentale, con tutte le sue colonie) restava quello feudale, poiché solo quando si realizza la rivoluzione industriale, il feudalesimo scompare definitivamente. Ciò significa che anche laddove s'era affermato il capitalismo commerciale, il passaggio a quello industriale non può mai essere considerato come "automatico". Il macchinismo e la cooperazione sono stati una risposta ai limiti del capitalismo commerciale, ma tali limiti potevano essere superati abolendo il servaggio e democratizzando la vita rurale, per quanto proprio la nascita del capitalismo commerciale fosse una diretta testimonianza che nel feudalesimo vi erano forze intenzionate a conservare lo status quo. In tutto ciò comunque la categoria della necessità può essere evocata soltanto dopo aver costatato che con la libertà gli uomini non sono stati capaci di trovare delle risposte adeguate ai loro problemi.


Per Marx la cooperazione di tipo capitalistico ha superato i limiti del capitalismo commerciale, perché ha saputo organizzare in maniera collettiva un lavoro ch'era individuale. Ora "molte persone prendono parte a un medesimo processo produttivo o a processi differenti ma connessi"(p. 412).

E all'interno di questa attività sorge ciò che, per Marx, nel feudalesimo non esisteva: l'emulazione. "Il solo contatto sociale -egli afferma- fa sorgere nella maggior parte dei lavori produttivi un'emulazione e uno specifico eccitamento degli spiriti animali... che accrescono la possibilità di rendimento individuale dei singoli..."(p.413). Per Marx questo è del tutto naturale! "Ciò deriva dal fatto che l'uomo è per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale"(p.414). In altre parole, il capitalismo avrebbe superato il feudalesimo perché avrebbe saputo valorizzare meglio la natura sociale dell'uomo!

Marx si lascia completamente suggestionare dall'alta produttività del capitalismo e non si chiede affatto quale prezzo ciò possa comportare sulla salute (sul benessere) psico-fisico del lavoratore. Anzi per lui proprio la cooperazione capitalistica ha permesso all'operaio di scoprire il meglio di sé, le proprie intrinseche potenzialità.

Cioè l'operaio si sente in competizione con altri operai non perché la cultura individualistica del capitalista ve lo obbliga, ma perché nella cooperazione egli avverte l'insopprimibile bisogno di produrre di più e meglio.

A quale cooperazione fa riferimento Marx? Come tutti sanno, agli albori del capitalismo gli operai distruggevano le fabbriche, quando lottavano contro gli imprenditori privati. Nel capitalismo maturo, invece, gli imprenditori devono di continuo incentivare gli operai per ottenere in cambio i frutti dell'emulazione.

A parte questo, chi l'ha detto che nel feudalesimo non esisteva l'emulazione? Certamente non esisteva un'emulazione fondata sul profitto, né una in virtù della quale si poteva emarginare dalla vita sociale il collega di lavoro. L'emulazione era, se vogliamo, una forma di "gioco", una gara ludica in cui il vincitore, al massimo, poteva aspirare a una maggiore considerazione sociale.

Pur di non voler ammettere l'inferiorità etico-sociale del capitalismo rispetto al feudalesimo, Marx è stato disposto a ritenere come "naturali" gli istinti "animali" di emulazione e di reciproca concorrenza (cosa che, peraltro, nessun animale possiede). Come se il problema di fondo, nella produzione degli oggetti, sia sempre quello di produrre di più in minor tempo! Come se questa necessità non faccia già parte di una cultura di tipo "borghese"!

Ma di queste ambiguità il Capitale è pieno. Dice Marx ad es. a p. 418: "La giornata lavorativa combinata produce una quantità di valori d'uso più grande...". Da un lato egli usa un concetto di tipo "capitalistico", come quello di "giornata lavorativa combinata" (per quanto -a ben guardare- tale concetto possa applicarsi anche al feudalesimo); dall'altro egli usa un concetto, "valore d'uso", che si applicherebbe meglio al feudalesimo che non al capitalismo, dove la cooperazione è finalizzata unicamente alla produzione di merci, le quali hanno un valore d'uso solo in quanto ne hanno uno di scambio.

Prendiamo un altro esempio. "Nella cooperazione pianificata con altri -dice Marx nella stessa pagina- l'operaio si libera dei suoi limiti individuali ed esplica le proprietà della sua specie". Qui vi è la stessa ambiguità di prima, dovuta a un modo troppo astratto e ideologico di affrontare i processi storici. Da un lato Marx parla della "cooperazione pianificata" come di un successo del lavoratore (mentre -si sa- nel capitalismo essa è una forma della sua condanna); dall'altro contrappone un inesistente lavoratore isolato all'esperienza del collettivo operaio.

Un altro esempio ancora. Dice Marx: "All'inizio il capitalista, quando il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola può dare inizio alla produzione capitalistica..."(p.422). Qui la causa viene confusa con l'effetto. Da un lato Marx dice che per far nascere il capitalismo bisogna essere capitalisti; dall'altro però non spiega come si possa diventare capitalisti in un sistema pre-capitalistico. Infatti, se bastasse il possesso di un capitale minimo, il capitalismo sarebbe nato assai prima del XVI sec. e, in ogni caso, avrebbe potuto nascere anche fuori dell'Europa occidentale.

Marx potrebbe avere ragione solo in un caso, allorché dimostra che il lavoro dell'artigiano o del contadino privato è, nel capitalismo, molto meno produttivo di quello dell'operaio di fabbrica. Ora però, a parte il fatto che nella distribuzione generale del reddito, la differenza tra l'una e l'altra categoria di lavoratore non capitalista, non è poi così rilevante, ciò di cui Marx non vuole rendersi conto è che il lavoratore isolato non rappresenta affatto l'alternativa al lavoratore collettivo, ma semmai il simbolo del processo di disgregazione di un modo di produzione obsoleto. L'artigiano isolato è il residuo di un sistema in via di dissoluzione.

Dice Marx: "in qualità di persone indipendenti gli operai sono dei singoli, che stabiliscono un rapporto col capitale senza stabilire tra loro un rapporto sociale reciproco. Essi iniziano a cooperare solo nel processo lavorativo, ma in questo processo non sono più proprietari di se stessi"(pp. 423-4).

Questo modo di vedere le cose è decisamente limitato, poiché porta a dare per scontata la vittoria (nel momento iniziale) del capitalista, il quale non è altri che un singolo agiato contrapposto a singoli liberi ma nullatenenti. Situazione, questa, che non si è mai verificata da nessuna parte, proprio perché il processo di superamento del feudalesimo è stato molto più complesso di quel che non si creda, essendo entrati in gioco dei fattori (quale ad es. la libertà umana) che sfuggono ad un'analisi meramente economica.

Marx non ha saputo resistere alla tentazione di attribuire al capitalismo, sul piano tecnico-scientifico, un progresso senza confronti, benché, nel contempo, non abbia potuto fare a meno di costatare che è soprattutto il capitalista ad appropriarsi dei benefici di tale progresso. Sull'altare della tecnologia Marx ha voluto sacrificare tutto quanto c'era di positivo nel sistema feudale. La grandissima alienazione sociale era un prezzo che l'operaio doveva pagare per il bene del progresso scientifico, per liberarsi "dei suoi limiti individuali ed esplicare le proprietà della sua specie"(p. 418).

La diversità tra Marx e gli economisti borghesi non sta in questa analisi, ma solo nell'accento ch'egli ha posto sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Infatti, l'economista borghese si limita ad affermare che, essendo il capitalismo un sistema produttivo molto potente, è bene che l'operaio svolga il suo ruolo senza opporre eccessive resistenze. Marx invece è dell'avviso che le forze produttive del capitalismo potrebbero meglio svilupparsi se si passasse al socialismo. Né l'uno né gli altri mettono in discussione il principio dell'incessante progresso scientifico e tecnologico, ovvero il rapporto di dominio e di sfruttamento che l'uomo moderno ha realizzato nei confronti della natura.

Nella concezione "positivista" di Marx il socialismo non è altro che una tecnica per far funzionare meglio il potere dell'industria, risolvendo una volta per tutta la questione dei conflitti sociali. Cioè è una tecnica che può funzionare solo se si presume la fine dello sfruttamento proletario. Se gli operai potessero pianificare per conto proprio la loro produzione, otterrebbero -a suo giudizio- risultati assai più positivi di quelli che il capitalista consegue con la propria limitata pianificazione.

Marx naturalmente è sempre stato convinto che il socialismo avrebbe superato il capitalismo in tutti gli indici produttivi. Nel Capitale gli è completamente estranea l'idea che nel socialismo si possano o addirittura si debbano abbassare alcuni indici strettamente economici (ad es. il PIL) a vantaggio di altri di carattere sociale (ad es. previdenza, assistenza ecc.).

Oggi in realtà va decisamente superata l'idea che il socialismo possa essere la continuazione del capitalismo dal punto di vista della classe operaia. La tecnologia non è mai stata una cosa "neutrale", il cui effetto sull'ambiente dipende dalla "buona" o "cattiva" volontà di chi la usa. Essa è sempre stata il frutto (più o meno consapevole) di una determinata scelta culturale, di carattere etico e ontologico. Il mutamento radicale del sistema capitalistico comporterà inevitabilmente un uso diverso della tecnologia, ma anche, molto probabilmente, una diversa tecnologia, cioè non solo un uso più sociale, meno legato al profitto individuale, ma anche, in virtù di ciò, una nuova creazione tecnologica.

Sotto questo aspetto non dovrebbe affatto preoccupare l'ipotesi di un futuro sistema socialista dotato di scarsa tecnologia (rispetto agli attuali parametri occidentali), ma dotato, in compenso, di un'alta democrazia, e quindi di una tecnologia adeguata alle esigenze dell'intera collettività. Il ridimensionamento delle pretese tecnico-scientifiche: questo sì che può essere un prezzo che la democrazia può tranquillamente pagare!


Solo alla fine del capitolo Marx ammette che la cooperazione non è una prerogativa del capitalismo, in quanto è sempre esistita. Ma lo fa semplicemente per ribadire la superiorità di quella capitalistica.

In Marx le conoscenze delle civiltà non-capitalistiche sono sempre state approssimative, anche perché gli studi critici, allora, erano piuttosto scarsi. Tuttavia, in lui emerge un pregiudizio che vanifica un'obiettiva valutazione del passato.

Anzitutto Marx ha sempre escluso a priori la possibilità dell'esistenza, nelle civiltà pre-capitalistiche, di una cooperazione sociale al di fuori dei rapporti di servaggio o di schiavitù. "Nel mondo antico, nel medioevo e nelle moderne colonie -dice a chiare lettere a p.425- l'uso sporadico della cooperazione a grande scala si basa su rapporti diretti di signoria e servitù, e in quasi tutti i casi si basa sulla schiavitù".

La cooperazione, quindi, non era -secondo Marx- tra persone libere, come invece è accaduto -sempre a suo giudizio- nell'ambito del capitalismo. "La forma capitalistica presuppone sin dall'inizio l'operaio salariato libero, che vende al capitale la propria forza lavorativa"(ib.).

Ovviamente per Marx non può esistere libertà né nel servaggio né nello schiavismo. E tuttavia per lui non ne esiste neppure nella tribù o comunità primitiva, laddove era in vigore la "proprietà comune delle condizioni di produzione"(ib.). Qui non c'è libertà perché c'è dipendenza, e là dove c'è dipendenza, non c'è cooperazione produttiva su larga scala, poiché il lavoratore non è libero di vendere al mercato la propria forza-lavoro, e quindi non è libero di muoversi come meglio crede (o a seconda delle esigenze del capitale).

Marx ha sempre dato una grande importanza al concetto di libertà individuale. Non ci sarebbe capitalismo senza questa libertà. Tuttavia, nella sua analisi il concetto di libertà giuridica si confonde spesso con quello di libertà sociale. Di fatto il cittadino che chiede di lavorare in una fabbrica capitalistica (anche agli albori del capitalismo) è sempre stato libero giuridicamente, senza mai esserlo sul piano sociale.

Le due forme di libertà, se coincidevano nel borghese, non coincidevano affatto nell'operaio. Marx non è che si nasconda questa evidenza. Solo che, quando parla dell'operaio libero, non specificando che la sua libertà era meramente giuridica, lascia intendere ch'egli avesse accettato volontariamente, cioè in piena libertà, un rapporto lavorativo di tipo salariato: il che non è mai successo.

Perché questa ambiguità? Per la semplice ragione che Marx non vuole ammettere l'idea che in una società non-capitalistica l'uomo potesse sentirsi giuridicamente dipendente e socialmente libero (o comunque più libero del lavoratore salariato). Per Marx l'uomo pre-capitalistico era socialmente schiavo o servo, e quindi totalmente non-libero. Non era libero neppure l'uomo primitivo che non aveva "ancora strappato il cordone ombelicale che lo legava alla tribù o alla comunità"(ib.). La libertà, per Marx, sta nella contrapposizione del singolo alla comunità. In tal senso la cooperazione capitalistica è la migliore forma di cooperazione, perché garantisce alla libertà individuale il massimo di possibilità espressive.

Il libero contadino o l'artigiano indipendente perdono la loro battaglia nei confronti della cooperazione capitalistica, perché si rendono conto ch'essa è più forte, più potente sul piano produttivo. A Marx non interessa assolutamente esaminare il tipo di resistenza "etica" che la società feudale (meno individualistica di quella borghese) ha messo in atto nei confronti del capitalismo. L'opposizione esaminata da Marx era solo quella di tipo "politico" e ritenuta sempre di carattere "regressivo".

Marx non avrebbe mai accettato l'idea di considerare il conflitto tra Medioevo ed Epoca Moderna come il conflitto tra un modo di produzione "sociale" (benché anch'esso antagonistico) e un modo di produzione "individuale", in cui la cooperazione era utilizzata dal capitalista solo come mezzo per arricchirsi meglio.

Il pregiudizio ha portato Marx sia a sottovalutare le ragioni culturali sottese alla genesi del capitalismo, sia a formulare delle ragioni di tipo "psicologico" che non possono trovare un vero riscontro nella storia dei fatti. "Da un lato -egli afferma- il modo di produzione capitalistico appare come una necessità storica per la trasformazione del processo lavorativo in processo sociale" [trasformazione quindi avvenuta -com'egli stesso più sopra dice- "spontaneamente e in maniera naturale"]; "d'altro lato questa forma sociale del processo lavorativo appare come un metodo usato dal capitale per sfruttare con maggior profitto quello stesso processo tramite l'aumento della sua forza produttiva"(p. 426).

Da un lato quindi Marx ragiona come un economista borghese, che non si chiede il perché delle cose ma solo il come; dall'altro egli ragiona come un economista socialista, che vede nel come una palese ingiustizia e propone un modo per risolverla.

Paradossalmente a Marx fa difetto proprio la nozione di libertà individuale. Estrapolando il singolo dal contesto sociale, egli ha creduto di renderlo più libero; invece è accaduto che il singolo si sia lasciato dominare da una cieca fatalità storica, nell'illusione che fra le leggi di questa necessità e le proprie soggettive non vi fosse una vera contraddizione.








LA MANIFATTURA

Parlando della manifattura (nel cap XII), cioè di quel tipo di cooperazione che è durato "all'incirca dalla metà del secolo XVI fino all'ultimo terzo del XVIII"(p.428), Marx non ha dubbi nell'affermare ch'essa consiste in un "evolversi dal lavoro artigianale"(p.430), per cui, rispetto a questo, essa rappresenta un grado superiore di organizzazione del lavoro.

Infatti, "da un lato -dice Marx- essa ha per punto di partenza la combinazione di mestieri di diverso genere, autonomi, che son ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da non essere ormai che operazioni parziali e complementari del processo di produzione di un'unica e medesima merce"(pp.430-31). Nel senso che con la manifattura singoli e diversi mestieri artigianali, fatti in autonomia, divengono un semplice anello, cioè un'operazione particolare, di una catena di lavoro sotto la direzione di un unico capitalista in un medesimo luogo: l'officina.

"D'altro lato -prosegue Marx- essa [manifattura] parte dalla cooperazione di artigiani di ugual genere, decompone uno stesso mestiere individuale nelle sue diverse operazioni particolari, isolandole e rendendole indipendenti fino al punto che ognuna di esse diviene funzione esclusiva d'un particolare operaio"(p.431). Nel senso che un singolo artigiano non svolge più tutte le operazioni necessarie in tempi diversi, ma ne svolge una sola, mentre nello stesso tempo un'altra operazione viene svolta da un altro artigiano.

Nel primo caso si uniscono artigiani divisi, che lavorano separatamente; nel secondo si divide un mestiere "unito", in sé completo, appartenente a un unico lavoratore.

Marx è contrario al lavoro individuale dell'artigiano: lo fa capire chiaramente. Nella manifattura l'artigiano perde, "insieme all'abitudine, anche la capacità di esercitare il suo antico mestiere in tutta la sua estensione. Ma d'altra parte la sua attività unilaterale riceve ora in questa sfera d'azione più ristretta [cioè nella manifattura] la forma più idonea al fine del proprio lavoro"(p.429). "La manifattura infatti genera il virtuosismo dell'operaio parziale..."(p.432), oltre al fatto che la merce prodotta è il frutto di un lavoro sociale, in quanto nessun operaio singolo può produrla.

Su questo tuttavia, nel § 5 Marx dirà esattamente il contrario, com'è d'altra parte nel suo stile, in virtù del quale egli esalta il capitalismo nel momento in cui parla del feudalesimo e lo contesta quando deve giustificare il socialismo. La manifattura -dirà alle pp.461-62- intacca "alle radici la forza lavorativa individuale. Essa deforma l'operaio in qualcosa di mostruoso, promuovendone come in una serra le abilità di dettaglio, tramite la soppressione d'una quantità di disposizioni e d'istinti produttivi... Non soltanto vengono suddivisi tra vari individui gli specifici lavori parziali, ma viene diviso l'individuo stesso, lo si trasforma in motore automatico d'un lavoro parziale".


Spesso Marx pone il lettore di fronte a un tipo di artigianato che in realtà non è mai esistito. Non a caso ad un certo punto egli mette tra parentesi l'eventualità che l'artigiano lavori "con l'aiuto di uno o due garzoni"(p.430).

Cerchiamo di spiegarci. Nel Medioevo lo sviluppo autonomo dell'artigianato, come professione a sé, è stato il frutto di una progressiva decadenza della vita rurale, troppo soggetta agli abusi del servaggio. In origine era lo stesso contadino (uomo o donna che fosse) a svolgere il mestiere dell'artigiano, insieme a quello del contadino e dell'allevatore. Se esisteva un artigianato separato dall'agricoltura, esso non lo era definitivamente, o comunque non si poneva in antitesi all'agricoltura. Per cui non ha molto senso sostenere -come vuole Marx- che "in origine l'operaio vende al capitalista la propria forza lavorativa in quanto gli mancano i mezzi materiali per la produzione d'una merce"(p.462). Tale mancanza non è casuale, ma voluta dallo stesso sviluppo del capitalismo. I mezzi li avrebbe (quelli tradizionali), ma il capitalismo glieli toglie.

Marx non considera, in questo capitolo, la forma più semplice di artigianato, ma solo la sua specializzazione individuale. Per lui la divisione del lavoro che si ottiene con la manifattura è in grado di offrire il prodotto sociale di un'équipe di artigiani, in luogo del prodotto individuale offerto dall'unità del lavoro del singolo artigiano. Cioè a dire, mentre con la manifattura la socializzazione della merce è garantita dalla divisione sistematica del lavoro, con l'artigianato invece l'unità del lavoro riusciva a garantire solo un prodotto individuale.

Marx, in altre parole, non vede la socializzazione del lavoro nel Medioevo. Per lui tutti i prodotti pre-capitalistici sono o individuali (del singolo artigiano, più o meno capace) o insignificanti (perché valori d'uso che si dissolvono nell'autoconsumo).

Il suo ragionamento, per semplificare, è di questo tipo: l'artigiano ha fatto bene a staccarsi dal contadino (come la città dalla campagna), ma ora deve rassegnarsi a trasformarsi in operaio salariato, perché sul mercato esiste un capitalista in grado di comprargli la sua forza-lavoro. La socializzazione dell'operaio viene vista positivamente da Marx, benché essa, sin dall'inizio, sia in funzione dell'appropriazione privata del profitto.

A Marx sfugge completamente il significato di quel periodo storico in cui l'artigianato non era ancora staccato dall'agricoltura o, se lo era, continuava però a dipendere dalla vita rurale, mentre in questa dipendenza (che pur gli artigiani, col tempo, cercheranno di ridurre al minimo) si realizzava quella forma di socializzazione del lavoro che non aveva bisogno, per definirsi tale, di "rinchiudersi" in un'officina ove le mansioni erano completamente parcellizzate. Non era certo un puro e semplice "spazio fisico" a determinare il carattere di socializzazione del lavoro. (E non si dica che Marx non è interessato a questo perché il suo obiettivo è quello di descrivere la nascita del capitalismo: tantissime volte -incluso questo capitolo- egli fa digressioni sull'epoca classica, greco-romana, o sulla comunità primitiva dell'India).

A parte ciò, l'artigiano non ha mai lavorato da solo, ma sempre in una corporazione di più artigiani e garzoni, per cui il suo lavoro non era meno "sociale" di quello dell'operaio salariato. Questo artigiano ha forse combattuto contro il capitalismo con meno convinzione del contadino, ma certamente non l'ha fatto in maniera individuale. L'artigiano isolato, descritto da Marx, è un'immagine fittizia, usata per dimostrare la superiorità della manifattura (superiorità, peraltro, che Marx misura solo in termini strettamente economici, tralasciando volutamente quelli etico-sociali).

Marx non è preoccupato più di tanto quando costata, con occhi da "socialista", che la superiorità produttiva della manifattura è stata ottenuta a prezzo di una profonda alienazione del lavoratore. "Un operaio, effettuando vita natural durante sempre l'unica e medesima operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento, automatico e unilaterale, di tale operazione..."(p.431). In questo starebbe forse il suo "virtuosismo"? E' forse un vantaggio dell'operaio quello di dover "impiegare per il suo lavoro solamente il tempo necessario"(p.440)? E' forse un suo guadagno dover lavorare con "continuità...uniformità...regolarità...ordine...intensità..." (ib.)? Si vive forse per lavorare? Oppure Marx vuole sostenere che lo sviluppo della manifattura, portando inevitabilmente alla nascita del macchinismo e della grande industria, ha favorito la fine della fatica fisica, in quanto ha praticamente reso inutile l'intervento manuale dell'operaio? E' forse vero questo e, se lo fosse, non sarebbe ancor più insensato sostenere che il lavoro serve per realizzare la personalità umana?

In realtà la manifattura avrebbe potuto avere la sua ragion d'essere se fosse stata una scelta consapevole e democratica dell'intera collettività, ovviamente per produrre di più in un tempo minore, ma a seconda delle necessità del momento. Una scelta quindi che avrebbe dovuto essere tenuta sotto controllo collettivo, col quale si sarebbe dovuta garantire al singolo operaio l'esigenza della reversibilità, cioè la possibilità in ogni momento di tornare al modo tradizionale di produzione. La manifattura avrebbe avuto senso se fosse stata considerata come parte integrante di un sistema produttivo di tipo "socialista".

Viceversa, per Marx la nascita della manifattura è parte di un processo storico inevitabile, come nella triade hegeliana l'antitesi usciva da una tesi "formalizzata", che per potersi veramente affermare aveva prima bisogno di negarsi. "Questo processo di scissione -dice a p.463- ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il capitalista rappresenta di fronte ai singoli operai l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale". Marx, in altre parole, non si chiede come nasce il capitalista, ne costata semplicemente l'esistenza, nonché la sua indiscussa superiorità rispetto alle figure sociali del passato.

E' strano ch'egli non si renda conto che la necessità di "trasformare il lavoro parziale nel mestiere a vita d'un uomo"(p.432) -come accadeva nella caste, nelle corporazioni medievali ecc.- rispecchiava una forma di società in cui le differenze di classe erano già notevoli. Se la manifattura può essere considerata un'"evoluzione" dell'artigianato, non può certo essere considerata come un'alternativa positiva all'"involuzione" dell'artigianato verso il privilegio di classe o di casta o di corporazione. Al contrario, la manifattura può essere considerata come una risposta negativa alla mancata soluzione della crisi dell'artigianato.


Il Marx del Capitale dà continuamente per scontato che un'appropriazione adeguata del significato della vita dipenda anzitutto e soprattutto da un aumento della produttività, ovvero dal benessere di tipo materiale. Sono relativamente pochi i momenti in cui egli parla come un economista "socialista" e, dove lo fa, le conclusioni politiche sono sempre di scarso rilievo.

Prendiamo ad es. le pp.447-48. Marx sa bene che nella manifattura "cala il valore della forza lavorativa", in quanto si risparmiano le spese d'apprendistato dell'operaio, essendo sufficiente anche un operaio senza abilità. Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi da tutto ciò è il capitalista. Ebbene, l'analisi di Marx, in sostanza, si ferma qui. Al massimo egli invoca la necessità della rivoluzione politica, al fine di sostituire l'imprenditore privato con uno collettivo, ma non arriva mai a chiedersi se per caso il precedente modo di produzione non avesse degli aspetti positivi da non meritare d'essere completamente distrutti dal capitalismo.

Marx giustifica questo suo profondo scetticismo verso i modi di produzione pre-capitalistici semplicemente perché li ritiene responsabili della nascita del capitalismo: non in senso etico (poiché Marx esclude il ruolo della libertà nella transizione da una formazione all'altra), ma in senso economico, in quanto il "passato" è necessariamente responsabile del "presente". Dunque, se il capitalismo esiste è perché non si è stati capaci d'impedirne la nascita, e quindi esso è necessario. Per capire questa tesi di Marx basta leggersi il § 4 di questo capitolo, laddove egli parla, con grande forza sintetica e dialettica, della differenza tra la divisione del lavoro nella manifattura e quella nella società.


Quando scrive il Capitale, Marx ha una conoscenza molto approssimata della comunità primitiva, non solo perché gli studi di allora erano scarsi, ma anche perché lo stesso Marx non vi aveva attribuito un'importanza particolare ai fini della stesura della sua opera. Engels si sentirà in dovere, nella terza edizione del Capitale, di sottolineare in una nota questa lacuna, anche se neppure egli saprà trarne le dovute conseguenze.

Queste conseguenze sono importanti perché, nella lotta politica contro il capitalismo -se non si tiene in dovuta considerazione il potenziale contestativo delle forze pre-capitalistiche- si rischia di assumere degli atteggiamenti settari, ideologici, che le stesse forze del capitale possono facilmente neutralizzare. Oggi naturalmente è impossibile recuperare queste forze nell'ambito dell'Occidente industrializzato. Tutta l'agricoltura è stata intaccata dal capitalismo.

Il pregiudizio di Marx (che è in fondo di derivazione hegeliana) nei confronti di queste forze, lo si nota anche nel suo modo di considerare la tribù come una conseguenza logica, naturale, dello sviluppo della famiglia. Il determinismo con cui Marx considera "necessarie" tutte le formazioni economiche della società, ognuna delle quali costituisce un progresso rispetto all'epoca che l'ha preceduta e un limite rispetto a quella che le subentrerà, risente in modo palese dell'influenza dell'hegelismo. Lo stesso Marx d'altra parte non ha mai nascosto che quanto al "metodo di lavoro" egli si serviva a piene mani della Logica di Hegel.

Marx ha ragione quando afferma che nelle comunità primitive la divisione del lavoro aveva "un fondamento meramente fisiologico"(p.449), essendo basata sulle "differenze di sesso e d'età"(ib.). Ed ha anche ragione quando afferma che, in origine, lo scambio dei prodotti avveniva tra famiglie, tribù ecc., reciprocamente indipendenti, e non tra persone private. "L'ambiente naturale offre alle diverse comunità diversi mezzi di produzione e diversi mezzi di sussistenza"(ib.).

Tuttavia, egli ha torto quando sostiene che questa economia "spontanea e naturale"(ib.) era destinata a evolvere, in maniera altrettanto "spontanea e naturale", verso il capitalismo. Solo un economista che non si preoccupa di conoscere motivazioni culturali sottese ai processi socio-economici può sostenere un determinismo così assoluto. In realtà, è difficile pensare che una comunità antica, basata sull'autoconsumo, giungesse, ad un certo punto, nel commercio con altre comunità, a negare la propria autonomia per affermare l'interdipendenza "d'una produzione generale sociale"(ib.) tra diverse comunità.

Il passaggio dal prodotto alla merce non è affatto spontaneo, come non è affatto naturale che dalla divisione fisiologica del lavoro si passi alla progressiva decomposizione degli "organi particolari"(ib.) della singola comunità. Certo, se la comunità fosse composta da individui singoli, se la tribù non fosse che la somma di tante famiglie, sarebbe inevitabile la disgregazione degli elementi singoli dopo aver affermato la divisione del lavoro. Il fatto è però che nella comunità antica, molto più forte della divisione del lavoro, era il legame culturale (assiologico, normativo) che teneva uniti i suoi vari componenti. Difficilmente si sarebbe permesso che una semplice attività economica potesse stravolgere "spontaneamente" i principî fondamentali su cui si reggeva l'intero edificio comunitario.

E' dunque assurdo pensare che "la produzione e la circolazione delle merci [siano] il presupposto generale del modo di produzione capitalistico"(p.451). E' vero anzi il contrario, che senza "spirito borghese" non c'è produzione di merci, ma solo scambio di prodotti. Ecco perché dobbiamo necessariamente credere che in origine lo scambio dei prodotti non andasse mai oltre un certo livello: non tanto perché le comunità erano limitate sul piano economico, quanto piuttosto perché esse erano gelose della loro autonomia sul piano sociale e culturale (anche se la cultura non era scritta). In questo senso la separazione tra città e campagna va considerata come una delle più grandi disgrazie dell'umanità, a cui è difficile pensare che le varie comunità siano giunte -come invece vuole Marx- a causa di un semplice aumento della densità della loro popolazione (p.450).


Per Marx il passaggio dalla società pre-capitalistica a quella capitalistica (manifatturiera) non è che il passaggio da un modo di produzione individuale e indipendente a un modo di produzione sociale e dipendente. "La divisione del lavoro nella manifattura presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di un unico capitalista, la divisione del lavoro nelle società [leggi: pre-capitalistiche] presuppone la dispersione dei mezzi di produzione tra molti produttori di merci che sono reciprocamente indipendenti"(p.454). Paradossalmente, seguendo con coerenza questo ragionamento, si dovrebbe finire col sostenere che la produzione di merci va intesa in senso lato e, in questo senso, essa va considerata presente anche in civiltà non-capitalistiche: tant'è che il capitalismo si forma solo se la divisione del lavoro si trova "già a un certo grado di maturità"(p.451).

Per dimostrare la tesi dell'"evoluzione", in antitesi a quella del "salto" o della "rottura", tra una formazione economica e l'altra, Marx finisce col delineare una storia dell'umanità che da uno stadio primitivo di capitalismo è passata a forme di capitalismo sempre più sofisticate. Il "pre-capitalismo" non sarebbe che un aspetto rozzo e primitivo della manifattura, con cui inizia il capitalismo vero e proprio. In questo quadro il Medioevo, dopo il "capitalismo commerciale" del mondo greco-romano, rappresenta una sorta di gigantesco "buco nero", meritevole d'essere analizzato solo in quella parte che tratta dello sviluppo comunale e delle corporazioni. Ma questo per dire, ancora una volta, che la manifattura, grazie alla "rivoluzione degli strumenti di lavoro"(p.467), ha saputo superare la fissità dei mestieri tradizionali delle corporazioni, i quali, pur essendo basati sulla divisione del lavoro, offrivano sul piano produttivo risultati assai modesti.

Marx può avere ogni ragione quando cerca di legittimare la transizione dal capitalismo commerciale a quello industriale, ma non ne ha alcuna quando cerca di legittimare la transizione dalle società pre-capitalistiche a quella capitalistica. Anzi, a ben guardare, la sua stessa immagine di "capitalismo commerciale" andrebbe rivista, poiché sia questa che quella delle società pre-capitalistiche sembrano essere delineate unicamente allo scopo di giustificare la transizione al capitalismo e, di conseguenza, da questo al socialismo, il quale altro non è -nell'ottica marxiana- che un sistema sociale (al pari del capitalismo) e indipendente (nel senso che il lavoro dipende solo da se stesso e non dal capitale).


Anche quando parla della comunità antica, Marx (che ha in mente soltanto quella "indiana" delle caste) non fa che giustificare il superamento di questa organizzazione da parte di un'altra di tipo capitalistico. Nel Capitale Marx non riesce assolutamente a equiparare (simbolicamente s'intende!) il futuro socialismo col socialismo delle comunità antiche, pre-schiavistiche. Per lui la comunità antica ("indiana", nella fattispecie) era sì caratterizzata dalla socializzazione del lavoro, ma in maniera costrittiva, cioè esisteva sì la "proprietà comune della terra", una "diretta connessione tra agricoltura e mestiere artigiano", nonché "una stabile divisione del lavoro"(p.456), ma anche un forte autoritarismo statale. Al cospetto di questa forma di autoritarismo Marx ha sempre preferito l'affermazione del singolo, che recide il "cordone ombelicale" che lo lega alla comunità. Delineato il quadro in questi termini, Marx purtroppo si è precluso la possibilità di apprezzare adeguatamente gli "organismi di produzione autosufficienti"(p.457), ovvero il fatto che in tali comunità "la gran massa dei prodotti sorge per l'appagamento degli immediati bisogni della comunità..."(ib.).

Per Marx è limitativo il fatto che solo "l'eccedenza dei prodotti"(ib.) si trasformi in merce. In queste condizioni la manifattura non può sorgere non tanto perché lo impediscono la cultura, i valori, lo stile di vita, quanto perché il mercato è troppo ristretto. Si tratta di una causa meramente estrinseca, quantitativa, incidentale. Non ci può essere manifattura che là dove lo scambio delle merci ha raggiunto un certo livello di estensione. Anche qui Marx riprende la legge hegeliana del passaggio dalla quantità alla qualità.

A un sistema di vita dove tutto si riproduce "costantemente nella medesima forma"(p.458), Marx ha sempre preferito il continuo rivolgimento dei mezzi e delle condizioni produttive che si verifica sotto il capitalismo.

A tale proposito, tuttavia, è bene precisare che le società asiatiche -cui Marx si riferisce- non erano affatto così "immutabili" dal punto di vista economico. Egli infatti è convinto che tale immutabilità non abbia nulla a che vedere con "la continua ricostituzione degli Stati asiatici e col perenne alternarsi delle dinastie"(p.459).

In realtà politica ed economia erano strettamente legate anche nell'antica Asia. Con una differenza però, rispetto alle regioni occidentali dell'Europa e degli USA, che si può capire ponendosi una semplice domanda. Posto che in Asia i rivolgimenti politici erano, come in Occidente, il frutto di contraddizioni socio-economiche (anche se Marx parla delle società asiatiche come se fossero prive di lotte e di conflitti di classe), per quale ragione in Asia, in seguito alle lotte di classe, non è nato il capitalismo?

A questa domanda Marx non è stato in grado di dare una risposta convincente proprio perché egli aveva concentrato tutti gli studi sull'economia e non anche sulla cultura (filosofia, religione, ideologia politica, arte dei Paesi orientali). Se l'avesse fatto si sarebbe accorto di due cose: 1) che per l'Oriente l'uomo è parte della natura, per cui non avrebbe mai potuto esserci uno sviluppo tecnologico particolarmente forte o un'esigenza di sistematico sfruttamento delle risorse naturali; 2) che la mancata diffusione della religione cristiana non ha permesso ai popoli asiatici di sviluppare il senso profondo della libertà umana.

L'Oriente asiatico, essendo più vicino al modo di produzione pre-capitalistico, è rimasto fedele alla socializzazione del lavoro, ma, non avendo accettato il cristianesimo, non è riuscito a sviluppare il lato storico della personalità umana. Le lotte di classe quindi c'erano, ma avevano appunto lo scopo di conservare lo stile di vita culturale, naturale e pre-schiavistico contro il potere di coloro che invece puntavano ad accentuare gli aspetti del servaggio (che in Oriente si è sempre manifestato come "servaggio di Stato"). Non a caso l'Asia (fa eccezione, in parte, l'India, perché qui lo sviluppo delle caste è sempre stato molto forte) è passata dalla crisi del feudalesimo al socialismo (quanto democratico o autoritario non è qui il luogo per discuterlo. Interessante comunque resta il fatto che proprio attraverso il socialismo europeo l'Asia ha acquisito, indirettamente, i contenuti fondamentali del cristianesimo, laicizzati appunto dal socialismo. Grazie a questa acquisizione si può parlare, per la prima volta, di "storia universale dell'uomo").

Il giudizio di autoritarismo (politico) che Marx ha rivolto alle società asiatiche, vale, a suo parere, anche per il feudalesimo. Parlando delle corporazioni di arti e mestieri, ciò che Marx non sopporta è appunto la costrizione cui esse erano sottoposte. "Le leggi delle corporazioni...impedivano sistematicamente la trasformazione del mastro artigiano in capitalista, limitando il più possibile il numero dei garzoni ch'egli potesse impiegare"(p.459). Detto altrimenti: là dove esiste costrizione, lì, per Marx, esiste dittatura, per cui, in luogo all'artigiano, è preferibile il "capitalista commerciale", l'unico veramente libero, nel Medioevo, di "acquistare il lavoro come merce"(ib.).

Il ragionamento di Marx non è sbagliato quando afferma che là dove c'è costrizione non c'è democrazia e quindi la costrizione è inutile, perché, prima o poi, il sistema verrà rovesciato. Ma è sbagliato quando aggiunge che, affinché gli uomini capiscano l'importanza della democrazia, occorre ch'essi si liberino dal peso di tutte le costrizioni sociali e che sviluppino la loro individualità. In seguito, dalle contraddizioni che emergeranno, a causa dell'anarchia produttiva, della sfrenata concorrenza e dell'autoritarismo in fabbrica, i lavoratori comprenderanno che la società capitalistica deve necessariamente passare al socialismo.

Purtroppo è proprio sulla base di questo ragionamento che noi dobbiamo addebitare al socialismo marxista (non meno che al liberalismo borghese) la responsabilità della fine immeritata di tutti gli aspetti positivi che esistevano nel sistema feudale. Non era forse positivo il fatto che "generalmente l'operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano nel complesso congiunti tra di loro..."(p.460)? Il socialismo non chiede forse la stessa cosa? Il crollo del cosiddetto "socialismo reale" non è forse stata la più lampante dimostrazione che le teorie di Marx, in questo campo, erano sbagliate?


Ora bisogna fare un'osservazione sul concetto di "divisione del lavoro". Essere contrari, in assoluto, alla divisione del lavoro, sarebbe come porsi fuori della storia. Tuttavia, Marx ha torto quando afferma che "la cooperazione basata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è originariamente una creazione spontanea e naturale"(p.467); ha torto perché la manifattura già rientra nello "spirito capitalistico". Egli potrebbe aver ragione se si considerasse la divisione del lavoro in senso lato, come un'attività che ha riguardato qualunque comunità sociale, anche quelle più antiche.

E' incredibile che un uomo del "sospetto" come Marx, abituato a vedere la realtà con grande criticità e disillusione, non si sia accorto come il passaggio da una semplice cooperazione fondata sulla divisione del lavoro alla manifattura vera e propria, abbia comportato una rottura traumatica fra il vecchio e il nuovo. Dire che "allorché [la cooperazione] ha raggiunto un certo grado e una certa consistenza, diviene la forma consapevole, metodica e sistematica del modo di produzione capitalistico"(ib.), è come dire che gli uomini (ad eccezione naturalmente dei capitalisti) erano così ciechi che soltanto dopo molto tempo avrebbero potuto capire i grandi limiti del capitalismo, cioè che in origine la transizione venne accettata nella consapevolezza di realizzare un aumento del benessere per tutta la collettività!

Marx quindi è nel giusto quando afferma che la manifattura è "un raffinato e civilizzato mezzo di sfruttamento"(p.468), ossia "un particolare metodo per procurarsi plusvalore relativo, cioè per accrescere a spese degli operai l'autovalorizzazione del capitale"(ib.). Ma è nel torto quando sostiene che la manifattura "appare come un progresso storico e un momento necessario dell'evoluzione del processo di formazione economica della società"(ib.).

Dunque, è vero, non ha senso essere contro la divisione del lavoro, ma solo a condizione di evitare ogni determinismo storico, poiché con questo si finisce col giustificare una qualunque divisione del lavoro, inclusa quella capitalistica. Gli uomini possono anche specializzarsi in un determinato settore produttivo (se vogliono), ma non debbono sentirsi obbligati a farlo. Essi cioè devono sempre restare liberi di non abbandonare quelle condizioni che permettono loro di sentirsi moralmente soddisfatti anche se non sanno produrre alla perfezione alcun oggetto particolare.

In ogni caso è assurdo pensare che debba esserci una divisione del lavoro che un pugno di capitalisti impone a tutta la collettività. Si possono fare lavori diversi se i diversi lavoratori si riconoscono reciprocamente nel loro ruolo, cioè se assegnano liberamente un valore ai loro rispettivi lavori. Il valore di un lavoro non può essere imposto con la forza, neanche se questa forza è di tipo economico e non fisico, come nell'antichità.

A proposito di "antichità", Marx sbaglia anche quando afferma che "gli scrittori dell'antichità classica...considerano esclusivamente la qualità e il valore d'uso"(p.469). Egli infatti non s'accorge che per gli antichi greci, romani ed egizi il concetto di "valore d'uso" (che può essere applicato solo alle comunità autarchiche) era in antitesi a quello di "qualità". Essendo il loro un regime schiavistico, il concetto di "valore d'uso" non aveva alcun vero contenuto democratico. Lo dimostra appunto il fatto che un oggetto aveva tanto più valore d'uso quanto più forte era la divisione del lavoro, e quindi quanto meno era d'uso sociale. In una società schiavistica un oggetto aveva un grande valore d'uso solo per i ceti benestanti.

In tal senso non esisteva il moderno concetto di "valore di scambio" semplicemente perché non esisteva ancora quella spersonalizzazione volontaria e consapevole dell'individuo post-cristiano, che sola può permettere, attraverso l'uso delle macchine, di ottenere ricchezza puntando sulla quantità (e quindi sui bassi prezzi) invece che sulla qualità (cioè sugli alti prezzi). L'uomo classico non avrebbe mai potuto attribuire a una "macchina" la fonte della sua ricchezza, né avrebbe mai accettato di sacrificare la sua vita per accumulare capitali.

A parte questo, il concetto di "valore d'uso" delle società schiavistiche non era molto diverso dal concetto moderno di "valore di scambio": la differenza stava nel fatto che allora lo scambio poteva avvenire solo fra un numero ristretto di persone (quello di "qualità" poi fra un numero assai esiguo).

Naturalmente anche nel mondo classico si usava la spersonalizzazione del lavoratore per accumulare capitali (non dimentichiamo che lo schiavo era una "cosa parlante"). Tuttavia la spersonalizzazione era imposta dalla classe dominante alle masse, non era una caratteristica della stessa classe al potere. Il potere economico anzi serviva per affermare il primato della individualità. Nel capitalismo invece il capitalista sacrifica la propria individualità a vantaggio del capitale, che è diventato un'entità a se stante.

"Platone -dice Marx nella nota 80 di p.470- spiega la divisione del lavoro...con l'unilateralità delle inclinazioni spontanee degli individui", cioè in realtà la spiega con una "falsità" dettata dai suoi interessi di classe, quegli stessi interessi che lo portarono ad affermare "che l'operaio -sono ancora parole di Marx- deve conformarsi al lavoro e non il lavoro all'operaio"(stessa nota). Singolare che Marx non abbia nulla da dire in merito a questa "coercizione economica", ma ciò si spiega pensando che anch'egli ha tutto l'interesse a far vedere come già nell'antichità classica il concetto di "divisione del lavoro" era acquisito, per cui tra una formazione economica e l'altra non c'è alcuna soluzione di continuità.

Infelice infine è la conclusione del capitolo. Resosi conto probabilmente delle patenti contraddizioni fra ciò che di positivo la manifattura sembrava volesse dare al lavoratore e ciò che di negativo di fatto essa ha dato, Marx cerca di ridimensionare il peso dei suoi limiti, sostenendo che: 1) "sebbene essa...conduca allo sfruttamento produttivo di donne e bambini, tale tendenza generalmente non raggiunge lo scopo, scontrandosi con le abitudini e con la resistenza degli operai maschi adulti"(p.473). (Marx tuttavia non spiega se la resistenza dipenda dall'indignazione morale o dalla paura della concorrenza sul mercato del lavoro); 2) "sebbene la decomposizione dell'attività di tipo artigiano faccia diminuire le spese d'apprendistato e di conseguenza il valore dell'operaio, per certi lavori più complessi si richiede necessariamente un periodo di tirocinio più lungo..."(ib.). (Marx però non aggiunge che tali lavori appartenevano a una ristretta categoria di persone); 3) "il capitale si trova a dover lottare in continuazione con l'insubordinazione degli operai"(ib.). (E' la prima volta che Marx, in questo capitolo, ne parla. A p.464 aveva invece parlato di "degrado intellettuale" dell'operaio parcellizzato, arrivando persino a ricordare che "intorno alla metà del sec. XVIII in alcune manifatture s'impiegavano preferibilmente per certe operazioni semplici dei mezzo idioti..."(ib.). Dunque quali operai si ribellavano alla manifattura?).

Marx in realtà afferma tutto questo non per sottolineare l'importanza della lotta di classe, ma per dimostrare i limiti della manifattura, ovvero l'esigenza storica ch'essa fosse superata dalla "grande industria". "Quando ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo, la sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione con i bisogni di produzione che essa stessa aveva generato"(p.474).

Qui insomma siamo da capo. Il macchinismo è subentrato per superare i difetti strutturali della manifattura, e nessuno s'è accorto che in realtà esso peggiorava la condizione non solo dell'operaio, ma, questa volta, dell'intera società!


IL SENSO DELLA MANIFATTURA

La manifattura implica un diverso concetto del lavoro, una diversa cultura della vita lavorativa: non si lavora più per vivere, ma perché obbligati da un contratto, per permettere all'imprenditore di accumulare capitali.

Se non ci fosse questa nuova cultura (borghese e schiavistica allo stesso tempo, che il cristianesimo cattolico e protestante ha legittimato), non ci sarebbe neppure la necessità di trasformare il lavoratore in uno strumento del lavoro, da usare il massimo possibile.

Il fatto di poter produrre di più in un tempo minore nel capitalismo costituisce la regola non l'eccezione, nel senso cioè che questo modo di produrre non viene fatto in previsione di una particolare avversità (ad es. la carestia), ma viene fatto allo scopo d'incrementare quanto più possibile il capitale investito, a prescindere dalle condizioni esterne (ambientali) del lavoro.

Questa riduzione dell'operaio a "strumento di lavoro" era possibile nel mondo antico perché si partiva dal presupposto che lo schiavo, non avendo i diritti del cittadino, potesse essere trattato come una "cosa". Questo modo di vedere il lavoro era stato sottoposto a critica dal cristianesimo, il quale poneva liberi e schiavi sullo stesso piano di fronte a dio. Il servo della gleba non voleva essere considerato un "oggetto" del feudatario, e lottava -come lo schiavo dell'epoca romana- per la propria emancipazione.

La differenza stava nel fatto che lo schiavista romano (almeno finché non divenne cristiano) preferiva uccidere lo schiavo piuttosto che concedergli dei diritti; il feudatario invece, di fronte alle dure rivendicazioni dei contadini, poteva anche scendere a compromessi. Era cambiata la cultura.

Nel capitalismo, paradossalmente, l'operaio appare più vicino allo schiavo che non al servo della gleba, poiché risulta essere un mero strumento lavorativo, e tuttavia in tale condizione l'operaio salariato non finisce perché "catturato in guerra" o perché ha accettato consapevolmente, non avendo alternative, di rinunciare a una parte dei propri diritti e di vivere un rapporto di dipendenza personale, ma vi finisce nella pienezza della propria libertà, anzi a causa di questa stessa libertà.

Sotto il capitalismo infatti il lavoratore diventa schiavo del capitale dopo che ha acquisito la piena libertà giuridica, cioè i diritti civili e politici. Egli è personalmente libero, anche se questa libertà non è supportata da alcuna forma di proprietà: è una libertà "totale", ma solo perché "da tutto".

Quindi solo una particolare cultura poteva accettare un dualismo così netto tra libertà formale e schiavitù sostanziale: questa cultura non poteva essere che il cristianesimo e, in modo particolare, il protestantesimo.

SCHIAVISMO - SERVAGGIO - LAVORO SALARIATO

Dallo schiavismo al servaggio esiste un progresso nell'emancipazione sociale e culturale del lavoratore che il marxismo classico non ha mai sottolineato nella giusta misura.

I pregiudizi nei confronti del mondo rurale si sono riflessi nell'interpretazione del feudalesimo, che viene positivamente considerato solo in riferimento a quelle realtà sociali e istituzionali che poi porteranno alla nascita del capitalismo (p.es. l'Italia comunale o in genere la borghesia del basso Medioevo).

Il marxismo occidentale non ha ipotizzato l'idea che con una maggiore resistenza contadina al servaggio si sarebbe potuta verificare una transizione diversa da quella che farà poi nascere il capitalismo. C'è voluto il leninismo prima di ipotizzare un salto dal feudalesimo al socialismo.

La storia in realtà s'è incaricata di dimostrare che dal servaggio al lavoro salariato esiste più che un progresso nell'emancipazione sociale, un progresso nell'ipocrisia di tale presunta emancipazione.

Esiste infatti un falso progresso sul piano della libertà giuridica, la quale viene costantemente contraddetta dalla schiavitù sociale (questo anche tutto il marxismo lo sa bene). Si è "liberi" di vendere la propria forza-lavoro, ma con scarse possibilità di contrattare sul prezzo (specie se non esiste qualifica per una mansione particolare) e comunque senza certezze che qualcuno sarà disposto a comprarla.

L'operaio salariato è più simile allo schiavo romano che non al servo della gleba. La differenza sta solo nella maggiore libertà giuridica, che però è del tutto formale. Lo schiavista poteva fare dello schiavo quel che gli pareva, ma doveva comunque mantenerlo in vita per poterlo sfruttare. Oggi la libertà giuridica lo ha anche esonerato da questo obbligo.

Rispetto al servaggio è migliorata una situazione formale ed è peggiorata la condizione sostanziale. Di questo non ci si accorge nei tre poli dell'imperialismo mondiale: Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone semplicemente perché il peso delle contraddizioni tra capitale e lavoro viene prevalentemente scaricato sull'80% dell'umanità che vive nei paesi del Terzo e Quarto Mondo.

LE FORMAZIONI PRECAPITALISTICHE

Nell'esaminare il pensiero di Marx relativamente alle formazioni precapitalistiche bisognerebbe partire dalle seguenti premesse:

nel marxismo occidentale esistono pregiudizi nei confronti del mondo rurale, sia perché questo mondo è legato a ideologie di tipo religioso, sia perché non presenta i connotati tipici del proletariato industriale, che non possedendo altro che la propria forza-lavoro, viene ritenuto più disposto a compiere la rivoluzione;

il marxismo occidentale, per spiegare la nascita dell'accumulazione primitiva, non è in grado di fare un'analisi di tipo culturale, ontogenetica, ma solo un'analisi di tipo economico-fenomenologico;

quando Marx parla di Medioevo generalmente intende il basso Medioevo;

quando Marx si riferisce alla comunità primitiva, generalmente esclude che fosse libera e basata su un lavoro collettivistico;

Marx scopre il lato eversivo e quindi "potenzialmente rivoluzionario" del mondo agricolo soltanto quando viene a contatto col populismo russo, cioè dopo il 1868.

Nel cap. 36 del III libro del Capitale egli afferma, in maniera ricorrente, che "il capitale usuraio è tanto più forte quanto più è dominante la piccola produzione dei contadini e degli artigiani" (ed.Newton Compton). Ma se questa tesi può essere vera per il basso Medioevo, non lo è anche per l'alto Medioevo.

Un'altra tesi ricorrente, molto generica e sostanzialmente errata, è questa: "se e quando il capitale usuraio porta alla nascita del capitalismo, ciò dipende dal grado di sviluppo della società". Anche perché lo stesso Marx sembra sostenere il contrario: "il capitale usuraio distrugge la società pre-capitalistica senza crearne una capitalistica; il capitale industriale invece distrugge e crea".

Dunque, cosa intende Marx per "grado di sviluppo della società"? Qualunque riferimento all'economia in ultima istanza non spiega nulla.

Finché esiste solo il capitale usuraio, la società pre-capitalistica ha più possibilità di autoconservarsi di quante non ne abbia se si sviluppa il capitalismo, ovviamente a condizione che esista un'opposizione collettiva del lavoro all'usura. Viceversa, se si sviluppa il capitalismo, la conservazione della memoria del passato diventa impossibile e l'anticapitalismo non può essere che un sinonimo di post-capitalismo, cioè di socialismo.

In una lettera a Engels, Marx ammette d'aver avuto dei pregiudizi nei confronti della questione contadina. Lo scrive dopo aver preso contatti col populismo russo. Come noto, i pregiudizi non dipendono sempre dalle insufficienti conoscenze. Marx mostra di averne nei confronti del mondo rurale sin dal suo esordio giornalistico nella "Rheinische Zeitung" (1842-43). Molto interessanti sono le lettere spedite da Marx a Engels nel 1856 (29/02, 16/10, 30/10). Rilievi negativi nei confronti delle istituzioni comunitarie dei popoli slavi si trovano anche in Per la critica dell'economia politica, nei Lineamenti... e nello stesso Capitale.

Certamente il livello degli studi delle formazioni precapitalistiche era ai suoi tempi relativamente modesto, ma sia Marx che Engels conoscevano le opere di Hanssen, Meitzen, Maurer, Morgan, e comunque non era assente l'esperienza del lavoro agricolo pre-capitalistico.

Marx conosceva le comunità asiatiche (specie dell'India), le comunità di villaggio rumene, le comunità "comunistiche" del Perù pre-colombiano... Tuttavia, mentre scriveva il I libro del Capitale, Marx non s'è mai interessato seriamente ai problemi dell'evoluzione dell'agricoltura medievale o della servitù della gleba. L'unica regione dell'Europa orientale citata nel Capitale è la Romania (vagamente i paesi danubiani).

E' stato semmai Engels a interessarsi maggiormente del Medioevo dell'Europa occidentale (soprattutto della Germania). In una lettera a Engels del 14/03/1868, Marx mette a confronto alcune caratteristiche dell'obscina russa con la marca tedesca: questo indurrà Engels ad approfondire l'argomento della rivoluzione contadina dei tempi di Lutero e il tema dell'Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato.

Marx cominciò a superare i suoi pregiudizi non solo quando ebbe una chiara visione della comune agricola russa (grazie alle opere di Cernysevskij e di Kovalevskj), ma anche quando si rese conto che i populisti erano seriamente intenzionati a fare una sorta di "rivoluzione socialista" per impedire che il capitalismo distruggesse l'obscina definitivamente.

In una lettera a Kugelmann (17/02/1870), Marx difende esplicitamente l'obscina contro coloro che ritengono quest'ultima responsabile della miseria dei contadini. Cfr anche le lettere di Marx all'Otecestvennje Zapiski (novembre 1877), a Vera Zasulic (08/03/1881), di nuovo a Kugelmann (29/11/1869 e 27/06/1870) e a S. Meyer (21/01/70).

In quegli anni la posizione di Marx si può così riassumere:

è possibile salvaguardare l'obscina e compiere una rivoluzione socialista agraria solo se contemporaneamente esiste in Europa occidentale una rivoluzione proletaria, che aiuti la comune agricola a sopravvivere;

dal 1861 in poi in Russia, pur in presenza della liberazione dal servaggio, va emergendo la classe dei kulaki, che tende a privatizzare la terra: ciò senza dubbio favorirà la nascita del capitalismo.

Una questione bisognerebbe tuttavia chiarire: quando Michajlovskij sosteneva che, per come viene descritto nel Capitale, il processo di formazione del capitalismo pare debba valere come legge inevitabile della storia qua talis e che quindi non ci può essere rivoluzione socialista se prima non viene imposto il capitalismo su vasta scala - si tratta, questa, di una lettura sbagliata del Capitale o di una sua inevitabile interpretazione (conseguente a certe tesi marxiane)?

Marx si è difeso dicendo che intendeva riferirsi all'Inghilterra, ma lui stesso ha affermato d'aver scelto questo paese come "sede classica" dell'accumulazione capitalistica. Solo dopo aver preso contatti col populismo ha affermato di non aver voluto indicare una sorta di "filosofia della storia".

Qui tuttavia è impossibile discutere delle intenzioni di un grande economista quale fu Marx. Qui si vuole semplicemente discutere se oggettivamente talune sue tesi (o addirittura l'impostazione generale del Capitale) potevano portare alla conclusione che il capitalismo fosse una tappa fondamentale per la realizzazione del socialismo.

Che poi Marx abbia voluto fare autocritica solo in maniera indiretta, facendo concessioni, ammettendo alcune possibilità non previste... questo è un altro discorso.

Dal canto suo Marx non aveva dubbi nel considerare l'Europa occidentale e l'Inghilterra in particolare come l'area geografica più avanzata del mondo. Se a questo si unisce la sufficienza con cui Marx ha sempre guardato le formazioni economiche precapitalistiche, diventa una conseguenza inevitabile, anche se non esplicitamente ammessa, il ritenere che tutto lo sviluppo storico mondiale debba in qualche modo ripercorrere le fasi del capitalismo europeo.

Marx avrebbe fatto meglio ad ammettere che dopo essere venuto a contatto col populismo russo, cominciò a comprendere l'importanza delle società precapitalistiche europee e non, e di averle colpevolmente trascurate nella stesura del Capitale, proprio a causa di un personale pregiudizio nei confronti del mondo rurale (riscontrabile esplicitamente persino nel Manifesto del 1848).

La conclusione cui vogliamo arrivare è in sostanza la seguente: se Marx avesse compreso meglio le formazioni precapitalistiche, probabilmente avrebbe cercato di approfondire di più, sul piano culturale, i motivi che storicamente portarono alla nascita del capitalismo. L'aver ricondotto l'analisi della nascita del capitalismo entro gli angusti limiti dell'economia politica, implicava già di per sé una posizione nettamente sfavorevole nei confronti delle società precapitalistiche, dove il ruolo culturale di questa scienza era del tutto trascurabile e dove le forze produttive era indubbiamente limitate rispetto a quelle che si svilupperanno a seguito del macchinismo. Implicava inoltre la decisione di considerare il capitalismo come una formazione sociale inevitabile.

Marx ovviamente non fu così ingenuo dal pensare che il capitalismo sarebbe potuto nascere in qualunque epoca storica (inclusa quella greco-romana, dove i commerci erano molto sviluppati). Tuttavia egli era convinto di due cose:

che dal feudalesimo euroccidentale si sarebbe potuti uscire solo attraverso il capitalismo (almeno fino ai contatti col suddetto populismo);

che un capitalismo europeo su scala mondiale avrebbe fatto entrare in un unico mercato internazionale anche quelle aree geografiche caratterizzate non solo dal feudalesimo ma anche da formazioni sociali pre-feudali.

Le varianti a queste tesi non sono emerse che dal rapporto coi populisti russi (poi hanno trovato conferma negli studi di Morgan e di Maurer).

Non si può sostenere che Marx giudicasse inevitabile la transizione al capitalismo solo in Europa occidentale, non in Russia. Nessuna transizione è mai inevitabile, in nessun paese del mondo. Lo diventa solo se non vengono poste liberamente alcune condizioni per impedirla. Ma la possibilità di tali condizioni esiste sempre, ed è esistita anche in Europa occidentale. Non è un caso che Marx non si sia mai interessato delle lotte contadine antifeudali.

Per Marx l'inevitabilità del capitalismo dipendeva proprio dal fatto che si passava da una proprietà privata (quella dei piccoli agricoltori) a un'altra (quella dei capitalisti). In Russia, per realizzare il capitalismo, si doveva passare da una proprietà comune (l'obscina) a una privata (p.es. dei kulaki). Se questa seconda forma di transizione la si voleva considerare inevitabile, occorreva farla dipendere non dalle considerazioni (fatte nel Capitale) relative alla prima forma di transizione, ma da nuovi argomenti (vedi p.es. la lettera alla Zasulic).

Tuttavia neppure la prima forma di transizione avrebbe dovuto essere considerata inevitabile, non foss'altro perché in Europa occidentale sono esistite comunità di villaggio, proprietà comuni della terra ecc. Per Marx le comunità di villaggio sono esistite solo nelle formazioni pre-feudali.

Gli ultimi 12 anni della vita di Marx andrebbero studiati come un capitolo a parte della sua vita. Questo periodo andrebbe intrecciato con quello coevo di Lenin, il quale, condizionato com'era da Plechanov, non riusciva ad afferrare l'importanza del populismo. Lenin, come tutti i marxisti russi, era convinto che il capitalismo sarebbe stato inevitabile in Russia e -questo però solo lui lo pensava- che si sarebbe potuto opporre un'efficacia resistenza non tanto con la comune agricola quanto con la rivoluzione proletaria. Solo molto più tardi Lenin penserà di utilizzare le rivendicazioni contadine per la realizzazione del socialismo. Di Lenin bisogna leggere Che cosa sono gli "Amici del popolo"... (1894).

Le domande cui bisognerebbe rispondere sono queste: se i marxisti russi si fossero alleati in tempo coi populisti, la rivoluzione bolscevica sarebbe scoppiata prima? sarebbe stata comunque dominata dagli intellettuali e dalle esigenze dell'industrializzazione? sarebbe stata ugualmente burocratica e statalistica, secondo la deformazione staliniana? ci sarebbe stata la collettivizzazione forzata delle campagne?

Se si considera l'obscina russa come una possibilità praticabile che l'Europa aveva d'impedire il sorgere del capitalismo, oggi, essendo essa scomparsa, si deve necessariamente credere che per tutta l'Europa non sarà mai più possibile alcuna transizione al socialismo?

Ha senso sostenere che un'efficace lotta anticapitalistica non avrebbe potuto essere patrimonio esclusivo dei soli populisti, senza un collegamento con quella condotta dagli operai industrializzati?


Nell'odierna Russia è riesploso il capitalismo perché col comunismo s'era cercato di fermarlo in maniera artificiosa. Non nel senso che, affinché si realizzasse il comunismo, doveva prima affermarsi il capitalismo (seguendo la linea del marxismo classico), ma nel senso che il comunismo russo non è riuscito a servirsi dei contadini in funzione anticapitalistica.

I contadini, a parte i primi momenti della rivoluzione, sono sempre stati subordinati agli operai, o meglio alle esigenze di una forzata industrializzazione. D'altra parte, gli intellettuali marxisti, essendo tutti atei, non potevano essere "organici" agli interessi dei contadini, che erano tutti credenti e che semmai si riconoscevano nei populisti.

Gli intellettuali marxisti avevano bisogno di affermare la necessità del capitalismo perché volevano essere "organici" a una nuova classe sociale: quella operaia dell'industria, la quale, essendo stata strappata dalla terra, aveva perso ogni legame con la religione.

La differenza tra Marx e gli intellettuali marxisti russi, riguardo alle forme pregiudizievoli verso il mondo rurale, stava semplicemente nel fatto che quest'ultimi si resero subito conto che in un paese prevalentemente agricolo non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione proletaria senza l'appoggio dei contadini. Di qui lo sviluppo di scienze politiche come la tattica e la strategia rivoluzionaria. Anche se ideologicamente Lenin era lontano dal mondo contadino, politicamente gli era vicino.

E' un fatto, tuttavia, che nella sua polemica contro i populisti, Lenin non abbia saputo trovare nelle istituzioni contadine del suo paese alcun elemento positivo.

Eppure i marxisti russi sapevano bene che in un paese arretrato come il loro il capitalismo, per imporsi, non poteva aspettare il consenso delle masse, doveva per forza agire usando gli strumenti più brutali: cosa che i contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, non avrebbero potuto tollerare. E' stata dunque una scelta assai infelice quella di aver attribuito un primato socio-politico al proletariato industriale.

Scrive Lenin, a proposito della classe operaia, in Che cosa sono gli "Amici del popolo": "nessun legame la unisce con la vecchia società, interamente basata sullo sfruttamento; le condizioni stesse del suo lavoro e il suo modo di vivere la organizzano, la costringono a pensare, le danno la possibilità di scendere sull'arena della lotta politica"(p. 80).

Dunque, la "vecchia società" impediva di "pensare"? di reagire?

forse perché essa era "interamente" basata sullo sfruttamento?

Dunque, i contadini erano del tutto incapaci di ribellarsi a uno sfruttamento così massivo?

Un modo "particolare" di lavorare porta di per sé a una maggiore consapevolezza rivoluzionaria?

Eppure proprio Lenin dirà in Che fare? che non basta essere operai per diventare rivoluzionari: occorre che la "coscienza" venga data "dall'esterno", e più precisamente dagli intellettuali rivoluzionari.

Per il Lenin antipopulista vi era solo un modo per distruggere il capitalismo: "la lotta di classe del proletariato contro la borghesia"(p. 87). Questo l'insegnamento di Marx mediato in Russia da Plechanov.

Quando Lenin arrivò a comprendere che la sola via d'uscita dal capitalismo non poteva essere che quella d'una lotta comune tra operai e contadini contro feudalesimo e capitalismo insieme, il suo rapporto col populismo era praticamente finito. E la fine di questo rapporto renderà precaria la consapevolezza che il ruolo dei contadini nella rivoluzione bolscevica non avrebbe potuto essere irrilevante.

D'altra parte non si deve dimenticare che i cosiddetti "marxisti legali" in Russia erano addirittura convinti che il capitalismo fosse in Russia del tutto inevitabile, per cui sarebbe stata vana qualunque forma di resistenza. Essi non avevano alcuna fiducia nel mondo contadino.

Ed erano altresì convinti che l'unica forma possibile di socialismo fosse quella industriale, post-capitalistica, del tutto estranea alle formazioni sociali pre-capitalistiche.









Privacy




Articolo informazione


Hits: 4655
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024