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I distretti industriali: riferimenti teorici ed analisi empiriche - La concentrazione territoriale

economia



I distretti industriali: riferimenti teorici ed analisi empiriche

Aspetti generali

Il termine distretto industriale fu coniato da Alfred Marshall nel 1867, quando, in alcuni scritti giovanili, volle fare riferimento alle industrie tessili del Lancashire e a Sheffield. In "Industry and Trade" - l'opera della maturità -  egli ha modo di scrivere: "Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento ad un'entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo e localizzate in un'area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza." Fondamentale, dunque, è il richiamo alla categoria socioeconomica - con tutto quello che ne consegue in termini di fiducia reciproca tra i residenti di un certo territorio -, alla concentrazione territoriale, e alla divisione del lavoro tra imprese in modo da scomporre il processo produttivo, e dare a tante imprese separate- ma in concorrenza con altre omologhe, della stessa fase- spezzoni della lavorazione che prima era integrata verticalmente nella stessa impresa; in questo contesto si inserisce l'immaginifico richiamo alla "atmosfera industriale", così definita da Marshall: "In un distretto industriale dove si concentrano grandi masse di persone addette a mestieri specializzati simili, i misteri dell'industria non sono più tali; è come se stessero nell'aria, e i fanciulli ne apprendono molti inconsapevolmente" . Sulla base di questa impostazione, ed avendo sotto gli occhi la realtà sua più vicina (il distretto laniero di Prato), Giacomo Becattini - ordinario di Economia Politica presso l'Università di Firenze -  amplia e puntualizza il concetto: "Il distretto industriale è un'entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un'area territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali", mentre "per quanto concerne la comunità di persone, il tratto più rilevante è costituito dal fatto che essa incorpora un sistema abbastanza omogeneo di valori che si esprime in termini di etica del lavoro e dell'attività, della famiglia, della reciprocità, del cambiamento" . Questa definizione sintetica di distretto è generalmente condivisa dagli studiosi che di questo argomento si occupano, anche se ci sono delle sfumature che non vanno sottaciute. Ad esempio, Sebastiano Brusco sottolinea come il concetto di economia esterna marshalliana si spiega come una conseguenza dell'imperfezione del mercato: asimmetrie informative e costi legati alla ricerca di informazioni possono indurre un'impresa del distretto ad interagire più facilmente con le altre imprese distrettuali, piuttosto che cercare alternative convenienti al di fuori dell'area territoriale sua propria. Questa stessa consapevolezza del "market failure" ha aperto la strada, negli anni '80 e '90, all'applicazione dell'economia dei costi di transazione (a partire dalla lezione di Coase del 1937 ) all'ambito distrettuale; tanto che oggi la scuola neo-istituzionalista, che da essa prende le mosse, ha messo a punto più di uno strumento per spiegare la competitività internazionale dei distretti, il ruolo della reputazione della piccola impresa nella dinamica dei prezzi (o tariffe, come invece dice Becattini riguardo ai prezzi dei beni dei semilavorati e di altri prodotti - compresa la forza lavoro- che si scambiano nel distretto per giungere alla produzione finale), la creazione di reti corte e lunghe tra imprese, e la creazione di sapere contestuale (learning by doing).



Accanto a questa definizione data dagli studiosi, si pone la definizione di distretto che la legge italiana ha dato nel 1991 (legge n. 317/1991 art. 36, modificato sostanzialmente con l'art. 6 della legge n. 140/1999, rubricato "Sistemi produttivi locali, distretti industriali e consorzi di sviluppo locale"): "1. Si definiscono Sistemi produttivi locali i contesti omogenei, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole dimensioni, e da una peculiare organizzazione interna; 2. Si definiscono distretti industriali i sistemi produttivi locali di cui al comma 1, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese industriali nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese." Il dettato legislativo, difatti, recepisce per grandi linee la definizione di distretto cui sono giunti gli studiosi in questi anni, anche se poi rimanda alla loro concreta individuazione  con opportuni indici statistici alfine di usufruire di fondi statali e comunitari. Volendo schematizzare, possiamo dire che gli elementi caratterizzanti un distretto industriale sono:


la concentrazione territoriale delle imprese (in Italia, ad esempio, mediamente un distretto comprende 7-8 comuni di piccole dimensioni, che gravitano attorno ad un centro maggiore, quasi mai un capoluogo di provincia - eccezion fatta per Padova-);

la concorrenza tra le imprese distrettuali impegnate nella stessa fase di lavorazione, sicchè un committente ha sempre la possibilità di scegliere tra più fornitori;

la cooperazione, che non viene imposta da nessuna autorità e da nessuna impresa leader, ma è una esigenza fisiologica degli attori economici a tutti i livelli, tanto nel mercato del lavoro (dove vengono accettati  - se del caso - anche salari più bassi per far fronte alla congiuntura economica - e, tuttavia, rilevanti lavori sul campo hanno dimostrato il contrario, e cioè che, mediamente, i salari dei lavoratori distrettua 939j92j li sono più alti dei salari dei lavoratori di imprese di dimensioni simili ma non inserite in distretti), quanto delle imprese della filiera produttiva;

le economie esterne, che Marshall chiama anche economie di agglomerazione, applicandovi lo schema logico di riferimento delle economie di scala vere e proprie;

la divisione del lavoro tra imprese del distretto;

la comune base culturale e la condivisione degli stessi obiettivi, che implica anche la forte diffusione, oltre che l'accettazione, di una conoscenza manuale e tecnica denominata conoscenza contestuale da E. Rullani;

il mercato di riferimento, che non è quasi mai soltanto locale, ma globale.



Esaminiamo, ora, uno per uno, i singoli elementi che costituiscono e contraddistinguono il distretto. Con una precisazione però: e cioè che questi elementi si ritrovano - con maggiore o minore intensità- in tutti i distretti - non solo italiani, ma anche giapponesi, inglesi e francesi, come un unico comun denominatore di questa unità di studio - quasi a dimostrare che ci troviamo di fronte ad una cellula primaria del capitalismo, accanto all'altra, la grande impresa.


1.1 La concentrazione territoriale

Gli studiosi di economia regionale hanno messo a punto vari modelli di localizzazione di impresa che cercassero di spiegare il perché dello sviluppo di certe zone a scapito di altre. A cominciare dal pionieristico lavoro di J. H. Von Thünen ("Lo stato isolato, con riguardo all'economia agricola e all'economia nazionale",1826-1863), che cercava di spiegare la rendita e i salari a partire da una città situata al centro di una grande pianura, circondata da terre uniformemente fertili, che doveva essere rifornita dei prodotti agricoli, passando per Alfred Weber ("Teoria della localizzazione dell'industria",1909, che riprendeva l'analisi di Von Thünen, applicandola ai fattori che influenzano la localizzazione dell'industria in periodi di sviluppo economico, sulla base di dati relativi alla Germania dopo il 1860), fino ad arrivare a W. Alonso e W. Isard con concetti quali i punti di rottura, e l'applicazione di nozioni di topografia (isodapane e isotime) per tenere conto dei costi di trasporto e di distribuzione nelle opzioni di localizzazione, ci si è sempre posti l'obiettivo di spiegare lo sviluppo, anche disordinato, delle metropoli a fronte delle difficoltà di crescita delle zone limitrofe, con tutto quello che ne derivava in termini di rendite urbane.

In questo discorso si è inserito, sulle orme di Marshall, Giacomo Becattini, che ha aggiunto al modo tradizionale di affrontare il problema - essenzialmente basato sulla localizzazione ottima per la singola impresa - nuovi elementi. Secondo lo studioso toscano, infatti, "il distretto industriale marshalliano costituisce un ispessimento localizzato delle relazioni interindustriali che presenta un carattere di ragionevole stabilità nel tempo", ha carattere plurisettoriale e, paradossalmente, "quanto più il distretto è capace di rinnovarsi, di innestare nuovi settori sui vecchi, articolare fasi sempre più specializzate sulla propria industria originaria, tanto più esso mantiene la sua identità come distretto industriale". Ci troviamo di fronte ad un insieme di imprese che si sono localizzate in un certo territorio - non ostile geograficamente o climaticamente - per effetto di una sedimentazione storica e culturale che può risalire anche a parecchi secoli addietro. È questo il caso di Prato (e del suo comprensorio: Carmignano, Cantagallo, Montemurlo, Poggio a Caiano, Vaiano e Vernio), che ha conosciuto una intensa attività artigianale già nel 1200 e la costituzione di una corporazione, l'Arte della Lana, che procedeva a smistare la materia prima tra i lavoratori a domicilio per arrivare alla produzione del prodotto finito (il panno di lana) che i mercanti fiorentini provvedevano a vendere  alle case regnanti di mezzo mondo. Per agevolare questo compito, nacque la prima famiglia di banchieri a Firenze, la Compagnia de' Bardi, che faceva prestito ai regnanti europei (fu, tra l'altro, un prestito, non onorato, fatto ad Edoardo III d'Inghilterra che ne decretò il fallimento nel 1345); nacquero le figure degli impannatori e degli intermediari commerciali. Insomma c'era già un embrione di società capitalistica.

Ma lo stesso tipo di ricostruzione storica e di individuazione delle prime tracce di attività può essere fatta per qualsiasi altro distretto. Ad esempio, a Solofra , in provincia di Avellino, testimonianza della lavorazione di pelle caprina ed ovina viene fatta risalire all'epoca romana (I  sec. D.C), mentre l'attività stabile di concia della pelle, con uso del tannino a tale scopo, viene collocata intorno al 1500 sotto il dominio della famiglia Orsini. Il distretto industriale si è andato a collocare in un ambito territoriale in cui la conoscenza tecnica viene tramandata di generazione in generazione, e l'utilizzo dei macchinari messi a disposizione dal progresso tecnico del tempo conforma la produzione in modi sempre nuovi.

Tuttavia, non sono rari i casi di territori in cui, in passato, pure era presente una capacità tecnica o manuale, un saper fare, e tuttavia oggi non sono distretti o sono zone addirittura depresse. Come fa notare G. Viesti , il sapere contestuale deve essere nutrito, rafforzato e trasmesso, le persone che lo incarnano devono restare sul posto (o ritornarvi) se non si vuole la morte di quella comunità, almeno come distretto "in potenza".

La concentrazione territoriale, però, può portare diseconomie di agglomerazione, dovute alla scarsità di suoli adibiti ad insediamento industriale, che, come conseguenza, fanno aumentare le rendite dei proprietari terrieri, e possono spiegare anche fenomeni di "migrazione" o "movimento" di bacini distrettuali. È il caso, ad esempio, di quel florido tessuto produttivo che si trova attorno all'area metropolitana di Napoli e che, per effetto della congestione, dell'elevato prezzo raggiunto dai terreni nella cinta urbana e della prossimità ad arterie autostradali (Napoli -Roma), ha preso lentamente a muoversi e ad "allungarsi", fino a giungere a Caserta, innescando anche fenomeni di crescita cumulativa per imitazione e creazione di servizi accessori alle imprese.


1.2 La concorrenza

Per capire il senso della concorrenza nell'ambito del distretto industriale, sarà opportuno accennare brevemente a come funziona in generale un distretto. Si tratta evidentemente di un modello astratto, in quanto molto può divergere il funzionamento da distretto a distretto, a seconda del tipo di produzione che ivi si tiene e a seconda della presenza o meno di una impresa leader per dimensioni o per ruolo. In generale sembra che nel distretto sia comunque più chiaro che altrove l'importanza della concorrenza per riuscire a ricavare il meglio dagli uomini e dalle situazioni di instabilità. L'incertezza è connaturata alla vita di ogni essere vivente, "è nella storia, nella scienza", ma la concorrenza ne ricava il meglio. "L'imprevedibilità è un dato ineliminabile della nostra condizione esistenziale, la misura dell'incoercibilità della vita umana. Bisogna allora ricordare che la capacità di fronteggiare l'imprevedibile è il tratto caratteristico degli individui creativi, dislocati in ogni strato sociale".

Generalmente, esiste sempre un "main contractor" che provvede ad individuare le imprese sub-fornitrici (o terziste) per far svolgere una parte ben precisa del processo produttivo. Se, volendo fare l'esempio della industria calzaturiera di Barletta, il prodotto finito è rappresentato dalla scarpa con suola di gomma, ci saranno delle imprese che si specializzeranno nella produzione della tomaia, altre che invece lo saranno nella procedura della iniezione del poliuretano per la creazione di suole, altre assembleranno il prodotto finale, altre ancora si specializzeranno nella costruzione dei relativi macchinari e così via. È chiaro che, in questo semplice schema, l'impresa "main contractor" si trova in una posizione di forza (monopsonio), ma ciò dura fintanto che la domanda resta locale. In altre parole, come dimostrato anche dai modelli centro-periferia di Paul Krugman e dai paradigmi della Nuova Geografia Economica , è la dimensione e la qualità della domanda che trainano lo sviluppo del distretto industriale. Se la produzione è assorbita solo dal mercato locale (quello delle famiglie dei lavoratori del distretto, per intenderci) allora ci sarà il collo di bottiglia dell'unico "main contractor", se invece si riesce ad arrivare alla fase successiva (quella che G. Viesti  chiama del "decollo" ), allora ci sarà concorrenza anche sul prodotto finale. Questo è un percorso evolutivo che si percepisce chiaramente nei distretti meridionali: quelli che hanno resistito e si sono ingranditi per effetto delle esportazioni all'estero (scelta obbligata, oggigiorno) hanno più di un'impresa che esporta il prodotto finale. Sull'insegnamento di Augusto Graziani , si potrebbe quasi parlare di un modello di crescita export-led su base distrettuale.

Tuttavia, questa non è la classica concorrenza perfetta. Il rapporto tra domanda ed offerta non è limitato al solo prezzo, in quanto rilevante è il ruolo della reputazione. L'economia dei costi di transazione (O. Williamson , 1975) ha ben evidenziato come la scelta tra "make or buy" si collochi in un punto di mezzo indefinibile . In particolare il prezzo conta sempre meno quando lo scambio tra i due attori ha dato luogo a degli investimenti idiosincratici (ad esempio, i costi per il procacciamento di informazioni specifiche, gli uffici legali, le strutture informatiche ad-hoc), e conta ancora meno quando la competizione dei prodotti del distretto non si svolge sul terreno dei costi  ("leadership di costo", che è la tipica forma con cui competono sui mercati internazionali le "tigri asiatiche") ma sulla qualità, che è il caso del nostro "Made in Italy". In pratica, se ciò che esportiamo è un prodotto di qualità (addirittura di lusso), tenderemo ad avere sempre meno sott'occhio la dinamica di prezzo mentre sarà indispensabile garantirsi che la qualità del prodotto del sub-fornitore sia ineccepibile; cosa che, vista in prospettiva, consente di risparmiare sui costi per il controllo di qualità, ad esempio. In definitiva, si tratta di una concorrenza "temperata" dalla cooperazione, e di una conseguenza naturale della divisione del lavoro tra le imprese del distretto.


1.3 La cooperazione

Questa consuetudine locale ha tre funzioni principali:

sostenere il dinamismo dei lavoratori che decidano di mettersi in proprio: infatti è più comodo fare l'oneroso passo di diventare lavoratore autonomo o imprenditore, se si è certi che, nel caso di insuccesso, si possa ritornare a lavorare presso il vecchio datore. Essa dà una rete di sicurezza ed aiuta a sentirsi meno emarginati;

permette il coordinamento reciproco di attività strettamente complementari (assicurando i dovuti standard qualitativi);

permette di abbassare i costi di produzione del distretto: si instaurano di fatto dei comportamenti di routine che permettono di risparmiare sui controlli e sulle contrattazioni (un po' come avviene nel cervello umano, dove le routine, non solo di comportamento ma anche di percezione sensoriale, creano dei legami neuronali tra i lobi pre-frontali e l'amigdala più ampi e resistenti rispetto a quelli che collegano i due organi in caso di sensazioni nuove o comportamenti non ancora sperimentati).

La cooperazione ha senso in un ambito culturale omogeneo, in una comunità che una serie di obiettivi condivisi, in cui la fiducia reciproca ha la possibilità di confermarsi ed auto-rafforzarsi. Ricerche empiriche hanno dimostrato che il rendimento delle imprese distrettuali misurato con il ROI (return on investment), grazie anche alla cooperazione, è di circa due punti percentuali superiore alle imprese di analoga dimensione, operanti nello stesso settore, ma al di fuori di un contesto distrettuale. Un risvolto concreto della cooperazione è questo: come nella Birmingham del 1850 il factor (figura imprenditoriale che fungeva da intermediario commerciale tra le imprese produttrici locali e gli acquirenti nazionali ed esteri) prestava normalmente ai piccoli produttori il denaro per l'acquisto delle attrezzature, così oggi nei distretti industriali oltre a questa pratica ci sono altre forme indirette di finanziamento, come gli accordi di garanzia di carico dei macchinari; e su questa base può nascere spesso anche un florido mercato distrettuale dei macchinari usati, che vengono acquistati, in genere, dai lavoratori che vogliano mettersi in proprio.

Il ruolo della cooperazione è stato messo in luce da Gabi Dei Ottati, G. Becattini e, separatamente, da S. Brusco anche in relazione ad un altro aspetto fondamentale: la capacità di innovazione dei distretti. Una delle ragioni per cui la Sinistra ha visto di cattivo occhio la realtà distrettuale italiana è stata proprio la presunta incapacità a concepire e portare avanti innovazioni di rilievo. Osservazione che ha un senso se si pensa ai settori ad alta intensità di capitale, come la chimica e la siderurgia, dove senza un congruo investimento di migliaia di miliardi e pachidermici centri di ricerca non si riesce ad ottenere nessun brevetto. Ma nel caso dei distretti industriali italiani, specializzati nei settori dell'abbigliamento, lavorazione pelli e cuoio, meccanica, tessile, calzature, in cui tutto ruota intorno al design o a piccoli ritrovati che migliorino l'ergonomia di oggetti, o la funzionalità di apparecchiature meccaniche utilizzate in quelle produzioni, l'innovazione e la relativa capacità non hanno bisogno di massicci investimenti. L'humus distrettuale, invece, sembra quello ideale per permettere lo scambio di idee, di spunti, per la trasmissione di ritrovati che, apparentemente senza valore, vengono poi messi a punto da altri operai.


1.4 Le economie esterne

Si puo' dire che la parte più consistente della teoria marshalliana sui distretti ruoti intorno a questo argomento, e che questo sia stato il campo di analisi e di verifica empirica che più ha fatto lavorare gli economisti. Dallo studio di F. Signorini sull'effetto "distretto" desumibile dall'analisi dei bilanci di 500 imprese del settore laniero alle puntualizzazioni  di G. Becattini, fino al lavoro di S. Brusco, prima richiamati, gran parte della letteratura sui distretti si occupa di questo aspetto, che è poi quello che spiega la forza competitiva di questi sistemi locali sullo scenario competitivo internazionale, nonostante la presenza di colossi imprenditoriali di prim'ordine.

Nell'opera di A. Marshall la prima distinzione che si fa è tra economie interne, che sono quelle "dipendenti dalle risorse delle singole imprese, dalla loro organizzazione, dall'efficienza della loro amministrazione", e le economie esterne "dipendenti dallo sviluppo generale dell'industria". Nell'ambito di queste ultime poi, l'autore considera quelle che si possono ottenere mediante la "concentrazione di parecchie piccole imprese di natura simile in località particolari; o mediante localizzazione dell'industria". Queste sono le economie esterne di agglomerazione (dette anche immobili), che consistono in una diminuzione dei costi di produzione e di transazione di cui una impresa può avvantaggiarsi quando sia inserita in un agglomerato relativamente grande in termini produttivi. Altro caso di economie esterne riguarda lo sviluppo di cognizioni ed il progresso della tecnica. Nei "Principles of Economics", Marshall adduce più di un esempio chiarificatore in merito a queste economie: "l'uso economico di macchine costose si può talora conseguire in sommo grado in un distretto in cui esista una grande produzione complessiva dello stesso genere, anche se nessun singolo impiego di capitale nell'industria è molto esteso. Infatti le industrie sussidiarie, che si dedicano soltanto ad un piccolo ramo del processo di produzione e lo esercitano per un gran numero di industrie vicine, sono in grado di tenere continuamente in attività macchine specializzate al massimo grado, e di ottenere che questa utilizzazione compensi la spesa, anche quando il costo originario sia stato alto, e molto rapido il suo deprezzamento". Ma è sempre un'economia esterna anche quella che deriva dall'opera di imprese sussidiarie in un distretto, come quelle che si occupano della raccolta e della distribuzione dei vari materiali e delle altre merci di cui i piccoli stabilimenti hanno bisogno, nonché della raccolta e della distribuzione del prodotto del loro lavoro. L'agglomerazione di imprese in uno stesso posto può essere contrastata da un fenomeno che è in relazione diretta col progresso tecnologico: la diminuzione dei costi di trasporto (comprendendovi, però, anche la riduzione del costo delle telecomunicazioni: negli ultimi 50 anni il costo di una telefonata Londra-New York è diminuito di 40 volte). I fenomeni di delocalizzazione di imprese oggi sono facilitati, e difatti non mancano esempi, tanto nei distretti del Nord Est quanto in quelli pugliesi, di imprenditori che preferiscono localizzare i nuovi impianti in paesi dove più basso è il costo della manodopera. E tuttavia questo non serve a vedere tutto il problema: i distretti non vengono smantellati per il solo fatto che un certo numero di imprenditori (in genere quelli che svolgono le fasi di lavorazione a più elevata presenza di capitale umano) preferisce trasferirsi all'estero. C'è sempre un sapere contestuale che resta nel territorio d'origine: anzi ricerche empiriche hanno dimostrato che ci sono anche molti imprenditori che preferiscono localizzare impianti dove ci sono delle conoscenze da apprendere o una nuove tecniche da imitare. In definitiva, un fattore potente di agglomerazione non è tanto la riduzione dei costi di trasporto (soprattutto oggi che sono mediamente bassi, se si eccettuano alcune zone dell'Appennino lucano e della Calabria ) quanto piuttosto l'informazione negli scambi, la formazione delle professionalità, l'innovazione. Proprio a questo riguardo, G. Becattini parla di economie "esterne all'impresa ma interne al distretto". Un esempio gioverà a chiarire tutto ciò: quando bisogna fare un acquisto, il tempo che siamo disposti a spendere per procurarci informazioni in merito è tanto più lungo quanto più costoso è il bene che vogliamo acquistare e quanto più è difficile capirne le qualità intrinseche. I costi di questa ricerca crescono se il compratore ha poco tempo, per cui diventa vantaggioso per lui trovare in un'area ristretta i beni fra cui scegliere. Un fenomeno del genere ci può aiutare a capire perché in molte città ci siano strade in cui si sono addensati negozi che vendono la stessa merce: il caso di via San Sebastiano a Napoli (strumenti musicali) ne è un esempio. I Neo-Istituzionalisti, partendo dalla lezione di Richardson e Williamson , hanno cercato di spiegare il funzionamento proprio in questi termini: l'impresa del distretto industriale sarà incentivata a delegare fasi sempre più ampie di lavorazione all'esterno [dell'impresa, ma all'interno del distretto] quanto più avrà "fiducia" del partner distrettuale, viceversa, se la relazione diventa opportunistica e ci sarà bisogno di strutture di controllo della controparte, essa sarà indotta ad internalizzare, e integrare verticalmente la produzione ("make"). Un buon modo per ridurre il peso della fiducia potrebbe essere quello di condividere standard produttivi comuni: in questo modo risulta più facile instaurare una rete di transazioni fra le imprese distrettuali.




1.5 La divisione del lavoro

Aspetto logicamente complementare a quello delle economie esterne è la divisione delle fasi di produzione del bene finale e il loro adempimento da parte di imprese diverse, che prendono idealmente il posto dei diversi reparti di un unico grande stabilimento integrato verticalmente e comprendente al suo interno tutta la filiera di produzione. Nel distretto succede la stessa cosa che Adamo Smith descriveva nella "Ricchezza delle Nazioni", quando parlava della produzione degli spilli e di come poteva essere grandemente aumentata mediante una razionale divisione delle mansioni. Nel distretto le singole unità produttive tengono costantemente conto delle caratteristiche del mercato, della concorrenza e delle economie di costo (o scala) per raggiungere la dimensione minima efficiente (DME). È bene , a tal proposito, richiamare alcuni concetti di Economia Industriale per chiarire questo punto. Si hanno economie di scala quando il costo medio unitario di produzione diminuisce all'aumentare della capacità produttiva dell'unità considerata (impianto o stabilimento) fino alla dimensione ottima minima (DOM) o alla dimensione minima efficiente (DME).La curva delle economie di scala è una curva di lungo periodo data dall'inviluppo delle curve di breve; la curva di lungo periodo rappresenta i costi riferiti ad un periodo in cui l'impresa può scegliere la propria capacità produttiva ovvero variarla adottando un certo impianto, mentre quelle di breve rappresentano l'andamento dei costi medi unitari in un periodo in cui l'impianto, e quindi la capacità produttiva dell'impresa, è dato e l'impresa può solo variare le quantità prodotte .

La dimensione ottima minima è la dimensione minima di impianto con il livello minimo di costi medi unitari, oltre la quale la curva diventa orizzontale o assume la forma ad U (diseconomie di scala); invece la dimensione minima efficiente (DME) è quel punto oltre il quale l'elasticità dell'aumento dei costi all'aumento della scala produttiva è molto bassa e la curva dei costi decresce lentamente per cui si possono ottenere minimi guadagni in termini di efficienza con elevati incrementi di volume produttivo (vedi fig.1). Proprio per questo motivo le imprese distrettuali tendono ad assumere questa dimensione (DME) più contenuta, data una certa domanda di mercato e, quindi, un certo impianto

Figura 1


Fonte: Sicca, L., "La gestione strategica dell'impresa", CEDAM, Padova, 1998.

L'efficienza del processo di divisione del lavoro viene garantita all'interno del distretto mediante il meccanismo dei prezzi (o tariffe, in senso più ampio), che riesce ad allocare in senso ottimale le diverse fasi del processo produttivo tra i diversi attori-imprese.

Per descrivere in modo scientifico il processo di divisione del lavoro, ed evidenziarne le efficienze, Piero Tani utilizza lo schema fondi-flussi messo a punto dall'economista rumeno Georgescu-Roegen (1969-1970): qui il fenomeno della produzione viene visto come un processo, cioè un fenomeno che si svolge nel tempo (una scatola nera: il processo è delimitato da una durata [compresa tra un istante iniziale ed uno finale] e da un confine, che in ogni istante separa quello che si conviene di considerare all'interno di un processo da quello che appartiene invece all'ambiente in cui il processo si svolge). Gli input di processo sono le materie prime, i semilavorati, le macchine, gli impianti, le risorse naturali e i lavoratori. Il processo elementare corrisponde alla descrizione (sia grafica che mediante equazioni) di tutte le operazioni che, (con una data tecnica) conducono all'ottenimento di una unità di un dato prodotto. Il modello di Piero Tani (mutuato dallo schema Georgescu-Roegen) si presta ad individuare le cause di maggior efficienza di un sistema decentrato rispetto ad un sistema verticalmente integrato. Queste cause "si potenziano quando le imprese che attivano singole componenti del processo operano in una situazione di contiguità territoriale ed in un contesto che rende minori i costi dei processi ausiliari, che determina più favorevoli condizioni all'attività di imprese di piccole dimensioni e consente un efficace funzionamento dei mercati di beni intermedi". Tutte le attività realizzabili in un distretto possono essere rappresentate come un unico processo complesso "costituito dalla attivazione in linea di un certo numero di processi complessi elementari con elevato carattere di scomponibilità. Tra le componenti di questo processo ve ne saranno alcune che corrispondono a processi ausiliari (trasporto, conservazione e altre operazioni sussidiarie relative a semilavorati o a prestazioni di servizi alle imprese), e che sono direttamente collegate con il fatto che le singole componenti del processo complessivo si realizzano in unità di produzione differenti; per ogni possibile tipo di processo elementare e per ogni livello di produzione complessiva del bene finale è identificabile un massimo grado di ripartizione dovuta sia alla scomposizione del processo in linea sia alla divisione, quando possibile, delle singole componenti".


1.6 La comune base culturale

L'interdisciplinarità della materia distrettuale è evidente quando ci si addentra nel campo della cultura comune al distretto. Studi approfonditi di A. Bagnasco, ripresi da S. Brusco e G. Garofoli spiegano la presenza accentuata dello spirito imprenditoriale nei distretti con la diffusione della mezzadria, per buona parte dell'ottocento e nella prima metà del secolo scorso, nelle regioni centro-settentrionali. La necessità del mezzadro di saper fare di conto e di avere un minimo di dimestichezza con l'incerto, radicata in più generazioni, ha instillato nelle popolazioni dei futuri distretti il gusto per l'intrapresa e l'accettazione del rischio (seppure temperato dai meccanismi di cooperazione già descritti). Questo sottofondo culturale accomuna sia gli operai delle zone distrettuali, che nel loro intimo hanno sempre l'obiettivo di mettersi in proprio e di raggiungere il gradino successivo di riconoscimento sociale, che gli imprenditori, sempre attenti a carpire nuovi campanelli d'allarme sui mercati così come nuovi stimoli e nuovi modelli organizzativi che si rivelino più competitivi.

Per il resto, ci sono differenze, anche consistenti, tra le diverse zone distrettuali dell'Italia del Nord Est o dell'Emilia, o della dorsale adriatica. Differenze che si sostanziano in una diversa rappresentanza politica: "Rosse" l'Emilia e la Toscana, e fondamentalmente più isolate dal contesto nazionale e dall'influenza dell'apparato della curia cattolica (le case del popolo, i centri e le scuole di formazione pubbliche hanno salvaguardato un modello di crescita tipicamente emiliano), "Bianco" il Veneto, e per questo più intriso di valori solidaristici e familiaristici tipicamente cattolici, e più dipendente da modelli di sviluppo dettati dal Centro . Un valore comune a tutti i distretti, che non va sottovalutato e che è alla base, per altro verso, dell'arretratezza del Mezzogiorno, è la tecnica manuale: il sapere "usare bene le mani" per i più disparati lavori - dalla carpenteria all'agricoltura, dall'edilizia domestica ai piccoli lavori di falegnameria- è una "condicio sine qua non" dello sviluppo di imprenditorialità diffusa; se non hai una buona manualità o tecnica non puoi lavorare come operaio, e se non sei operaio difficilmente potrai fare il salto verso l'imprenditoria.

Questo è un problema che spesso viene ignorato quando si parla di sviluppo dei distretti meridionali, ma è un fatto che i flussi migratori dalle campagne alla città hanno indebolito proprio questa caratteristica della popolazione meridionale. Conoscenze e abilità manuali apprese nell'arco di decenni di vita nelle campagne, per imitazione dei "vecchi", o per learning by doing (il semplice reverse-engineering consistente nello smontare e rimontare un trattore è un buon esempio) sono andate dissipate nell'arco di un paio di generazioni, in cui la politica industriale ha privilegiato gli investimenti ad elevata intensità di capitale nel Mezzogiorno (chimica e siderurgia) e ha di fatto indotto masse consistenti di persone a lasciare le campagne. La congestione delle città, la ricerca del posto fisso (pubblico) e la terziarizzazione hanno fatto il resto. Per correggere questo stato di cose, e per travasare le dosi necessarie di sapere tecnico per innescare il processo di distrettualizzazione, si cercano ora artificiosi sistemi di "insegnamento" sul posto da parte di maestranze provenienti da distretti già affermati. Si cerca in pratica di replicare il modello di crescita incentrato sullo stabilimento Magneti Marelli di Carpi in cui le maestranze dell'impianto principale di Sesto San Giovanni furono mandate in Emilia per addestrare gli operai Carpigiani del nuovo stabilimento. Per il distretto della corsetteria di Lavello (Potenza) si è cercato di fare lo stesso: operaie esperte provenienti dall'Emilia Romagna hanno tenuto stage di formazione nel paese lucano, "incubando" così nuove realtà imprenditoriali. Ma il parallelo non regge: infatti mentre nel Carpigiano si è trattato di infondere nuove conoscenze tecniche in un contesto già semi-industrializzato (florida era l'industria del truciolo e della meccanica leggera), nel paese lucano non basta trasmettere le nozioni relative alla cucitura o al confezionamento di corsetteria. Ci sarà, difatti, sempre una dipendenza nella manutenzione dei macchinari (peraltro forniti da imprenditori emiliani) e nella gestione commerciale.


1.7 Il mercato di riferimento

Negli ultimi anni i lavori di Gianfranco Viesti e di Enzo Rullani hanno evidenziato due aspetti particolari della vita dei distretti:

molti si vanno a collocare dove c'è relativa abbondanza di manodopera a buon mercato;

il distretto prospera se c'è dapprima una forte domanda locale e poi se riesce a stare nella competizione globale.

Nella fattispecie, la riduzione dei costi di trasporto e la disponibilità in ogni momento di qualsiasi informazione a costo praticamente zero (grazie ad Internet e alle reti interne alle aziende, Intranet) costringe le imprese di distretto a competere anche sul mercato locale con imprese di paesi lontani, dotate di alcuni vantaggi competitivi (come il basso costo del lavoro). Per resistere a tutto questo, le imprese formano reti corte (con le altre presenti nel distretto) e reti lunghe (con imprese e istituzioni extra-distrettuali) con molteplici scopi: procurarsi informazioni tecniche particolari, prevedere l'andamento futuro della domanda (l'economista industriale americano M. Porter , a tal riguardo, sottolinea come i distretti del "Made in Italy" italiani siano un passo avanti agli altri poiché sfruttano quella che sembra, a prima vista, una debolezza strutturale del nostro paese: un sistema distributivo "antiquato" composto da una miriade di negozietti, che, essendo a stretto contatto con il cliente finale, sono in grado di trasmettere istantaneamente alle imprese del distretto i cambiamenti di gusto riscontrati), ammortizzare i costi di ricerca o di strutture particolari (come quelle di un ufficio legale, o di lobbying).


1.8 Alcune considerazioni storiche e sociologiche

Numerosi sono gli elementi di ordine storico e sociologico che influenzano l'analisi e la stessa nascita dei distretti industriali. Si può dire che la stessa rivoluzione industriale sia nata dalla divisione del lavoro attuata all'interno dei distretti tessili del Lancashire del Sud, col sistema del "putting out" che sfruttava il lavoro a domicilio delle donne, mentre i maschi venivano occupati in lavori più pesanti e si cominciava a spopolare la campagna (anche per effetto di nuove tecniche di coltivazione che non richiedevano notevole forza lavoro). Ci si è spesso chiesti perché tutto ciò sia nato proprio in Gran Bretagna: la religione anglicana e protestante in generale, la rivoluzione del 1688 ("the glorious revolution") con a capo Cromwell, ma che vedeva un intero popolo prendere coscienza dei propri diritti e una monarchia arretrare in modo incruento, lo strapotere commerciale nei mari di mezzo mondo sono buoni motivi per spiegare tutto ciò. Più di uno studioso (a cominciare dal Max Weber di "L'etica Protestante e lo spirito del capitalismo" del 1904 sulla religione Calvinista per arrivare fino ai giorni nostri con l'Erich Fromm di "Avere o Essere?" del 1976, anche se partendo da punti diversi) ha sottolineato la funzionalità non solo della religione ma anche degli apparati curiali nell'affermazione dello spirito capitalistico e nel mantenimento dello status quo senza eccessivi sommovimenti di popolo - relazione condizionale, della religione all'economia, che costituisce un'importante alternativa metodologica al materialismo storico, che postula la dipendenza di ogni processo storico dalla struttura dei rapporti sociali di produzione-, aspetto questo che si può misurare con particolare efficacia proprio in contesti più ristretti come quelli dei primi distretti

Questa particolare spiegazione storica darebbe significato anche alle diversità dimensionali e di funzionamento riscontrate nei distretti industriali giapponesi rispetto a quelli occidentali. Una società più conservatrice (anche per certe dottrine shintoiste e buddhiste, basate sulle distinzioni immutabili di casta con la "valvola di sfogo" della reincarnazione), la maggiore propensione al risparmio, ed un posto di lavoro che si mantiene per tutta la vita spiegano le rigidità maggiori di quei distretti sia in termini di funzionamento e di figure coinvolte (meno numerose e variegate) che di dimensione media delle imprese (in genere doppia o tripla rispetto alle nostre) ; di fatto hanno anche un peso minore di quelli italiani nella loro bilancia commerciale. I distretti giapponesi specializzati nella produzione di coltelli di alta qualità, ad esempio, sono molto più addensati dei nostri nelle grandi città e, come strategia commerciale, badano ad acquisire da subito una consistente quota di mercato.

Tornando in Italia, si è tentata più volte la strada "storica" per spiegare prima lo sviluppo del Settentrione, con le relative zone ad alta industrializzazione, e poi per dare conto dell'arretratezza cronica di larga parte del Mezzogiorno. Contro la tesi dei meridionalisti classici (come Giustino Fortunato) che attribuivano lo stato delle cose alla povertà naturale della terra, si contrappone la tesi di B. Croce . Questi attribuisce all'esperienza comunale (1200-1300) l'efficienza delle popolazioni settentrionali, mentre nel Mezzogiorno la sua mancanza avrebbe fatto persistere il latifondismo e in generale un'economia dai tratti feudali ancora nel 1800, condizione che ha impedito l'emergere di gruppi sociali innovatori e la progressiva formazione di istituzioni sociali favorevoli allo sviluppo del capitalismo. Su questa situazione già deficitaria per il Sud, si è avuto il potenziamento della rete viaria e ferroviaria settentrionale per esigenze logistiche dettate dalla I guerra mondiale e l'abbandono del Mezzogiorno (come sostenuto da M. Finoia ). Tesi che contrasterebbe parzialmente con quella di Capecelatro e Carlo , per i quali la condizione fondamentale per l'accumulazione capitalistica settentrionale è da rinvenire nella distruzione della nascente e già sufficientemente sviluppata industria meridionale. La teoria di causazione cumulativa di Gunnar Myrdal nell'un caso e nell'altro spiegherebbero perché poi i distretti industriali del Nord sono decollati e quelli deboli del Sud sono declinati, eccezion fatta per alcune industrie di punta (i guantai napoletani, ad esempio), situate in una zona dove la domanda è sempre elevata (l'area urbana di Napoli).

La realtà distrettuale può dare spunto per l'applicazione di più di un concetto di sociologia. Nei suoi scritti più recenti, Becattini ha evidenziato come la realtà produttiva dei distretti e la rete sociale che inevitabilmente essi sottintendono sia la migliore garanzia contro "l'incertezza" di un mondo estremamente competitivo. La possibilità di trovare comunque un lavoro in una realtà conosciuta, magari con altre mansioni, renderebbe più appetibile restare in loco piuttosto che emigrare verso le grandi zone inurbate. Il distretto, per altro verso, sarebbe anche un'assicurazione contro le congiunture economiche negative: difatti, dando lavoro a molti membri della famiglia è come se si creasse un "salvagente". Se il capofamiglia perde il lavoro, il tenore della famiglia viene in gran parte garantito dai figli e dalla moglie che lavorano in altre aziende. Molti studi fatti in questo senso confermano la tendenziale stabilità dei livelli di reddito di una famiglia che vive e lavora in un distretto, rispetto ad una famiglia simile (per componenti e struttura) non immersa in un contesto del genere.

L'importanza di questi contributi interdisciplinari (specialmente sociologia e filosofia) riguarda anche la divisione del lavoro e l'interdipendenza tra soggetti coinvolti in quel processo. Herbert Spencer - in piena età Vittoriana - ha sostenuto che una società può esistere solo quando la cooperazione è presente tra un gruppo di individui e, sulle sue orme, Emile Durkheim identifica l'organizzazione del lavoro, che incorpora i principi di specializzazione delle funzioni e della divisione del lavoro, come un principio esplicativo sia dell'evoluzione biologica che di quella sociale, in armonia con il costume dei suoi tempi di applicare le scoperte di Darwin alla teoria sociale; il sociologo francese è anche il teorico dei "corpi intermedi" - richiamati di recente anche da Giuseppe De Rita, presidente del CENSIS -, cioè di quelle entità intermedie tra individui e stato che consentono alla società di vivere liberamente. In particolare la vita del distretto, vista specialmente in contrapposizione con quella della grande impresa fordista (organizzata secondo i criteri tayloristici secondo cui "l'uomo è parte della macchina"), riesce a eludere i problemi legati alla parcellizzazione delle mansioni. Questa, difatti, può divenire così complessa che l'individuo alla lunga non vede il proprio ruolo integrato con quello degli altri, diventa psicologicamente disgregato e smarrito (questa potenziale malattia viene denominata da Durkheim "anomia", potendo portare ad una delle tre tipiche forme di suicidio: il suicidio anomico). Per evitare questa malattia, il lavoratore non deve "perdere di vista i suoi collaboratori" , e deve essere consapevole del fatto che "egli agisce nei loro confronti e reagisce ad essi". Lo stesso Karl Marx, con la sua distinzione tra obiettivizzazione e alienazione, contenuta nei suoi scritti giovanili ("Manoscritti economico-filosofici" del 1844) ha approfondito questo aspetto.



Più in generale, l'apporto della sociologia oggi è sentito come necessario una volta constatato che il valore di un bene non è dato tanto dalle "ore-lavoro" in esso incorporato quanto dalla sua utilità marginale; il dato a cui si deve risalire per spiegare i rapporti di scambio tra i beni è la struttura delle preferenze del consumatore (che, è chiaro, è influenzata ed influenzabile da elementi esterni all'individuo, come la società nel suo complesso) piuttosto che la quantità di lavoro incorporato, come avveniva nella teoria ricardiana.


1.9 Nuovi stimoli di ricerca: parallelismi con la biologia e la fisiologia del cervello.

La parte sociologica dell'approfondimento sulle dinamiche distrettuali nel pensiero di Becattini introduce una visione "biologica" della sua evoluzione. Il distretto, cioè, nasce, vive e muore secondo certi stimoli e con delle aspettative che ricordano quelle di un essere vivente. Si tratta di una svolta non del tutto rivoluzionaria nel modo di impostare lo studio dell'economia, e che risente degli insegnamenti di Herbert Spencer e J. S. Mill. Il primo, in particolare, delinea la sua biologia che fonde il principio lamarkiano della "funzione che sviluppa l'organo" con quello darwiniano della "sopravvivenza del più adatto", concependo la vita come adattamento degli organismi all'ambiente in riferimento all'accumularsi di variazioni funzionali che sempre meglio rispondono alle esigenze ambientali (e che poi si trasmettono alle generazioni successive secondo la legge de "i caratteri acquisiti"). La stessa legge spiega lo sviluppo della psiche umana individuale e degli organismi sociali.

Becattini ha modo di parlare di questi nuovi filoni di ricerca durante la sua ultima lezione tenuta presso l'Università degli studi di Firenze. In particolare, riprende i suggerimenti di J.S. Mill sull'etologia, come campo di partenza per lo studio della società e le suggestioni etnologiche ed antroplologiche dello stesso Marshall. Tutto questo per uno scopo preciso: una volta restituita l'economia al suo terreno originario di scienza della società, si possono recuperare all'ambito dell'analisi scientifica le grandi domande sulla produzione e la distribuzione della ricchezza sociale.

Interessante a questo proposito è il parallelo che si può fare tra il funzionamento della mente umana e la società prima e il distretto industriale poi (come forma miniaturizzata della società di un contesto territoriale). Marshall in alcuni scritti giovanili e poi F. Von Hayek hanno intuito che la mente costruisce le risposte abituali agli stimoli esterni attraverso percorsi di routine che le fanno risparmiare energie: quelle energie che essa può impiegare per compiti nuovi e creativi. Più precisamente, il cervello umano funziona così: l'amigdala è l'archivio della memoria emotiva del cervello, che, in caso di panico, emette impulsi tramite i quali le ghiandole surrenali secernono adrenalina (tensione) e noradrenalina. Per evitare che ci siano emissioni di ormoni (cortisolo) fuori controllo da parte dell'amigdala in situazioni di pericolo , i lobi prefrontali (dove risiede la nostra memoria di lavoro, il centro esecutivo) hanno il potere di inviare neuroni inibitori in grado di bloccare le direttive che l'amigdala invia loro. Questa guerra tra neuroni stimolatori ed inibitori si gioca nella frazione di un secondo, ed in genere i neuroni stimolatori inviati dall'amigdala sono più veloci, dovendo far fronte a situazioni di pericolo. Su questo sistema di "autostrade neuronali" (come quella che collega i lobi prefrontali all'amigdala) si basa anche la capacità di apprendimento, come la padronanza di sé ed altre qualità caratteriali. Apprendere e disapprendere (qualsiasi cosa: da un comportamento ad una lezione scolastica) avvengono a livello di connessioni cerebrali. Mentre acquisiamo il nostro repertorio abituale di pensiero, sentimento e azione, le connessioni neurali alla base di quel repertorio vengono rafforzate, diventando le vie di trasmissione preferenziali degli impulsi nervosi . Fra due risposte alternative, prevarrà quella che si avvale della rete di neuroni più ricca e forte. Una volta che le abitudini sono state bene apprese, attraverso infinite ripetizioni, per il cervello i circuiti neurali che le sostengono assumono il carattere di opzioni "default": in altre parole, noi agiamo in modo automatico e spontaneo. La neocorteccia, poi, ossia gli strati più superficiali del cervello, che ci conferiscono la capacità di pensare, è un importante eredità anatomica dell'esigenza umana di riunirsi in gruppi. Le sfide adattive che più contano per la sopravvivenza di una specie sono quelle che la spingono a cambiare mentre si evolve. Operare in un gruppo coordinato (come è quello delle imprese che all'interno di un distretto più spesso operano insieme, in modo abituale) richiede comunque un elevato livello di intelligenza sociale (cioè sapere gestire i rapporti inter-impresa: sapere gestire le gerarchie di dominanza, gli scambi di favori e una mole enorme di informazioni). Nel regno animale solo i mammiferi hanno una neo-corteccia

Ora, in un parallelo con il funzionamento dei distretti industriali (ma la società nel suo complesso funziona allo stesso modo, come suggerisce lo stesso Becattini), si può dire che la liberazione di energia creativa riguarda solo una parte ristretta di uomini: mentre sulla maggior parte di essi pesa il giogo della routine e della spersonalizzazione (con i relativi problemi di anomia, per ricordare la lezione di Durkheim ). Il parallelo in questione, tra funzionamento interno del cervello e comportamento degli attori presenti nei distretti, è comprensibile se osserviamo che la dimensione media della piccola impresa di quel contesto è sui 6-7 operai  (e molto spesso si tratta di membri della stessa famiglia, cioè di unità molto coese al loro interno), e che nel distretto la comunanza di obiettivi e valori (omogeneità culturale) fa muovere le imprese come se vi fosse un'unica mente, con le sue paure, i suoi calcoli, le sue preferenze. Se questo è vero, bisogna anche dire che l'ambito distrettuale è quello in cui le funzioni routinarie sono le meno presenti, e ciò è ancora più vero nei distretti italiani specializzati nel Made in Italy, essendo invece massima sia la spersonalizzazione che la routinarietà nella grande impresa (dove, come rimedio, spesso si è cercato di utilizzare metodi di "job enrichment" o costituzioni di team interfunzionali). La routine produce schemi consolidati di risposta (sia sui mercati del lavoro, o dei macchinari usati, che sui mercati esterni), per cui essendo poco sviluppata (almeno rispetto alle imprese verticalmente integrate), spiega le risposte sempre diverse delle imprese distrettuali, specialmente nella competizione globale (è da sottolineare come siano state proprio le esportazioni dei distretti italiani a salvare l'Italia dalla crisi dei primi anni novanta: esportazioni che, tra l'altro, sono aumentate anche dopo che la Lira è rientrata nello SME e non si poteva invocare la svalutazione competitiva per giustificare le brillanti performance del Made in Italy ). Alla stessa stregua, molto più sviluppata è la capacità delle imprese distrettuali di monitorare i cambiamenti nel gusto (preferenze) dei consumatori: sembra, questo, un paradosso se solo si pensa ai complessi uffici-studio delle multinazionali. La dipendenza proprio da quei mutevoli gusti della clientela tiene i livelli di attenzione dell' "amigdala di distretto" particolarmente alti, così come molto più sviluppata è anche la neo-corteccia, ossia la capacità di gestire rapporti con un numero elevato di imprese, sia in concorrenza (intra ed extra-distrettuale) che in cooperazione.

A livello di società, questa analogia con la fisiologia cerebrale viene utilizzata da Marshall per dare una risposta nuova al "fondo salari". Questo problema, che collegava emblematicamente l'analisi della produzione con quella della distribuzione della ricchezza, aveva bloccato la riflessione economica inglese ai tre quarti dell'Ottocento; impasse che rivelava le difficoltà della teoria economica pura (e che J.S. Mill aveva risolto asserendo che le leggi di produzione sono immutabili, mentre quelle di distribuzione possono variare col tempo e sono permeabili a cambiamenti sociali e legislativi). Nella risposta di Marshall, il salario fissato entro i limiti del fondo-salari è il frutto della produzione routinaria, in cui la produttività aumenta solo grazie ad un progresso tecnico che spersonalizza ancora di più i lavoratori. Ma il salario si può liberare da questi vincoli e crescere, se l'aumento della produttività si basa non più sul progresso dell'automazione, bensì sulla qualificazione del lavoro, e quindi sul raffinamento del consumo operaio. Questa svolta si è effettivamente verificata nel secondo dopoguerra, quando all'aumentata ricchezza di fasce più ampie della popolazione (che comprendono buona parte di quello che si chiamava il proletariato) è seguito un aumento dei consumi voluttuari (o "signorili", direbbe Marx), un affinamento dei gusti, una minore sensibilità al prezzo ed una riqualificazione anche dell'offerta, con relativa posizione di forza del nostro Made in Italy. Il fattore che ha determinato l'aumento della disponibilità monetaria è individuabile nella stabilità monetaria, ma soprattutto nella produzione di beni durevoli e di consumo a basso prezzo (per effetto dell'organizzazione fordista della grande impresa), e questo effetto ora mette in discussione proprio l'offerta di quest'ultima (che non gode più di posizioni di monopolio).

Un nuovo percorso di ricerca che, partendo dalle reti neurali, affronta l'interazione tra agenti economici e territorio, è dovuto al lavoro di D. Marino . L'intuizione di base è che i sistemi economici, i sistemi territoriali e i sistemi urbani sono dinamicamente interconnessi, e presentano interessanti proprietà di apprendimento, auto-organizzazione e di auto-rafforzamento. Parallelamente a questo, si possono utilizzare modelli di simulazione di sistemi economici costituiti da agenti artificiali tra di loro interagenti; ciò permette di descrivere il comportamento di sistemi complessi in cui gli agenti presentano razionalità limitata, comportamenti erratici, apprendimento, imperfetta capacità di scelta. Si tratta di due approcci distinti e paralleli, ma che hanno in comune la modellizzazione del funzionamento dei "neural networks", e permettono di tenere conto di fenomeni di "learning" e di "memory". Ciò che rende tutto questo discorso interessante da un punto di vista economico, è che il sistema si basa su tre dinamiche caratteristiche: attivazione, apprendimento, iterazione. In pratica una rete neuronale è in grado di imparare un modello prestabilito, e può adeguarsi flessibilmente a situazioni complesse e mutabili nel tempo. Grazie a queste proprietà, le reti neurali si rivelano importanti nella costruzione di modelli economici. La capacità di auto-organizzazione è estremamente rilevante per i sistemi spazialmente estesi, in quanto permette di poter descrivere la proprietà di riconfigurazione del sistema e la sua capacità di reagire ad una perturbazione esterna.

Il Trait-d'union tra i "neural networks" e l'economia sta nel concetto di Sistema Economico Territoriale (SET): "L'economia non può costruire teorie senza tenere presente il territorio, uno spazio in cui le varie componenti, agenti economici e fattori ambientali, interagiscono e trovano una loro sintesi" . Introducendo, pertanto, la nozione di Sistema Economico Territoriale come unità di analisi, si ritiene che si possano compiere dei passi nella direzione dell'accrescimento della capacità interpretativa, allorché viene ricercata una sintesi tra sistema di produzione, conoscenze tecnologiche incorporate a livello territoriale ed istituzioni locali. Un SET, cioè, risulta costituito dalla interconnessione tra sistema di produzione, dotazione di conoscenze tecnologiche e social capabilities. Mentre il sistema di produzione ha una connotazione prevalentemente materiale, le conoscenze tecnologiche e le social capabilities presentano una natura essenzialmente immateriale"

L'idea diffusa nelle politiche regionali "global think, local act" trova fondamento in questo modello, che peraltro ha in sé la coesistenza del binomio competizione-cooperazione. Dal punto di vista microeconomico, cioè, il sistema è caratterizzato da agenti che interagiscono localmente in maniera cooperativa. Una volta che è stato raggiunto una sorta di ordine locale, questo sistema entra simultaneamente in competizione con altri ordini locali raggiunti, per cui l'equilibrio complessivo è dato dalla competizione di questi ordini locali.

Per quanto riguarda l'altro sentiero di ricerca, rappresentato dai modelli con agenti artificiali interagenti, la rete neurale viene assimilata ad un agente che agisce induttivamente. Questa caratteristica consente l'adattamento all'ambiente esterno (rete self-tuning). Questi schemi di comportamento, inseriti all'interno del SET, consentono la modellizzazione di molti fatti economici; soprattutto consentono di tenere conto dei diversi tipi di razionalità degli agenti. Accanto a coloro che agiscono secondo i criteri di una razionalità assoluta (ad esempio secondo i modelli delle "aspettative razionali"), vengono inclusi anche quelli che presentano comportamenti a razionalità limitata, o irrazionali.




A. Marshall, " Industry and Trade. A study of industrial technique and business organization", Macmillan & Co, London, 1919. Grazie a questo interesse per il distretto marshalliano, Marco Balestri nel 1981 ha provveduto a tradurre di nuovo l'altra opera fondamentale del nostro :"Priciples of Economics".

A. Marshall, "Principles of Economics", Macmillan & Co, London,1890; trad. italiana "Principi di Economia", UTET, Torino, 1959; per un'antologia dei principali scritti di Marshall, e per consistenti brani di "Industry and Trade", si consulti: G. Becattini (a cura di), "Marshall.Antologia di scritti economici", Il Mulino, Bologna, 1981.

G. Becattini ,"Il distretto industriale: un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico" ,Rosenberg & Selier,Torino, 2000.

Ronald Coase, "The nature of the firm", in Economica, n.4, 1937, trad it., "La natura dell'impresa",in M. Egidi e M. Turvani (a cura di)"Le ragioni delle organizzazioni economiche", Rosenberg&Sellier, Torino, 1994, pp.141-162; l'autore è stato insignito del Nobel per l'economia nel 1991.

L. F. Signorini "Una verifica quantitativa dell'effetto distretto", Sviluppo Locale, Firenze, IX 1994; A. Baffigi, M. Pagnini e F. Quintiliani, " Industrial Districts and Local Banks: do the twins ever meet?", Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d'Italia, Marzo 1999.

W. Alonso, "Teoria della localizzazione", in Analisi Regionale, a cura di L. Needleman, Franco Angeli, Milano, 1973.

F. Barca, nel suo "Storia del capitalismo italiano. Dal dopoguerra a oggi", Donizelli Editore,Roma, 1999, accenna brevemente all'esperienza dei banchieri fiorentini e vi attribuisce addirittura il merito di avere inventato la politica, almeno quella più vicina ai giorni nostri, fatta di contatti e mediazioni.

G. Biondi, "Mezzogiorno produttivo: il modello solofrano" Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1984.

Nel suo lavoro, "Come nascono i distretti industriali", Laterza, Bari, 2000, G. Viesti affronta anche il problema della individuazione statistica dei D I, e cerca di spiegare teoricamente l'aggregazione distrettuale con le teorie della Nuova Geografia Economica e gli apporti di Paul Krugman, autore di "Geography and trade", Leuven University Press, Leuven, Belgium; trad. it. "Geografia e commercio internazionale" Garzanti, Milano, 1995.

Lorenzo Infantino, docente di Sociologia Economica presso la LUISS "Guido Carli" di Roma, nella prefazione a: Ludwig Von Mises, "La mentalità anticapitalistica", Armando editore, Roma,1988.

Paul Krugman, "Geography and Trade", già citata.

Per una disamina esaustiva dei principali stimoli di ricerca di questa scuola, si veda: Ottaviano, G. e Puga, D.,"Agglomeration in the global economy: a survey of the New Economic Geography", World Economy, vol. 21, 1998. In breve, la NGE assume che i rendimenti di scala siano sempre crescenti e che il commercio sia economicamente possibile (cioè i costi di trasporto non sono molto alti), per cui anche a parità di tecnologia, preferenze e dotazione di fattori iniziale, lo sviluppo di due regioni può divergere in base a fenomeni di agglomerazione che seguono due meccanismi distinti:

i)     l'effetto di domanda, per cui la regione col mercato interno più vasto, avendo una maggiore produttività grazie ai rendimenti di scala crescenti, tende a divenire la regione esportatrice (home market effect);

ii)       l'integrazione verticale delle imprese: la rilocalizzazione aziendale produce un cambiamento sia nella domanda che nella offerta di prodotti, per cui la regione che riceve nuove imprese ne guadagna sia in termini di maggiore offerta di prodotti che di maggiore domanda.



Di recente, Krugman ha individuato anche un terzo fattore di agglomerazione: la mobilità del fattore lavoro. Infatti, nel caso in cui una regione sfrutti meglio di un'altra le economie di scala (core-periphery model) , la regione "nucleo" pagherà stipendi più elevati della periferia, attraendo così nuovi lavoratori, e quindi ampliando ancora il mercato interno ed il divario tra le due regioni.

A. Graziani (a cura di), "Lo sviluppo di un'economia aperta", ESI, Napoli,1969 e A. Graziani "Lo sviluppo dell'economia italiana - dalla ricostruzione alla moneta europea", Bollati Boringhieri, Torino, 1998.

Williamson W., "Markets and Hierarchies", New York, Free Press, 1975; trad it. "Mercato e Gerarchie", in R. Nacamulli e A. Rugiadini (a cura di), "Organizzazione & Mercato", Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 161-186.

Su questa linea di pensiero si colloca l'approfondimento di G.F. Esposito "Impresa e mercato:alcune ipotesi interpretative sulle dinamiche evolutive dei distretti industriali", Working Papers dell'Istituto Guglielmo Tagliacarne, Roma,1994.

Per investimento idiosincratico, nell'economia dei costi di transazione, si intende quell'investimento "firm specific" ossia sostenuto dall'impresa in vista di un unico contratto con un un'unica impresa, ed i cui costi non sono ammortizzabili per altri contratti (sunk costs).

Più avanti daremo conto in modo più approfondito della ricerca di F. Signorini, fatta a partire dalla riclassificazione dei dati di bilancio di 500 imprese del settore laniero, con dati della Centrale dei Bilanci della banca d'Italia.

Per un utile approfondimento statistico, si veda il rapporto: "Le regioni insulari ed il prezzo del trasporto delle merci intracomunitario", a cura di Eurisles, 1998. In particolare vi sono indicati i sovra-costi che regioni come Sicilia , Sardegna e Calabria devono sostenere per raggiungere l'Europa continentale.

G. B. Richardson, "The organisation of industry", in Economic Journal, 1972, pp. 883-896.

Oltre all'opera già citata, vedi anche Williamson O. E. "L'organizzazione economica", Il Mulino, Bologna, 1991.

Adamo Smith, "La ricchezza delle nazioni", UTET, Torino,1975.

Per approfondimenti, si consulti: Del Monte, A.,"Manuale di organizzazione e politica industriale", UTET, Torino, 1994. In merito ai distretti, vi si legge:"Alla base del distretto industriale come organizzazione produttiva efficiente vi è l'idea che non sia possibile distinguere fra dimensione minima di impresa e dimensione minima di produzione. In sostanza si ipotizza che il conceto di impianto minimo efficiente non coincida necessariamente con la dimensione ottima dell'impresa in quanto le varie fasi potrebbero essere svolte da più imprese con una sola che si occupa della fase finale".

Il risparmio di costo (Cmine - Cming), che si può avere passando dalla DME alla DOM, non risulta conveniente, poiché molto onerosi (non solo in termini monetari ma anche di maggiore rigidità) risultano gli investimenti per passare da CPe a CPg (il maggior volume di produzione cumulato che si ottiene con l'impianto più grande). Ecco perché l'impresa distrettuale, confidando nella cooperazione che scaturisce da una maggiore divisione del lavoro, preferisce restare più piccola del livello ottimo di impianto (DOM).

Piero Tani, "La decomponibilità del processo produttivo", in G. Becattini "Mercato e forze locali :il distretto industriale", Il Mulino, Bologna, 1987.

Nicholas Georgescu Roegen, "Analisi economica e processo economico", Sansoni, Firenze, 1973.

Per un'analisi comparativa di queste due zone vedi: "Istituzioni politiche e sviluppo locale nella Terza Italia", di Anna Carola Freschi, in Sviluppo Locale, n.1,Passigli Editore, Firenze,1994.Uno studio più recente su queste due zone, e sul diverso modo di agire delle rispettive istituzioni locali a sostegno dei distretti (tramite lo strumento della programmazione negoziata) è dovuto a Patrizia Messina, dell'Università di Padova: si veda "La regolazione nei sistemi locali: alcune notazioni critiche", dagli atti del convegno "Sistemi, Governance & conoscenza nelle reti di impresa", tenutosi presso l'Università di Padova il 17 e 18 maggio 2001.

Per uno studio approfondito della vicenda, vedi: G. Solinas, "Competenze, grandi imprese e distretti industriali -il caso della Magneti Marelli" in Rivista di Storia Economica, Einaudi, vol X/1993

M. E. Porter, "Il vantaggio competitivo delle nazioni", Mondadori, Milano, 1991.

M. Weber, "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", BUR, Milano, 1993.

E. Fromm, "Avere o essere?", Arnoldo Mondadori Editore, Milano,1977.

Un brano dello storico Jaques Le Goff, facendo la cronaca di una giornata tipo della Francia medioevale del 1300, narra di come le campane delle chiese del villaggio scandissero l'orario lavorativo.

Okamoto,Y.,"Distretti italiani e distretti giapponesi: similarità e differenze", Il Ponte, nn. 7/8, Firenze, 1994.

B. Croce, "Storia del Regno di Napoli", Laterza, Bari, 1944.

M. Finoia intervistato da Paolo Martini a RadioRadicale, il 22 aprile 2001. Lo studioso napoletano, già Rettore del Terzo Ateneo di Roma, è deceduto il 16 Giugno scorso a Roma.

Capecelatro E. M. e Carlo A., "Contro la questione meridionale", Samonà e Savelli, Roma, 1972.

G. Myrdal, "Teoria economica e paesi sottosviluppati", Feltrinelli, Milano, 1966, ed. originale "Economic Theory and Under-Developed Regions", Duckworth, London, 1957.

E. Durkheim, "De la division du travail social", Alcam, Paris, 1893; traduzione it. "La divisione del lavoro sociale", Edizioni di Comunità, Milano,1962.

"The latest lecture" di Giacomo Becattini, nella cronaca di Cosimo Perrotta, Università degli studi di Lecce, mimeo,2000.

Marshall,A. e M.P.,"The Economics of Industry",Macmillan Press,London,1879; trad. it a cura di G. Becattini,"Economia della produzione", ISEDI Istituto Edotoriale Internazionale, Milano,1975.

Hayek,F. A.,"The sensory Order: An Enquiry Into The Foundations of Theoretical Psychology", University of Chicago Press, Chicago,1952.

In pratica l'amigdala funge da campanello d'allarme interno; essa si impernia su una serie di strutture che circondano il tronco cerebrale, note come sistema "limbico".

Le connessioni che non vengono usate,invece, si indeboliscono e vanno addirittura perdute.

Daniel Goleman "L'intelligenza emotiva", Rizzoli, Milano,1996.A tal proposito, a pag.96 vi si legge anche: "Fra i primati (noi umani compresi) il rapporto fra la neo-corteccia e il volume totale del cervello aumenta in modo direttamente proporzionale alle dimensioni tipiche assunte dal gruppo sociale nella specie in oggetto..in questa prospettiva, l'intelligenza sociale fece la sua comparsa molto prima che emergesse il pensiero razionale.d'altra parte, la neo-corteccia si evolse da strutture più antiche del cervello emotivo, ad esempio l'amigdala, e pertanto è saldamente allacciata ai circuiti delle emozioni".

Durkheim,E."La divisione del Lavoro sociale",già citato.

Per dati particolareggiati sull'export dei distretti, si veda il capitolo successivo.

D. Marino, " Sistemi economici territoriali, reti neurali e automi cellulari: modelli teorici e un'applicazione empirica", Rassegna Economica,nn. 3-4, 1996.

D. Marino, Ibidem.

Ibidem.






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