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I distretti industriali nel Mezzogiorno degli anni'90: progetti e realizzazioni - La Campania

economia



I distretti industriali nel Mezzogiorno degli anni'90: progetti e realizzazioni


La Campania


Al di là del riconoscimento avvenuto per legge (ricordiamo che la Campania, insieme ad Abruzzo e Sardegna, è l'unica delle regioni meridionali che si sia adoperata nella applicazione della legge n. 317/1991), lo stato di salute del tessuto produttivo campano è stato oggetto di indagini empiriche accurate negli ultimi 6 anni. I lavori di Liliana Bàculo e Gianfranco Viesti, seppure da angolazioni diverse, hanno cercato di appurare l'esistenza di distretti industriali marshalliani (quindi non solo di quelli tal 333f58d i "ope legis") in una realtà che pure è stata aiutata, con finanziamenti agevolati di diverso tipo, nei cinquant'anni di storia repubblicana, ed hanno cercato di fare luce sul trend attuale, per dedurne eventuali correzioni o aggiustamenti in materia di politica economica. Va subito detto che la realtà, come oggi si presenta, ha ben pochi segnali di vivacità, se si eccettua la zona di Grumo-Nevano e Arzano, che presenta incoraggianti dati sul terreno delle esportazioni e sullo sviluppo di una imprenditorialità diffusa (seppure tra mille difficoltà), ed il distretto conciario di Solofra. Al di là di queste due esperienze, rimane il settore conserviero dell'agro nocerino sarnese, che, pur presentando buone performance, non rientra nell'ambito dei distretti industriali classici, per l'assenza di una vera e propria disintegrazione del processo produttivo e di un sufficiente grado di concorrenza in tutte le poche fasi della lavorazione. Se analizziamo, invece, la condizione dell'economia generale campana, si notano dei fermenti, qualcosa che comincia embrionalmente ad assumere le sembianze di un distretto.



La situazione di partenza della regione Campania, va precisato, era del tutto differente dalle altre regioni meridionali. La zona di Napoli, con il suo vasto comprensorio, aveva conosciuto episodi di industrializzazione di una certa importanza sin dalla metà del 1800 in molti settori, dalla siderurgia alla meccanica, dal tessile (Il Canapificio Napoletano di Frattamaggiore risale al 1908) alle calzature, e, più in generale, diffusissima era una capacità artigiana di ottimo livello, poiché serviva a soddisfare la domanda ingente e sofisticata proveniente dal grande centro urbano di Napoli, da sempre considerato la capitale del Mezzogiorno. Nel Salernitano, altri fenomeni di industrializzazione diffusa sono ascrivibili all'impianto di moderni stabilimenti da parte di industriali svizzeri (la Vonviller a Salerno dal 1830, la Werner ad Angri dal 1835 e la Mayer-Zollinger a Nocera dal 1876) che, in parte decentrando la produzione e sfruttando anche lavoranti a domicilio, in parte diffondendo know-how specifico relativo ai macchinari usati in fase di manutenzione, hanno consentito il radicamento di una buona tradizione nella produzione del cotone. Dopo l'ultimo conflitto mondiale una parte di questi impianti è stata salvata grazie all'intervento pubblico, ed in genere l'artigianato riusciva a godere di buona salute per effetto di un mercato locale dalla domanda stabile. Questa situazione, nella interpretazione di G. Viesti, poteva reggere fin tanto che il mercato meridionale restava una "riserva" dei produttori meridionali, cioè fino a che il sistema dei trasporti restava inadeguato e non permetteva ai prodotti delle aziende settentrionali (ottenuti con tecnologie moderne, e a maggiore produttività sia del capitale che del lavoro) di raggiungere queste zone a costi ragionevoli. Quando si è costruita l'autostrada del Sole, e quando la televisione ha provveduto ad omogeneizzare i gusti della popolazione, per il piccolo artigiano locale non c'è stato più nulla da fare, ed ha pertanto finito con l'ingrossare i flussi migratori verso il Settentrione. Pur tuttavia Le rilevazioni ISTAT, basate sui Sistemi Locali di lavoro (e quindi non sui distretti in senso stretto), comparando l'andamento dal 1951 al 1991, mostrano una situazione di tendenziale stabilità occupazionale di queste aree (si passa da 54.628 addetti del 1951 a 52.756 nel 1991). Evidentemente è cambiata la specializzazione produttiva e la collocazione geografica della produzione distrettuale: il tessile ha subito un lento declino, accomunando le sorti della Campania a quelle del Nord Ovest del paese, mentre hanno guadagnato in termini di fatturato e di occupati il settore dell'abbigliamento e del calzaturiero, mostrando dinamiche simili a quelle del Nord Est e della dorsale adriatica. La congestione dell'area metropolitana di Napoli, dovuta anche a fenomeni evidenti di speculazione edilizia e ad abusi di vario genere, ha indotto la gran parte delle imprese e delle botteghe a localizzarsi in periferia, accrescendo la popolazione dei paesi che fino ad allora traevano sostentamento principalmente dall'agricoltura. Sia in termini assoluti che relativi (basti pensare che, sempre sulla base delle rilevazioni ISTAT 1951, i 4 distretti intorno a Napoli hanno 18.814 addetti, cioè quanto gli altri 21, sparsi per il resto del Mezzogiorno) la realtà campana era e resta di tutto rispetto. Tuttavia, se passiamo all'analisi delle singole realtà distrettuali vediamo grosse differenze.

I casi di eccellenza sono rappresentati dal distretto dell'abbigliamento di Arzano-Grumo Nevano, da quello calzaturiero che, oltre ai precedenti comprende anche i comuni di Melito e Casalnuovo, e quello della concia della pelle di Solofra. Accanto a questi, si fa notare il distretto dell'abbigliamento che gravita attorno ai comuni di Terzigno e San Giuseppe Vesuviano, nella zona a sud del capoluogo. Si tratta di realtà che vanno esaminate singolarmente per capirne i punti di forza e di debolezza. Il primo distretto, quello dell'abbigliamento del nord Napoletano, si è talmente sviluppato negli ultimi 20 anni, che è andato a lambire anche comuni come Aversa e Caserta, ed oggi genera un fatturato stimato in almeno 600 miliardi, di cui più di un terzo all'export, e dà occupazione ad oltre 8.000 addetti, in 1820 unità locali, dalle dimensioni estremamente contenute. Punta di diamante di questa miriade di imprese è la Kiton di Ciro Paone, sita nell'ASI di Arzano, specializzata nella lavorazione sartoriale di vestiti per uomo (di recente si è inserita nell'abbigliamento femminile e nella produzione di accessori da uomo: cravatte e camicie). Si tratta di una impresa di successo che riesce a garantire delle condizioni sul posto di lavoro assolutamente privilegiate, che vanno dall'asilo per i figli delle operaie, alla mensa con cibi non surgelati, cotti giorno per giorno. La peculiarità, che poi ha rappresentato anche il motivo di successo per la Kiton, è data dalla lavorazione manuale delle parti della giacca più difficili, dal capospalla al taschino. Sono pochissime e marginali le fasi della lavorazione delegate all'esterno. C'è invece una fascia, molto più consistente numericamente, detta "intermedia" (in cui ricadono altre esperienze di successo come la Sartoria Attolini, la Sartoria Napoletana e la Luigi Borrelli per le camicie), che innesca il vero e proprio meccanismo distrettuale: sono imprese che cercano di conservare all'interno funzioni come il design, il taglio e la commercializzazione, mentre una parte del processo di lavorazione, così come la cucitura e la stiratura vengono di volta in volta date a imprese "terziste" (da 4 a 8) della zona, in concorrenza tra loro. Esse danno vita ad una produzione che generalmente si assesta su livelli piuttosto alti, e che perciò fa ben sperare sulla capacità di tenuta sui mercati internazionali. Il numero elevato tanto di committenti che di terzisti evita "colli di bottiglia" o posizioni dominanti da parte di poche imprese, ed incentiva, per contro, situazioni di apprendimento per imitazione. Numerosissimi sono i casi, poi, di piccoli lavoranti che iniziano dalle operazioni più semplici (come il taglio dei pantaloni) senza formazione particolare, semplicemente perché hanno cominciato ad apprendere i rudimenti del mestiere da amici che già svolgono quella attività o da altri familiari. In questo stadio iniziale, diverse unità produttive usano accettare lavori anche più complessi rispetto alle loro conoscenze, salvo poi smistare sotto-fasi della lavorazione a colleghi con cui sono in continuo contatto, e con cui formano vere e proprie squadre di lavoro. Altri terzisti, invece, sono nati su sollecitazione di "agenti" di aziende settentrionali che affidavano loro partite di abiti da cucire.

La possibilità di iniziare un lavoro in proprio è offerta dal fatto che le barriere all'entrata (ossia i costi fissi iniziali per intraprendere l'attività) sono molto contenute. In questa panoramica di esuberante attività economica non mancano i lati negativi, i punti interrogativi che se non risolti in modo solerte potrebbero far morire per asfissia questo distretto. Innanzitutto mancano le aree attrezzate: la stessa area ASI in cui sorge la Kiton è priva di illuminazione, di servizi di pulizia e di una segnaletica adeguata, tanto che gli imprenditori più volenterosi sono stati costretti a riunirsi in consorzio per provvedere direttamente alle esigenze più impellenti. Le deficienze degli enti pubblici non si fermano qui: i tempi per avere una licenza edilizia sono del tutto incompatibili con le esigenze di una gestione redditizia dell'impresa. I problemi ordinari di un qualsiasi distretto industriale (basti pensare alle esigenze di un moderno sistema viario ed autostradale avvertite anche dai distretti del Nord Est) vengono affiancati da ostacoli e "flagelli" tipici dell'economia meridionale: il lavoro nero e la malavita organizzata, o le più generiche richieste di sicurezza. Sono problemi annosi che cercheremo di affrontare in modo nuovo, meno "apparato-centrico" nel quarto capitolo. Per ora basti sottolineare, invece, un problema più strettamente avvinto al modo stesso di vivere ed organizzarsi del distretto dell'abbigliamento di Grumo Nevano-Arzano: non esiste un indotto industriale che costruisca gli attrezzi ed i macchinari necessari per il funzionamento del distretto, a tutti i livelli. Ci sono soltanto aziende concessionarie, emissarie delle case madri che si trovano al Nord, disposte al massimo a dare consigli sul corretto utilizzo delle stesse. In pratica c'è una dipendenza tecnologica dai distretti settentrionali, ed il rischio di utilizzare macchinari di "prima generazione" o eccessivamente costosi in rapporto alla tecnologia adottata è molto alto.

In questo distretto, accanto al settore dell'abbigliamento vi è quello specializzato in calzature da passeggio, prevalentemente da uomo, su fasce di mercato differenziate, che includono prodotti di qualità molto alta. Esso, però, non ha avuto il riconoscimento della Regione anche se i numeri sono di tutto rispetto: fatturato stimato di almeno 1.200 miliardi (di cui 330 all'export), occupazione di 10.000 unità distribuita tra 1.035 unità locali, dalla dimensione media più grande rispetto a quelle del distretto dell'abbigliamento, anche se più contenuta rispetto agli altri distretti meridionali. Fanno parte di questa realtà aziende rinomate a livello nazionale (come Melluso calzature, Ramirez e Mario Valentino), che hanno alle spalle un'esperienza pluridecennale : gioverà ricordare, infatti, che il distretto napoletano della calzatura ha dimensioni consistenti già nel 1951, quando dava lavoro a circa 7.000 addetti.

Menzione a parte merita invece il distretto di Solofra, in provincia di Avellino. Esso comprende solo 4 comuni, con una popolazione complessiva di 34.382 persone, in cui operano 208 imprese del settore conciario (ma solo la Albatross può dirsi di medie dimensioni, con i suoi 100 miliardi di fatturato, per il resto sono tutte realtà piccole o piccolissime) e 46 appartenenti al comparto della confezione in pelle (numeri, comunque, che devono tenere conto di un alto indice di rotazione delle imprese, che si spiega soprattutto con il fatto che molte di queste nascono e muoiono nell'ambito di gruppi familiari). Il totale degli occupati si attesta sulle 4.000 unità. Il fatturato (nel 1998) ha di poco superato i 1.000 miliardi, di cui 530 all'export (per lo più i paesi dell'Estremo Oriente, come Cina, Corea e Taiwan). La lavorazione principale riguarda la concia di pelli ovine e caprine di piccole dimensioni destinate all'industria calzaturiera, e prevede una serie di fasi intermedie (come l'inchiodatura) che vengono delegate ad imprese terziste. Il ricorso alla loro opera si spiega anche per un altro motivo: nel settore conciario la domanda si concentra in determinati periodi dell'anno (autunno), con forti sollecitazioni da parte dei clienti per la puntualità dei termini di consegna, e le imprese conciarie, se non facessero ricorso alle terziste, si vedrebbero costrette a continui licenziamenti e riassunzioni (vale qui lo stesso ragionamento che S. Brusco ha fatto sul distretto della maglieria di Carpi).

Quasi come risposta alla stagionalità della lavorazione della pelle, si è molto sviluppato il settore delle confezioni (che, va detto, sfrutta solo per il 3% la materia prima lavorata a Solofra). Da mera esperienza di integrazione a valle fatta dalla capostipite di tutte le famiglie del distretto solofrano (la famiglia Juliani), il settore in questione si è subito rivelato un buon affare per una quota crescente della popolazione, che così ha potuto compiere anche il primo passo per iniziare un'attività autonoma e poco costosa, sulla scia del successo crescente che il pronto moda riscuote nell'abbigliamento in generale. Per tirare le somme, la storia recente di questo distretto ci dice che a fronte di un consolidamento della realtà industriale (peraltro dovuto ad un forte utilizzo dei fondi agevolati della Cassa per il Mezzogiorno negli anni '60 e '70), le situazioni di crisi continuano a susseguirsi a causa di una domanda internazionale piuttosto instabile. Una gestione più moderna e meno attendista dell'azienda, un occhio più attento alle innovazioni e servizi più moderni di sostegno alle imprese (capaci di indirizzare in maniera efficace l'offerta e di essere sempre aggiornati sulle tendenza della moda pelle) potrebbero sicuramente rappresentare la risposta giusta.

Ritornando al settore dell'abbigliamento, anche se si tratta di produzione di qualità medio-bassa, passiamo a descrivere l'area di San Giuseppe Vesuviano e Terzigno, a sud di Napoli.

In un contesto di elevato disordine urbanistico (basti pensare che non un comune ha approvato sin ora un piano regolatore, e che zone di insediamento abitativo si intrecciano e sovrappongono in continuazione ad altre di insediamento industriale), si è assistito in 50 anni di storia ad una curiosa evoluzione: dal commercio di "pezze" americane che ha fatto la fortuna commerciale di buona parte dei sangiuseppesi, si è passati alla produzione di capi di pronto moda, prettamente femminili, da smerciare in grosse quantità sul mercato nazionale ed estero. Si tratta ovviamente di lavorazioni che richiedono una scarsa competenza, e che proprio per questo possono coinvolgere chiunque, tanto è vero che in questa zona dalla elevata densità abitativa (112.710 abitanti su una superficie di 109,59 km quadrati, comprendente 8 comuni), c'è un numero imprecisato di piccole e piccolissime imprese, molte delle quali completamente sommerse e sconosciute al fisco. Il successo di questa zona si spiega con l'avere ampliato le capacità commerciali da sempre riconosciute agli ambulanti di questo comprensorio, di avere costituito col tempo una moderna catena di distribuzione, di avere imparato a carpire i nuovi gusti del mercato e a trasformarli in capi dal design facile ma accattivante.

Il potere commerciale di queste zone è oggi visibile nel grosso centro del CIS di Nola, sito in un punto strategico del sistema autostradale meridionale, e che fa da catalizzatore di tutte queste esperienze del Napoletano: Extyn, Standpoint, Onyx sono solo alcune delle marche commerciali (che, tra l'altro fanno largo ricorso all'affiliazione commerciale, o franchising) grazie alle quali l'area in questione si è resa famosa in Italia e sui mercati esteri (soprattutto quelli più poveri dell'Est, che possono permettersi in questo modo un po' di "Made in Italy"). Da meri ambulanti, dunque, i Sangiuseppesi hanno prima imparato l'arte del commercio, si sono poi fatti una fitta rete di conoscenze (anni '50 e '60), anche internazionale, e poi, sulla base della conoscenza acquisita, ritenendo che vi fosse una parte di mercato scoperta (quella della moda casual e di tendenza), hanno pensato di entrare nel campo della produzione (con imprese leader come la Carrillo-Pashà ed il gruppo Ambrosio , che fatturano tra i 20 e i 50 miliardi), delegando gran parte delle operazioni all'esterno, e generando quella spirale di competizione e cooperazione tra le molte unità locali. È chiaro che, in questa esperienza, preponderante risulta essere il momento distributivo, e quello della logistica: approvvigionarsi di stoffa a buon mercato ed in tempi rapidi è una prerogativa riconosciuta di questi imprenditori, mentre la produzione (che poi è il nocciolo di un qualsiasi distretto) passa in secondo piano, viste le scarse competenze richieste, e quindi anche la scarsa organizzazione.

Ora è bene considerare gli altri distretti riconosciuti dalla legge, e vedere se si distinguono dagli altri in alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto il "distretto" dell'abbigliamento di San Marco Dei Cavoti, in provincia di Benevento, che pure è stato oggetto di parecchie attenzioni. Esso comprende 16 comuni, con una popolazione complessiva di 39.739 persone, in cui operano 366 unità, di cui solo 190 specializzate nella confezione di abiti casual, per un totale di circa 1000 addetti. I primi segnali di una specializzazione in tale senso si hanno alla fine degli anni '70, grazie al decentramento della fase di cucitura dei giubbotti in pelle voluto da alcune aziende settentrionali. Per imitazione sono sorte altre imprese che svolgevano lo stesso lavoro, e che cominciavano ad accettare commesse anche da aziende del Napoletano (come la Pit-Stop di Grumo Nevano). A metà degli anni '80 c'è la svolta. Per effetto del decentramento produttivo di un'impresa molisana (la Pantrem dei fratelli Perna, sita in Isernia) si effettuano ampliamenti della capacità produttiva a livello di singola impresa e si cominciano a produrre giubbotti in tessuto jeans, per giungere, nei primi anni '90, ad una situazione di diversificazione imposta dai committenti, con ulteriori decentramenti produttivi a livello locale. Si creano tante imprese madri, da cui per "gemmazione" (ossia per effetto della scelta del dipendente di licenziarsi e mettersi in proprio, svolgendo la stessa attività che aveva imparato nell'azienda di provenienza) si creano imprese figlie, a cui si danno macchinari in comodato d'uso e, senza contratti formali, si stabilisce una retribuzione più flessibile, costituita da una parte fissa (di scarsa entità) e da una parte variabile (come percentuale sui guadagni). Alla fine, per i contatti continui tra imprese madri e figlie, si hanno veri e propri gruppi collegati che gestiscono le commesse in modo coordinato. È evidente come sia assolutamente improprio parlare di distretto in quanto:

non c'è nessuna impresa nello stadio finale, che quindi abbia un contatto col mercato;

le operazioni che vengono svolte in questo territorio (già, peraltro, molto ampio e difficile da coordinare a livello di enti pubblici territoriali) sono poche, addensate nella parte centrale della filiera produttiva (cucitura e confezionamento), e richiedono anche una scarsa competenza;

scarse sono, in prospettiva, le possibilità di apprendere nuove tecniche di produzione, o di dotarsi di "saperi imprenditoriali" ed organizzativi specifici, per l'assenza di un contesto di imprenditoria diffusa e varia, o di figure professionali di sostegno.


La situazione di San Marco Dei Cavoti sembra assomigliare molto di più ad un insediamento produttivo dell'Est europeo, dove le imprese settentrionali vengono per godere del basso costo del lavoro (anche per effetto di una massiccio ricorso al lavoro nero), e per eludere alcuni obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, con il vantaggio ulteriore (sia rispetto all'Est Europeo che rispetto a certe zone dell'hinterland napoletano) di avere livelli bassissimi di criminalità organizzata. Stesso discorso vale per Calitri, dove l'insediamento di alcune medie imprese (specializzate nel finissaggio dei tessili e insediatesi poiché fortemente agevolate all'indomani del terremoto del 1980) non può rappresentare il primo seme di un distretto industriale in fieri. Il puro decentramento di qualche grossa impresa del Nord, lungi dall'attivare fenomeni di imitazione o diffusione di economie esterne, non porta neanche ad una vitalità complessiva dell'economia regionale in generale, ma piuttosto al depauperamento di fondi pubblici o comunitari. Per quanto concerne, invece, il distretto di Sant'Agata dei Goti e Casapulla, esso si va ad innestare sulla secolare abilità dei tessitori serici di San Leucio, vicino Caserta: alla fine del XVIII secolo, Ferdinando IV di Borbone fece costruire una manifattura reale, che producesse seta di primissima qualità per arredare la sua reggia. Oggi è rimasta una sola grande azienda (la Tessitura Alois di San Leucio) qualche competenza nel settore tessile, ma niente di più che un buon artigianato in una zona a vocazione eminentemente agricola. In questi casi, può essere utile molto più una visita ai luoghi in prima persona che l'utilizzo di complicati indici statistici di concentrazione settoriale: l'atmosfera industriale di Marshall, qui, non è che un puro concetto astratto.

Un punto di contatto di tutte queste zone, più o meno organizzate in distretto, va sottolineato: tutte le produzioni hanno a che fare col settore moda, dalle calzature, alle borse, dalla sartoria al pronto moda, quasi come se fossero stati il frutto di una lunga educazione al gusto ed al bello; in parte si può dire che questo sia oggi giustificato dalla richiesta di produzioni sempre più raffinate da parte dei turisti (di rilievo sono le produzioni di sandali in tutta la costiera amalfitana, o i costumi da bagno a Gragnano o a Sorrento). C'è insomma una coerenza interna a tutte queste lavorazioni, che le tiene unite, e forma quello che l'economista di Harvard M. Porter chiama un "cluster" . Va perciò indagato su quali siano gli indirizzi di politica economica che in futuro reggeranno la vita dei distretti campani, e se si vorrà tenere un occhio di riguardo anche per altre realtà in crescita, come pure si devono chiarire le responsabilità politiche di (probabili) distorsioni. Grande fermento, di recente, hanno riscosso i Patti territoriali per l'Occupazione come strumento di sviluppo concertato, e, ancora prima, i Contratti d'area. Sulla idoneità di questi strumenti e sulla situazione complessiva del meridione dei distretti si tornerà nel quarto capitolo.


3.2 la dorsale adriatica


L'eccezionale sviluppo che ha riguardato le zone costiere di Abruzzo, Molise e Puglia negli ultimi trent'anni ha fatto pensare a più di uno studioso che la dorsale adriatica dello sviluppo, fermatasi a Fermo col suo distretto calzaturiero, non fosse un episodio, e che il meglio di sé doveva ancora essere espresso. Per la verità, queste considerazioni non sono prive di un qualche fondamento se solo si pensa a quante imprese del Fermano hanno cominciato a far svolgere parti poco impegnative della loro produzione ad imprese del vicino Teramano. Oggi, la situazione del tessuto produttivo abruzzese è tanto positiva, che la UE ha deciso di escludere questa Regione, insieme al Molise, dalle zone Obiettivo 1 del quadro di sostegno comunitario (che, notoriamente, sono costituite da regioni il cui reddito pro capite è inferiore al 75% di quello medio dell'Unione).

Dei 25 distretti che G. Viesti individua nel Mezzogiorno d'Italia, grazie alla particolare riclassificazione dei dati ISTAT sui Sistemi Locali del Lavoro, ben 12 si trovano in zone vicine o site sulla costa, mentre altri tre, pur appartenendo a queste regioni, si trovano all'interno, o come nel caso del distretto dei salotti di Santeramo, nella Murgia, a cavallo tra Puglia e Basilicata (Matera). Può essere utile ricordare come lo studioso barese ha provato a fare uscire fuori queste realtà, sulla base di mere risultanze statistiche: egli, anziché riportare la situazione degli SLL meridionali alle medie nazionali, prende come base di riferimento per il suo esercizio i valori medi meridionali, proprio per fare emergere le differenze interne al Sud. In particolare, un Sistema Locale del Lavoro viene classificato industriale quando il tasso di industrializzazione è pari al 3%, che è all'incirca il valore medio dell'indicatore nell'insieme delle regioni meridionali. Più in dettaglio, sistemi caratterizzati da un'incidenza degli addetti ad un settore doppia rispetto a quella media meridionale sono definiti sistemi industriali specializzati (nel "Made in Italy" o nell'alimentare che sia).

È un metodo artificioso, ma può essere utile ricorrervi per vedere in filigrana la situazione economica di questa parte della penisola, al di là della classificazione ufficiale, stabilita dalla Regione Abruzzo (secondo la quale sarebbero distretti: la Piana del Cavaliere, la zona della Maiella ed il Vastese, con attività plurisettoriali, e la Val Vibrata, nel tessile) in ottemperanza alla legge sui distretti più volte menzionata. I distretti Abruzzesi individuati con questo criterio sono quello della pelletteria teramana, dell'abbigliamento casual a Nord di Pescara e dell'abbigliamento per uomo (capispalla e camicie) tra Roseto e Pineto, quello delle calzature sempre a Teramo e a Guardiagrele (vicino Chieti) e quello del mobilio (principalmente per ufficio), tra Atri, Giulianova e Pescara. Il primo distretto, che produce borse ed articoli da viaggio in pelle, con 2132 addetti e 363 imprese sparse tra Teramo e Giulianova, sulla costiera adriatica, è nato intorno al 1970 su uno "zoccolo duro" di terzisti con sede ad Alba adriatica. Si tratta di realtà produttive molto piccole (la media è di circa sei addetti per impresa), con una sola impresa di medie dimensioni che da impiego a più di 100 addetti e che generano un fatturato di circa 350 miliardi, di cui solo 80 dall'export.

La produzione è generalmente di qualità medio-bassa, realizzata in sub-fornitura per aziende settentrionali oltre che per le confinanti aziende del Maceratese. Accanto a questo tipo di lavorazione, e quasi a completare un'ideale paniere di prodotti "Made in Italy", è molto radicata la produzione di abbigliamento (confezioni per uomo e bambino, e casual), che riesce a fatturare 600 miliardi, di cui 230 legati all'export, e vede la presenza di imprese di grandi dimensioni, come la Finanziaria Italiana Tessile (FIT-GPM) di Alfano di Paolo, erede della Vulcano (che con il marchio Wampum era stata negli anni Settanta ed Ottanta uno dei principali produttori di casual italiani), o la Casucci, produttrice di Jeans di Sant'Egidio alla Vibrata, o il Maglificio Gran Sasso, nello stesso paese, sorto nel 1952, ed oggi conta 500 dipendenti e 50 miliardi. Va notato, però, come questi casi di grandi imprese o piccole realtà dedite all'abbigliamento siano una costante di tutta la costiera adriatica abruzzese, da Teramo fino a Vasto, anche se con differenti specializzazioni, e che vano, quindi, potrebbe essere il tentativo di includere certe unità produttive in un distretto e certe altre in un altro ancora. Ciò che conta è la contiguità territoriale delle produzioni che permette un continuo scambio di informazioni o ritrovati tecnici, o la condivisione di mercati di sbocco nazionali o internazionali. Pertanto, è fondamentale il ruolo di vere e proprie "imprese motrici" giocato da alcune aziende storiche, insediatesi nel Pescarese o nel Chietino decenni orsono (come la tedesca Marvin Gelber), che hanno provveduto, con un lento processo di sedimentazione delle pratiche non solo artigianali ma anche gestionali ed organizzative, a creare un terreno fertile per l'imprenditorialità, e a incoraggiare processi di creazione di nuove (anche se piccole) unità tramite fenomeni di "gemmazione".

È chiaro anche che ci sono alcune imprese, spesso quelle più grandi (come la Casucci) che preferiscono integrare al loro interno più fasi possibile della produzione, e affidano all'esterno solo alcune lavorazioni complementari a quelle realizzate al suo interno, ma la diffusione di Know-how non si arresta per questo. La zona del Teramano ha una tradizione tessile antica che le deriva dalla lavorazione della canapa, coltivata in queste zone sino alla fine degli anni sessanta, e che le permette di essere fortemente ricettiva rispetto a qualsiasi novità nel processo produttivo o nella lavorazione dei tessuti. La parte meridionale della costa abruzzese vede operare imprese altrettanto importanti, come la Brioni di Penne (produttrice di abbigliamento maschile di alta qualità), la IAC (già Melvin Gelber, citata prima, ora specializzata nella produzione di camicie con marchio Rodrigo) e la Sixty (abbigliamento moda giovane), insieme a molte altre più piccole, che occupano circa 9.000 addetti. Questa morfologia della costa adriatica non cambia quando si arriva in Molise, a Termoli, dove si trovano molte altre imprese, sub-fornitrici di quelle abruzzesi.

Un cenno a parte, invece, va riservato alla realtà di Isernia, dove ci sono due imprese che svettano su tutte le altre: la Ittierre e la GTR, e poche altre imprese di contorno, a fare da sub-fornitrici. La prima è ubicata nel comune limitrofo di Pettoranello, e presenta sia produzioni con marchio proprio che altre in collaborazioni con stilisti affermati , arrivando a generare 650 miliardi di fatturato, mentre la GTR di Monteroduni lavora prevalentemente sul versante del casual. Ciò che accomuna le due imprese è il fatto di essere nate dal fallimento della Pantrem (nota per il suo marchio POP 84) dei fratelli Perna, oggi a capo delle due società, e una gestione aziendale molto "vivace" . Abbiamo già visto, infatti, come essi prediligano esternalizzare gran parte del processo di produzione (ricordiamo che il "distretto" di San Marco Dei Cavoti in Campania è nato da un decentramento della Pantrem) per abbattere i costi di produzione, ma, oltre a questo, cospicuo è stato anche l'utilizzo di fondi agevolati per effettuare ristrutturazioni aziendali. Sempre sulla fascia costiera, e sempre tra Teramo e Pescara, molto promettente risulta essere il distretto mobiliero: 600 miliardi di fatturato e 2500 addetti sparsi in 389 unità produttive rappresentano bene il fermento produttivo di una zona da sempre dedita alla falegnameria (produzione di tavoli specialmente), e che ancora nel 1971 dava lavoro solamente a 1200 addetti. La produzione della zona è piuttosto diversificata e comprende i divani di Teramo, i mobili per cucina di Atri, e soprattutto i mobili per ufficio e le scaffalature metalliche di Giulianova e Pescara. Tra le imprese del settore, spicca la LAS mobili di Tortoreto, in provincia di Teramo, che nel solo 1998 ha fatturato 110 miliardi e dato lavoro a 4000 persone. Di minore rilevanza, invece, è il piccolo (in termini assoluti ma non relativi all'economia del comprensorio) distretto calzaturiero che fa capo ai comuni di Guardiagrele, Orsogna e Lanciano, a sud di Chieti, coi suoi 700 addetti. Si tratta di una produzione di qualità bassa, con pochi sbocchi sui mercati finali, prevalentemente indirizzata all'export verso i paesi meno ricchi dell'Est Europeo (dei 100 miliardi di fatturato, la metà sono ascrivibili alle esportazioni).

Percorrendo 200 km lungo l'autostrada A14, da Termoli si giunge a Barletta, passando per la zona pianeggiante del Foggiano (Capitanata), in cui gran parte della ricchezza è dovuta all'agricoltura. Il centro a Nord di Bari rappresenta una sorta di continuum rispetto agli insediamenti produttivi abruzzesi, e facilmente vi si possono individuare due distretti: uno che produce scarpe di vario tipo, e l'altro dedito alla maglieria (più correttamente, la maglia tagliata). Il distretto che produce scarpe può vantare una tradizione che risale ai primi anni quaranta, quando gli agricoltori della zona spingevano gli artigiani a produrre scarpe da campagna e pantofole. Col tempo, e con le nuove tecniche di vulcanizzazione prima e della iniezione delle suole poi, si è passati alla produzione di scarpe da ginnastica di fascia bassa, poi a quella degli "zatteroni" moda da donna e, ancora, a sofisticate scarpe da lavoro antinfortunistiche, sempre con suola iniettata. Oggi accanto alle aziende di Giuseppe Damato (come la Cofra, che supera i 100 miliardi di fatturato) vi sono altre 600 unità produttive che impiegano 7.000 addetti, e sono molto aperte all'export

Per quanto riguarda il distretto barlettano della maglieria, quello che conta evidenziare è la presenza sin dagli anni quaranta di una impresa (il Maglificio Riccheo) che ha diffuso il know-how ed ha permesso di "incubare" molte altre piccole imprese, che le sono sopravvissute. Oggi, il panorama della maglieria barlettana è incredibilmente simile al modello teorico del distretto industriale marshalliano: una pluralità di piccole imprese su di un territorio molto limitato, con una grande concorrenza tra le imprese dello stadio finale, e una buona specializzazione delle imprese per fasi, con una suddivisione del ciclo produttivo, e con la presenza di fornitori di input specializzati. Scendendo verso Bari, in una zona piuttosto ampia che ha per centro di riferimento Andria, si incontra un altro distretto di rilievo: quello dell'abbigliamento intimo e sportivo (con la produzione di felpe e di tute). Qui, le considerazioni sulle modalità della nascita e crescita di un bacino tanto ampio di imprese possono rievocare le stesse cose dette per il grande distretto di Napoli, che da Arzano arriva fino ad Aversa. La vastità del bacino di utenza, in un'area che conta 1.200.000 abitanti, ha funzionato da stimolo al salto di qualità da artigiano ad imprenditore per una buona parte della popolazione locale; la scintilla che ha fatto compiere questo salto di qualità è scoccata nel 1971, con l'insediamento nella zona industriale di Bari di un grande stabilimento della svedese Hattermarks, che ha permesso l'accumulazione di abilità e conoscenze anche dopo il suo fallimento.

Nella zona a sud di Bari, proseguendo nel nostro viaggio, si distinguono per importanza e riconoscibilità esterna - anche a livello nazionale - i distretti di Putignano, per gli abiti da sposa, e Martina Franca, produzione di capispalla maschili. In particolare, notevole è la tradizione di Putignano , strettamente legata alla storia personale di Cesare Contegiacomo, che riesce ad intuire, frequentando la scuola di avviamento a Napoli, le enormi potenzialità dell'industria dell'abbigliamento concepita secondo moderni canoni di qualità ed efficienza. Ritornato nel paese natio, nel 1905 fonda la sua impresa impiegando le migliori sarte del paese, e facendo venire disegnatori e dirigenti commerciali dalle zone più evolute del paese, in primis dal Milanese. Da questa esperienza si innesca un "effetto scuola" che permette l'apprendimento del mestiere alle generazioni di operai e imprenditori successive. Il momento di crisi per l'abito da sposa putignanese giunge nel 1971, quando all'indomani dell' "autunno caldo" si scatenano notevoli conflitti sindacali che, innestatisi in un contesto di elevata integrazione verticale e relativa rigidità, provocano la chiusura degli stabilimenti più grandi, e la frantumazione del tessuto produttivo. Oggi, la realtà prevalente è costituita da imprese di dimensioni medio-piccole, con una produzione di elevata qualità.

Scendendo ancora, passando dalla provincia di Brindisi a quella di Lecce, spicca il distretto della calzatura dei comuni di Casarano, Gallipoli e Tricase, con un numero di addetti che si aggira intorno alle 7.000 unità, ed unità produttive dalle dimensioni medie piuttosto elevate, essendo molto integrate. Le aziende leader della zona sono due: la Filanto, di Antonio Filograno, e la Nuova Adelchi. Anche qui c'è la presenza di una impresa motrice, la Elata di Nicolazzo, che sin dagli anni trenta riesce ad essere organizzata in modo innovativo e a diffondere know-how specifico. Presso questa azienda apprende il mestiere lo stesso Filograno, prima di passare all'attività imprenditoriale in proprio sul finire degli anni Cinquanta, e di sfondare sui mercati esteri all'inizio degli anni Ottanta. Il prodotto tipico della zona è la scarpa tradizionale da uomo, con la suola in cuoio, per la cui lavorazione, negli ultimi anni, si è ricorsi sempre di più a fenomeni di decentramento oltreadriatico, soprattutto nella cucitura di tomaie. Da segnalare, nella zona, anche una buona specializzazione produttiva nel settore dell'abbigliamento da uomo, e delle cravatte in particolare (dovuta agli sforzi pionieristici di una impresa attiva dagli anni '50, The King), nel comune di Corsano, con 500 addetti ed una produzione concentrata e riconoscibile, quasi come un marchio, anche esternamente. In generale, in tutto il Salento le tradizioni nell'abbigliamento sono solide (da ricordare i ricamifici di Nardò) ed oggi si perpetuano sotto forma di una diffusa imprenditorialità, e di un ricorso crescente alle forme nuove di distribuzione commerciale (ad esempio i negozi in franchising "harry and sons" rendono disponibili in tutta Italia i capi salentini).

Questo complesso di piccole e medie imprese, concentrate per la maggior parte sulla costiera adriatica, basterebbe già a far parlare di "fenomeno" Puglia; e difatti, questa è proprio la regione che dal 1951 ha conosciuto ritmi di crescita del PIL regionale frenetici, e, parallelamente, ha fatto aumentare il numero di occupati da 25.204 a 66.145, per il solo "Made in Italy". Ma mancherebbe un tassello importante: il distretto del salotto che fa capo al triangolo con vertici Altamura, Santeramo in Puglia e Matera, a ridosso con la Basilicata. Si tratta di un vero e proprio distretto industriale che negli ultimi 20 anni si è allargato a macchia d'olio, arrivando a toccare la periferia di Bari e Bitonto, e che vede la presenza di una impresa leader, la Natuzzi di Pasquale Natuzzi, affiancata da altre imprese (come la Soft Line, Divania, Calia e Nicoletti), direttamente impegnate nella commercializzazione del prodotto, ed una serie di altre imprese dell'indotto, di dimensioni piccole e medie.

Il genio di Natuzzi (che ha quelle caratteristiche di "distruzione" dell'equilibrio statico evocate nei lavori di Schumpeter ed attribuite alla ristretta élite di imprenditori responsabili delle innovazioni tecnologiche) è riuscito ad infrangere parecchi primati, e a fare diventare questo angolo di Puglia la zona di riferimento per la produzione di salotti in pelle. Le aziende dell'indotto comprendono quelle specializzate nella produzione di poliuretano per le imbottiture, quelle che sagomano i fustelli di legno che fanno da armatura per i divani e quelle di concia delle pelli (come la barese Italian Leather, fondata da un ex dirigente Natuzzi che si occupava dell'acquisto della materia prima). Il merito principale di questo imprenditore, che poi rappresenta il "propulsore" di tutto il distretto - anche se due piccole imprese, Tirelli e Ferri sono attive in quel settore sin dagli anni '50 -, è stato quello di ritagliarsi una nicchia di mercato allo stesso tempo ghiotta (perché riguardava il ricco bacino statunitense) e "indifesa", cioè senza concorrenti: mediante una innovazione di processo egli riusciva a vendere a 699 dollari dei divani in pelle che normalmente costavano 1999 dollari. Ovviamente si tratta di una produzione di qualità più bassa rispetto a quella di suoi concorrenti (anche della stessa zona, come Nicoletti), ma che tuttavia riesce a garantire notevoli economie di scala per effetto dei grossi volumi di vendita che accordi esclusivi di distribuzione sul mercato americano (con la catena Macy's) assicurano. La successiva quotazione a Wall Street, oltre all'immediato ritorno d'immagine, permette anche di potere contare su stabili flussi di finanziamento a buon mercato. Date queste premesse, la stessa Natuzzi ha provveduto ad "aggredire" il ricco mercato italiano, attrezzando una (per i tempi) innovativa catena in franchising "Divani & Divani", con cui ha consolidato la sua posizione di leader nella produzione e vendita di divani in pelle; oggi essa fattura 1000 miliardi ed ha 3.500 dipendenti (dai 78 del 1980), con un indotto vitale e dinamico di altri 3.000 occupati nelle aziende sub-fornitrici, e nel 1999 l'intero distretto ha fatto registrare l'aumento più marcato del valore della produzione (+ 63%) rispetto al resto del complesso distrettuale italiano. È chiaro che si tratta di un caso di successo del tutto "anomalo" e quindi difficilmente replicabile su vasta scala, ma varrà la pena, in futuro, di studiarlo a fondo per mettere a fuoco i meccanismi che servono ad innescare la nascita di un distretto, magari arricchendo l'analisi con contributi di più discipline.


3.3 Il resto del Mezzogiorno

Se la Campania ha fatto registrare nell'arco di tempo che va dal 1951 al 1991 un andamento sostanzialmente stabile dell'occupazione ed un mantenimento del suo apparato produttivo (con i cambiamenti di specializzazione ed i declini inevitabili già illustrati), e la Puglia, per contro, ha visto crescere notevolmente, sia per dimensione che per profondità, la gamma dei suoi distretti industriali, il resto del Mezzogiorno presenta un quadro complessivo piuttosto desolante. Nell'insieme, tolte alcune eccezioni in Sardegna, non si può parlare di nessun "vero", seppure di dimensioni contenute, distretto industriale, quanto piuttosto di aree in cui la tradizione artigianale regge, si è organizzata, ma non è riuscita ad interagire con il territorio circostante, e non ha innescato fenomeni di cooperazione e di "ispessimento localizzato". Un fenomeno comune, viceversa, sembra essere la presenza di zone ad elevata industrializzazione (anche per l'investimento diretto di capitali stranieri) a ridosso immediato dei centri urbani costieri più popolosi; la cui ragion d'essere, però, sembra fare più riferimento agli insegnamenti classici della localizzazione industriale di Alfred Weber e August Lösch che ai meccanismi di sviluppo del distretto industriale, così come chiariti da Marshall.

La storia industriale di queste regioni può aiutarci a capire le cause di questa arretratezza, se è giusto parlare in termini di arretratezza o se, forse, non bisogna usare un criterio di valutazione diverso. Nel 1951, basandoci sui dati ISTAT, la produzione nel settore dell'abbigliamento, nel tessile e nel calzaturiero (il "Made in Italy") risultava, tanto in termini di addetti che di ricchezza prodotta, sostanzialmente omogenea in tutto il Mezzogiorno, poiché diffuso era l'artigianato locale, di buona qualità, e la domanda era assicurata dal mercato domestico. Fino agli anni '80 riesce a tenere bene il Tessile, soprattutto in Sicilia ed in Sardegna, ma poi, insieme agli altri settori del "Made in Italy", si assiste ad uno smantellamento di qualsiasi area specializzata in tal senso. La stessa ricerca di Viesti oggi riconosce solo un distretto industriale in tutta questa ampia zona, composta da ben quattro regioni: il distretto della Sicilia centrale, localizzato nei comuni di Enna, Bronte e Troina, ad ovest dell'Etna, sorto in seguito all'insediamento di una grande stabilimento della Lebole (di proprietà ENI) nel comune di Gagliano Castelferrato, a metà degli anni '60, e che oggi, però, ha una produzione di poco conto (50 miliardi e 1000 addetti sparsi in tante piccole imprese indipendenti) rispetto alle stesse zone più ricche del Meridione. La spiegazione di tutto questo può essere data seguendo due distinti binari. Il primo ci porta a delle motivazioni che hanno a che fare con la politica industriale seguita negli anni settanta: il massiccio ricorso alla GEPI o ad altri colossi statali per costruire grandi imprese (lo stabilimento Lanerossi a Praia a mare, la Tessile Cetraro di Cetraro, la Filatura Campofelice di Cefalù, la Fibrasir di Porto Torres e molte altre ancora) costituisce un mero palliativo sotto l'aspetto occupazionale, destinato ad andare in crisi sotto i marosi della   prima serie crisi del settore che avesse incontrato (e puntualmente si è verificato a metà anni settanta). Alla lunga, questi interventi hanno danneggiato le capacità manuali e lo spirito d'iniziativa dell'ambiente in cui si sono verificati, ed hanno impoverito il tessuto artigianale preesistente. Di fronte al danno fatto, si è poi, negli ultimi venti anni, preferito accettare una "tacita", ed ormai nei fatti, divisione del lavoro: al resto dell'Italia i distretti del "Made in Italy", dalla Calabria in giù invece si è cercati di recuperare il terreno perso con una industrializzazione nei settori più innovativi e che costituissero "un'assicurazione sulla vita" delle generazioni di lavoratori futuri; ecco spiegato dunque, gli interventi di attrazione di ingenti capitali esteri (stabilimento ST Microelectronics) di Catania, il distretto dei componenti elettronici di Oristano (che conta 30 imprese e 300 addetti), quello della gomma e plastica di Regalbuto (Enna), o quello della lavorazione dell'alluminio e del marmo a Ragusa.

Un altro binario interpretativo (non completamente inconciliabile col precedente) spiega il tracollo delle piccole botteghe artigiane con la sfortunata conformazione geografica della Sicilia o delle zone interne della Basilicata e Calabria : gli eccessivi costi di trasporto (basti pensare che negli anni settanta ci volevano 15 ore di viaggio prima che un camion partito da Palermo arrivasse a Napoli, mentre nello stesso tempo un camion partito da Napoli arrivava in Francia) costringevano gli artigiani locali a non potere ampliare il loro mercato di riferimento, mentre i produttori degli stessi beni, situati ad esempio in una zona più fortunata (ad esempio la Pianura Padana) potendo contare già sui risparmi di costo causati dalle economie di scala, potevano affrontare i costi del trasporto con una tranquillità maggiore. In pratica l'invasione del loro mercato da parte delle imprese del Nord ha decretato la fine di qualsiasi possibilità futura di sviluppo industriale. Al di là, però, delle motivazioni -analizzate in dettaglio successivamente- che hanno portato allo stato di cose attuale, è comunque interessante vedere se vi sono dei tentativi di "risalire la corrente", di aiutare ad emergere, cioè, progetti di industrializzazione diffusa se non proprio di creazione di veri e propri distretti.

L'esperimento più promettente che si sia verificato in questi ultimi venti anni è nella corsetteria di Lavello , un paese di 13.000 abitanti, in provincia di Potenza. In questa realtà agricola, l'evento catastrofico del sisma del 1980, unito ad una certa capacità di aggregazione e di progettazione delle istituzioni locali (con un adeguato supporto della struttura di partito, il PCI) ha costituito la miscela che ha fatto nascere dal nulla un tessuto ad imprenditorialità diffusa, che oggi vede impegnate circa 60 imprese e 500 addetti. Il sisma del 1980 fece, infatti, venire in contatto la realtà emiliana (non solo con gli aiuti umanitari, ma anche con una delegazione di funzionari della CNA, e degli enti locali) con quella del paese lucano, e ne nacque la possibilità per 5 disoccupate del luogo di apprendere il mestiere della cucitura, assemblaggio e confezione del reggiseno direttamente da esperte operaie delle industrie di Modena, allora all'avanguardia in quel settore. Ad esse furono date anche le macchine necessarie, ed una parte delle commesse che solitamente il distretto di Modena decentrava in quel distretto. Col passare del tempo, e all'aumentare dell'esperienza delle operaie, dal primo laboratorio (Lavello1) si passò all'apertura di altri simili, operanti in concorrenza - in modo tale però che tutti dipendessero dalle commesse di quell'unica impresa modenese, e che questa potesse godere del costo del lavoro di volta in volta più basso -, e all'apertura di laboratori che si occupassero di altre fasi della lavorazione, come il disegno dei cataloghi.

Alla fine del decennio, i laboratori si affrancano dalla dipendenza esclusiva della committente modenese, per accettare, ovviamente con comportamento opportunistico e contro le clausole contrattuali di fornitura, commesse da altre imprese. Nel 1989, con il supporto dei fondi della legge n. 44 del 1986, alcuni di essi decidono di passare direttamente alla produzione per il mercato finale, delegando ad altri laboratori del luogo, magari di proprietà di loro familiari, le altre fasi del processo di produzione completo, come l'etichettatura o il contatto coi grossisti, principale canale di commercializzazione per questo distretto. Il processo di nascita e crescita di questo tessuto produttivo, per quanto repentino e concentrato nel tempo, e per quanto si stia espandendo velocemente ai paesi confinanti, soffre di alcuni punti deboli, come la eccessiva dipendenza per le materie prime da produttori o importatori dell'area milanese o varesina, o le scarse competenze locali nel campo della manutenzione dei macchinari. Inoltre, l'eccessiva concentrazione territoriale, rende particolarmente stabili i rapporti tra "squadre" di imprese, che si dividono il processo di produzione in fasi (taglio, assemblaggio e rifinitura), a discapito di una effettiva concorrenza.

Al di fuori di questo "quasi-distretto", bisogna andare in Sardegna, a Calangianus, un piccolo paese di 5.000 abitanti in provincia di Sassari, per potere studiare una nuova realtà ad industrializzazione "leggera" e diffusa, assimilabile ad un distretto industriale marshalliano. In queste zone, la tradizione di lavorare il sughero è plurisecolare, e le moderne tecnologie e tecniche di organizzazione hanno permesso di raggiungere ottimi risultati in termini di produzione. I saggi di crescita sono rilevanti (+12% di fatturato nel 1999, rispetto all'anno precedente), e una metà di quanto prodotto viene esportato verso i paesi dell'Unione Europea. La prevalenza è di piccole imprese, con scarsa tendenza alla concentrazione, e buon rapporto di cooperazione. È invece la grande impresa che domina a Nuoro nel settore tessile, e che viene rilevato come distinto SLL dall'ISTAT (il 61% della popolazione è impiegato in quella attività), e a Macomer, in provincia, dove il 70% della occupazione è impiegato nella filatura cotoniera, ma in entrambe i casi non vi sono connessioni a valle con l'industria dell'abbigliamento o della maglieria e non si può parlare di distretto; così come non si può parlare di distretti "ortodossi" per quelli individuati e riconosciuti tali dalla Regione e che sono: la zona della Gallura, in provincia di Sassari, per la lavorazione del sughero, Orosei (vicino Nuoro) per la lavorazione del marmo, Samugheo (Oristano) per la tessitura e produzione di tappeti, e Buddusò (Sassari), per la lavorazione del granito. Il resto del fermento produttivo nella parte peninsulare della nazione si limita alla valorizzazione di vecchie o nuove capacità artigianali, come il gelato di Pizzo Calabro, l'arte di impagliare la sedia di Serrastretta in provincia di Catanzaro, o, per tornare in Sardegna, l'industria alimentare del formaggio di Thiesi (Sassari).

Tuttavia, un tentativo di individuare dei distretti in Sicilia, anche ricorrendo a degli indici statistici di concentrazione territoriale e specializzazione produttiva, è stato fatto di recente dall'Ufficio Studi del Banco di Sicilia, anche in vista di una imminente applicazione della legge n. 317/1991. Si è resa però necessaria una rivisitazione dei criteri statistici suggeriti dalla stessa legge, per evitare di trascurare realtà piccole ma che sembrano avviate sul percorso di organizzarsi in distretto, e per non consentire che realtà produttive più industrializzate o specializzate - come quelle che pure esistono nella periferia di grossi centri come Catania e Palermo - scavalchino quelle più isolate, e quindi dotate di valori assoluti degli indici risibili rispetto alle precedenti. Dall'applicazione di un simile approccio metodologico, in Sicilia si sono individuati i seguenti distretti industriali: Custonaci, vicino Trapani, per la lavorazione del marmo, e, per la provincia di Messina, Santo Stefano di Camastra, nel settore della ceramica, Milazzo, per i prodotti in metallo e la lavorazione artistica del ferro, e Brolo, nell'abbigliamento. Si tratta comunque di un approccio macchinoso, a detta dello stesso vice presidente del Banco di Sicilia, Gianfranco Imperatori, poiché riesce a dare evidenza a realtà, che nel panorama nazionale, sono di poco conto.

L'unico modo con cui Calabria e Sicilia oggi riescono a tenere una seppur minima presenza nel "Made in Italy", è con le imprese di grandi dimensioni, per lo più frutto di scelte di decentramento dettate dalla convenienza di alcuni finanziamenti o dalla fiscalizzazione degli oneri sociali, che consente notevoli risparmi sul versamento dei contributi previdenziali dei dipendenti (e quindi riduce il costo del lavoro), e che non danno vita a nessun contatto con piccole imprese locali, a nessuna "gemmazione" o rilevante rapporto di subfornitura; è il caso, ad esempio, della Tessilcon di Palermo, per le confezioni o del grande maglificio Halos a Licata, mentre sempre entità produttive di grossa dimensione fanno comparire Belvedere Marittimo, in provincia di Cosenza, tra i principali SLL del mobilio, specializzati nella fabbricazione di sedie e sedili, con i suoi 690 addetti.


3.4 Alcune considerazioni di sintesi

Per trarre le conclusioni da questa disamina di dati, cifre e località è necessario capire di cosa stiamo parlando, ossia della entità effettiva della produzione di ricchezza dell'insieme dei distretti meridionali, e della sua capacità di penetrare i mercati internazionali con le esportazioni. In particolare, nel fare questo, è opportuno comparare i dati aggregati delle single regioni meridionali con le regioni settentrionali, per evidenziare eventuali discrepanze nel tessuto dei distretti meridionali, se, cioè, vi sono delle regioni che, seppure lentamente, si cominciano ad avvicinare ai ritmi di crescita delle regioni più sviluppate d'Italia. Se non dovessero risultare differenze sostanziali da regione a regione (in termini di addetti o di fatturato generato dal "Made in Italy", ad esempio) si potrebbe passare ad analizzare anche l'aggregato delle regioni meridionali, per esaminare la distanza con il complesso dell'Italia settentrionale. Un buon metodo per procedere, è quello di rifarsi ai dati statistici incentrati sui Sistemi locali di Lavoro (SLL) considerandoli come surrogati dei distretti, visto che dati precisi su questi ultimi non esistono (e non potrebbero esistere visto che una definizione legislativa di distretto, su cui le rilevazioni del nostro istituto centrale di statistica si basano, non è stata applicata in tutte le regioni con la relativa individuazione delle aree in questione). Di recente, una classificazione dei dati relativi alle prestazioni dei soli distretti del Nord e del Centro Italia (e nemmeno di tutti, come visto nello scorso capitolo) è stata fatta dal Club dei Distretti, ma per la mancanza di dati sulla realtà meridionale, risultano di fatto inutilizzabili. I dati ISTAT, al 1991, ci dicono che l'aggregato del "Made in Italy" in termini di addetti per regione vede un predominio della Lombardia con 319.200 unità, seguita da Veneto con 232.000 e Toscana con 176.500 unità, mentre il Mezzogiorno nel suo insieme raccoglie 194.000 addetti nel settore, e se passiamo a considerare il numero di addetti nel solo settore dell'abbigliamento il trend non cambia: il Nord conta 216.600 addetti, il Centro 140.800 e tutto il Mezzogiorno 96.600 addetti.

Se scendiamo nei particolari, a fronte di questi dati di sintesi, che vedono i sistemi locali del Mezzogiorno perdere su tutta la linea, se andiamo a vedere i risultati delle singole realtà di punta, anche in settori diversi, ci si imbatte in piacevoli sorprese: se è vero che Prato resta il distretto con il maggior numero di addetti al "Made in italy" (45.000), seguito da Como, Desio e Milano, è pure vero che si fanno strada le aree distrettuali di Napoli (20.661 addetti), Bari (18.563), Barletta (8.175) e Teramo. Soprattutto nell'abbigliamento (Napoli rappresenta il terzo sistema locale per numero di addetti), nella concia delle pelli (con Solofra) e nelle calzature (dove il distretto di Grumo, con i suoi 7.699 addetti si avvicina a distretti storici del settore come Montebelluna, 9.254 addetti, e l'area di Porto Sant'Elpidio, nel Fermano, con 8.679 addetti) il Mezzogiorno mostra segni di vitalità importanti. Inoltre, la tendenza di questi ultimi anni sembra andare nella direzione di un irrobustimento di queste zone, visto che si registrano tassi di aumento degli addetti notevoli, anche in controtendenza rispetto a zone più rinomate del Nord (ad esempio nel Nord Ovest). Se poi si va a fare un raffronto tra le prestazioni dei sistemi locali delle diverse regioni meridionali, si mettono in luce differenze anche notevoli. Sia in termini assoluti che relativi, i divari nel numero di addetti al "Made in Italy" tra le regioni meridionali sono evidenti: se Abruzzo (36.904, cioè 29,5% della popolazione attiva), Puglia (66.145, 16,4%) e Campania (52.756, 9,4%) sono sul fronte avanzato con numeri che cominciano a competere con quelli delle regioni centrali (la loro media è 36,2%), Calabria (7.576, cioè il 3.7% della popolazione attiva), Sicilia (3,4%) e Sardegna (3,8%) sono molto indietro.

Questo comportamento a "macchie" dei nostri distretti si ripete se consideriamo i dati sulle esportazioni: nel complesso il Meridione è molto meno propenso all'export delle zone ad industrializzazione diffusa del Nord (soprattutto del Nord Est), ma se si vanno a vedere i distretti più importanti, quelli che poi hanno anche maggiore tradizione e riconoscibilità esterna, si nota come una buona parte del loro prodotto oltrepassi la frontiera. Questo vale per il distretto di Solofra (900 milioni per addetto, contro i 976 di Santa Croce sull'Arno ed i 1722 di Arzignano) e per il distretto mobiliero della Murgia (1.020 contro 1.279 milioni del comprensorio di Udine ), come pure per i distretti calzaturieri di Barletta e del Salento forte è la capacità di penetrare i mercati esteri, anche quando paragonati con i leader del Maceratese e del Fermano.

Altri dati ci vengono forniti dall'IPI (Istituto per la Promozione Industriale), ed hanno il merito di riclassificare i dati ISTAT per arrivare a quantificare le unità produttive ed il numero degli addetti in ognuno dei 199 distretti in cui si possono raggruppare i Sistemi Locali del Lavoro; anche se, va detto, le specializzazioni produttive sono molto più eterogenee in quanto includono anche la petrolchiminca, l'oreficeria o la produzione della carta. Sono dati che non aggiungono niente di nuovo in termini di capacità analitica ed hanno il difetto principale di fermarsi alla Calabria, tralasciando Sardegna e Sicilia. In sintesi, lo studio delle cifre e delle statistiche evidenzia qualcosa che in molti fanno ancora difficoltà a vedere: non esiste un'area indistinta ed omogenea che va sotto il nome di Mezzogiorno, quanto piuttosto delle aree di sviluppo (anche sostenuto, secondo gli ultimi dati CENSIS) che includono tutta la costiera adriatica, quasi a proseguire idealmente l'operato dei distretti calzaturieri del marchigiano, il comprensorio intorno a Napoli ed alcune zone interne dell'Abruzzo, del Molise, della Puglia e della Campania, e poi un panorama senza distretti per la restante parte. I dati positivi che vengono da Sicilia, Calabria e Sardegna riguardano insediamenti di grandi imprese, quasi mai collegate al "Made in Italy" e dimostrano che si è scelto, scientemente, di seguire una politica basata sui Poli di sviluppo, così come indicata da Francois Perroux . Lo strumento principale di questo disegno politico era rappresentato dalla GEPI, società per azioni costituita nel 1971 con capitali IMI, IRI, ENI ed EFIM, ma posta sotto il controllo del Ministero per l'Industria e del CIPI, che aveva il compito di assumere temporaneamente partecipazioni in aziende in dissesto allo scopo di creare le condizioni più favorevoli alla loro riorganizzazione e ricollocarle infine sul mercato; ne sono invece scaturite distorsioni al funzionamento del mercato, sprechi ed uso dei fondi a scopi politici.

Una volta chiarito l'ambito in cui ci muoviamo, possiamo anche vedere quali siano le caratteristiche comuni dei distretti più evoluti per cercare di salvaguardare i motori dello sviluppo, cercare di disegnare un modello di sviluppo replicabile o semplicemente analizzare le esigenze più impellenti che, se non soddisfatte, potrebbero far svanire quanto di buono fatto. Da recenti studi di ricercatori universitari, finanziati dagli enti locali o dal Ministero per l'Università e la Ricerca Scientifica (MURST), si sono messi in evidenza, tramite interviste sul campo ad imprenditori, i problemi più diffusi di queste realtà. Ai primi posti risultano quasi sempre le richieste di adeguate infrastrutture, a cominciare da un sistema viario autostradale o ferroviario moderno per finire con la disponibilità di suoli attrezzati. In effetti, la questione di uno sviluppo delle arterie stradali troppo piegato alle richieste e convenienze delle imprese del Nord non è nuova. È stato sottolineato, infatti, come l'avere costruito, nell'era del "boom" economico, l'autostrada del Sole (A1) e la Bologna-Taranto (A14) ha portato vantaggi principalmente alle grosse imprese del Nord, che così potevano ampliare il loro mercato e rafforzare le economie di scala già presenti, visto che potevano già servire una zona geograficamente più ampia come quella della Pianura Padana.

Una prova indiretta del fatto che questa politica viaria è stata fatta a vantaggio di una parte sola del sistema economico italiano, può vedersi nel fatto che la costruzione delle trasversali A24 e A25 (Roma-Pescara e Roma-Teramo) è avvenuta con 20 anni di ritardo e tra molte polemiche (alimentate anche da una forte campagna stampa che denunciava "l'ennesimo spreco di risorse nel Mezzogiorno"). Questi problemi sono ancora irrisolti; il trasporto ferroviario Est-Ovest, ad esempio, è inesistente: i collegamenti tra Napoli e Bari oggi sono prevalentemente su gomma, senza parlare dell'assoluta inadeguatezza di un'arteria strategica come la Salerno-Reggio Calabria, o dell'autostrada, mai terminata, che dovrebbe collegare Palermo a Messina. Ma oltre alle grosse arterie autostradali, e alle tratte ferroviarie, vanno migliorate le connessioni locali se si vuole che nuovi distretti nascano; nella fase delicata del loro avvio, i distretti guadagnano la sopravvivenza solo se riescono a sfruttare economie di scala, e quindi solo se riescono ad avere un ampio mercato a disposizione con bassi costi di trasporto. L'Abruzzo ha conosciuto una fase di successo e di crescita distrettuale, secondo molti studiosi, proprio quando sono state costruite le due autostrade che lo collegavano a Roma. Per quanto riguarda la spesa pubblica per infrastrutture, la diversità di trattamento tra le diverse aree del paese è riportata nella tabella seguente:

Tabella 10

Spesa pubblica per infrastrutture


Rete stradale

Rete ferroviaria

Porti

Aeroporti

Reti per la telefonia e la telematica

Concentrazione % in Italia

Nord Ovest






Nord Est






Centro






Mezzogiorno












Italia







Fonte: Istituto Tagliacarne, settembre 2001.

Il problema delle aree attrezzate viene, invece, sentito soprattutto a ridosso dei centri urbani più congestionati (specialmente Napoli), e porta con sé anche la questione di un efficiente sistema di smaltimento dei rifiuti e di trattamento degli scarichi industriali (emblematico è il caso di Solofra, dove i procedimenti chimici per la concia delle pelli richiedono procedure particolari di depurazione, mentre il depuratore è stato costruito con molto ritardo, compromettendo la salute del fiume Sarno). Così come, collegato a questo è pure il problema della gestione distorta di fondi pubblici e comunitari per garantirsi il consenso elettorale. Infatti, molto spesso somme ingenti di denaro vengono dirottate su progetti velleitari o di industria parastatale senza prospettive di successo così come, per lo stesso meccanismo, alla presidenza delle ASI ci sono persone, collegate a politici più o meno influenti, che gestiscono l'ente e assegnano le concessioni edilizie secondo criteri che non hanno nulla a che fare con l'efficienza economica.

Un'altra costante di tutti i rapporti distrettuali è costituita dal largo ricorso al lavoro nero, sia in busta paga (che si ha quando datore di lavoro e dipendente si mettono d'accordo per far risultare uno stipendio nominale inferiore a quello effettivo allo scopo di evadere i contributi previdenziali e le imposte sul reddito) che totale. Molto spesso il fatto di essere costretti, per ragioni di bilancio, a ricorrere al lavoro a domicilio già comporta, implicitamente, l'uso di lavoro nero. In alcune interviste riprese anche da Viesti , alcuni imprenditori hanno ammesso di avere dei lavoratori in nero, perché l'applicazione del contratto collettivo nazionale li avrebbe messi fuori mercato. Con l'abolizione nel 1968 delle gabbie salariali, e quindi di un trattamento in busta paga diverso nelle varie zone d'Italia e commisurato alla produttività del lavoro, gli imprenditori meridionali hanno dovuto sostenere un costo del lavoro maggiore, non compensato da aumenti della produttività - raggiungibili solo attraverso ammodernamenti e nuovi investimenti mai effettuati -, che ha costretto a licenziare (dove possibile, e quindi non nella impresa con più di 15 dipendenti) i dipendenti e a riassumerli a nero. I nuovi strumenti di flessibilità del mondo del lavoro, come i contratti di formazione lavoro, sono stati puntualmente fatti oggetto di critiche per il complicato iter burocratico a cui obbligano le imprese, mentre le "borse lavoro" introdotte nel pacchetto Treu collegato alla finanziaria del 1998 obbligano i datori di lavoro ad assicurare al borsista un prefissato numero di ore di teoria, che implicherebbero il ricorso a figure esterne di formatori troppo onerose. Se a questo si aggiunge che, soprattutto in prossimità delle grandi metropoli, molto diffusi sono i fenomeni di criminalità organizzata che impongono servizi di guardia, o estorsioni di vario tipo, si riesce a capire il fenomeno dell'addensamento appenninico dei nuovi distretti, di cui esempi lampanti sono le aree industriali di Isernia, di San Marco dei Cavoti, di Matera e di Lavello. Queste aree dispongono oggi, rispetto a quelle costiere e quelle più affollate, di condizioni ideali per lo sviluppo, quali la disponibilità al lavoro operaio, un diffuso consenso sociale all'insediamento, assenza di conflittualità sociale, bassa dinamica salariale, permeabilità all'apprendimento tecnico e flessibilità d'uso della forza lavoro, tessuti civili meno compromessi dalla presenza di criminalità organizzata, che compensano ampiamente le classiche diseconomie della localizzazione interna (carenze infrastrutturali e di comunicazione). In una certa misura, le parole di Fujita, Krugman e Venables vogliono dire proprio questo: "L'attuale geografia economica mondiale mostra una forte associazione tra il reddito pro capite e condizioni essenzialmente europee: clima temperato, assenza di malaria, gran parte della popolazione vicina alla costa o a fiumi navigabili. Ma ciò riflette probabilmente il ruolo catalitico di questi fattori in passato e non implica che un paese non costiero (ma che ha ora accesso alle moderne tecnologie di raffreddamento) e condizioni ambientali un tempo adatte per la malaria (ma non ora, grazie al suo sradicamento) non possa rompere la sua trappola di sottosviluppo e spostarsi verso una condizione migliore" . Tuttavia, il problema che accomuna tutti i distretti meridionali, sia gli appenninici che i costieri, e che segna anche una certa distanza con quelli più ricchi del Nord, è costituito dall'eccessivo costo del credito per le piccole e piccolissime imprese, oltre che per le ditte individuali: una recente rilevazione della Banca d'Italia segnala che mentre il tasso di interesse applicato sullo scoperto di conto corrente [tassi attivi a breve sulle operazioni di revoca] in Lombardia è del 4,81% (nel Nord Est il 5,9%), al Sud, soprattutto dove il sommerso è più presente, si attesta mediamente al 7,27%, con una punta dell'8,24% in Calabria

Un aspetto poco indagato dell'economia meridionale è la capacità di cooperare e di dividere in modo efficiente il lavoro in settori quali l'alimentazione (legati allo sfruttamento del ciclo di trasformazione dei prodotti della dieta mediterranea) ed il turismo. In genere, quando si parla di distretti industriali a nessuno viene in mente di citare Riccione o la riviera adriatica, anche se i meccanismi messi in atto, il clima collaborativo e le economie di agglomerazione sono tipiche della letteratura sui distretti. Forse la considerazione che si tratta di servizi e non di manifattura è bastata a liquidare il problema da parte di molti studiosi. Certo è che se si decidesse di vedere il tessuto economico meridionale con l'integrazione di questi due settori "anomali" le cose cambierebbero. Viesti ha provato, per parte sua, a mettere a punto un indice di concentrazione per individuare i sistemi turistici: si tratta di sistemi caratterizzati da un rapporto tra addetti al settore turistico e popolazione superiore al doppio della media meridionale, ma non è andato oltre, nel senso che non ha provato a indagare sul campo e a vedere nel dettaglio come si articola il Mezzogiorno dei distretti turistici. Nel settore alimentare , invece, già sono riconosciuti alcuni distretti: oltre a quello ufficiale di Nocera Inferiore (che, peraltro, risulta molto concentrato), sono individuati dall'ISTAT i distretti calabresi di Bisignano, a nord di Cosenza, e Maierano, vicino Vibo Valentia. È probabile che ci sia in futuro un buon sviluppo di queste zone, in virtù della crescente attenzione che sta riscuotendo l'alimentazione biologica e degli sforzi che si fanno in ambito comunitario per certificare la provenienza dei prodotti nostrani con apposito marchio.




Liliana Bàculo, "Il vestito: Grumo Nevano", in "Città, paesi, distretti- trame e nodi della realtà meridionale", Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.

Per avere maggior peso ed interloquire efficacemente con le istituzioni,150 aziende calzaturiere comprese nella zona tra Caserta e Napoli hanno costituito il consorzio "Unica", con sede nell'area industriale di Carinaro, in provincia di Caserta.

Per ulteriori informazioni al riguardo, si veda Iannuzzi,E., "Verso la ridefinizione dei caratteri del distretto conciario di Solofra", Rassegna Economica, n. 3/4, 1994.

Le imprese dei distretti meriodionali costituiscono gruppi societari in misura molto minore di quanto non accada al Nord: ciò è inevitabile quando le stesse unità produttive sono di dimensione più piccola di quelle settentrionali. Si veda: Viesti,G.,"Le esportazioni dei sistemi italiani di piccola e media imprersa", Quaderni di Ricerca ICE, Roma, 1997.

Di minori dimensioni è invece l'Antico Opificio Serico De Negri di San Leucio, venuto alla ribalta recentemente per avere fornito, nel 1998, i tessuti con cui Bill Clinton ha voluto arredare le stanze della Casa Bianca.

Per i costumi da bagno di Gragnano si veda: Gaudino, S. "Al Sud qualcosa di nuovo: il caso Gragnano" in Nord e Sud , novembre-dicembre 1996.

M. E. Porter, "On competition", in Harvard Businesss Review Book, 1998.

La Ittierre di Pettoranello lavora da molti anni per Gianfranco Ferrè.

La fortuna imprenditoriale dei fratelli Perna è tale che oggi essi possono contare su un gruppo societario in cui la holding di famiglia è quotata a Piazza Affari. Di recente essi hanno acquisito anche il controllo della società di carte di credito Diners. Per altre informazioni sulla Ittierre si veda: Viesti,G.," Qualche buon esempio: riflessioni su imprese di successo nel Mezzogiorno", L'Industria, aprile-giugno 1999, pag. 286.

Le aziende calzaturiere di Barletta si sono rivelate molto attive nell'export anche grazie al Progetto Mezzogiorno, promosso dall'ICE. Esso si inseriva nel Programma Operativo Multiregionale "Industria e servizi" e in particolare nel "Programma di interventi a favore delle attività di commercializzazione e dell'apertura internazionale delle piccole e medie imprese (PMI) industriali del Mezzogiorno" (Misura 3.3 della UE) cofinanziato dalla UE. Per la precisione, il Progetto riguardava: informazione, assistenza e consulenza, programmi di penetrazione commerciale, conferenze di commercializzazione, marchi di qualità e certificazione di prodotti. Il Progetto Mezzogiorno, scaduto nel giugno 1997, prevedeva uno stanziamento di 15 milioni di ECU, finanziato per il 48% dalla UE con fondi tratti dal FESR, il 33% con fondi MINCOMES e il rimanente 19% dal contributo delle aziende beneficiarie. Ne erano beneficiarie le PMI delle regioni meridionali. Lo hanno utilizzato circa 2.000 aziende; i settori maggiormente coinvolti sono stati: arredamento, abbigliamento, pelletteria e calzature, attrezzature per l'edilizia, oreficeria, artigianato e agroalimentare. Attualmente si sta discutendo se rifinanziarlo.

Una conferma indiretta dell'importanza e del radicamento socioeconomico di questo distretto, si ha dal fatto che G. Garofoli, nell'articolo "Lo sviluppo delle aree periferiche nell'economia italiana degli settanta", L'Industria,n.2, 1981, in tutto il Meridione aveva individuato solo quattro aree-sistema: quella della calzatura e della pelletteria della provincia di Napoli, della conceria di Solofra e, appunto, dell'abbigliamento di Putignano.

Liliana Bàculo, "Il salotto: Altamura, Matera e Santeramo", in "Città, paesi, distretti- trame e nodi della realtà meridionale", Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.

J. A. Schumpeter, "Capitalismo, Socialismo e Democrazia", Etas Libri, Milano, 1977; J. A. Schumpeter, "Teoria dello Sviluppo economico", Sansoni, Firenze,1971.

Si ricordano le osservazioni di Focarelli e Rossi, in Temi di Discussione della Banca d'Italia, già citati, in merito alla minore richiesta di credito bancario fatta dalle imprese partecipate GEPI negli anni 1984-1996: le holding, ristrutturando le imprese in dissesto, imponevano come prima misura un minor ricorso all'indebitamento esterno. È ragionevole supporre che quel tipo di ragionamento possa essere applicato anche alle imprese meridionali del gruppo di cui ora stiamo parlando. La minore richiesta di servizi bancari moderni ed efficienti ha portato a rinnovare in ritardo il settore creditizio del Mezzogiorno, accentuando le lacune del nostro apparato produttivo.

Si veda il rapporto Eurisles sul prezzo del trasporto merci per le regioni periferiche del 1998, già citato.

Rosanna Nisticò, "La corsetteria: Lavello", in "Città, paesi, distretti- trame e nodi della realtà meridionale", Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.

Manzano è il comune (7500 abitanti) in provincia di Udine, specializzato nel settore mobiliero (specialmente sedie).

F. Perroux, "Note sur la notion de pôle de croissance", in Economie Appliquèe, n.8, 1955.

G. Viesti, "Come nascono i distretti industriali", Laterza, Bari, 2000

Domenico Cersosimo, "Mezzogiorno dei distretti", in "Città, paesi, distretti- trame e nodi della realtà meridionale" Meridiana Libri, a cura di Banca CARIME, Corigliano Calabro, Cosenza, 1999.

M. Fujita, P. Krugman e A. Venables, "The Spatial Economy: cities, regions and international trade",MIT Press, Cambridge,Massachussets,1999.

Bollettino Statistico della Banca d'Italia del giugno 1999.

A tal proposito, interessante risulta lo studio di D. Focarelli e P. Rossi, "La domanda di finanziamenti bancari in Italia e nelle diverse aree del Paese(1984-1996)",in Temi di discussione del Servizio Studi, Banca d'Italia, n.333, Roma, maggio 1998.

Se si guarda all'export di questo settore, le cifre maggiori vengono fatte registrere da realtà produttive che non sono inserite in distretti : La Molisana, Divella o De Cecco sono le aziende leader di un settore che nel 1996 ha fatto registrare 376 miliardi di fatturato, pari al 24% del totale nazionale.




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