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Diritto Commerciale - "L'operatore professionale di borsa"

economia



Diritto Commerciale


"L'operatore professionale di borsa".


E' da qualificarsi come "imprenditore commerciale", un soggetto che risponda a tutti i requisiti indicati nell'art. 2082 ma che non sia né un piccolo imprenditore né un imprenditore agricolo.

L'attività (concetto cardine della nozione di imprenditore secondo la legislazione vigente) ha una sua autonoma disciplina diversa e distinta da quella prevista per i singoli contratti ed atti giuridici attraverso i quali l'attiv 929g68j ità viene esercitata.



Requisito della professionalità = abitualità del compimento di una certa attività che implica l'intento di lucro che va riferito alla attività complessivamente svolta, non già ai singoli atti; che è indipendente dalla sua effettiva realizzazione essendo sufficiente il solo proposito di realizzarlo; che è infine, indipendente dalla destinazione che viene data al guadagno effettivamente realizzato.

Requisito della organizzazione: da non identificarsi necessariamente con l'azienda (che è la forma tipica di organizzazione), bensì in senso atecnico come stabile presenza nell'esercizio dell'attività di fattori estranei all'opera dell'imprenditore: fattori che possono essere rappresentati anche dal solo impiego di capitali (non solo propri ma anche di terzi).

Attività economica: attività produttrice di nuova ricchezza essendo tale non solo quella diretta alla produzione di nuovi beni o manufatti, ma anche quella finalizzata alla loro circolazione, e proprio perché la circolazione dei beni aumentandone l'utilizzabilità accresce il benessere collettivo.

Di conseguenza l'attività dell'operatore di borsa è da considerare un'attività intermediaria nella circolazione dei beni (art. 2195 n. 2) ed organizzata essendo l'organizzazione nella specie rappresentata dall'assunzione di rilevanti responsabilità patrimoniali.





"Attività connesse e impresa commerciale".

L'art. 2135 prevede per l'esercizio dell'attività agricola una speciale disciplina di favore che comporta la non assoggettabilità dell'imprenditore agricolo alle norme che compongono il c.d. statuto soggettivo dell'imprenditore commerciale. E parimenti agricole devono considerarsi anche le c.d. "attività connesse" a quelle propriamente agricole, a condizione che rientrino nell'esercizio normale dell'agricoltura.

L'evoluzione della normativa sull'agricoltura la si coglie soprattutto soffermando l'attenzione sulla attività di allevamento del bestiame e sulle attività connesse.

L'allevamento del bestiame in particolare è stato sempre considerato un tipo di attività accessorio e strumentale rispetto alla coltivazione del fondo. Solo con la prima metà degli anni Trenta inizia ad affermarsi l'idea del carattere autonomo di questa attività che verrà definitivamente sancito dal cod. civ. del 1942.

L'attività di allevamento del bestiame deve considerarsi attività in ogni caso agricola, a prescindere dalle concrete modalità di esercizio della stessa.

Se un soggetto che esercita un'attività agricola svolge anche contemporaneamente, e in maniera non occasionale, altre attività economiche non agricole, lo stesso dovrà senz'altro essere assoggettato allo statuto dell'imprenditore commerciale e quindi anche alla possibilità di essere dichiarato fallito.

Qualsiasi attività di allevamento di animali destinati a soddisfare bisogni essenziali dell'uomo si fa rientrare nell'ambito dell'attività agricola.

Il legislatore con la disciplina delle attività connesse di cui al 2° comma dell'art. 2135 non ha voluto favorire l'evoluzione dell'agricoltura, ma ha solo razionalizzato l'esistente.

Per individuare quali siano le attività "connesse" non è sufficiente considerare solo il tipo di attività (alienazione o trasformazione), l'identità soggettiva (cioè che vengano compiute dallo stesso imprenditore agricolo) e l'esercizio "normale" (nel senso di mancanza di novità con riferimento alla zona). In particolare non saranno considerate connesse quelle attività per il cui esercizio esista una autonoma struttura organizzativa.



"La capacità all'esercizio dell'impresa commerciale".

In tema di capacità all'esercizio di un'impresa commerciale, nel caso del minore che si trovi ad essere titolare di una o più aziende commerciali, spetta al giudice tutelare il potere-dovere di pronunciarsi in merito alla scelta tra la continuazione dell'attività e l'alienazione o la liquidazione della stessa.

Continuazione dell'esercizio dell'impresa e alienazione o liquidazione della stessa non sono poste dal legislatore su un piano di parità: regola generale è la liquidazione o alienazione alla quale è possibile derogare solo se il giudice tutelare stimi evidentemente utile la continuazione.

Il controllo che il giudice tutelare è chiamato ad effettuare non è di mera legalità bensì di merito.

Il legale rappresentante del minore può essere autorizzato solo ad esercitare in nome e per conto del minore stesso, un'attività di "mera gestione" dell'esistente senza possibilità di apportarvi alcuna modifica o alterazione.

L'autorizzazione del tribunale è subordinata alla sussistenza di tutti i requisiti e presupposti richiesti dalla legge. Nel caso in cui l'autorizzazione venga concessa nonostante la mancanza di uno solo di essi, la stessa dovrà essere successivamente revocata con efficacia ex-tunc. In questa ipotesi, poiché l'autorizzazione è, per così dire, affetta da un difetto originario, ne consegue che il minore non avrà mai acquistato la qualifica di "imprenditore commerciale" e quindi non potrà essergli imputata l'attività anche se devono ritenersi validi i contratti conclusi nel frattempo dal suo legale rappresentante con i terzi che, in buona fede, ignoravano la mancanza di quel presupposto per il rilascio dell'autorizzazione.

Anche nel caso in cui l'autorizzazione sia stata validamente concessa e le irregolarità e gli abusi da parte del legale rappresentante siano stati compiuti successivamente, si deve giungere alla medesima conclusione di cui al punto 5: quindi il minore non acquisterà lo status di imprenditore commerciale e tutti gli atti compiuti dal legale rappresentante eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non saranno a lui imputabili, ma degli stessi dovrà rispondere, nei confronti dei terzi di buona fede, unicamente il legale rappresentante.

"s.n.c.: deroghe alla disciplina legislativa".

Il contratto di società non è un contratto formale: per la sua valida esistenza è necessario e sufficiente il solo accordo fra due o più persone di esercitare in comune una determinata attività economica. L'inosservanza dei requisiti formali che la legge richiede per la valida costituzione di un determinato tipo di società comporta unicamente l'inapplicabilità della disciplina prevista per quel determinato tipo.

La maggior parte delle norme riguardanti le società di persone sono dispositive e perciò derogabili dalle parti.

Il potere dei soci di derogare alla disciplina legislativa non è illimitata ma è soggetto, anzi, a due diversi ordini di limitazioni: da un lato quelle derivanti da norme imperative di legge o dai principi fondamentali in materia societaria e dall'altro quelle derivanti dall'esistenza di un diritto individuale del socio. Es. di norme inderogabili: divieto del "patto leonino"; inammissibilità di eventuali clausole statutarie che limitano o addirittura escludano del tutto il diritto di recesso per giusta causa; nullità della clausola statutaria che deroghi alla disciplina sulla liquidazione della quota di cui al 2° comma dell'art. 2289.

Nelle società di persone esiste una corrispondenza fra rischio e potere di gestione: di conseguenza deve ritenersi sussistente un vero e proprio diritto soggettivo del socio ad amministrare. Si tratta peraltro di un diritto disponibile e, in quanto tale liberamente rinunciabile da parte del singolo socio.  Non è, però, legittimo che siano gli altri soci a sacrificare il suddetto diritto come accadrebbe in virtù della clausola statutaria in forza della quale l'amministrazione viene affidata ad alcuni soci che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. Se ne deve di conseguenza dedurre la tassatività dei regimi di amministrazione previsti dalla legge.






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