Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

FUNZIONE DI ATTUAZIONE COERCITIVA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

giurisprudenza



FUNZIONE DI ATTUAZIONE COERCITIVA

DEL DIRITTO INTERNAZIONALE


Il decentramento di questa funzione è lasciata agli stessi Stati attraverso l'AUTOTUTELA: sono gli Stati stessi che attuano le norme, si fanno giustizia da sé, attraverso l'autotutela, che, a differenza del diritto interno, nel diritto internazionale è la regola.

Sul piano formale, l'autotutela mette tutti gli Stati sullo stesso piano, ma sul piano sostanziale, sono solo gli Stati più forti che possono adottare degli strumenti di autotutela più efficaci, per garantire meglio la coercizione del diritto, mentre gli Stati deboli sono in difficoltà ad adottare delle misure più efficaci.

Prima di arrivare all'autotutela, dobbiamo prima chiarire cosa sia un illecito, come si arriva ad un illecito. Questo è il problema della RESPONSABILITA' INTERNAZIONALE. La responsabilità internazionale si determina in base ad un soggetto di diritto internazionale che abbia violato degli obblighi internazionalmente assunti.

La Commissione di diritto internazionale, fin dal 1953, ha studiato la possibilità di codificare la materia, affidando a diversi relatori il compito di presentare progetti. Risultato di questa attività è stato un progetto di articoli sulla responsabilità internazionale suddiviso in tre parti (ma soltanto le prime due sono le più importanti):



1° PARTE = origine della responsabilità che riprende la quasi totalità delle formulazioni del relatore Roberto Ago e tratta, in 35 articoli, degli elementi del diritto internazionale. Il testo costituisce la base della trattazione del tema della responsabilità;

2° PARTE = contenuto, forma e gradi della responsabilità, cioè le conseguenze dell'illecito (artt. 36/53);

3° PARTE = soluzione delle controversie (artt. 54/60).

La stesura del progetto relativo alla seconda e alla terza parte fu portato avanti dal relatore Arangio Ruiz, nominato nel 1986. Nel 1996 il testo completo è stato approvato in prima lettura dalla Commissione e trasmesso al Segretario Generale delle Nazioni Unite affinché potesse essere esaminato dai vari Stati per ulteriori commenti e osservazioni (ma non è ancora in vigore: è tuttora in discussione).


NOZIONE DI ILLECITO INTERNAZIONALE: L'ART. 1 della Prima Parte del Progetto condiziona la responsabilità di uno Stato alla commissione di un fatto illecito = Ogni atto internazionalmente illecito di uno Stato comporta la sua responsabilità internazionale.. Il termine è di ampia portata e ricomprende sia azioni positive (atti) che omissioni o astensioni degli organi dello Stato.

L'ART. 3 riguarda gli elementi dell'illecito. C'è un atto illecito quando:

a)      c'è una condotta che costituisce omissione = elemento soggettivo

b)      c'è la violazione dell'atto = elemento oggettivo

L'elemento soggettivo, consiste nell'esistenza di un comportamento attribuibile allo Stato.

L'elemento oggettivo, consiste nell'antigiuridicità di questo comportamento.


ELEMENTO SOGGETTIVO DELL'ILLECITO: Elemento soggettivo dell'illecito è il comportamento che può essere attribuito allo Stato alla stregua del diritto internazionale. Si tratta di vedere quando il comportamento commissivo o omissivo può essere attribuito allo Stato.

L'ART. 5 specifica che per comportamento attribuibile allo Stato si intende il comportamento di un qualsiasi organo dello Stato che abbia tale qualità secondo il diritto interno dello Stato medesimo. = in linea di principio lo Stato risponde del comportamento tenuto dai suoi organi: alla fine, è lo Stato che ha agito attraverso i suoi organi.

ART. 6 = Il comportamento di un organo dello Stato sarà considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale, sia che tale organo appartenga al potere costituente, legislativo, esecutivo, giudiziario o altro, ....., sia che abbia una posizione di subordinazione o di supremazia nell'organizzazione dello Stato.

All'ART. 5 si parla di organi dello Stato che siano propri del diritto interno dello Stato. Il diritto internazionale attribuisce rilevanza all'organizzazione effettiva dello Stato, ma dire che il diritto internazionale si limita a rinviare agli organi interni dello Stato, è troppo superficiale. Ci si riferisce all'organizzazione effettiva dello Stato.

Il diritto internazionale attribuisce allo Stato il comportamento di tutti gli enti territoriali minori che esistono all'interno dello Stato, anche se all'interno dello Stato questi enti hanno una personalità distinta e separata dallo Stato stesso (es. nel nostro Stato, le Regioni, le Province e i Comuni): vale questo anche per quegli Enti pubblici cui lo Stato attribuisca l'esercizio di pubbliche funzioni, che altrimenti spetterebbero al Ministero competente per materia.

ART. 7 = Sarà considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale anche il comportamento di un organo di un ente di governo territoriale di tale Stato, purché, nel caso in questione, tale organo abbia agito in tale qualità.

Sarà considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale anche il comportamento di un organo di un ente che non fa parte della struttura formale dello Stato o di un ente di governo territoriale, ma che è abilitato dal diritto interno di tale Stato ad esercitare prerogative dell'autorità di governo, purché, nel caso in questione, tale organo abbia agito in tale qualità.

In certi casi, anche l'attività di un individuo o gruppi di individui, può essere attribuita allo Stato, se l'individuo o il gruppo di individui stava agendo per conto dello Stato.

ART. 8 = Il comportamento di una persona o di un gruppo di persone sarà considerato anch'esso come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale se:

a)      è stabilito che tale persona o gruppo di persone ha agito di fatto per conto di tale Stato; o

b)      tale persona o gruppo di persone ha esercitato di fatto prerogative dell'autorità di governo in assenza di autorità ufficiali e in circostanze che giustificavano l'esercizio di quelle prerogative dell'autorità.

Il punto più importante è il punto A: questo individuo o gruppo di individui agisce di fatto per conto dello Stato e il suo comportamento viene, pertanto, attribuito allo Stato.

Esempio importante sul punto è costituito dalla famosa sentenza resa dalla Corte Internazionale di Giustizia del 24/5/1980, nel caso del personale diplomatico e consolare degli Stati Uniti in Iran; l'azione di militanti islamici che avevano occupato i locali dell'ambasciata americana fu ritenuta imputabile al governo iraniano, a partire dal momento in cui le autorità iraniane approvavano l'occupazione e decisero di perpetuarla e di utilizzarla a precisi fini politici. A giudizio della Corte l'approvazione del governo conferiva ai militanti islamici la qualità di agenti di fatto dello Stato iraniano.

In un primo momento lo Stato risponde del comportamento dei suoi organi, qualunque che siano gli organi, anche se distinti dallo Stato.

In certi casi il comportamento dell'organo dello Stato può essere imputabile ad uno Stato diverso da quello a cui l'organo appartiene. Un organo può, cioè, appartenere formalmente ad uno Stato, ma essere, di fatto, organo di un altro Stato, in quanto agisce per conto di quest'ultimo sulla base delle sue istruzioni. In questo caso, il comportamento dell'organo è imputabile allo Stato per il quale esso agisce, pur non facendone parte.

ART. 9 = Il comportamento di un organo che è stato posto a disposizione di uno Stato da un altro Stato o da un'organizzazione internazionale sarà considerato come un atto del primo Stato ai sensi del diritto internazionale, se tale organo ha agito nell'esercizio di prerogative dell'autorità di governo dello Stato a disposizione del quale è stato posto.

Lo Stato risponde del comportamento dei suoi organi e di tutti gli organi che agiscono sotto il suo controllo; mentre non risponde se l'individuo o gruppi di individui non agiscono sotto la sua direzione, ma questo non vuol dire che lo Stato non sia mai responsabile dei comportamenti dei suoi cittadini (v. es. Iran citato precedentemente).

ART. 11 = Non sarà considerato come atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale il comportamento di una persona o gruppo di persone che non agiscono per conto dello Stato.

Il paragrafo 1 non pregiudica l'attribuzione allo Stato di qualsiasi altro comportamento che sia collegato a quello delle persone o dei gruppi di persone ai quali il paragrafo 1 si riferisce e che deve essere considerato come un atto dello Stato in virtù degli articoli da 5 a 10.

Ultima cosa da dire riguardo all'elemento soggettivo:

ART. 10: Il comportamento di un organo di uno Stato, di un ente di governo territoriale o di un ente abilitato ad esercitare prerogative dell'autorità di governo, sarà considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale anche se, nel caso specifico, l'organo abbia ecceduto la sua competenza secondo il diritto interno o contravvenuto alle istruzioni relative alla sua attività. = La commissione si schiera a favore di coloro che affermano che lo Stato si mette comunque a favore dei suoi organi, anche se tali organi agiscono fuori delle loro competenze.


ELEMENTO OGGETTIVO DELL'ILLECITO: E' l'elemento dell' antigiuridicità del comportamento. Deve essere un comportamento contrario ad un obbligo dello Stato. Il fatto illecito è costituito dalla violazione di un obbligo internazionale o dalla non conformità di un comportamento dello Stato a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo.

Dell'elemento oggettivo si occupa il Cap. III, Parte I del progetto, artt. 16/26.

ART. 16 = Si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un atto di quello Stato non è conforme a quanto gli è richiesto da tale obbligo.

ART. 17/1 = Un atto di uno Stato che costituisce una violazione di un obbligo internazionale è un atto internazionalmente illecito indipendentemente dalla fonte, sia essa consuetudinaria, pattizia o altra, di tale obbligo. = è irrilevante la fonte dell'obbligo che è stato violato.

ART. 18 = Un atto di uno Stato che non è conforme a quanto gli è richiesto da un obbligo internazionale costituisce una violazione di quell'obbligo solo se l'atto è stato compiuto al tempo in cui l'obbligo era in vigore per tale Stato. = un obbligo deve essere in vigore perché sia commesso l'illecito, cioè l'obbligo che si ritiene che è stato violato deve essere in vigore.

Il progetto fa una serie di distinzioni:

illeciti omissivi o commissivi = nel caso di illeciti omissivi, la norma violata imponeva allo Stato di non adottare il comportamento tenuto, es. l'obbligo per uno Stato di adottare certe norme nel suo diritto penale interno, norme che se non adotta, commette un illecito, perché il trattato gli imponeva di adottarle; nel caso di illeciti commissivi, la norma prescriveva un comportamento che lo Stato non ha posto in essere, attraverso un comportamento positivo, lo Stato viola un obbligo (di non fare) e commette un illecito.

Illeciti istantanei e di durata = l'illecito istantaneo si realizza e si estingue in un momento preciso; l'illecito di durata perdura per tutto il tempo in cui dura la violazione. ART. 24 - ILLECITO ISTANTANEO: La violazione di un obbligo internazionale per mezzo di un atto 818e44i dello Stato che non si estende nel tempo si produce nel momento in cui l'atto è compiuto. Il tempo della commissione della violazione non si estende oltre tale momento, anche se gli effetti dell'atto dello Stato continuano in seguito. ART. 25 - ILLECITO DI DURATA: La violazione di un obbligo internazionale per mezzo di un atto 818e44i dello Stato avente carattere continuativo si produce nel momento in cui l'atto comincia. Ciononostante il tempo della commissione della violazione si estende per tutto il periodo durante il quale l'atto continua e rimane non conforme all'obbligo internazionale.

Illeciti di condotta e di risultato = L'illecito di condotta si verifica quando la norma impone allo Stato un determinato comportamento (es. adozione di una normativa uniforme in una materia determinata); l'illecito di risultato si verifica quando lo Stato, lasciato libero nella scelta dei mezzi, è chiamato a garantire un risultato preciso richiesto da norme finali (es. predisposizione di idonee garanzie di giustizia a favore degli stranieri). ART. 20 - ILLECITO DI CONDOTTA: Vi è una violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale che richiede che esso osservi una particolare modalità di comportamento quando il comportamento di tale Stato non è conforme a quanto gli è richiesto da tale obbligo. ART. 21 - ILLECITO DI RISULTATO: Vi è una violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale che richiede che esso raggiunga, con mezzi di sua scelta, uno specifico risultato se, attraverso il comportamento adottato, lo Stato non raggiunge il risultato che gli è richiesto da tale obbligo.

La commissione fa un'altra distinzione fondata sul contenuto dell'obbligo violato, cioè la distinzione tra ILLECITI PIU' GRAVI e ILLECITI MENO GRAVI, cioè tra CRIMINI (illeciti più gravi) e DELITTI (illeciti meno gravi). Questa distinzione si ripercuote esclusivamente sulle conseguenze dell'illecito, essendo chiaro che la violazione di un obbligo internazionale genera sempre un fatto internazionalmente illecito, quale che sia l'oggetto dell'obbligo violato.

ART. 19/1 = Un atto di uno Stato che costituisce una violazione di un obbligo internazionale è un atto internazionalmente illecito quale che sia l'oggetto dell'obbligo violato.

Nel diritto internazionale generale gli illeciti erano tutti posti sullo stesso piano e davano luogo alle stesse conseguenze. Distinguere ora tra illeciti più o meno gravi ha senso solo se si ammette che quelli più gravi abbiano poi delle conseguenze maggiori, mentre se vediamo la II parte di questo progetto di articoli, riferito alle conseguenze degli illeciti, tutto questo si riduce a poco.

Vediamo quali dovrebbero essere questi crimini.

ART. 19/2: Un atto internazionalmente illecito, che risulta dalla violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale tanto essenziale per la protezione di interessi fondamentali della comunità internazionale che la sua violazione è riconosciuta come un crimine da tale comunità nel suo insieme, costituisce un crimine internazionale. = il crimine internazionale è una violazione di una norma consuetudinaria, considerata essenziale dagli Stati, che protegge degli interessi per gli Stati nel suo insieme.

Gli esempi dei crimini internazionali - ART. 19/3:

a)      una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, quale quello che vieta l'aggressione;

b)      una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia del diritto di autodeterminazione dei popoli, quale quello che vieta l'istituzione o il mantenimento con la forza di una dominazione coloniale;

c)      una violazione grave su larga scala di un obbligo internazionale di importanza fondamentale per la salvaguardia dell'essere umano, quali quelli che vietano la schiavitù, il genocidio e l'apartheid;

d)      una violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per la salvaguardia e la conservazione dell'ambiente umano, quale quelli che vietano l'inquinamento massiccio dell'atmosfera o dei mari

Questi crimini internazionali dello Stato non vanno confusi con i crimini internazionali degli individui: ci sono delle norme che prevedono dei crimini internazionali degli individui, le quali prevedono che certi crimini possono essere repressi, e in alcuni casi devono essere repressi, penalmente. Per i crimini dello Stato risponde lo Stato sul piano internazionale. C'è un collegamento tra i due tipi di crimini, in quanto, se il crimine dell'individuo è commesso quale organo dello Stato, tale crimine sarà imputabile anche allo Stato che ne risponde sul piano internazionale, oltre che essere imputabile all'individuo che ne risponde personalmente, penalmente. Ma non sempre i due crimini coincidono tra di loro. L'individuo sarà punito sulla base di una norma interna dello Stato.


CIRCOSTANZE CHE ESCLUDONO L'ILLECEITA' DEL COMPORTAMENTO: Sono quelle circostanze che una volta verificatesi escludono la responsabilità dello Stato, in quanto viene meno l'elemento oggettivo della stessa, cioè l'antigiuridicità del fatto. Di tali circostanze se ne occupa il cap. V, agli artt. 29/33 e sono:

consenso dello Stato leso;

forza maggiore e caso fortuito;

estrema necessità;

stato di necessità.

ART. 29/1 - CONSENSO: Il consenso validamente prestato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di uno specifico atto non conforme ad un obbligo del secondo Stato nei confronti del primo esclude l'illiceità dell'atto in relazione a quello Stato, nella misura in cui l'atto non eccede i limiti del consenso. = il consenso funziona come causa di esclusione. Il consenso deve essere validamente dato: i vizi del consenso che possono invalidare la manifestazione di volontà nella conclusione dei trattati, sono invalidanti del consenso anche in questa ipotesi.

ART. 29/2: Il paragrafo 1 non si applica se l'obbligo deriva da una norma imperativa del diritto internazionale generale. Ai fini dei presenti articoli, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come una norma alla quale non è ammessa alcuna deroga e che può essere modificata solo da una successiva norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere.

ART. 31 - FORZA MAGGIORE E CASO FORTUITO: L'illiceità di un atto di uno Stato non conforme ad un obbligo internazionale di tale Stato è esclusa se l'atto è stato dovuto ad una forza irresistibile o a un avvenimento esterno imprevedibile, fuori da suo controllo, (forza maggiore), che ha reso materialmente impossibile allo Stato di agire in conformità a tale obbligo o di rendersi conto che il comportamento non era conforme a tale obbligo (caso fortuito). = la forza maggiore costituisce un evento inarrestabile a cui non è possibile opporsi; nel caso fortuito l'evento era soltanto non prevedibile.

ART. 32 - ESTREMO PERICOLO: L'illiceità di un atto di uno Stato non conforme ad un obbligo internazionale di tale Stato è esclusa se l'autore del comportamento che costituisce l'atto di tale Stato non aveva altri mezzi per salvare, in una situazione di estremo pericolo, la vita propria o quella di persone affidate alle sue cure. = è la situazione in cui si trova un individuo-organo dello Stato, il quale, per salvare la propria vita o quella di persone a lui affidate da un pericolo grave e imminente, commette un illecito.

ART. 33 - STATO DI NECESSITA': Uno stato di necessità non può essere invocato da uno Stato come motivo di esclusione dell'illiceità di un atto di tale Stato non conforme ad un obbligo internazionale di tale Stato a meno che:

a)      l'atto fosse solo il mezzo per salvaguardare un interesse essenziale dello Stato di fronte ad un pericolo grave ed imminente; e

b)      l'atto non compromettesse in modo serio un interesse essenziale dello Stato rispetto al quale sussiste l'obbligo.

In ogni caso uno stato di necessità non può essere invocato da uno Stato come motivo di esclusione dell'illiceità:

a)      se l'obbligo internazionale cui l'atto non è conforme deriva da una norma imperativa del diritto internazionale generale; o

b)      se lo Stato in questione ha contribuito alla creazione dello stato di necessità.

= una situazione di pericolo grave ed imminente in cui però viene a trovarsi uno Stato che si vede quindi costretto a violare una norma internazionale. Si parla di stato di necessità quando il pericolo riguarda lo Stato nel suo complesso, non l'individuo, come nel caso precedente.

La Corte ha detto che questo ART. 33 corrisponde al diritto consuetudinario dello Stato.


Altre due cause di estinzione dell'illecito internazionale, che troviamo agli artt. 30 e 34, si riferiscono all'AUTOTUTELA, cioè delle misure che possono consistere nella LEGITTIMA DIFESA, che si ha quando lo Stato usa la forza per difendersi da un attacco armato = ART. 34 - L'illiceità di un atto di uno Stato non conforme ad un obbligo internazionale di tale Stato è esclusa se l'atto costituisce una misura di legittima difesa presa in conformità alla Carta delle Nazioni Unite; e vediamo anche le CONTROMISURE (in passato chiamate "rappresaglie", che si hanno quando lo Stato vittima dell'illecito può adottare delle contromisure (o rappresaglie) non implicanti l'uso della forza, per costringere lo Stato autore dell'illecito a far fronte ai suoi obblighi e tali contromisure possono consistere in comportamenti illeciti, giustificati dal fatto che tali contromisure sono usate per far cessare un altro fatto di per sé già illecito. = ART. 30 - L'illiceità di un atto di uno Stato non conforme ad un obbligo di tale Stato nei confronti di un altro Stato nei confronti di un altro Stato è esclusa se l'atto costituisce una misura legittima secondo il diritto internazionale contro l'altro Stato, in conseguenza di un atto internazionalmente illecito di tale altro Stato.


(AUTOTUTELA - v. più avanti).










Un problema su cui dobbiamo soffermarci ora è vedere se accanto ai due elementi costitutivi dell'illecito elencati all'ART. 3, non esistano altri elementi.

In particolare, sono due gli elementi che la Commissione ha escluso che siano elementi costitutivi dell'illecito, cioè:

la COLPA; e

il DANNO.

Vediamo perché la Commissione non ha inserito questi due elementi.

Per quanto riguarda la COLPA: nella definizione di responsabilità internazionale dello Stato si afferma che essa sorge in capo allo Stato indipendentemente dall'esistenza a suo carico di una specifica colpa, intesa come violazione di un obbligo di diligenza, perizia o prudenza nell'evitare che si produca l'evento dannoso. La soluzione generalmente accolta dalla dottrina internazionalistica esclude che per aversi responsabilità internazionale dello Stato sia necessario l'elemento della colpa: al contrario il regime generale sarebbe quello della responsabilità oggettiva secondo il quale quando si stabilisce un legame tra il comportamento dell'organo (elemento soggettivo) e l'antigiuridicità di tale comportamento (elemento oggettivo) lo Stato è da ritenersi ipso facto responsabile, a prescindere da qualunque elemento colposo. E' comunque possibile per lo Stato accusato della violazione di un obbligo internazionale dimostrare l'esistenza di una circostanza che esclude tale responsabilità. La responsabilità oggettiva rappresenta la soluzione più valida per assicurare migliori relazioni internazionali e per garantire l'effettiva riparazione dell'illecito.

Per quanto riguarda il DANNO: sembra ormai accettato che, in conformità al disposto dell'ART. 3 del progetto, l'esistenza di un illecito nei confronti della Comunità Internazionale sussiste a prescindere dall'effettiva lesione del diritto di un altro Stato (così in materia di tutela dei diritti umani dei propri cittadini). L'esistenza del danno influisce esclusivamente sulle conseguenze dell'illecito in termini di obbligo di riparazione.


CONSEGUENZE DELL'ILLECITO INTERNAZIONALE

La II parte del Progetto si riferisce al CONTENUTO, FORME E GRADI DELLA RESPONSABILITA' INTERNAZIONALE: ci dice cosa deve essere fatto quando viene commesso un illecito internazionale.

Le conseguenze dell'illecito internazionale sono essenzialmente tre:

obbligo di cessazione dell'illecito;

obbligo di riparazione dell'illecito;

obbligo di tollerare che lo Stato leso adotti delle misure di autotutela nei confronti dell'autore dell'illecito.

ART. 41 - CESSAZIONE: Uno Stato il cui comportamento costituisce un atto internazionalmente illecito avente carattere continuato ha l'obbligo di cessare tale comportamento, senza pregiudizio della responsabilità in cui sia già incorso. = La cessazione ha senso solo quando si è in presenza di un illecito continuato, un illecito di durata: quando si tratta di un illecito istantaneo, l'illecito è già cessato, non è più in atto, pertanto non ha senso chiedere la cessazione dell'illecito. Infatti, tale obbligo è prescritto in ogni caso di violazione continuativa di una norma in cui l'esistenza di una situazione illecita non si estingue in un'azione puntuale ma si perpetua nel tempo. In questo caso si impone la cessazione dell'azione o omissione contraria al diritto internazionale, senza pregiudizio della responsabilità in cui lo Stato autore del fatto è incorso.

Non si tratta di un nuovo obbligo, ma di un obbligo già esistente: se lo Stato commette una violazione, tale Stato, cessando la sua violazione, non fa altro che adempiere all'obbligo che già aveva di non commettere l'illecito.

ART. 42/1 - RIPARAZIONE: Lo Stato offeso ha diritto di ottenere dallo Stato che ha commesso un atto internazionalmente illecito piena riparazione sotto forma di restituzione in forma specifica, risarcimento, soddisfazione ed assicurazioni e garanzie di non reiterazione, singolarmente o in combinazione. = Vengono messe in evidenza varie forme di riparazione: prima di tutto la restituzione in forma specifica, la quale indica l'obbligo per lo Stato autore dell'illecito di cancellare tutte le conseguenze del fatto illecito e ristabilire lo stato di cose che sarebbe verosimilmente esistito, se il suddetto fatto non fosse stato commesso = (ART. 43). Si tratta della forma principale di riparazione, che l'ART. 43 sottopone a quattro condizioni:

che sia materialmente possibile;

che non comporti la violazione di una norma di jus cogens;

che non sia eccessivamente onerosa per lo Stato autore del fatto illecito internazionale;



che non costituisca un pericolo per l'indipendenza politica e la stabilità economica dello Stato che ha commesso l'illecito: tale condizione è inefficace se gli stessi effetti si avessero sullo Stato leso nell'ipotesi di mancata restituzione.

Questa forma di restituzione in forma specifica non sempre è possibile, perché potrebbe essere diventata impossibile la restituzione stessa, ad es. perché l'illecito ha portato alla distruzione degli oggetti. Questa forma di restituzione si concilia con il risarcimento (ART. 44), che rappresenta una forma di riparazione del danno arrecato che si concretizza nella corresponsione di una determinata somma, a titolo di indennizzo, allo Stato leso. Esso è corrisposto:

sia a titolo di riparazione per equivalente: lo Stato offensore è tenuto a versare una somma di denaro equivalente al valore che avrebbe avuto la reintegrazione dello status quo ante. Tale pagamento sostituisce la restituzione in forma specifica;

sia a titolo di riparazione dei danni provocati: la somma dovuta sarà quindi o aggiunta alla precedente o corrisposta in via autonoma.

Il risarcimento costituisce una forma di riparazione universalmente accettata, finalizzata alla reintegrazione dei danni materiali e diretti, subiti dallo Stato leso.

Abbiamo poi, infine, la soddisfazione (ART. 45), che costituisce una forma di riparazione del pregiudizio morale arrecato dall'illecito e prescinde dalla corresponsione del risarcimento dei danni. L' ART. 45 indica diverse forme di soddisfazione:

le scuse fornite da un organo ufficiale;

il versamento di una somma simbolica di denaro a titolo di sanzione o dissuasione per il futuro;

la punizione agli individui responsabili secondo il diritto interno;

l'assicurazione e la garanzia della non ripetizione dell'illecito.

Parlando di risarcimento ai fini dell'ART. 44, si parla di danno morale e patrimoniale subito dallo Stato; l'ART. 45 parla di danno imputabile all'individuo da parte dello Stato.

ESEMPIO: L'esistenza di un autonomo obbligo di restituzione in forma specifica è stata confermata nella sentenza arbitrale del 1990 tra Francia e Nuova Zelanda. La riparazione dovuta per il sabotaggio della nave appartenente all'organizzazione ambientalista Greenpeace, aveva condotto all'adozione di un accordo tra Francia e Nuova Zelanda secondo il quale i due agenti sabotatori francesi avrebbero dovuto essere confinati per tre anni nell'isola di Hoa. In violazione dell'accordo, la Francia li faceva rimpatriare, per motivi di salute, prima dello scadere della data convenuta. La Nuova Zelanda adiva quindi un Tribunale arbitrale per ottenere l'adempimento dell'obbligo. Argomentando che la richiesta neozelandese fosse stata formulata esclusivamente a titolo di cessazione dell'illecito e non di restituzione in forma specifica, il tribunale costituito rigettava la domanda, essendosi l'obbligo della detenzione triennale estinto precedentemente all'emanazione della sentenza arbitrale.

Quindi, le conseguenze dell'illecito internazionale sono tre, secondo il Progetto della Commissione: l'obbligo della cessazione del comportamento illecito, che però ha senso solo se l'illecito è continuato (se è istantaneo non ha senso). Comunque, più che di un nuovo obbligo, si tratta di un vecchio obbligo che lo Stato è sempre obbligato ad adempiere. La conseguenza più importante è la riparazione, nelle sue varie forme, cioè la restituzione in forma specifica e, se questa non è possibile, il risarcimento del danno e la soddisfazione, per quello che riguarda il danno morale, il quale può anch'esso avere varie forme (presentazione di scuse, indennizzo simbolico, pagamento di una somma di denaro per punire lo Stato anche se non ha subito nessun danno, e un'azione disciplinare o punizione dei responsabili degli individui che hanno agito per conto dello Stato).

Ci sarebbe un'altra conseguenza che la Commissione elenca tra le conseguenze dell'illecito, che però è del tutto irrilevante: ART. 46 - ASSICURAZIONI E GARANZIE DI NON REITERAZIONE: Lo Stato offeso, ove opportuno, ha diritto di ottenere dallo Stato che ha compiuto un atto internazionalmente illecito assicurazioni e garanzie di non reiterazione dell'atto illecito. = Ma questa è una conseguenza poco significativa, anche se è vero che nella prassi si verifica anche questo: lo Stato vittima dell'illecito chiede la cessazione, chiede la riparazione e chiede anche le garanzie di non reiterazione.


La terza conseguenza importante, invece, è l'AUTOTUTELA, cioè la possibilità per lo Stato vittima dell'illecito di adottare delle misure di autotutela nei confronti dell'autore dell'illecito per costringerlo a cessare il suo comportamento, se questo è ancora in atto, e a fornire un'adeguata riparazione.

Prima di parlare dell'autotutela è opportuno rivedere quella distinzione fatta dalla Commissione, tra crimini e delitti. Questa distinzione ha però senso solo se poi, quando uno Stato commette un crimine, ne derivano delle conseguenze più gravi, di quelle che normalmente derivano dalla commissione di un delitto, altrimenti non ha senso distinguere tra crimini e delitti, se poi le conseguenze sono sempre quelle che derivano da qualsiasi illecito internazionale.

La Commissione, dopo lunghe discussioni, pur mantenendo la distinzione tra crimini e delitti, ha poi ridotto a poca cosa queste conseguenze più gravi che secondo la Commissione stessa, dovrebbero derivare dal compimento di un crimine internazionale, tanto è vero che non è chiaro se questa distinzione rimarrà, anche se poi nella prassi gli Stati cominciano ad accusarsi reciprocamente di aver commesso non un semplice illecito, ma addirittura un crimine internazionale, quindi questa distinzione una qualche influenza sulla prassi degli Stati sembra avercela.

Vediamo quali sono queste conseguenze più gravi che, secondo tale Commissione, derivano dal compimento di un crimine internazionale. L'unica conseguenza veramente rilevante riguarda la TITOLARITA' DEL DIRITTO A FAR VALERE LA RESPONSABILITA' INTERNAZIONALE DELLO STATO AUTORE DI UN CRIMINE: infatti, in linea generale, lo Stato che può far valere la responsabilità internazionale di uno Stato che commesso l'illecito, quindi lo Stato che ha diritto a chiedere la cessazione, la riparazione, ha diritto ad adottare delle misure di autotutela (es. delle rappresaglie, per costringere lo Stato autore dell'illecito a cessare il suo comportamento e fornire un'adeguata riparazione), lo Stato che ha titolo per far valere la responsabilità internazionale dell'autore dell'illecito è lo Stato leso, cioè la vittima dell'illecito internazionale. In linea di principio, c'è uno Stato leso, uno Stato nei cui confronti è stata violata la norma internazionale: quando uno Stato viola un obbligo che gli deriva da una norma, violare un suo obbligo, significa violare un diritto altrui: così che lo Stato leso è lo Stato il cui diritto è stato violato, in seguito alla violazione dell'obbligo che incombeva allo Stato che ha commesso l'illecito, e sarà questo lo Stato leso che avrà titolo per chiedere allo Stato autore dell'illecito la cessazione del comportamento, la riparazione e che potrà adottare le contromisure.

Una delle caratteristiche dello Stato leso la troviamo all'ART. 40/1e3: Ai fini dei presenti articoli "Stato offeso" indica qualunque Stato un diritto del quale sia violato dall'atto di un altro Stato, se tale atto costituisce, ai sensi della Parte I, un atto internazionalmente illecito di tale Stato. ... In aggiunta "Stato offeso" indica, se l'atto internazionalmente illecito costituisce un crimine internazionale, ogni altro Stato. = definisce qual è lo Stato offeso (o leso), quello che può far valere la responsabilità internazionale dell'autore dell'illecito.

Siccome il crimine internazionale è la violazione di una norma di importanza fondamentale per la comunità internazionale nel suo complesso, quando uno Stato commette un crimine internazionale, cioè compie un atto di aggressione o usa la forza per mantenere la dominazione coloniale di fronte alla popolazione che si è ribellata, o commette un massiccio inquinamento dell'atmosfera e dei mari, o commette atti di genocidio, o apartheid, o altre gravi violazioni dei fondamentali diritti dell'uomo, in questi casi non c'è uno o più Stati lesi determinati, ma sono stati lesi tutti gli Stati, è l'intera comunità territoriale che deve considerarsi lesa dalla commissione di questo illecito, che è un illecito che viola una norma di importanza fondamentale per l'intera comunità internazionale. Dire che, in questo caso, gli Stati lesi sono tutti gli Stati è l'unica conseguenza veramente significativa del crimine internazionale: in questo caso, tutti gli Stati potranno, ovviamente se vorranno, chiedere la cessazione, la riparazione, o adottare delle contromisure, cioè adottare, ad esempio, delle sanzioni economiche nei confronti dello Stato che ha commesso il crimine internazionale.

Parlando dell'autotutela, vedremo che questo è molto controverso nella prassi, cioè è molto controverso se di fronte ad un illecito particolarmente grave, quali quelli che la Commissione ha definito "crimini internazionali", tutti gli Stati, e non solo lo Stato direttamente leso, ammesso che ci sia, possono adottare delle contromisure: c'è una linea di tendenza, sia nella dottrina, che nella prassi, che dice che gli Stati terzi, rispetto a quello direttamente leso, non possono adottare delle contromisure, non c'è un regime di autotutela collettiva, nemmeno in tema di crimini internazionali, a meno che non sia stata una decisione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU nel quadro del sistema di sicurezza collettiva delle N.U. (che vedremo).

Quindi, tutti gli articoli della Parte II che prevedono quali sono i diritti dello Stato offeso e gli obblighi dello Stato che ha commesso un atto internazionalmente illecito, quindi il diritto di chiedere la cessazione, la riparazione, di adottare delle misure di autotutela, anche se non è detto esplicitamente, sono diritti dello Stato offeso, se nel caso di un crimine sono offesi tutti gli Stati, vuol dire che tutti gli Stati possono chiedere la cessazione, la riparazione, o adottare delle misure di autotutela.

E questa è l'unica conseguenza veramente significativa che la Commissione ha voluto adottare per quanto riguarda il compimento di un crimine. Però, questa non è una conseguenza dei soli crimini internazionali, ma è una conseguenza della violazione di tutte quelle norme, sia convenzionali che consuetudinarie, che creano obblighi erga omnes a carico degli Stati.

Nel diritto internazionale tradizionale si riteneva che tutte le norme internazionali, quelle dei trattati, ma anche quelle consuetudinarie, che vincolano tutti gli Stati nei confronti di tutti gli altri Stati, creassero dei vincoli bilaterali nei rapporti tra gli Stati, nel senso che la violazione di un trattato o la violazione di una norma di diritto internazionale consuetudinario, doveva considerarsi come un illecito esclusivamente nei confronti di uno Stato determinato, quello direttamente leso dalla violazione.

ES.: Norma consuetudinaria tipica è la norma sulla libertà dell'alto mare, la quale prevede che in alto mare le navi private sono assoggettate all'esclusivo potere di Governo dello Stato di bandiera, di nazionalità: quando una nave è in alto mare solo lo Stato di bandiera della nave può interferire materialmente nei confronti della nave con ogni tipo di interferenza nei confronti della nave. Le navi degli Stati terzi diversi da quelli di bandiera, non possono in nessun modo, salvo eccezioni, interferire con la navigazione e, in generale, con l'attività delle navi private in alto mare = norma di diritto internazionale generale che vincola tutti gli Stati. Però quando uno Stato, diverso da quello di bandiera, viola questa norma, per esempio, interferisce con la nave privata, fermandola o perquisendola, commette un illecito nei confronti dello Stato direttamente leso = norma consuetudinaria tradizionale che istituisce vincoli bilaterali, perché una volta violata, c'è un illecito esclusivamente nei confronti di uno Stato, quello direttamente leso. A maggior ragione qui si tratta di una norma di un trattato.

Nel diritto internazionale contemporaneo, invece, ci sono tutta una serie di norme che la dottrina considera, oggi, norme istitutive di vincoli solidali, o erga omnes (che non esistevano nel diritto internazionale tradizionale), nel senso che la violazione di queste norme è da considerarsi come un illecito nei confronti di tutte le parti del trattato, se si tratta di un trattato, oppure nei confronti dell'intera comunità internazionale, se si tratta di una norma di diritto consuetudinario.

ES.: i nostri diritti dell'uomo: la violazione non comporta nemmeno che ci sia uno Stato direttamente leso. Quando viene violata una norma dei diritti dell'uomo, non c'è uno Stato direttamente leso che potrebbe far valere la responsabilità internazionale dello Stato autore, perché se lo Stato viola i diritti dell'uomo nei confronti dei suoi cittadini, non c'è uno Stato che è direttamente leso dalla violazione: ci sarebbe, se venissero violati i diritti degli stranieri, ma se invece vengono violati i diritti dei cittadini dello Stato, non c'è uno Stato direttamente leso = questo è un esempio di norme, quelle dei diritti dell'uomo, istitutive di vincoli erga omnes: quando uno Stato viola i diritti dell'uomo, se si tratta di diritti garantiti da un trattato internazionale, commette un illecito nei confronti di tutte le parti del trattato, oppure, se si tratta di una norma di diritto internazionale consuetudinario, nei confronti di tutti i membri della comunità internazionale.

Quindi, questa unica vera conseguenza dei crimini internazionali non è una conseguenza che si ha solo quando viene commesso un crimine internazionale: è una conseguenza che si ha tutte le volte in cui viene violata una di quelle norme tipiche del diritto internazionale moderno, specialmente in materia di diritti umani, ma ormai non più solo in questo campo, non è più considerarsi una conseguenza solo della violazione di quelle norme che elenca la Commissione, ma una violazione di tutte quelle norme.

Questa è una conseguenza esclusiva dei crimini internazionali, ma ci sono altre conseguenze dei crimini internazionali, elencate al CAP. IV del Progetto:

ART. 51: Un crimine internazionale comporta tutte le conseguenze giuridiche di qualsiasi altro atto internazionalmente illecito e, in aggiunta, le ulteriori conseguenze previste negli articoli 52 e 53;

ART. 52: Quando un atto internazionalmente illecito di uno Stato è un crimine internazionale:

a)      il diritto di uno Stato offeso di ottenere la restituzione in forma specifica non è soggetto alle limitazioni previste alle lettere c) e d) dell'articolo 43 = non comporti un onere al di fuori di ogni proporzione rispetto al beneficio che lo Stato offeso trarrebbe dall'ottenere la restituzione in forma specifica invece del risarcimento, o non pregiudichi seriamente l'indipendenza politica o la stabilità economica dello Stato che ha commesso l'atto internazionalmente illecito, laddove lo Stato offeso non subirebbe analoghe conseguenze se non ottenesse la restituzione in forma specifica;

b)      il diritto di uno Stato offeso di ottenere soddisfazione non è soggetto alla restrizione contenuta nel paragrafo 3 dell'articolo 45 = il diritto dello Stato offeso di ottenere soddisfazione non giustifica richieste che pregiudicherebbero la dignità dello Stato che ha commesso l'atto internazionalmente illecito.

ART. 53: Un crimine internazionale commesso da uno Stato comporta l'obbligo per ogni altro Stato:

a)      di non riconoscere come legittima la situazione creata dal crimine;

b)      di non prestare aiuto o assistenza allo Stato che ha commesso il crimine nel mantenere la situazione così creata;

c)      di cooperare con altri Stati nell'adempiere agli obblighi, ai sensi delle lettere a) e b); e

d)      di cooperare con altri Stati nell'attuazione di misure tese ad eliminare le conseguenze del crimine.

Ma sono tutte conseguenze scarsamente significative: l'unica vera conseguenza è che quando viene commesso un crimine, tutti gli Stati sono lesi e possono adottare delle contromisure. Però è una situazione controversa nella dottrina e nella prassi ed è una conseguenza che non è tipica solo dei crimini internazionali, ma è tipica di tutte le violazioni di norme istitutive di obblighi erga omnes, sia che si tratti di norme consuetudinarie, sia che si tratti di norme pattizie (nel qual caso saranno lesi non tutti gli Stati, ma solo gli Stati parti del trattato che è stato violato).

Quando viene commesso un crimine internazionale, almeno uno di quei crimini considerati più gravi (es. atto di aggressione, atto di genocidio, apartheid, o gravi violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo), l'unico carattere distintivo di questi gravi illeciti internazionali, è che questi gravi illeciti spesso danno luogo ad una di quelle minacce alla pace in presenza delle quali può intervenire l'ONU, attivando il suo sistema di sicurezza collettivo (che vedremo).

























AUTOTUTELA: tradizionalmente, è la forma tipica di attuazione coercitiva del diritto dell'ordinamento internazionale, che è l'ordinamento primitivo, quindi anche per questo aspetto lascia agli Stati il compito di esercitare una funzione fondamentale tipica degli ordinamenti giuridici, che è quella di garantire l'osservanza del diritto e di attuare coercitivamente le norme internazionali, quando queste siano state violate, con tutte le conseguenze negative del caso.

A proposito dell'autotutela, la prima cosa da dire è che nel diritto internazionale contemporaneo, rispetto al diritto internazionale tradizionale, c'è stato un mutamento fondamentale a proposito dell'autotutela. Mutamento fondamentale che è costituito dal fatto che una delle norme fondamentali del diritto internazionale contemporaneo è costituita dal divieto della minaccia e dall'uso della forza armata nelle relazioni internazionali. Nel diritto internazionale classico, la forza armata non era vietata nei rapporti internazionali: in particolare, gli Stati potevano liberamente dichiarare, esplicitamente, la guerra ad un altro Stato ed instaurare il cosiddetto stato di guerra nei rapporti tra gli Stati belligeranti, il cosiddetto stato di guerra, che comportava essenzialmente la sospensione del diritto internazionale di pace (e diveniva lecito anche il bombardamento e, quindi, l'uso della forza nei confronti dello Stato nemico, perché era stata sospesa la norma che tutelava la sovranità territoriale, perché il diritto di pace era sospeso in tempo di guerra) e, invece, divenivano applicabili le norme del diritto internazionale bellico, diritto di guerra.

L'instaurazione dello stato di guerra comportava poi delle conseguenze negative anche per gli Stati terzi, non parti del conflitto armato, perché l'instaurazione dello stato di guerra portava, oltre che la sospensione del diritto di pace nei rapporti tra i belligeranti e l'applicazione del diritto di guerra nei rapporti tra i belligeranti, comportava anche l'applicazione, nei rapporti con gli Stati estranei al conflitto armato, di tutta una serie di norme, che costituivano il diritto della neutralità, che prevedevano quasi esclusivamente degli obblighi a carico degli Stati neutrali, degli obblighi ispirati tutti ai principio generale dell'imparzialità nei confronti degli Stati belligeranti. Quindi, i neutrali, una volta che fosse stato instaurato lo stato di guerra tra due o più Stati, avevano una serie di obblighi, tutti discendenti da questo principio generale di imparzialità, per cui i neutrali non potevano aiutare in nessun modo gli Stati parti della guerra.

Anche al di fuori del caso specifico della guerra, gli Stati potevano ricorrere alla forza armata anche senza dichiarare esplicitamente la guerra ad un altro Stato.

La guerra aveva tutte queste conseguenze giuridiche: sospensione del diritto di pace, inizio del diritto di guerra (nei rapporti tra i belligeranti); applicazione del diritto della neutralità (nei rapporti con gli Stati terzi).

Uno Stato poteva ricorrere alla forza anche senza provocare tutte queste conseguenze, cioè, si diceva, USARE LA FORZA IN TEMPO DI PACE, al di fuori della guerra: quindi, senza dichiarare la guerra, mantenendosi nell'ambito del diritto di pace, che continuava a regolare i rapporti internazionali, lo Stato poteva invocare una serie di giustificazioni che avrebbero giustificato la violazione del diritto di sovranità di un altro Stato attraverso l'uso della forza.

Cause di giustificazione che erano, non solo la legittima difesa (che si può invocare quando uno Stato viene attaccato militarmente da un altro Stato, per reagire all'attacco armato), ma anche la rappresaglia, o contromisure (uno Stato che ha subito un illecito da parte di un altro Stato, magari non costituito dall'uso della forza, lo Stato può adottare delle rappresaglie armate, intervenendo militarmente con la forza per costringere lo Stato autore a pagare un indennizzo equo).

Ma c'è una serie di altre cause di giustificazione che potevano giustificare un intervento armato in territorio altrui, anche senza che venisse instaurato lo stato di guerra, quindi mantenendosi nel diritto internazionale di pace:

ESEMPIO: l'intervento a protezione dei cittadini all'estero era considerato generalmente lecito nel diritto internazionale tradizionale, cioè quelle situazioni in cui all'interno dello Stato la vita degli stranieri veniva messa in pericolo e lo Stato territoriale, o non era in grado, o non voleva proteggere la vita degli stranieri presenti nel suo territorio, lo Stato di nazionalità di questi stranieri poteva intervenire, anche con la forza, per proteggere i propri cittadini all'estero.

PER CONCLUDERE: Nel diritto tradizionale, quindi, l'uso della forza non era illecito: gli Stati potevano dichiarare la guerra, instaurando uno stato di guerra in tempo tecnico e sospendendo l'applicazione del diritto di pace, oppure, senza sospendere l'applicazione del diritto di pace e senza instaurare lo stato di guerra, giustificare sulla base di una serie di cause di esclusione dell'illecito, l'uso della forza, un uso della forza

"minoris generis", per interventi armati più circoscritti, finalizzati a determinati scopi, come, in particolare, nel caso non tanto della legittima difesa, quanto nel caso della rappresaglia e dello stato di necessità che poteva giustificare, ad esempio, l'intervento di protezione dei cittadini all'estero o altre forme di intervento in territorio straniero anche con la forza per soddisfare un interesse anche essenziale dello Stato.

La situazione nel diritto internazionale era che gli Stati potevano liberamente ricorrere alla guerra senza dover invocare nessuna causa di giustificazione, potevano dichiarare la guerra sospendendo l'applicazione del diritto di pace e rendendo, invece, applicabile il diritto bellico nei rapporti con gli altri belligeranti e il diritto della neutralità nei rapporti con gli Stati terzi, oppure anziché ricorrere alla guerra, che di solito aveva lo scopo di annientare in nemico, potevano ricorrere a delle forme di coercizione al di fuori della guerra che avevano scopi più limitati, ma in questo caso, visto che si rimaneva nell'ambito del diritto di pace, dovevano invocare delle cause di giustificazione per la violazione della sovranità territoriale degli altri Stati, che potevano essere la legittima difesa, ma anche la rappresaglia, lo stato di necessità, che giustificano l'uso della forza in tutta una serie di situazioni, compreso, ad esempio, l'uso della forza a protezione dei cittadini all'estero. Nel corso del nostro secolo abbiamo iniziato a sperimentare una serie di limitazioni alla possibilità per gli Stati di usare la forza militare come forma di autotutela.

E il primo gradino, prima di arrivare alla Carta dell'ONU, che è il diritto vigente, è stato il Patto istitutivo della Società delle Nazioni, che fu ammesso ai trattati di pace che conclusero la I guerra mondiale: esso già procedeva ad una limitazione della possibilità per gli Stati di usare la guerra, ma è una limitazione molto relativa, perché esso cercava di limitare esclusivamente il ricorso alla guerra nei rapporti internazionali: in particolare, ammetteva che gli Stati ricorressero alla guerra soltanto dopo che fossero trascorsi 3 mesi da un'eventuale decisione arbitrale o giudiziale, o dall'intervento del Consiglio della Società delle Nazioni, per cercare di risolvere una controversia, e comunque non contro uno Stato che si fosse conformato alla sentenza arbitrale o alla relazione del Consiglio, se approvata all'unanimità. Innanzitutto, non c'era un divieto di ricorrere alla guerra, ma solo l'obbligo di ricorrere alla guerra come estrema ratio, trascorsi 3 mesi dalla sentenza o dal rapporto del Consiglio della Società delle Nazioni.

Ulteriore gradino lo abbiamo nel 1928 con la stipulazione di un trattato internazionale,  il Patto di Parigi di rinuncia alla guerra, un trattato multilaterale che secondo alcuni sarebbe ancora in vigore e secondo altri si sarebbe estinto, il quale conteneva un divieto generale di ricorrere alla guerra.

Arriviamo all'ultimo gradino, che è quello del diritto vigente, che è la Carta dell'ONU, la quale contiene una norma fondamentale: ART. 2/4 = I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. = non si parla più di guerra, ma si parla di uso della forza e si prescrive un divieto generale di usare la forza nelle relazioni internazionali, superando quella distinzione tra guerra e azioni coercitive al di fuori della guerra, che era tipica del diritto internazionale e che rimaneva ancora dopo il Patto della Società delle Nazioni, dopo il Patto di Parigi nel 1928, e che era fonte di abusi perché ogni volta che si cercava di limitare il ricorso alla guerra, gli Stati non dichiaravano più la guerra, così come non lo fanno più oggi, quindi gli Stati cercavano sempre di sfuggire al divieto o alla limitazione di ricorrere alla guerra dicendo che usavano la forza al di fuori della guerra, che non c'era nessuno stato di guerra in senso tecnico, e che l'uso della forza era giustificato da questa o da quella causa di giustificazione.

La Carta dell'ONU ha in qualche modo arginato, anche se non completamente, perché ci sono delle eccezioni anche sulla Carta dell'ONU a questo divieto, comunque contiene un divieto generale dell'uso della forza che ha eliminato la distinzione tra la guerra in senso tecnico e l'uso della forza al di fuori della guerra, caratteristica del diritto internazionale tradizionale ed era spesso fonte di abusi nelle relazioni internazionali.

La distinzione tra guerra e mezzi coercitivi fuori dalla guerra nel diritto internazionale è ormai obsoleta, tant'è vero che, oggi, il diritto bellico (il diritto dei conflitti armati), quindi le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i due Protocolli aggiuntivi del 1977 del diritto internazionale umanitario, e tutte le altre Convenzioni relative alla condotta delle ostilità in tempo di guerra, e anche le norme consuetudinarie, sono applicabili non più soltanto alle guerre dichiarate, quindi a dei conflitti armati in cui è stato instaurato uno stato di guerra in senso tecnico, come si faceva in epoche passate e oggi non si fa quasi più, ma sono applicabili a tutti i conflitti armati, indipendentemente dal fatto che sia stato o meno riconosciuto da tutti i belligeranti lo stato di guerra. Quindi, basta che ci sia un conflitto armato internazionale, perché si applichino le norme del diritto internazionale umanitario (come si chiama oggi): si applicano sulla base del fatto che materialmente c'è un conflitto armato, indipendentemente dalla volontà delle parti di qualificarlo come guerra o non qualificarlo come guerra. Una situazione che, almeno dal punto di vista del diritto internazionale, ha eliminato la vecchia distinzione e ha messo un po' in crisi anche il vecchio diritto della neutralità, nel senso che oggi è scontato che le norme che una volta si chiamavano norme di diritto internazionale bellico, che oggi si chiamano norme dei conflitti armati, si applicano nei rapporti tra gli Stati parti del conflitto, indipendentemente dal fatto che ci sia uno Stato di guerra in senso tecnico, quindi basta che ci sia il conflitto armato che gli Stati parti devono entrambi rispettare il diritto internazionale umanitario, invece le norme del diritto della neutralità che regolavano i rapporti tra gli Stati parti del conflitto e gli Stati terzi (Stati neutrali), è dubbio che oggi siano ancora in vigore e che si applichino agli Stati terzi anche di caso di conflitto non qualificabile come guerra, perché i neutrali non ci stanno più, come in passato a tollerare tutta una serie di obblighi, di imparzialità, nei confronti dei belligeranti e a soffrire tutta una serie di limitazioni di quelli che sono i loro normali diritti in tempo di pace (ivi compreso il diritto di commercio, di navigazione, ecc.), di fronte ad un conflitto che non è tecnicamente qualificabile come guerra. Quindi, mentre il diritto consuetudinario, per quello che riguarda i rapporti tra i belligeranti, si è chiaramente evoluto nel senso che non c'è più bisogno dello stato di guerra perché si applichino le norme del diritto dei conflitti armati, basta che ci sia un conflitto armato quale che sia; invece, per quanto riguarda le norme del diritto della neutralità, è più dubbio che questa evoluzione ci sia stata e siamo oggi in una situazione di incertezza, in cui i belligeranti pretendono di poter esercitare certi diritti nei confronti dei neutrali, e i neutrali spesso non accettano di dover sottostare a determinati obblighi che non hanno in tempo di pace, o di sottostare all'esercizio di certi diritti da parte dei belligeranti, che interferiscono con il loro libero commercio, con la loro libera navigazione in alto mare, ecc.

Il problema della neutralità resta ancora irrisolto, mentre invece, per quanto riguarda i conflitti armati, è ormai un dato acquisito che la guerra è irrilevante: il concetto di guerra in senso tecnico può ancora avere un rilievo nel diritto interno, perché purtroppo le Costituzioni di molti Stati non sono aggiornate, compresa la nostra: ma si tratta di situazioni che possono essere attivate quando c'è uno stato di guerra, se invece non c'è uno stato di guerra, la Costituzione italiana non conosce il concetto di conflitto armato, tant'è vero che i nostri militari che vengono inviati in operazioni militari all'estero e possono essere spesso coinvolti in situazioni di conflitto armato, ci vanno sulla base della legislazione applicabile in tempo di pace, ad es., si applica il codice penale militare di pace e non il codice penale militare di guerra.

Quindi, abbiamo una situazione del diritto interno in cui la distinzione tra la guerra in senso tecnico e altre forme di conflitto non qualificabili tecnicamente come guerra, può ancora avere un suo rilievo ai fini dei rapporti tra il Governo e il Parlamento, ai fini dell'applicazione di tutta una serie di norme interne che presuppongono uno Stato di guerra, Ma nel diritto internazionale, questa distinzione, almeno per quanto riguarda l'applicazione del diritto bellico, non ha più molto senso: può avercelo, al limite, per quello che riguarda il diritto della neutralità, che infatti, non a caso, è entrato in crisi.

Torniamo al divieto dell'uso della forza, di cui l'ART. 2/4 della Carta dell'ONU, e vediamo quali sono i principali problemi interpretativi di questa disposizione:

parla della minaccia o dell'uso della forza, senza specificare se si tratta di forza armata o se si tratta anche di altre forme di coercizione politico-economica. Qui, però, l'interpretazione prevalente, giustificata anche sulla base dei lavori preparatori è quella che la forza vietata è solo la forza armata. Conforti ritiene che nel diritto internazionale contemporaneo si sia formata un'altra norma che vieta anche, non tutte le norme di coercizione economica, ma solo quelle forme estreme di coercizione economica, con le quali uno Stato mette in ginocchio l'intera economia di un altro Stato. A parte il fatto che non è chiaro che esita questa norma diversa da quella che invece vieta l'uso della forza armata, che esiste sicuramente, e che noi troviamo enunciata nell'ART. 2/4 della Carta dell'ONU. L'ART. 2/4, secondo l'interpretazione più diffusa, che noi condividiamo, si limita a vietare la minaccia o l'uso della forza armata;



L'ART. 2/4 vieta anche la minaccia dell'uso della forza: e di qui tutta una serie di controversie interpretative a proposito di cosa debba intendersi per minaccia dell'uso della forza. Alcune di queste controversie interpretative sono state recentemente risolte dalla Corte internazionale di Giustizia, che è stata chiamata ad interpretare il divieto della minaccia o dell'uso della forza di cui all'ART. 2/4. Il primo intervento l'abbiamo avuto con una famosa sentenza del 1986 del caso del Nicaragua: il Nicaragua aveva citato davanti alla Corte internazionale di Giustizia gli USA (in quanto entrambi questi Stati avevano fatto quella famosa dichiarazione unilaterale di accettazione della giurisdizione della Corte, che rende possibile, una volta che sorge una controversia, che uno Stato si faccia attore e citi un altro Stato dinanzi alla Corte senza bisogno che ci sia un accordo tra gli Stati parti della controversia), e il Nicaragua aveva citato gli USA per accusare il Governo degli USA di aver violato il divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali. La Corte, si è pronunciata dicendo anche che il fatto che uno Stato confinante con un altro Stato innalzi il suo livello di armamenti non costituisce di per sé una minaccia dell'uso della forza da considerarsi vietata dall'ART. 2/4. Altro intervento della Corte abbastanza importante, perché ha risolto una questione molto dibattuta nella dottrina e nella prassi del diritto internazionale, si è avuto con un Parere del 1986 chiesto alla Corte dall'Assemblea Generale sulla liceità dell'uso delle armi nucleari in tempo di conflitto armato e tra le tante cose dette dalla Corte in questo parere, c'è anche quella per cui il possesso delle armi nucleari e quindi una politica di deterrenza che sta alla base della detenzione delle armi nucleari di per sé non è vietata e non costituisce una minaccia dell'uso della forza in base all'ART. 2/4 (cosa che invece era stata sostenuta in dottrina e anche nella prassi da vari Stati non nucleari nei confronti degli Stati nucleari).

Per quanto riguarda il divieto della minaccia dell'uso della forza di cui all'ART. 2/4, altra cosa importante da mettere in evidenza è che qui si parla di minaccia dell'uso della forza nelle relazioni internazionali: l'ART. 2/4 si occupa solo dei rapporti tra gli Stati o tra i soggetti di diritto internazionale, ma principalmente dei rapporti tra gli Stati, anzi l'ART. 2/4 si occupa solo dei rapporti fra Stati, perché parla di "membri" (e i membri dell'ONU sono gli Stati). L'uso della forza inteso come esercizio della potestà coercitiva da parte di uno Stato all'interno dello Stato stesso, non è vietata dall'ART. 2/4 della Carta dell'ONU. Quindi, la repressione con la forza di un'insurrezione all'interno dello Stato non è vietata dall'ART. 2/4 della Carta dell'ONU; così come non è vietata, a maggior ragione, l'uso della coercizione da parte dello Stato per far valere le sue norme all'interno dello Stato, per far rispettare la legge d'ordine. Ma anche nei casi più eclatanti, in cui ci sia un'insurrezione, non è vietato l'uso della forza da parte dello Stato.

C'è un caso in cui s'intende a ritenere che l'uso della forza per reprimere un'insurrezione sia da considerarsi illecito, ma non perché contrario all'ART. 2/4, ma perché contrario ad un'altra norma fondamentale che è il principio di autodeterminazione dei popoli, ipotesi in cui l'uso della forza effettuata da uno Stato per reprimere l'insurrezione che provenga da un popolo, che rientra tra quelli beneficiari del principio di autodeterminazione.

L'ART. 2/4 non vieta l'uso della forza all'interno dello Stato: vieta solo l'uso della forza nei rapporti con gli altri Stati, nelle relazioni internazionali.

Non sarebbe, in ogni caso, da considerarsi come uso della forza nelle relazioni internazionali l'uso della coercizione da Corte da parte dello Stato nei confronti dei semplici privati cittadini stranieri che si trovino all'interno del territorio dello Stato.

Quindi, tornando all'ART. 2/4 = uso della forza nei rapporti internazionali, ma non nei rapporti interni; il divieto della minaccia e dell'uso della forza nei rapporti internazionali è un divieto generale e completo, c'è chi tende a limitarlo dicendo (ART. 2/4) che devono astenersi dall'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato.

ESEMPIO: c'è chi sostiene che l'intervento armato in territorio straniero per proteggere i cittadini dello Stato presenti nel territorio straniero, che si trovino in pericolo di vita o altro, non è contrario all'ART. 2/4, perché ha uno scopo limitato che è quello di proteggere i cittadini, e non è diretto contro l'indipendenza politica o l'integrità territoriale dello Stato.

Questo divieto della minaccia dell'uso della forza, che troviamo enunciato nell'ART. 2/4, perché è stato per la prima volta introdotto dalla Carta dell'ONU, è oggi da considerarsi come un divieto presente anche nel diritto internazionale consuetudinario, precisando che questo divieto della minaccia dell'uso della forza è prescritto in una norma consuetudinaria cogente, che non ammette nessuna deroga, se non da una stessa norma cogente, che non può essere derogata da un trattato e che comporta l'invalidità o l'estinzione di un trattato contrario a questa norma cogente: si tratta anche di una norma, la cui violazione, secondo la Commissione di diritto internazionale, darebbe luogo non ad un normale illecito, ma addirittura ad un crimine internazionale, cioè ad una violazione grave dell'ART. 2/4, quale può essere un atto di aggressione.

Dobbiamo precisare che ci sono delle eccezioni al divieto dell'uso della forza. La più importante è la legittima difesa (..). Ma dobbiamo precisare, però, che la Carta ONU prevedeva, in un certo senso, 3 eccezioni, perché questo divieto dell'uso della forza che veniva imposto a tutti i membri dell'ONU doveva avere poi un contraltare e questo la Carta dell'ONU lo aveva previsto, prevedendo che l'ONU si caricasse del ruolo di poliziotto internazionale attraverso il sistema di sicurezza collettiva, incentrato sul Consiglio di Sicurezza; quindi, si vietava l'uso della forza da parte degli Stati, però poi si prevedeva che almeno nelle situazioni più gravi (minaccia della pace, violazione della pace, atti di aggressione, quelle sulla base delle quali si attiva il cap. VII della Carta), il Consiglio della Sicurezza potesse lui intervenire o con misure implicanti o non implicanti l'uso della forza per mantenere o ristabilire la pace internazionale.

Le due eccezioni che ci riferiamo ora sono quelle che riguardano gli Stati singolarmente considerati: la Carta prevedeva che, in due casi, anche i singoli Stati potessero usare la forza, facendo così eccezione all'ART. 2/4. Un'eccezione è la legittima difesa (.); l'altra eccezione, oggi caduta in desuetudine, è quella dell'uso della forza contro gli Stati ex nemici: ART. 107 = Nessuna disposizione del presente Statuto può infirmare o precludere, nei confronti di uno Stato che nella seconda guerra mondiale sia stato nemico dei firmatari del presente Statuto, un'azione che venga intrapresa o autorizzata, come conseguenza di quella guerra, da parte dei Governi che hanno la responsabilità per tale azione. = si tratta di una norma formulata in modo molto ambiguo, ma tale norma pur nella sua ambiguità veniva così interpretata: sembrava prefigurare di usare lecitamente la forza da parte degli Stati firmatari della Carta dell'ONU, quelli partecipanti alla Conferenza di San Francisco, contro gli Stati ex nemici (Italia, Germania, Giappone, e loro alleati). Tale norma oggi possiamo considerarla caduta in desuetudine e tra l'altro è inserita al CAP. XVII della Carta, intitolato "delle disposizioni transitorie di sicurezza".

Ora che tutti questi Stati ex nemici sono entrati a far parte dell'ONU, non è più utilizzabile l'ART. 107 per autorizzare l'uso della forza nei confronti di questi Stati.

La seconda eccezione, e l'unico caso in cui gli Stati possono, ai sensi della Carta dell'ONU, usare individualmente la forza, è costituito dalla LEGITTIMA DIFESA: ART. 51 = Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle N.U. fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese dai membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.

L'ART. 51 è inserito nel cap. VII della Carta, il quale prevede quello che l'ONU può fare per far fronte ad una situazione di minaccia alla pace, violazione alla pace o di atto di aggressione. E' previsto poi, che come contraltare al divieto dell'uso della forza, l'ONU possa svolgere delle azioni di polizia che possano anche implicare l'uso della forza. Nonostante la Carta abbia previsto che gli Stati non possono usare la forza, perché c'è l'ONU che, in teoria, dovrebbe intervenire quando si tratta di mantenere o ristabilire la pace, al cap. VII è stato inserito questo art. 51...

Nonostante questa forma di monopolio dell'uso della forza che la Carta ha voluto attribuire all'ONU, vietando invece agli Stati di usare la forza, è previsto pur sempre, come eccezione al divieto dell'uso della forza, la possibilità per ogni Stato di difendersi anche con la forza nel caso in cui questo Stato sia la vittima di un attacco armato, almeno fintantoché il Consiglio di Sicurezza non intervenga adottando le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

Si usa, addirittura, il termine diritto naturale di legittima difesa, come se fosse uno di quei diritti naturali che nessun diritto positivo può, in alcun modo, conculcare.

Ma a parte questa classificazione di diritto naturale, la prima cosa da dire a proposito dell'ART. 51 è che, nella famosa sentenza del Nicaragua del 1986, la Corte Internazionale di Giustizia, così come ha detto che l'ART. 2/4 corrisponde al diritto consuetudinario, ha detto che anche l'ART. 51 corrisponde al diritto consuetudinario: quindi, questa eccezione al divieto dell'uso della forza è da considerarsi nei limiti in cui è previsto dall'ART. 51, previsto anche dal diritto internazionale consuetudinario, con l'eccezione al divieto della minaccia e dell'uso della forza armata nelle relazioni internazionali.

PRESUPPOSTO DELLA LEGITTIMA DIFESA = ATTACCO ARMATO

Solo quando c'è un attacco armato è possibile per uno Stato difendersi usando la forza, quindi giustificare l'uso della forza a titolo di legittima difesa.

Alla luce dell'interpretazione corretta dell'ART. 51 sembra esclusa la legittima difesa preventiva, probabilmente ammessa nel diritto consuetudinario tradizionale prima che emergesse il divieto dell'uso della forza nei rapporti internazionali: alcuni Stati tuttora sostengono che quando c'è una minaccia dell'uso della forza nei confronti di uno Stato, lo Stato minacciato può, a titolo di legittima difesa preventiva, usare la forza, senza aspettare che questa minaccia si sia tradotta in un effettivo attacco armato.

Però l'interpretazione corretta, avallata anche dalla Corte internazionale di Giustizia, nel caso del Nicaragua, è che la legittima difesa preventiva non è ammessa nel diritto internazionale contemporaneo, perché l'ART. 51, che appunto corrisponde ai benefici della Corte al diritto consuetudinario, parla chiaramente di attacco armato e ciò significa che deve esserci un attacco armato in atto perché sia possibile usare la forza a titolo di legittima difesa.

Quindi, il presupposto è essenzialmente l'attacco armato: l'attacco armato riferito all'ART. 51 non è un qualsiasi uso della forza, che pure è vietato dall'ART. 2/4, ma sono solo le violazioni più gravi nell'ART. 51 che possono considerarsi come un attacco armato e quindi legittimano la vittima a difendersi usando la forza.

Siccome questa è l'unica eccezione al divieto dell'uso della forza, ci sono tutta una serie di tentativi, nella dottrina e nella prassi, diretti ad ampliare la portata di questa eccezione. E uno dei modi per ampliare la portata dell'ART. 51 è cercare di ampliare la nozione di attacco armato e qui ci sono tutta una serie di controversie in dottrina su cosa sia un attacco armato: c'è chi ha una nozione più restrittiva e chi ha una nozione meno restrittiva.

Un aiuto può venirci dal concetto di aggressione: l'aggressione è una grave violazione dell'ART. 2/4 ed è una di quelle situazioni che legittimano l'intervento del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nel quadro del cap. VII.

C'è chi identifica la nozione di aggressione con la nozione di attacco armato, facendo leva sul fatto che il testo francese parla di aggressione, mentre il testo inglese parla di attacco armato: quindi, c'è chi dice che la nozione di aggressione e la nozione di attacco armato, sono la stessa cosa. Viene qui in nostro aiuto una di quelle famose Dichiarazioni di Principi dell'Assemblea Generale dell'ONU (che come sappiamo non sono vincolanti, ma hanno un loro valore), una Dichiarazione adottata nel 1974 che per fare un po' di chiarezza su questa nozione di aggressione, ha adottato una definizione dell'aggressione. Questa dichiarazione di principi del 1974 è interessante non tanto per la definizione di carattere generale che da dell'aggressione (=l'aggressione è l'uso della forza armata da uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato, o in qualsiasi altro modo incompatibile con la Carta dell'ONU), ma dopo aver dato questa definizione di carattere generale, all'ART. 3, fa un elenco meramente esemplificativo (non tassativo) degli atti che sono considerati atti di aggressione:

è un atto di aggressione, l'invasione o l'attacco con le forze armate di uno Stato nel territorio di un altro Stato, o qualsiasi occupazione militare, anche se temporanea, che risulti da una tale invasione o da un tale attacco, o qualsiasi annessione con l'uso della forza del territorio di un altro Stato o di una sua parte;

il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l'uso di qualsiasi arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato;

il blocco dei porti o delle coste di uno Stato con le forze armate di un altro Stato. (blocco è la tipica misura bellica della guerra navale, con il quale la flotta militare di uno Stato impedisce l'accesso e l'uscita dal porto di uno Stato = totale interdizione di ogni forma di commercio e comunicazione con il porto bloccato);

(esempio dubbio) l'attacco non solo nei confronti delle navi militari, ma anche un attacco sistematico nei confronti della flotta mercantile degli Stati stranieri;

l'uso della forza armata di uno Stato che sono nel territorio di un altro Stato con l'accordo dello Stato ospite, in contravvenzione delle condizioni stabilite nell'accordo o qualsiasi estensione della loro presenza in tale territorio, oltre il termine finale dell'accordo = se le forze militari usano la forza al di là dell'accordo che è stato stipulato tra lo Stato ospite e lo Stato di bandiera, abbiamo un atto di aggressione;

rapporto di complicità nell'aggressione: è, infatti, considerato un atto di aggressione da questa risoluzione, l'azione di uno Stato il quale consente che il suo territorio, messo a disposizione di un altro Stato, sia usato da quest'altro Stato per perpetrare un atto di aggressione nei confronti di uno Stato terzo;

(esempio controverso, venuto in considerazione nel caso Nicaragua): il Nicaragua accusava gli USA di aver commesso un atto di aggressione nei confronti del Nicaragua, per il fatto che gli USA appoggiavano economicamente e con altre forme di appoggio, questo gruppo di ribelli (contrasts) che agivano contro il Governo legittimo del Nicaragua. Ebbene, quest'ultimo esempio fatto dall'ART. 3 della Dichiarazione del 1974, è l'invio da parte o per conto di uno Stato di bande armate, gruppi irregolari o mercenari, che pongono in essere atti di forza armata contro un altro Stato, di tale gravità che ammontino ad uno qualsiasi degli atti precedentemente elencati. Questa è un'ipotesi di aggressione indiretta in cui lo Stato non agisce direttamente attraverso i suoi organi, ma agisce indirettamente attraverso bande armate, gruppi irregolari o mercenari, che invia nel territorio di uno Stato straniero o ai quali comunque ordina di commettere degli atti, che la risoluzione del 1974, considera atti di aggressione. Questa definizione va oltre, in quanto dice che è atto di aggressione non solo l'invio di queste bande armate, ma anche il fatto che lo Stato sia sostanzialmente coinvolto nell'azione di queste bande armate: quindi, anche se lo Stato non è lui che li ha inviati, però è coinvolto in maniera sostanziale nell'azione di queste bande = ed era proprio questo il caso del Nicaragua. La Corte disse: "gli USA, pur sostenendo economicamente, attraverso varie forme di sostegno, l'attività dei contrasts, non esercitano su questi contrasts un controllo tale da poter dire che l'azione dei contrasts è un'azione propria del Governo degli USA"; pertanto i contrasts, secondo la Corte, non erano qualificabili come organi di fatto del Governo degli USA, mentre al Governo degli USA doveva considerarsi sostanzialmente coinvolto dell'azione di questi contrasts. La seconda parte di questo esempio che fa la dichiarazione del 1974, cioè il mero fatto che uno Stato, pur non inviando direttamente questi gruppi, sia però sostanzialmente coinvolto, perché fornisce un'assistenza economica o di altro tipo a queste bande armate, è una violazione del diritto internazionale, è una violazione della sovranità dello Stato, è una violazione dell'obbligo di non intervento negli affari interni, ma non è un atto di aggressione imputabile allo Stato contro il quale la vittima può usare la forza a titolo di legittima difesa.

Anche se noi partiamo dal presupposto che queste definizioni di aggressione e di attacco armato coincidano, in realtà questa definizione dell'aggressione, che di per sé non è vincolante, va presa con calma, perché almeno qualcuno degli esempi che vengono fatti, in questa risoluzione, di atti di aggressione, è dubbio che costituiscano dei casi di attacco armato (uno è quest'ultimo esempio fatto, ma anche il quarto esempio).

CARATTERI CHE DEVE AVERE L'AZIONE A TITOLO DI LEGITTIMA DIFESA: Essenzialmente questi caratteri sono due, che poi però esprimono la stessa cosa, e sono la necessità e la proporzionalità, secondo cui lo Stato vittima dell'attacco armato può prendere tutte le misure, implicanti l'uso della forza, che siano necessarie e proporzionali al fine che si propone la legittima difesa: fine che è quello di difendersi dall'attacco, e quindi provocare la cessazione di questo attacco, e anche rimuovere eventualmente le conseguenze che dell'attacco siano derivate.

ESEMPIO: guerra del Falkland, dell'inizio degli anni '90 = fu provocata dall'invasione delle isole Falkland, che sono un territorio dipendente della corona britannica, che si trova nei pressi dell'Argentina, invasione provocata da un gruppo di uomini abbastanza esiguo, ma a questa invasione delle isole Falkland, la Gran Bretagna rispose inviando una sua flotta da guerra.....

Quindi, necessità e proporzionalità vanno intese in questo senso: tutto ciò che è necessario per perseguire lo scopo della legittima difesa, che è uno scopo difensivo, ma è anche lo scopo di rimuovere le conseguenze negative che eventualmente siano state provocate dall'attacco armato.

Naturalmente, poi, necessità e proporzionalità significano anche che lo Stato che agisce a titolo di legittima difesa, al pari però dello Stato aggressore, deve anche rispettare il diritto internazionale bellico: a questo proposito il diritto internazionale bellico risponde ancora al principio dell'eguaglianza dei belligeranti, sia lo Stato aggressore, sia lo Stato aggredito, devono rispettare il diritto internazionale dei conflitti armati, pena la punizione dei responsabili a titolo di criminali di guerra.

A proposito del termine finale, previsto dall'ART. 51, per cui la legittima difesa è ammissibile, ma solo fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

E qui è molto discusso su cosa siano le misure necessarie per mantenere la pace (..). Quando si parla di misure necessarie, in presenza delle quali lo Stato vittima dovrebbe cessare di usare la forza a titolo di legittima difesa, devono intendersi, ai sensi dell'ART. 51, come misure necessarie, solo quelle che siano effettivamente suscettibili di mantenere o ristabilire la pace.

Concludendo: la legittima difesa, già sappiamo, è una causa di esclusione dell'illecito che esclude però un particolare tipo di illecito, che è l'uso della forza; quindi, la legittima difesa giustifica l'uso della forza.

Ma l'ART. 51 parla di legittima difesa:

individuale, che si ha quando la vittima dell'attacco armato usa la forza a titolo di legittima difesa;

collettiva, che si ha quando a fianco della vittima dell'attacco armato intervengono con la forza degli Stati terzi per aiutarlo a difendersi e quindi per reagire all'attacco armato.

Anche qui il caso Nicaragua è servito a chiarire un po' cosa si intende per legittima difesa collettiva: gli USA, nella prima fase del procedimento, erano parti in giudizio contestando la giurisdizione della Corte, dicendo che la controversia non potesse essere decisa dalla Corte, per mancanza di giurisdizione; ma la Corte si pronunciò con una prima sentenza dicendo che invece aveva giurisdizione e poteva quindi procedere ad esaminare nel merito della controversia; e a quel punto gli USA decisero di non partecipare più al procedimento e si ebbe una sorta di giudizio in contumacia, ma gli USA fecero lo stesso in modo che la Corte sapesse quali fossero le argomentazioni del Governo americano e tra le tante cose che disse il Governo americano per difendersi, c'era anche quella che la sua azione, ammesso che fosse un'azione illecita, potesse giustificarsi a titolo di legittima difesa, perché gli USA dicevano che il Nicaragua aveva commesso un atto di aggressione attraverso una serie di attività che aveva svolto: quindi, gli USA agivano a fianco degli Stato aggredito a titolo di legittima difesa collettiva. La Corte rigettò questa argomentazione, dicendo che la legittima difesa collettiva presuppone sempre una richiesta dello Stato vittima, come ad esempio, nel caso del Kuwait, il quale chiese l'intervento di tutti gli Stati disponibili per aiutarlo a riconquistare il territorio che era stato interamente occupato da parte dell'Iraq.

Legittima difesa collettiva significa che gli Stati terzi possono intervenire a fianco della vittima dell'attacco, se la vittima chiede questo intervento degli Stati terzi: non c'è nessun obbligo di intervenire.

Citiamo a questo proposito l'ART. 5 del Trattato Istitutivo della NATO, secondo il quale: le parti si accordano nel senso che un attacco armato, contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, sarà considerato come un attacco armato contro ognuna di esse e, conseguentemente, si accordano nel senso che se un tale attacco armato si verifichi, ciascuna di esse, in esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva, riconosciuto dall'ART. 51 della Carta dell'ONU, assisterà la Parte o le Parti così attaccate e prenderà, individualmente o di concerto con le altre Parti, quell'azione che ritenga necessaria, incluso l'uso della forza armata per mantenere o ristabilire la sicurezza nell'area nord atlantica. = si tratta di una norma un po' ambigua che prevede, però, un obbligo di intervento a fianco dello Stato vittima dell'attacco armato.

Una norma simile la troviamo formulata nel trattato istitutivo di quella famosa unione dell'Europa occidentale, la UEO = organizzazione internazionale nata tra alcuni Stati europei alla fine della II guerra mondiale, che oggi dovrebbe diventare, nelle intenzioni degli Stati membri dell'UE, il braccio armato dell'UE, nell'ambito del II pilastro, quello della PESC, e sarà anch'essa dotata di una struttura militare e dovrebbe utilizzare l'unione dell'Europa occidentale come il suo braccio armato, quando si tratti di usare la forza nel quadro di una politica di difesa comune.









La Corte dell'ONU prevede che l'unica eccezione al divieto dell'uso della forza, da parte degli Stati individualmente considerati, è la legittima difesa. Questo spiega anche perché gli Stati tentino oggi di ampliare il concetto di legittima difesa, al di là di una corretta interpretazione dell'art. 51.

CASI CHE NELLA PRASSI SI SONO PRESENTATI E SI PRESENTANO TUTTORA, IN CUI GLI STATI, O ALMENO ALCUNI STATI, CERCANO DI GIUSTIFICARE IL RICORSO ALLA FORZA ARMATA, ANCHE AL DI LA' DEL CASO IN CUI C'E' L'ATTACCO ARMATO: Sono i casi che già si verificavano prima della Carta ONU, cioè l'intervento in territorio altrui per proteggere i propri cittadini che si trovino in situazione di pericolo e il governo locale non sia in grado, o non voglia, proteggere efficacemente la vita o i beni dei cittadini stranieri presenti sul suo territorio; l'intervento di umanità (ritornato di attualità durante la guerra del Kossovo), perché ci sono degli Stati che ritengono lecito intervenire militarmente in territorio altrui, non solo per difendere i propri cittadini, ma anche quando si tratta di reagire contro massicce violazioni di diritti dell'uomo da parte del governo costituito o anche quando il governo costituito non è responsabile, quando all'interno dello Stato c'è una situazione tale per cui ci sono degli atti di genocidio, o comunque, massicce violazioni dei diritti fondamentali dell'uomo. L'intervento di umanità, fino a qualche anno fa, era ancora di dubbia liceità di quanto non fosse l'intervento a protezione dei cittadini all'estero, perché era contestato dalla maggioranza degli Stati. Oggi ha cominciato ad essere appoggiato, soprattutto dagli Stati occidentali. Ci sono altre forme di intervento armato, la cui liceità e però sostenuta soltanto dagli USA: si tratta delle forme di intervento armato per reagire al terrorismo internazionale, in particolare quanto il terrorismo internazionale è un terrorismo di Stato o sponsorizzato dagli Stati = Es. la Libia, accusata di essere stata responsabile di attività terroristica ai danni degli USA = ipotesi in cui gli USA tengono la massima super potenza mondiale e sono spesso tentati di intervenire militarmente, non solo per tutelare dei diritti discendenti dalle norme di diritto internazionale, ma anche per tutelare degli interessi non giuridicamente protetti, quindi in aperta violazione del diritto internazionale e decidono di intervenire con la forza, cosicché sostengono la liceità di questo tipo di intervento.

Per il diritto internazionale tradizionale queste forme di intervento potevano giustificarsi sulla base dei valide fasi di giustificazione, perché non c'era solo la legittima difesa: c'era anche la RAPPRESAGLIA, che poteva giustificare un intervento armato quando si riteneva che lo Stato vittima avesse commesso precedentemente un illecito e si reagiva con la rappresaglia armata nei confronti dello Stato autore dell'illecito internazionale per costringerlo a cessare l'illecito internazionale e costringerlo a fornire un'adeguata riparazione.

Oggi la rappresaglia c'è ancora, ma non è considerata come un'eccezione al divieto dell'uso della forza, perché oggi le rappresaglie possono consistere solo in misure non implicanti l'uso della forza, perché l'unica eccezione al divieto dell'uso della forza è la legittima difesa. In passato si poteva invocare anche lo stato di necessità per giustificare una forma di intervento armato, quando lo Stato sul cui territorio si voleva intervenire, non era responsabile dell'illecito e non c'era rappresaglia perché lo Stato contro il quale si voleva intervenire non aveva commesso nessun illecito, però lo Stato interveniente diceva, es. nell'ipotesi di protezione dei cittadini all'estero, di non aver altro mezzo per tutelare l'interesse essenziale dello Stato.

Stando al diritto vigente, lo stato di necessità non è un'eccezione al divieto dell'uso della forza: l'unica eccezione resta la legittima difesa.

Per questo motivo, si cerca di ampliare il concetto di legittima difesa per farci rientrare almeno qualcuna di queste ipotesi.

ES.: gli USA, quando sono intervenuti a protezione dei cittadini all'estero, hanno sostenuto la teoria in base alla quale, almeno nelle ipotesi in cui lo Stato territoriale è responsabile della situazione di questo tipo, quindi un attacco nei confronti dei cittadini dello Stato è equiparabile ad un attacco armato nei confronti dello Stato, quindi lo Stato potrebbe reagire a titolo di legittima difesa, proteggendo i suoi cittadini all'estero. Non è, però, una teoria accettabile, in quanto i cittadini non sono organi dello Stato, non fanno parte dello Stato-persona.

L'unica possibilità che rimane per giustificare queste forme di intervento è sostenere che ci sia una prassi nella comunità internazionale volta a legittimare certe forme di intervento armato, anche al di là della legittima difesa. Però questa prassi non si è ancora trasformata in diritto consuetudinario vigente, in quanto, finora, queste forme di intervento hanno sempre suscitato delle proteste.

Questi interventi che non possono essere giustificati alla luce del concetto di legittima difesa, possono essere giustificati solo se c'è il consenso dello Stato territoriale, per es., quando si interviene a protezione dei cittadini all'estero in territorio altrui con il consenso dello Stato territoriale, oppure quando sono autorizzate dalle Nazioni Unite ( = sistema di sicurezza collettiva) le quali quando non riescono loro stesse ad intervenire, autorizzano gli Stati ad usare la forza: in questi casi, queste forme di intervento sono legittime, al di fuori di questi due casi, si può solo dire che si tratta di interventi di dubbia necessità.

Abbiamo esaurito il discorso sull'uso della forza arrivando alla conclusione che l'autotutela, oggi, non può consistere nell'uso della forza armata, se non nel caso limitato della legittima difesa; legittima difesa che consiste nell'uso della forza per reagire ad un attacco armato e con lo scopo difensivo di far cessare l'attacco armato e di rimuovere le immediate conseguenze di questo attacco. Però l'autotutela non si esaurisce nella legittima difesa nel diritto internazionale contemporaneo: restano, anche se non possono più consistere in operazioni militari, quelle che una volta si chiamavano rappresaglie, oggi chiamate contromisure.

RAPPRESAGLIA (O CONTROMISURA) = Comportamento dello Stato in sé e per sé illecito, perché contrario ad un obbligo dello Stato, quindi ad una norma di diritto internazionale in vigore per lo Stato, ma che diviene lecito per il fatto che questo comportamento viene tenuto per reagire ad un precedente illecito ed ha lo scopo di far cessare l'illecito precedente e, soprattutto, di costringere lo Stato autore dell'illecito a fornire una riparazione adeguata. C'è chi dice che abbia anche una funzione sanzionatoria, ma la sua funzione principale è una funzione satisfattiva, riparatoria.

Distinzione:

RAPPRESAGLIA

LEGGITTIMA DIFESA

PRESUPPOSTO: qualunque tipo di illecito (comportamento che può essere tenuto quando c'è stato un qualsiasi illecito, non necessariamente un uso della forza illecito).

COMPORTAMENTO CHE ESCLUDE L'ILLICEITA': Non può più consistere in un uso della forza, allo stato attuale, e riguarda proprio lo scopo.

SCOPO: Costringere lo Stato autore a cessare il suo comportamento, se è ancora in atto, e a fornire una riparazione adeguata; in più ha anche lo scopo punitivo di sanzionare il comportamento illecito dello Stato.

PRESUPPOSTO: Attacco armato (può definirsi come una sottospecie della rappresaglia).

COMPORTAMENTO CHE SCLUDE L'ILLICEITA': Serve per escludere l'illiceità dell'uso della forza.

SCOPO: Difensivo.

Il problema più grosso riguardo la rappresaglia nel diritto internazionale è il seguente: mentre nel diritto interno l'attuazione coercitiva del diritto presuppone l'accertamento del diritto stesso (prima di accerta che ci sia un diritto e che tale diritto è stato violato, poi si procede all'esecuzione forzata); ma nel diritto interno questo è possibile, perché c'è lo Stato che esercita la funzione di accertamento e di attuazione del diritto: ma nel diritto internazionale l'accertamento del diritto non sempre c'è, perché se c'è una controversia internazionale e gli Stati non scelgono un metodo per la soluzione della controversia internazionale, o non l'hanno scelto a monte, la soluzione della controversia non c'è, l'accertamento del diritto non c'è.

Quando lo Stato accusa l'altro Stato di aver commesso un illecito, l'altro Stato quasi mai ammette di aver commesso l'illecito (a volte lo fa, fornendo le sue scuse, risarcendo il danno), ma, se come succede nella maggior parte dei casi, lo Stato accusato di aver commesso l'illecito, risponde dicendo che non ha commesso l'illecito, quindi c'è una controversia internazionale avente per oggetto la sussistenza o meno del fatto illecito, quindi della responsabilità internazionale che ne deriva, questo è il problema fondamentale per quanto riguarda la rappresaglia. Nella prassi internazionale noi constatiamo che gli Stati, quando ritengono di essere vittime di un illecito, adottano delle rappresaglie.



Qui, la Commissione di diritto internazionale ha cercato di fare un opera di sviluppo progressivo del diritto internazionale, dicendo che non è sempre lecito adottare delle rappresaglie se prima non c'è stato quantomeno un ragionevole tentativo per risolvere pacificamente l'eventuale controversia internazionale, in particolare l'ART. 48 del Progetto di articoli, regola in modo abbastanza dettagliato quando lo Stato può adottare delle contromisure: Prima di prendere delle contromisure, uno Stato offeso dovrà adempiere al proprio obbligo di negoziare, ... Quest'obbligo non pregiudica l'assunzione da parte di quello Stato delle misure provvisorie di protezione che siano necessarie per preservare i propri diritti e che comunque rispettino le condizioni poste da questo capitolo...... = da un lato, ci dice che lo Stato non può adottare una contromisura nell'ipotesi in cui lo Stato sia vincolato, perché ha scelto a monte un determinato mezzo di soluzione delle controversie internazionali.

ES.: Abbiamo due Stati parti di un trattato il quale prevede che per la soluzione delle controversie che insorgono relativamente all'interpretazione o all'applicazione di quel determinato trattato, c'è un meccanismo di conciliazione, o a maggior ragione c'è la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia, è chiaro che se sorge una controversia relativa all'interpretazione o all'applicazione di quel trattato, non si potrà subito adottare una rappresaglia da parte di chi accusa uno Stato di aver violato il trattato: in questi casi, in cui lo Stato che ritiene di essere la vittima di un illecito, però si è obbligato preventivamente a soggiacere ad un certo mezzo per la soluzione delle controversie internazionali, questo mezzo dovrà essere esperito prima che si possano adottare delle contromisure. Le contromisure si potranno adottare solo una volta che il mezzo è stato esperito, che è stato accertato che lo Stato accusato ha effettivamente commesso un illecito, e quello non cessa dal comportamento e non fornisce un'adeguata riparazione. Mentre, invece, si potranno adottare delle contromisure in quelle situazioni in cui lo Stato non è vincolato dalle procedure di soluzione delle controversie di questo tipo, ma in questo caso basterà fare un tentativo: ma si dice, poi, che questa è una situazione di compromesso, perché la Commissione ammette che lo Stato possa adottare, nel frattempo, non una vera e propria contromisura, ma delle misure provvisorie di protezione (ART. 48) che siano necessarie per preservare i propri diritti.

Ma non è molto chiara la differenza tra una contromisura ed una misura di protezione che lo Stato prende per preservare i propri diritti, in attesa di adottare la vera e propria contromisura: sembra che la misura di protezione, quando sia contraria al diritto internazionale, sia anch'essa una contromisura, quindi la Commissione finisce, poi, per ammettere quello che succede normalmente nella prassi: gli Stati adottano subito delle contromisure, in attesa poi di vedere se la controversia sarà risolta in un senso o nell'altro.

Queste contromisure devono poi avere determinati caratteri: il carattere più importante è quello della proporzionalità (tipico anche della legittima difesa): ART. 49 = Le contromisure adottate da uno Stato offeso non dovranno essere sproporzionate rispetto al grado di gravità dell'atto internazionalmente illecito ed alle sue conseguenze per lo Stato offeso = La proporzionalità viene vista, non tanto in relazione allo scopo della rappresaglia, come avviene, invece, per quello che riguarda la legittima difesa, ma è commisurata al grado di gravità dell'atto illecito commesso dallo Stato, contro il quale si vuole reagire.

Proporzionalità non significa necessariamente che la rappresaglia debba essere una rappresaglia, come si dice tecnicamente, identica: si ha una rappresaglia identica, quando per reagire ad una violazione da parte di uno Stato ad una determinata norma di diritto internazionale, lo Stato viola la stessa norma di diritto internazionale, violata in precedenza dallo Stato autore dell'illecito. Ora, le rappresaglie identiche sono, di solito proporzionali, ma la proporzionalità non implica necessariamente che la rappresaglia debba essere identica: può darsi benissimo, che per essere efficace, la rappresaglia debba consistere nella violazione di una diversa norma di diritto internazionale.

Quindi, limite fondamentale è quello della proporzionalità. Dopodiché abbiamo una serie di divieti a cui, alcuni dei quali, corrispondono sicuramente al diritto consuetudinario, nel senso che certi comportamenti non possono mai essere giustificati nemmeno a titolo di rappresaglia: ART. 50 = Uno Stato offeso non dovrà ricorrere a titolo di contromisure:

a)      alla minaccia o all'uso della forza come vietate dalla Carta delle Nazioni Unite;

b)      ad una drastica coercizione di carattere economico o politico tesa a minare l'integrità territoriale o l'indipendenza politica dello Stato che ha commesso l'atto internazionalmente illecito;

c)      a qualsiasi comportamento che leda l'inviolabilità degli agenti, dei locali, degli archivi e dei documenti diplomatici o consolari;

d)      a qualsiasi comportamento che deroghi ai diritti umani essenziali; o

e)      a qualsiasi comportamento in violazione di una norma imperativa del diritto internazionale generale.

Concludendo: altro aspetto controverso riguarda chi può adottare una rappresaglia. La rappresaglia può essere adottata dallo Stato leso, o dallo Stato che ritiene di essere leso, dall'illecito dello Stato.

Ma quando abbiamo la violazione di una norma di diritto cogente o, più in generale, di una norma istitutiva di obblighi erga omnes, la Commissione ha fatto la scelta per cui lo Stato leso sono tutti gli Stati, quantomeno nell'ipotesi in cui sia commesso un crimine internazionale, e quindi uno dei gravi illeciti: in tutti i casi in cui abbiamo delle norme consuetudinarie costitutive di vincoli erga omnes, o delle norme di un trattato istitutive di vincoli erga omnes, possiamo considerare come Stati lesi tutti gli Stati, nel primo caso, e tutti gli Stati parti del trattato, nel secondo caso.

La prassi internazionale è però incerta su questo punto: noi non possiamo affermare, oggi, con certezza che quando c'è una violazione di diritto cogente, tutti gli Stati possono adottare delle rappresaglie nei confronti dell'autore dell'illecito. E questa è una posizione sostenuta da una parte della Comunità internazionale, per esempio, dagli Stati occidentali, ma fino a poco tempo fa era una posizione contestata, perché altri Stati, in particolare quelli socialisti, ma non solo loro, avevano sempre sostenuto che nel sistema del diritto internazionale vigente le sanzioni, economiche, possono essere adottate solo se c'è una decisione o una raccomandazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: il sistema di sicurezza collettivo dell'ONU consente al Consiglio di Sicurezza, di fronte ad una situazione di minaccia alla pace o di atti di aggressione, di raccomandare gli Stati, e in certi casi di obbligare gli Stati, ad adottare delle misure economiche nei confronti di uno Stato ritenuto responsabile di questa situazione. Ma, al di là di questi casi, che sono possibili solo se c'è il consenso delle Grandi Potenze che hanno il diritto di veto, è molto dubbio che se non c'è una decisione o una raccomandazione del Consiglio di Sicurezza, gli Stati che si ritengono lesi possono adottare delle sanzioni. La Commissione si è schierata a favore di questa soluzione.

Nella prassi internazionale non è ancora detto che siamo in presenza di una norma di diritto consuetudinario accettabile dalla comunità internazionale nel suo insieme.

Nel diritto internazionale l'attuazione coercitiva del diritto è rimandata all'autotutela: sono gli Stati che di fronte ad un illecito prendono delle misure più o meno adeguate per ottenere una riparazione, quindi far valere la responsabilità internazionale dello Stato autore dell'illecito.

La Carta dell'ONU limita l'autotutela nel senso di impedire l'uso della forza nelle relazioni internazionali se non nel caso della legittima difesa per far fronte ad un attacco armato: quindi allo stato attuale nel diritto internazionale l'autotutela consiste nella legittima difesa per reagire ad un attacco armato oppure consiste in rappresaglie (o contromisure) non implicanti l'uso della forza.

Questa possibilità per gli Stati di ricorrere all'autotutela, in particolare con misure economiche o comunque non implicanti l'uso della forza, è limitata da alcuni trattati internazionali, in particolare dai trattati istitutivi di certe organizzazioni internazionali, i quali limitano la possibilità per gli Stati membri di ricorrere all'autotutela per reagire a quello che loro ritengono che sia un illecito.

A livello universale il trattato istitutivo dell'organizzazione mondiale del commercio limita il ricorso all'autotutela in quanto prevede un sistema per la soluzione pacifica delle controversie che ha carattere tendenzialmente giurisdizionale e solo dopo che c'è stata una decisione vincolante, nell'ipotesi in cui lo Stato non rispetta la decisione vincolante, questo Stato può essere autorizzato a ricorrere a misure di autotutela.

Altro caso è quello della Comunità Europea, perché secondo la Giurisprudenza della Corte di Giustizia della C.E. sarebbe sempre vietato, nei rapporti tra gli Stati membri della Comunità, adottare delle misure di autotutela.















SISTEMA DI SICUREZZA COLLETTIVO DELLE NAZIONI UNITE

Nel disegno originario dei relatori della Carta dell'ONU il divieto dell'uso della forza da parte degli Stati individualmente considerati, con l'unica eccezione della legittima difesa, era collegato con la possibilità per l'ONU stessa di intervenire, quanto meno nelle situazioni più gravi, per mantenere o ristabilire la pace o la sicurezza internazionale usando eventualmente anche la forza. Quindi, c'era un collegamento indubbio tra il divieto dell'uso della forza da parte degli Stati singolarmente considerati e le competenze dell'ONU che avrebbe dovuto funzionare come una sorta di "poliziotto internazionale".

Questo collegamento, oggi, nel diritto internazionale generale non c'è, perché oggi il divieto dell'uso della forza è previsto dal diritto consuetudinario, anche per gli Stati non membri dell'ONU, con l'unica eccezione della legittima difesa, quindi non si può sostenere che il Patto del sistema di sicurezza collettiva dell'ONU non funzioni o funzioni in modo parziale, e ciò autorizza poi gli Stati ad usare la forza anche al di là della legittima difesa.

Il sistema di sicurezza collettiva è regolato dal CAP. VII della Carta ONU, il quale si intitola "azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace e dagli atti di aggressione" e prevede cosa può fare l'ONU in presenza di queste situazioni. Questo CAP. VII costituisce un parziale rimedio agli inconvenienti dell'autotutela, ma è un rimedio parziale, perché:

questo sistema di sicurezza collettivo dell'ONU è destinato ad operare non in presenza di qualunque illecito, quindi il presupposto per l'attivazione di questo sistema è, nemmeno un illecito internazionale, ma una situazione internazionale potenzialmente pericolosa, o che si sia già tradotta in una violazione della pace o atti di aggressione;

il CAP. VII prevede delle competenze del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che non è un organo giurisdizionale, ma è un organo politico, che interviene in presenza di una minaccia alla pace o di una violazione alla pace o di un atto di aggressione, solo se c'è la volontà politica dei membri del Consiglio di Sicurezza ad intervenire. Il Consiglio di Sicurezza decide caso per caso, ed è una decisione politica, se intervenire o meno;

non solo di tratta di una decisione politica, ma è una decisione che può essere presa a maggioranza dei 9 membri su 15, richiede però che siano d'accordo i  5 membri permanenti, i quali hanno il famoso diritto di veto, quindi in base al CAP. VII nessun intervento dell'ONU è possibile se non c'è l'accordo dei 5 membri permanenti.

PRESUPPOSTI PER L'ATTIVAZIONE DEL CAP. VII DELLA CARTA DELL'ONU: Di queste tre situazioni (minaccia alla pace, violazione alla pace, atto di aggressione), quella più interessante e più attuale è quella della minaccia alla pace, perché nella maggior parte dei casi il Consiglio interviene dopo aver accertato che c'è stata una minaccia alla pace. Una minaccia alla pace può anche essere costituita da situazioni interne ad uno Stato: esempio la politica di apartheid da parte della Rhodesia del Sud e del Sud Africa, è stata considerata come una minaccia alla pace per legittimare delle misure coercitive che il Consiglio di Sicurezza ha adottato nei confronti di questi Stati nel 1966 e 1978, per quanto riguarda la Rhodesia, e nel 1977 per quanto riguarda il Sud Africa. Quindi, politica di apartheid, ma più in generale, gravi violazioni dei diritti umani o emergenze di tipo umanitario, possono costituire una minaccia alla pace, in presenza della quale il Consiglio di Sicurezza può intervenire.

Una situazione interna ad uno Stato può essere anche una vera e propria violazione della pace, cioè una situazione di conflitto armato, che può essere tanto un conflitto internazionale, quanto un conflitto interno di uno Stato, una guerra civile, o comunque una situazione di conflitto all'interno dello Stato può costituire una minaccia alla pace, come nel caso del Congo nel 1960 in cui, in presenza di una guerra civile all'interno del Congo, il Consiglio di Sicurezza è intervenuto con delle misure ex CAP. VII.

Ipotesi più grave è l'aggressione, una grave violazione del divieto dell'uso della forza: per l'aggressione c'è la famosa Risoluzione del 1974 dell'Assemblea Generale (.), la quale, però, non vincola il Consiglio di Sicurezza, ma è una mera dichiarazione di principi.

Il Consiglio può accertare, in base ad una valutazione di tipo politico, se c'è stata un'aggressione: il Consiglio di Sicurezza è riluttante ad accertare se sia stato commesso un atto di aggressione, anche perché l'aggressione è da tutti considerata come un crimine internazionale, quindi un illecito particolarmente grave che dovrebbe avere quelle famose conseguenze ulteriori rispetto a quelle dei normali illeciti internazionali, ha delle connotazioni particolarmente negative, per cui il Consiglio di Sicurezza preferisce dire che c'è stata una violazione della pace anche in situazioni eclatanti, come quella dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, che ha scatenato la II guerra del Golfo nel 1990, non è stato detto esplicitamente che l'Iraq aveva compiuto un atto di aggressione nei confronti del Kuwait: il Consiglio di Sicurezza ha detto solo che c'è stata una violazione della pace, tanto le conseguenze sono le stesse: in presenza di una qualsiasi di queste tre situazioni, il Consiglio può intervenire con delle misure coercitive.

ART. 39 CARTA ONU: Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. = si mette in evidenza che le risoluzioni del Consiglio, in base al CAP. VII, possono essere non solo delle raccomandazioni che, in quanto tali, non hanno valore vincolante, ma possono essere anche delle decisioni che invece sono vincolanti per gli Stati membri.

Sono poi richiamati gli articoli 41 e 42, i più importanti. L'ART. 41 riguarda LE MISURE NON IMPLICANTI L'USO DELLA FORZA, invece, l'ART. 42 riguarda LE MISURE IMPLICANTI L'USO DELLA FORZA. Però, prima di arrivare a questi due articoli, c'è l'ART. 40: Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di Sicurezza, prima di fare le raccomandazioni o di decidere sulle misure previste dall'ART. 41, può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie e desiderabili. Tali misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o le posizioni delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza prende in debito contro il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie.

Esempio tipico di misura provvisoria ex ART. 40, che il Consiglio di Sicurezza adotta sempre in presenza di una situazione di conflitto armato, è una risoluzione con la quale il Consiglio invita le parti a cessare il fuoco. Secondo Conforti queste misure provvisorie non sarebbero mai vincolanti per gli Stati membri, mentre il Consiglio si ritiene libero di adottare, in base all'ART. 40, sia delle raccomandazioni, sia delle decisioni vincolanti, e bisogna vedere poi caso per caso.

Ma le decisioni più significative sono quelle di cui agli ARTT. 41 e 42.

ART. 41: Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure non implicanti l'impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i Membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche. = si tratta di misure che poi, nella maggior parte dei casi, devono essere prese dagli Stati membri: non è che l'ONU, da sola, ha il potere di rendere effettivo un embargo o l'interruzione delle comunicazioni. Quindi, si tratta nella maggior parte dei casi, di atti di carattere normativo, quantomeno quando si tratta di decisioni vincolanti. Il Consiglio può adottare sia delle raccomandazioni non vincolanti, sia delle decisioni vincolanti. In ogni caso, si tratta poi di azioni che devono essere adottate dagli Stati membri. Si tratta qui di risoluzioni, specialmente quelle che consistono in decisioni vincolanti, che sono fonti di diritto internazionale di terzo grado, sono degli atti di tipo normativo: il consiglio raccomanda o decide quello che gli Stati membri devono fare. Quindi, quando si tratta di una decisione, crea degli obblighi per gli Stati membri, che sono obbligati poi ad adottare tutte le misure necessarie per dare esecuzione alle decisioni del Consiglio di Sicurezza.

Oggi, il Consiglio può prendere direttamente certe misure che sono riportabili all'ART. 41: per esempio, il Consiglio ha adottato delle risoluzioni con le quali ha creato determinati organi sussidiari di carattere giurisdizionale, decisioni che sono state riportate, in assenza di una base giuridica specifica, all'ART. 41 della Carta = nel 1993 e nel 1994 la creazione di due Tribunali penali internazionali che si occupano di crimini internazionali degli individui: il Tribunale penale per la ex Jugoslavia che giudica gli autori di crimini internazionali che sono stati commessi nel territorio jugoslavo dal 1991 in avanti, e il Tribunale penale per il Ruanda istituito nel corso della sanguinosa guerra civile nel Ruanda. Conforti ritiene che queste risoluzioni siano dell'ART. 42, cioè riguardino misure implicanti l'uso della forza, perché sono state adottate in un contesto bellico.

Le risoluzioni che istituiscono questi due Tribunali, oltre a creare i Tribunali, obbligano gli Stati membri a collaborare con questi Tribunali, per esempio consegnando gli autori dei crimini che sono stati individuati dai Tribunali, presenti nei loro territori, e tutta una serie di altri obblighi di collaborazione. La giurisdizione di questi Tribunali si impone a tutti gli Stati, per il fatto che sono stati creati con due decisioni del Consiglio, che sono comunque vincolanti ex ART. 41 della Carta, in base al CAP. VII.

ART. 42: Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell'articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite. = nell'idea originaria dei relatori della Carta si distingueva fondamentalmente dall'ART. 41, non solo perché qui sono previste solo le misure implicanti l'uso della forza, ma anche perché, mentre le misure previste nell'ART. 41, nella maggior parte dei casi, sono misure raccomandate e decise dal Consiglio, ma poi devono essere messe in atto dagli Stati membri: invece l'ART. 42 prevede chiaramente un intervento diretto del Consiglio di Sicurezza. Gli autori della Carta avrebbero voluto che l'ONU potesse intraprendere delle azioni coercitive di carattere militare attraverso le forze armate delle Nazioni Unite.

Si prevedeva che gli Stati membri avrebbero dovuto obbligarsi con degli accordi, previsti dall'ART. 43, che avrebbero dovuto essere stipulati al più presto possibile, dopo l'entrata in vigore della Carta, gli Stati membri avrebbero, quindi, dovuto obbligarsi, da un punto di vista generale, a tenere certi contingenti di forze armate a disposizione del Consiglio di Sicurezza, e quindi il Consiglio di Sicurezza, di fronte ad una minaccia alla pace, violazione alla pace o ad un atto di aggressione, oltre ad adottare quelle famose dichiarazioni ex ART. 41, non implicanti l'uso della forza, avrebbe potuto decidere di intraprendere un'operazione militare e a questo gli Stati membri, in forza degli accordi che avevano stipulato in precedenza, previsti dall'ART. 43, questi contingenti militari.

ART. 43: Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite s'impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l'assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessario per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.....

Purtroppo però questi accordi previsti dall'ART. 43 non sono mai stati stipulati, perché la guerra fredda ha impedito l'attuazione piena del sistema di sicurezza collettiva dell'ONU, di fronte ad una situazione di minaccia alla pace, violazione alla pace, o di atti di aggressione, non è oggi in grado di intervenire militarmente con una forza militare multinazionale messa a disposizione degli Stati, perché gli Stati non si sono mai obbligati preventivamente, in base all'ART. 43, a tenere questi contingenti a sua disposizione.

Il Consiglio non può obbligare gli Stati membri a mettere a sua disposizione dei contingenti militari per svolgere un'operazione di polizia internazionale, perché gli Stati membri, in assenza degli accordi previsti dall'ART. 43, non sono in alcun modo obbligati a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza delle forze armate per lo svolgimento di azioni di tipo coercitivo.

Di fronte alla mancata attuazione dell'ART. 43, la prassi dell'ONU si è svolta in base ad un'evoluzione, la quale consiste nelle operazioni di mantenimento della pace: ci sono stati dei casi in cui l'ONU ha effettivamente costituito delle forze armate multinazionali sulla base di contingenti militari messi a disposizione dagli Stati membri. Ma si è trattato sempre di operazioni multinazionali create dal Consiglio di Sicurezza sulla base di contingenti messi volontariamente a disposizione dagli Stati membri, perché in assenza degli accordi previsti dall'ART. 43, il Consiglio non può obbligare nessuno a fornire dei contingenti militari.

Quindi, si costituisce una forza multinazionale sulla base di contingenti forniti dagli Stati membri, ma posti poi sotto un comando unificato delle Nazioni Unite: questa forza agisce come organo sussidiario dell'ONU, essendo composto da contingenti nazionali.

La caratteristica fondamentale di queste operazioni di mantenimento della pace è quella che queste operazioni si svolgono sempre, o quasi sempre, con il consenso del Sovrano territoriale, con il consenso degli Stati nel cui territorio queste operazioni devono svolgersi e, quando ci sia stata una guerra civile, con il consenso, non solo del Governo legittimo, ma anche di tutte la parti.

Nella maggior parte dei casi le forze multinazionali sono autorizzate ad usare la forza solo per autodifesa: vanno per svolgere determinate operazioni di polizia e possono usare la forza solo se sono attaccate.

Ci sono stati dei casi in cui queste forze militari sono state incaricate di svolgere delle funzioni che andavano al di là delle operazioni di tipo classico, quindi sono state autorizzate ad usare la forza anche al di là dell'autodifesa, ma si è trattato di operazioni di carattere fallimentare, come quella che si è svolta in Somalia, dove la forza dell'ONU è stata autorizzata ad usare tutti i mezzi necessari per garantire l'aiuto e il mantenimento della legge dell'ordine.

In queste situazioni, l'ONU anziché inviare sul posto una forza multinazionale delle Nazioni Unite, si limita ad autorizzare o a raccomandare l'uso della forza da parte degli Stati membri: anziché agire direttamente, raccomanda o autorizza gli Stati membri ad agire loro con la forza = Caso tipico di autorizzazione, quella commessa dalle Nazioni Unite agli Stati membri ad usare la forza per aiutare la Corea del Sud a difendersi dalla Corea del Nord (Anni '50).

(AUTORIZZAZIONE = RIMOZIONE DI UN OSTACOLO GIURIDICO ALLO SVOLGIMENTO DI CERTE AZIONI DA PARTE DEI PRIVATI).

Molti autori dubitano della legittimità di queste risoluzioni in quanto la Carta prevedeva un'azione diretta dell'ONU.

Oggi, di fronte a questa prassi del Consiglio di Sicurezza, questi dubbi sono venuti meno e si ritiene che dette risoluzioni siano legittime e si cerca un articolo della Carta dove inserirle. Ma l'opinione corretta è che si è formata una consuetudine che ha fornito al Consiglio di Sicurezza la competenza ad autorizzare gli Stati membri ad usare la forza nelle relazioni internazionali.

Sul presupposto di una minaccia alla pace, di una violazione alla pace o di un atto di aggressione, il Consiglio di Sicurezza può intervenire con una graduazione di misure che vanno dalle misure provvisorie, in base all'ART. 30, alle misure non implicanti l'uso della forza, in base all'ART. 41 e misure implicanti l'uso della forza, in base all'ART. 42. Per quanto riguarda le misure provvisorie e le misure non implicanti l'uso della forza, il Consiglio di Sicurezza può sia raccomandare sia decidere queste misure; invece, per quanto riguarda le misure previste dall'ART. 42, le misure implicanti l'uso della forza, la Carta prevedeva, non che il Consiglio di Sicurezza obbligasse gli Stati ad usare la forza, ma prevedeva che usasse la forza direttamente. Quindi, una risoluzione presa in base all'ART. 42 avrebbe dovuto identificarsi non come un atto normativo, con il quale il Consiglio obbligava gli Stati a prendere determinate misure, ma come una risoluzione di tipo operativo, con la quale il Consiglio avrebbe deciso di agire direttamente con la forza, sia pure sulla base di contingenti militari messi a disposizione degli Stati membri (gli Stati membri sarebbero stati obbligati a metterli a disposizione del Consiglio, a sua richiesta) in base ad accordi speciali che sarebbero dovuti essere conclusi immediatamente dopo l'entrata in vigore della Carta, fra il Consiglio e ciascuno Stato membro. Visto che questi accordi non sono mai stati stipulati, il Consiglio di Sicurezza, quando vuole agire direttamente attraverso la forza militare, deve a sua volta chiedere agli Stati membri, quali sono disposti a mettere a sua disposizione dei contingenti militari.

Abbiamo così le operazioni militari di mantenimento della pace dell'ONU, che però nella prassi si sono svolte con diverse finalità da quelle previste dalla Carta: diversa è la base giuridica, perché il Consiglio non può obbligare gli Stati a fornire dei contingenti militari. Ma queste operazioni hanno di solito, più che scopi coercitivi, cioè costringere uno Stato a cessare un determinato comportamento, hanno, di solito, natura non coercitiva perché si svolgono con il consenso del sovrano territoriale o, in caso di conflitto interno, con il consenso di tutte le parti coinvolte in una guerra civile e perché le forze armate ONU hanno la possibilità di usare la forza solo a titolo di autodifesa.

Ci sono stati casi di autorizzazione all'uso della forza, che sono state date o agli Stati in generale, o agli Stati all'interno di un'organizzazione internazionale come la NATO, o a un gruppo di Stati che intendono costituire una forza multinazionale sotto comando unificato, ma non delle Nazioni Unite.

L'ultima, in ordine di tempo, di queste autorizzazioni è stata quella data il 10 giugno 1999 agli Stati membri per costituire una forza multinazionale che è stata inviata in Kossovo, dopo la guerra, per svolgere tutta una serie di compiti di polizia in un territorio dove mancava la polizia. La forza militare inviata in Kossovo non è una forza dell'ONU, ma è una forza degli Stati membri inviata in Kossovo con l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Dopo la fine delle operazioni aeree militari questa risoluzione ha autorizzato gli Stati membri (essenzialmente gli Stati membri della NATO) a mantenere una loro presenza militare in Kossovo per fare da appoggio all'amministrazione temporanea civile del Kossovo, affidata invece ad un organo sussidiario delle Nazioni Unite.

Questo schema riguardo ai rapporti tra ONU e Stati membri sull'uso della forza: gli Stati membri non possono usare la forza se non a titolo di legittima difesa o se non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; il Consiglio di Sicurezza può usare la forza ma per farlo ha bisogno che gli Stati membri mettano a sua disposizione dei contingenti militari per lo svolgimento di operazioni militari dell'ONU, non coercitive = questo schema vale anche nei rapporti tra l'ONU e le organizzazioni regionali, in particolare quelle organizzazioni che hanno competenza in materia di mantenimento alla pace e della sicurezza internazionale (CAP. VIII CARTA ONU), come, ad esempio, l'organizzazione per l'unità africana, in Africa; l'OSCE, per l'Europa; e, infine, oggi, anche la NATO, nata come organizzazione per la legittima difesa collettiva, ma che oggi è vista come braccio armato degli Stati membri per lo svolgimento di operazioni militari che vanno al di là della legittima difesa.

Visto che la NATO non è più solo un'organizzazione di legittima difesa collettiva, ma intende svolgere anche operazioni di tipo coercitivo nel quadro del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, anche la NATO rientra tra le organizzazioni regionali per le quali la Carta dell'ONU, in particolare il CAP. VIII, si propone di effettuare un collegamento tra la loro attività e l'attività delle Nazioni Unite.

Il CAP. VIII, a questo proposito, fa una distinzione fondamentale tra:



ATTIVITA' IN MATERIA DI RISOLUZIONE PACIFICA DELLE CONTOVERSIE

(Cap. VI Carta ONU)

AZIONI

COERICITIVE

(Cap. VII Carta ONU)

Hanno forza di priorità, in linea di principio, alle organizzazioni regionali:

ART. 52: Nessuna disposizione del presente statuto preclude l'esistenza di accordi o organizzazioni regionali per la trattazioni di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, che si prestino ad un'azione regionale, purché tali accordi o organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.... = è una priorità solo in linea di principio perché in realtà, se uno Stato membro si rivolge comunque al Consiglio di Sicurezza, in base al CAP. VII, il Consiglio è libero di decidere se attivarsi o meno e di adottare raccomandazioni, anche se non è stato previamente utilizzato un meccanismo di soluzione delle controversie a livello regionale.

La posizione delle organizzazioni regionali dell'ONU è inversa ai sensi della Carta: è prevista una priorità dell'ONU rispetto alle organizzazioni regionali.

ART. 53: Il Consiglio di Sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali, per azioni coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza..

Abbiamo delle organizzazioni regionali che agiscono sotto la direzione delle Nazioni Unite come se fossero degli organi delle Nazioni Unite perché agiscono sotto il controllo e la direzione generale dell'ONU.

Così come i singoli Stati non possono usare la forza fuori dalla legittima difesa o se non sono autorizzati dal Consiglio di Sicurezza, anche le organizzazioni regionali possono essere autorizzate ad usare la forza dal Consiglio di Sicurezza: ma se non c'è questa autorizzazione le organizzazioni regionali non possono usare la forza, con eccezione della legittima difesa, che è comunque lecita.



La prassi dimostra che, per quanto riguarda le operazioni di mantenimento della pace delle organizzazioni regionali, quando si tratta di operazioni che implicano l'intervento di forze militari che sono autorizzate all'uso delle armi anche al di là dell'autodifesa in caso di attacco, si tratta di operazioni di tipo coercitivo, che devono essere autorizzate dall'ONU, tant'è vero che queste risoluzioni fanno espresso riferimento al CAP. VII della Carta dell'ONU, quando danno questa autorizzazione alle organizzazioni regionali o anche agli Stati singolarmente considerati.







Privacy




Articolo informazione


Hits: 7306
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024