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LA RIFORMA DEL SISTEMA ITALIANO DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO

diritto



LA RIFORMA DEL SISTEMA ITALIANO

DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO





La legge 218 del 1995 rappresenta lo stadio finale di un processo di riforma del dir. int. priv. iniziatosi dieci anni prima; l'Italia, con questa riforma, ha provveduto ad adeguare le proprie norme di conflitto a principi che gli stati europei avevano già accolto. Prima della legge di riforma il sistema italiano di dir. int. priv. era quello espresso dalle norme contenute negli artt. 17-31 delle preleggi; tali regole erano state introdotte ai tempi del c.c. del 1865 e, sebbene in parte modificate dal legislatore del '42, difatti erano inadeguate alle esigenze di una società moderna e soprattutto per molti aspetti incostituzionali. Proprio l'incostituzionalità è stata un elemento di notevole accelerazione del processo di riforma: infatti con due sentenze la Corte Costituzionale ha di fatto azzoppato il sistema precedente, costringendo il legislatore a intervenire. Di fronte alla duplice possibilità di intervento e cioè colmare i vuoti legislativi creati dalla Corte Costituzionale, oppure operare una riforma radicale il legislatore ha fatto opportunamente la seconda scelta, poiché bisognava, come detto, cambiare un sistema di fatto obsoleto. Volendo segnalare alcuni motivi di inadeguatezza del vecchio sistema di dir. int. priv. segnaliamo l'eccessiva astrattezza e rigidità di queste norme; le lacune che il sistema presentava rispetto a materie "moderne"; la scarsa considerazione e tutela degli interessi materiali; l'eccessivo spazio dato al criterio della nazionalità (cavallo di battaglia del regime fascista); la mancanza di collegamento tra il dir. int. priv. e il dir. processuale civile internazionale, elementi che vedremo essere invece naturalmente connessi.



Concludiamo con un accenno ad un problema proposto in dottrina: l'opportunità di operare una riforma attraverso l'intervento del legislatore nazionale piuttosto che operare tale riforma in sede convenzionale. Questa obiezione, che si fonda su una presunta superiorità del metodo convenzionale è stata superata dai fatti, che hanno dimostrato come gli accordi internazionali sono estremamente limitati dagli interessi di parte che ciascuno degli aderenti cerca di imporre, il che molto spesso porta a compromessi eccessivi che lasciano irrisolti molti problemi. Si è perciò imposta l'idea della necessaria complementarietà tra l'opera del legislatore nazionale e di quello convenzionale.

La legge è divisa in 5 titoli,l'esame dei quali ci consente di evidenziare anzitutto come il legislatore non si è limitato ad adeguare il sistema, ma ha riformato la materia,ampliandola ricomprendendovi materie che in passato si consideravano non rientranti nel dir. int. priv: ad esempio ancor prima di stabilire la legge applicabile è necessario stabilire a quale paese spetti la giurisdizione,materia da sempre considerata di procedura civile e oggi invece giustamente,in quanto collegata,inserita nel dir. Int .priv. Altro dato che balza evidente è quello per cui il legislatore ha deciso di occuparsi direttamente di problemi prima non affrontati e lasciati all'elaborazione di dottrina e giurisprudenza.

Il carattere di legge particolarmente dettagliata è evidenziato anche dal fatto che per alcune materie viene operato un rinvio alle convenzioni internazionali in cui partecipa l'Italia. E questo rinvio è particolarmente forte,visto che le norme che operano,dicono che la convenzione troverà applicazione "in ogni caso",eliminando in tal modo ogni ostacolo in questo senso,in particolare il fatto che alcune convenzioni non sono erga omnes. Questo non vale per alcune convenzioni,che essendo erga omnes, non richiedono la menzione di "in ogni caso". D'altra parte un riferimento del genere in convenzioni erga omnes potrebbe avere solo l'effetto di eliminare le eventuali riserve poste dall'Italia nella ratifica della convenzione,ma non sembra che le cose nella realtà stiano così.

Il fatto che la legge 218 riguardo ad alcune materie rinvia "in ogni caso" alle convenzioni

internazionali può avere il significato che la convenzione sia applicabile secondo un duplice fondamento: un'applicazione normale secondo quanto previsto nella ratifica e nell'ordine di esecuzione; e un'applicazione particolare, nel senso che dove essa formalmente non trova applicazione sarà in ogni caso considerata un modello da seguire dal legislatore nell'ambito della recezione materiale da esso effettuata. E' chiaro che stando così le cose abbiamo che, per la parte in cui la convenzione è applicata tramite rinvio recettizio (procedimento speciale) siamo di fronte ad un'unica norma internazionale, mentre nell'altro caso siamo di fronte a una norma nazionale di contenuto identico a quella internazionale a cui si affianca, ma con differenze a livello di interpretazione. Infatti se le norme oggetto di rinvio formale verranno interpretate secondo i criteri del dir. int., o i criteri degli organi internazionali, quelle recepite mediante rinvio materiale, in quanto norme interne, potranno essere interpretate secondo principi interni, persino in contrasto con i criteri internazionali. Altro problema legato alla recezione delle norme internazionali è dato dal fatto che tale tipo di adattamento ha l'effetto di "cristallizzare" la convenzione al momento della sua recezione, con la conseguenza che l'Italia potrebbe rimanere insensibile ai mutamenti che potrebbero essere determinati sia dall'adesione di nuovi stati (subordinata a eventuali cambiamenti), sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia internazionale. Il problema si può risolvere non verificando quale tecnica di adattamento al diritto int. il legislatore ha usato, quanto tenendo presente quale fosse lo scopo del legislatore nel dettare questa regola: ed è evidente che tale scopo è quello di semplificare la vita dei giudici, consentendo loro di applicare un unico gruppo di norme in riferimento a una serie di materie. Ed essendo questo lo scopo del legislatore, è chiaro che la norma non può essere vista come impeditivi di evoluzioni dovute a cambiamenti nelle norme convenzionali, in quanto questo non porterebbe armonizzazione, ma diversificazione. Nel caso in cui una norma convenzionale venisse abrogata, anche se la norma interna di ricezione di quella internazionale è autonoma rispetto a questa, proprio in coerenza a quanto detto poc'anzi, si dovrà aggiornare il contenuto della norma interna. Nella legge 218 è contenuto un principio generale in cui si fa salva l'applicazione delle norme convenzionali: si tratta di un principio giustamente inserito che elimina ogni possibilità di equivoco, visto che la legge 218 richiama espressamente alcune convenzioni, per cui potrebbero sorgere dubbi in merito alle convenzioni non richiamate. La legge 218, nello stesso art. 2 (in cui è contenuto quanto detto finora), ma al comma 2°, contiene un princi 929d35j pio che potrebbe apparire superfluo: quello per cui nell'interpretazione delle convenzioni bisogna tenere conto del loro carattere internazionale e della loro applicazione uniforme. Questo principio potrebbe apparire qualcosa di scontato, ma non lo è se lo si intende nella sua forza espansiva e cioè in riferimento alle convenzioni non espressamente richiamate dalla legge 218.

La legge 218 presenta importanti elementi di novità rispetto all'impostazione tradizionale, che vedeva applicato nei rapporti interindividuali il criterio per cui si applicava la legge dello stato in cui la fattispecie appariva maggiormente localizzata. Era un criterio rigido, per il quale ogni rapporto faceva parte di categorie predefinite e alle quali venivano applicate le norme già stabilite. Era un criterio di collegamento molto astratto, che solo in un secondo momento consentiva di verificare la compatibilità delle norme di un ordinamento con le norme interne. Questa impostazione negli ultimi decenni è stata fortemente criticata per il suo carattere rigido e queste critiche hanno indubbiamente avuto delle conseguenze, tant'è che di esse hanno tenuto conto sia i paesi che hanno riformato il loro sistema di dir. int. priv. , sia quelli che non hanno fatto ciò (attraverso l'interpretazione giurisprudenziale). Queste critiche hanno portato da un lato a una maggiore "specializzazione", cioè a una regolamentazione della materia molto minuziosa, in modo da cercare di predisporre ogni soluzione per ogni problema; dall'altro a una maggiore "flessibilità", che però è stata più o meno realizzata in diversi paesi. Sicuramente il grado maggiore di flessibilità è stato raggiunto da quei sistemi, che impongono al giudice di individuare per ogni caso concreto la normativa da applicare anche quando, esso rientri in uno dei casi prestabiliti.La maggiore prudenza viene evidenziata da quei paesi che hanno scelto di applicare non uno, ma diversi criteri, alcuni principali altri sussidiari e quindi applicabili solo in caso di mancata applicazione dei primi.

Anche il legislatore italiano nella legge 218, sembra avere recepito le critiche rivolte al vecchio

sistema.

Anche dell'altro fattore di flessibilità, cioè la possibilità da parte dei privati di scegliere l'ordinamento applicabile (oltre che per la materia dei contratti) è stato fatto un uso molto limitato. Infatti tale possibilità è prevista solo per la scelta dei rapporti patrimoniali fra i coniugi, le successioni mortis causa, la responsabilità da illecito e extracontrattuale e per quella per danno da prodotto. Si tratta ancora una volta di un notevole passo avanti rispetto al passato, ma di un passo troppo piccolo rispetto alle scelte di altri legislatori chiamati ad aggiornare il loro sistema di dir. int. privato. Dall'esame delle materie in cui è stata concessa tale facoltà di scelta emerge come il legislatore l'ha voluta concedere in materia familiare-patrimoniale e in materia di responsabilità, trascurando altri campi in cui tale libertà sarebbe sta opportuna e addirittura facendo un passo indietro in materia di rappresentanza volontaria, visto che la facoltà di scelta che era prevista in materia è stata sostituita da criteri oggettivi.

Il criterio (lì dove accolto) che consente alle parti, o a una soltanto di scegliere l'ordinamento applicabile, rappresenta tra l'altro uno dei tre criteri con i quali il legislatore ha inteso dare rilevanza e protezione agli interessi materiali. Gli altri due sono: quello per cui si favorisce una parte applicando le norme dell'ordinamento che essa dovrebbe conoscere meglio; e quello per cui, oltre al tradizionale criterio della localizzazione la norma applicabile viene selezionata sulla base di criteri alternativi o sussidiari, che permettono di applicare le norme che meglio consentono di raggiungere i fini sociali.In questo modo il legislatore italiano ha approfittato della necessità della riforma del sistema per eliminare la scarsa sensibilità che il dir. int. priv. aveva (anche secondo le critiche della dottrina) verso le esigenze sociali, in quanto eccessivamente astratto. In ogni caso il legislatore italiano (e quelli europei in genere), pur sensibile alle critiche (soprattutto statunitensi), ha dato luogo anche in questa materia a una "rivoluzione moderata", in quanto ha migliorato la situazione, ma rivedendo e applicando criteri tradizionali, come l'applicazione delle leggi conosciute dalla parte che si vuole favorire, la possibilità affidata a una o entrambe le parti di scegliere le norme, o l'applicazione di altri criteri accanto a quello della localizzazione.

Un problema normale quando si introduce una novità normativa, a cui non è sfuggita la legge 218, è quello della disciplina transitoria, cioè delle norme applicabili prima della completa entrata in vigore della nuova normativa. La legge 218 prevedeva la sua completa attuazione trascorsi novanta giorni di vacatio legis, cioè novanta giorni dalla pubblicazione sulla G.U., ma subito il governo ha disposto una serie di rinvii per l'applicazione dell'ultima parte, entrata in vigore l'1-6-96. Questa parte che è entrata in vigore in ritardo è quella relativa al riconoscimento delle sentenze e degli atti stranieri in genere. Il governo per giustificare tale rinvio ha parlato di necessità di adeguamento, ma la giustificazione non può essere accettata visto che si tratta di materia già regolata dalla convenzione di Bruxelles del 1968 e, per quanto si tratti di un'applicazione che è stata generalizzata, non può parlarsi di adeguamento su una materia conosciuta già da vent'anni. Con l'entrata in vigore della legge218 verranno abrogate le norme con essa incompatibili. La legge menziona espressamente quali sono:gli artt. 17-31 delle preleggi e alcuni artt. del c.c. e del c.p.c. Il fatto che vengano indicate le norme da abrogare non deve fare pensare a un lavoro facilitato per l'interprete, visto che la relazione ministeriale alla legge dice che bisogna verificare altre possibili abrogazioni. Il problema riguarda in particolare alcune norme del diritto di famiglia, del diritto societario e del codice della navigazione.

Un esempio relativo al diritto di famiglia potrebbe essere l'art. 116 c.c., visto che impone allo straniero che vuole contrarre matrimonio in Italia di soddisfare, oltre ai requisiti richiesti dalla sua legge nazionale, altri requisiti imposti dall'ordinamento italiano: tuttavia riteniamo che tale norma è fatta salva perché non è subordinata alla mancanza di incompatibilità nelle norme internazionali, ma è indipendente da esse.

Con riferimento al diritto delle società, la legge 218 abroga espressamente alcuni articoli del c.c., lasciando aperta la questione sulla compatibilità delle altre norme,ma non sembrano esserci problemi in tal senso.

La legge 218 non si occupa delle eventuali incompatibilità con il cod. della navigazione perché una commissione ministeriale è incaricata di redigerne uno nuovo. Il fatto che, ancora non si vede la fine di questi lavori e che quindi ancora per molto tempo rimarrà in vigore l'attuale codice porta a verificare la compatibilità delle sue norme con la legge 218. Un esempio per tutti: nel codice della navigazione è dato ampio spazio al principio della nazionalità della nave, o dell'aeromobile, in conformità al vecchio sistema di conflitto, ma essendo stato, nel nuovo sistema, tale principio fortemente limitato è chiaro che si pone un problema di conciliabilità. Detto questo appare difficile conciliare il codice della navigazione con la legge 218, per cui il codice dovrebbe considerarsi tacitamente abrogato e dovrebbero cercarsi soluzioni frutto di interpretazione della legge 218 per regolare le singole fattispecie. Con riferimento alle obbligazioni contrattuali il problema sembrerebbe essere risolto dalla applicazione delle norme della convenzione di Roma. Se invece si ritengono speciali le norme del codice della navigazione allora queste dovranno essere ancora applicate, ma in ogni caso per le materie regolate dalla convenzione di Roma (le obbligazioni contrattuali) non sembra che la specialità presunta delle norme del codice della navigazione possa salvare tali norme dall'abrogazione.

Un ulteriore problema da considerare, nel contesto delle problematiche relative al passaggio da un regime ad un altro, è quello relativo a quali norme siano applicabili (quelle vecchie, o quelle nuove) nei rapporti in itinere, per i quali si applicavano le norme vecchie e ai quali sono ora applicabili le nuove, che molto spasso dispongono in maniera diversa. Il problema è risolto in maniera chiara dalla legge 218, che prevede l'applicazione delle nuove norme a tutte le situazioni che nascono dopo l'entrata in vigore della legge, o che a quella data sono in corso di svolgimento, mentre la vecchia disciplina si applicherà a quelle situazioni che al momento dell'entrata in vigore della legge sono "esaurite", cioè hanno svolto i loro effetti: in questi casi la legge tutela l'aspettativa delle parti a vedere disciplinati i loro rapporti secondo le regole che erano in vigore al momento della nascita dei rapporti stessi.

Anche dove tale facoltà di scelta è stata concessa, ciò è stato fatto in modo restrittivo. La scelta dei coniugi è infatti limitata alle sole leggi che il legislatore ha ritenuto avere una connessione con la situazione: in particolare le leggi degli stati di cui uno dei due abbia la cittadinanza, o in cui sia residente. Anche in materia di successione mortis causa il legislatore ha concesso un'autonomia alquanto ristretta, consentendo la scelta solo se fatta espressamente nell'ambito del testamento, solo per l'ordinamento dello stato di residenza del dei cuius e prevedendo l'inefficacia di tale scelta se al momento della morte il testatore non risiede più in tale stato.

Un discorso a parte occorre fare per la donazione, in quanto la si è esclusa dalla materia contrattuale, prevedendosi una disciplina diversa, di fatto modellata su quella delle successioni. Rispetto alla disciplina dei contratti, in cui la scelta di un ordinamento alternativo può essere successiva, si è ritenuto opportuno imporre una scelta preventiva, per cui, come nelle successioni, questa dovrà essere fatta al momento della donazione. Tale scelta è peraltro incoerente rispetto al contenuto della convenzione di Roma del 1980, in cui la donazione è stata inclusa nella materia contrattuale; alla fine prevarrà la disciplina convenzionale, visto che la stessa legge 218 prevede l'applicazione "in ogni caso" della convenzioni. Stando così le cose la disciplina in tema di donazione della legge di riforma avrà carattere residuale, applicandosi solo alle donazioni che non sono previste dalla convenzione (donazioni non contrattuali).

In materia di responsabilità da illecito la legge 218 prevede la possibilità di derogare al classico criterio del locus commissi delicti, dando la possibilità di scegliere anziché le norme del luogo in cui si è verificato l'evento dannoso, quelle del luogo in cui si è svolta l'azione che ha provocato il danno. La scelta di privilegiare solo la parte danneggiata non è però esente da critiche: giustificabile in alcuni casi (come per il danno da prodotto), essa non pare estensibile a ogni situazione, perché vi possono essere fattispecie in cui non esiste un "contraente debole" che giustifichi un favor esclusivo a suo vantaggio.

In materia di danno da prodotto il legislatore ha fatto una scelta ancora più restrittiva, consentendo al danneggiato di scegliere o la legge dallo stato in cui ha il domicilio o l'amministrazione il produttore, oppure la legge dello stato in cui il prodotto è stato acquistato, salva la possibilità per il produttore di provare che il prodotto è stato messo in commercio senza il suo consenso.

Il legislatore ha opportunamente fatto la scelta di regolamentare nella legge 218 la materia, in passato erroneamente considerata autonoma, del dir. processuale civile, in quanto materia connessa al dir. int. priv. E' chiaro come questa scelta, oltre a comportare una maggiore armonizzazione tra le norme di queste due materie che sono indubbiamente connesse, consente anche una migliore interpretazione. Il metodo adottato dal legislatore nel regolare il dir. processuale civile int. è quello di porre i problemi nello stesso ordine con cui essi si presentano al giudice: prima le norme che delimitano la giurisdizione, poi quelle sui conflitti di legge e infine quelle relative all'efficacia degli atti giurisdizionali stranieri. La riforma del 1995 presenta grosse novità rispetto al sistema del '42. Le norme del 42 si caratterizzavano per il fatto di assegnare alla competenza della giurisdizione italiana una gamma vastissima di fattispecie: in particolare, riteneva il foro competente in ogni caso in cui il convenuto fosse un cittadino italiano e, nel caso che fosse straniero, attraverso il cumulo di una serie di criteri, anche qui quasi sempre.In pratica non si ammettevano ostacoli alla composizione delle liti che avessero rilievo per il nostro ordinamento. Anche in tema di efficacia degli atti giurisdizionali stranieri le cose erano simili: infatti essa era subordinata al previo giudizio (detto di delibazione) di una nostra corte d'appello. Coerente a quanto detto finora era anche la soluzione relativa all'ipotesi che eventuali pendenze giudiziarie all'estero potessero impedire la prosecuzione di processi in Italia: i processi che si svolgevano all'estero erano considerati da questo punto di vista irrilevanti. Su questo sistema, ancor prima dell'intervento legislativo del '95, aveva già avuto modo di agire la convenzione di Bruxelles del '68, mirante a creare uno spazio giurisdizionale europeo in cui operano autonomi criteri di giurisdizione e una disciplina che tende al riconoscimento degli atti giuridici stranieri. Una disciplina, quella convenzionale, di tipo liberista, opposta rispetto a quella del '42 e destinata a fare sentire la sua influenza nella legge di riforma. E di ciò si rendeva conto il legislatore, anche se nella legge delega che assegnava la competenza al governo, in realtà si partorì il classico topolino dalla montagna, prevedendosi rispetto al passato poche modifiche. Opportuna quindi appare la scelta della commissione del governo (in particolare del Ministero di grazia e giustizia) di interpretare in modo ampio il suo mandato.

Il problema dell'ambito della giurisdizione italiana è affrontato negli artt. dal 3 al 12, opportunamente preceduti dalla norma dell'art. 2 che fa salva l'applicazione delle norme convenzionali e quindi della convenzione di Bruxelles. Divengono quindi tacitamente abrogati alcuni artt. del c.p.c. che si occupano della materia in modo incompatibile con la nuova disciplina, in particolare le norme relative alla inderogabilità per convenzione della giurisdizione italiana, quelle relative a giudizi pendenti davanti a giudici stranieri, la giurisdizione rispetto allo straniero .Tra le novità più rilevanti che presenta la legge di riforma, si segnala quella dell'abbandono di una separazione classica tra due gruppi di norme: da una parte le norme che delimitano i poteri dello Stato, cioè dei suoi organi giudiziari in generale; dall'altro quelle che si occupano della ripartizione di questi poteri tra i giudici. Le norme del primo gruppo venivano chiamate norme sulla competenza internazionale, quelle del secondo norme sulla competenza interna. L'abbandono di questo criterio è testimoniato dal fatto che nella legge 218 la competenza della giurisdizione italiana è individuata anche grazie alle norme sulla competenza territoriale, che tradizionalmente si riferivano al secondo gruppo. Questo fatto è reso esplicito nell'art. 3 della legge 218, dove si dice che la giurisdizione italiana vale (oltre che in base all'art. 77 c.p.c.) anche negli altri casi previsti dalla legge: in primo luogo nel 2° comma dello stesso art. 3, dove si legge che la giurisdizione italiana sussiste anche in base ai criteri di competenza territoriale previsti per i giudici per le materie non previste dalla convenzione di Bruxelles; inoltre in materia di giurisdizione volontaria si prevede che la giurisdizione vale, oltre che nei casi indicati nell'art 9, anche quando è prevista la competenza territoriale di un giudice italiano. Dubbi circa l'applicazione di questi principi riguardano le materie della scomparsa, assenza, morte presunta e la materia successoria: in senso contrario si potrebbe dire che queste materie prevedono dei criteri autonomi per la determinazione della competenza; in senso favorevole si potrebbe dire che l'art. 3 per le materie escluse dalla convenzione di Bruxelles (e queste lo sono) afferma che la giurisdizione viene individuata anche grazie ai criteri di competenza territoriale. Inoltre la scomparsa, l'assenza e la morte presunta rientrano in quella giurisdizione volontaria per la quale l'art. 9 ha esplicitato il riferimento alla competenza per territorio, mentre per la materia successoria si può richiamare una norma del c.p.c. che fa riferimento alla competenza territoriale e che veniva utilizzata prima della riforma per determinare la giurisdizione del foro.

Occorre comunque dire che già la convenzione di Bruxelles contiene una chiara rottura rispetto alla tradizionale separazione di cui abbiamo parlato, in quanto in alcuni casi il giudice competente viene trovato individuando la giurisdizione competente, mentre in altri la soluzione in materia di giurisdizione viene individuata determinando il giudice competente. Anche in questo caso il legislatore alla fine non si può certo dire che abbia operata radicali rotture rispetto al passato: infatti ha partorito un sistema misto, con un gruppo di norme dedicato alla soluzione dei problemi di giurisdizione e contemporaneamente prevedendo la soluzione attraverso il ricorso ai criteri della competenza territoriale. E peraltro il ricorso ai criteri della competenza territoriale è alla fine molto ridimensionato rispetto a quanto era previsto nel progetto di legge. Infatti il rinvio che lì si faceva alla competenza territoriale, motivato dalle difficoltà interpretative che derivano dalla presenza di due gruppi di norme assolutamente separate, andò subito a sollevare critiche in dottrina. Infatti la presenza di una disciplina apposita sulla giurisdizione evidenziava che le difficoltà interpretative erano state risolte in altro modo, evidentemente ritenendole eccessive per essere risolte dal criterio della territorialità; inoltre tale criterio finiva con l'estendere a dismisura la giurisdizione interna, visto che il c.p.c. alla fine in qualche modo un giudice competente lo individua sempre. Tenendo conto di questi rilievi assolutamente ineccepibili il legislatore ha ridimensionato le intenzioni originarie e ha relegato il criterio della competenza territoriale a un ruolo subordinato, per altro applicabile evidentemente solo alle materie non previste dalla convenzione di Bruxelles.

Un'altra importante novità della legge di riforma è l'abbandono, almeno in linea di principio, del criterio della cittadinanza del convenuto. Infatti il legislatore ha voluto modificare quello che era il criterio, utilizzato in passato, dell'illimitatezza della giurisdizione in caso di cittadinanza italiana e della presenza di limiti in caso di convenuto cittadino straniero. A questa impostazione generale sono stati sostituiti criteri come la residenza, o il domicilio in Italia del convenuto, o il criterio della presenza in Italia del rappresentante (con capacità di stare in giudizio) del convenuto; a questi criteri si aggiunge quello dell'accettazione della giurisdizione. Questa metamorfosi si ispira in modo palese a quanto contenuto nella convenzione di Bruxelles dove come criterio generale viene adottato quello del domicilio del convenuto. Nonostante quanto detto finora il criterio della cittadinanza rimane applicato per un numero rilevante di ipotesi. Quindi è chiaro come tale criterio non è stato escluso, ma solo limitato, evidentemente a tutti i casi che non rientrano nella convenzione di Bruxelles. Dando ascolto alle critiche relative all'eccessiva dilatazione della giurisdizione italiana derivante dall'applicazione delle norme sulla competenza territoriale, il legislatore ha deciso di utilizzarla solo per i casi che presentano collegamenti significativi con l'ordinamento italiano. Nell'individuare tali collegamenti il legislatore ha voluto tenere conto delle convenzioni internazionali di cui l'Italia è parte e in particolare di quella di Bruxelles. Tenendo presente questo fatto possiamo dire che i criteri di giurisdizione recepiti consistono in una serie di fori alternativi (cioè sceglibili dall'attore che non intende accettare quello del domicilio del convenuto). Questi fori alternativi vengono individuati sulla base di tre tipi di criteri: 1) quelli indicati nella convenzione come criteri di competenza speciali; 2) quelli volti a evitare il sovrapporsi di diverse pendenze aventi il medesimo oggetto; 3) quelli posti a tutela del contraente più debole.

La legge 218 ha in realtà ampliato l'ambito di applicazione della convenzione di Bruxelles in riferimento all'applicabilità dei criteri alternativi al principio del domicilio del convenuto, poiché consente la loro applicazione anche per l'ipotesi che il convenuto non sia domiciliato in uno degli stati che hanno aderito alla convenzione, naturalmente nell'ambito delle materie previste dalla convenzione stessa. Lo scopo di questa estensione è quello di rimuover le situazioni di indubbio svantaggio di cui sarebbero stati vittima i soggetti domiciliati in stati terzi. Infatti a costoro sarebbe stato impossibile sottrarsi al criterio del domicilio del convenuto , mentre i domiciliati nei paesi aderenti avrebbero potuto usare i criteri alternativi di cui abbiamo detto. Rendendo applicabile (per le materie previste dalla convenzione) i criteri convenzionali anche al convenuto domiciliato in paesi terzi, tali discriminazioni sono state eliminate.Secondo una parte della dottrina da tutto questo ragionamento resterebbero escluse le norme relative alla protezione del contraente più debole nei rapporti di assicurazione,in quanto concepite dalla convenzione di Bruxelles come autonome; ma questa idea è spazzata via dall'art 3 comma 2 della legge 218 in cui l'applicabilità di tali norme anche al convenuto straniero è affermata in modo esplicito. Lo stesso art 3 non consente di superare un'altra discriminazione nei confronti di soggetti che non hanno il loro domicilio sul territorio di uno stato aderente. Questa discriminazione è determinata dal fatto che non c'è corrispondenza tra le norme in materia di giurisdizione e quelle relative al riconoscimento degli atti stranieri (sentenze in particolare). Le controversie in cui sia convenuto un soggetto non domiciliato in uno stato contraente non vengono regolate secondo le norme convenzionali, per cui vengono in questi casi applicati quei criteri nazionali che invece la convenzione esclude nelle controversie in cui è convenuto un domiciliato in un paese aderente. A differenza delle norme sulla giurisdizione, applicabili solo nei casi già visti, le norme sul riconoscimento delle sentenze verranno applicate sempre, anche quando esse sono emanate da giudici individuati in base ai criteri nazionali eventualmente esorbitanti nei confronti di soggetti non domiciliati. Il risultato di tutto questo è uno squilibrio tra le norme giurisdizionali, dove il nostro legislatore ha allargato l'ambito di applicazione delle norme convenzionali e le norme sul riconoscimento delle sentenze straniere, che devono essere sempre applicate, anche quando si tratterà di riconoscere le sentenze di un giudice individuato con l'applicazione di criteri nazionali.



In materia di giurisdizione la legge 218 non si è limitata a trasformare da generale in speciale il criterio della cittadinanza del convenuto, ma ha eliminato i criteri della connessione di cause e della reciprocità. Proprio in riferimento alla reciprocità, esso era un criterio che consentiva eccezionalmente al cittadino italiano di agire contro uno straniero, quando non era possibile usare altri criteri, per proteggersi da situazioni pregiudizievoli date da norme straniere esorbitanti. Il carattere di ritorsione che aveva questo criterio, più il fatto che esso era esercitatile dal cittadino e non dallo straniero e quindi contraddiceva il principio della parità di condizione spiegano perché il legislatore si è sbarazzato di esso.

Quanto al principio della connessione di cause, esso ha subito un progressivo ridimensionamento durante ,l'iter della legge: presentato non come criterio autonomo, bensì come un elemento coadiuvante nella determinazione della competenza territoriale, ha finito con l'avere un'applicazione residuale alle materie escluse dalla convenzione di Bruxelles, visto che per le materie da essa previste si è disposto l'applicazione dei criteri in essi contenuti.Resta il fatto che proprio nelle materie previste dalla convenzione la connessione delle diverse cause è possibile non certo con il criterio in oggetto, quanto con i criteri alternativi previsti dalla convenzione stessa.

Con riguardo alle materie escluse dalla convenzione bisogna individuare le ipotesi di connessione rilevante, secondo quanto disposto nell'ultima frase dell'art. 3 comma 2. Già con riguardo a quanto disposto nel c.p.c. la dottrina aveva dubbi che potessero rientrare tutte le ipotesi di connessione previste nello stesso c.p.c. Secondo una parte, la connessione era rilevante solo quando aveva riflessi sulla giurisdizione interna, mentre restavano escluse tutte le ipotesi di connessione per motivi di opportunità. Altri autori erano ancora più drastici, escludendo che nella connessione potessero farsi rientrare tutte le ipotesi che portavano a escludere la competenza di un giudice che altrimenti sarebbe stato adito. Altri autori ancora, argomentando sulla distinzione tra giurisdizione e competenza territoriale, ritenevano che il c.p.c. si riferisse a ogni ipotesi di connessione, senza alcun riguardo alle conseguenze giuridiche. Però le interpretazioni restrittive sembrano potersi escludere visto che il testo della parte finale del 2° comma dell'art. 3 dice che per le materie escluse dalla convenzione la giurisdizione viene determinata anche in base ai criteri territoriali, senza alcuna menzione delle conseguenze che su di essa (giurisdizione) derivano dalle varie connessioni. Da ciò deriva una diversa estensione della giurisdizione italiana, minore per le materie della convenzione, maggiore per le materie in essa non comprese. Sempre in materia di connessine bisogna considerare il disposto dell'art. 6, che attribuisce al giudice italiano la capacità di conoscere "incidentalmente" controversie che, se sottoposte a giudizio, non gli competerebbero: è evidente la scelta di evitare di bloccare i processi per questioni pregiudiziali che non dovrebbero competere al giudice nazionale, dandogli la possibilità di risolvere tali questioni, ma solo in via incidentale, cioè con decisione che vale solo con riferimento al caso di specie.

In tema di misure cautelari la legge 218 ripropone i principi che caratterizzano il c.p.c.: 1) l'esecuzione della misura cautelare in Italia; 2) che il rapporto al quale si riferisce la misura cautelare sia soggetto alla giurisdizione italiana.

Come durante la vigenza dell'art. 4 c.p.c., , anche la legge 218 non si occupa della giurisdizione italiana con riferimento ai procedimenti esecutivi, né a quelli fallimentari. Durante la vigenza dell'art 4 c.p.c. si è esclusa la possibilità di estendere analogicamente ai procedimenti fallimentari tale norma, ritenuta applicabile solo ai procedimenti cognitivi, per cui ne è derivata l'illimitatezza della nostra giurisdizione in materia. Gli unici limiti che possono essere individuati derivano dall'impossibilità di eseguire espropriazioni su beni che non si trovano sul suolo nazionale. Per ciò che riguarda le procedure fallimentari, ricordando che esse sono regolate da una apposita legge (r.d. del '42), i dubbi in materia di giurisdizione sembrano superati dalla legge 218, in cui si afferma come per le materie escluse dalla convenzione di Bruxelles (come le procedure fallimentari) la giurisdizione è determinata in base alla competenza per territorio: per cui la giurisdizione italiana sarà competente ogni qual volta un giudice italiano sarà competente per territorio. Sempre in materia fallimentare un problema di compatibilità si pone tra la legge fallimentare e la legge 218 a proposito del fatto che la legge fallimentare non ritiene impeditivo della dichiarazione di fallimento il fatto che lo stesso sia già stato dichiarato all'estero. E' chiaro come questa norma determina il non riconoscimento di una sentenza straniera (in questo caso la sentenza dichiarativa di fallimento) e quindi è incompatibile con l'automatico riconoscimento delle sentenze straniere stabilito dalla legge 218. Quindi due sono le possibili soluzioni: o si ritiene che la legge 218 abbia tacitamente abrogato la legge fallimentare; o che questa, in quanto speciale, sia ancora in vigore e quindi applicabile.

Una svolta in materia di rilevanza della volontà delle parti nella determinazione della giurisdizione è impressa, rispetto al passato, dalla legge 218. La volontà delle parti rispetto alla giurisdizione può avere un duplice effetto: uno positivo, che consente di attribuire la competenza anche quando essa manchi, e uno negativo atto a togliere la competenza lì dove essa è presente.

Per quanto concerne l'effetto positivo: rispetto a quanto previsto in precedenza nel c.p.c., nella legge 218 l'accettazione del convenuto, oltre che come atto unilaterale, è vista anche nella sua valenza bilaterale, in considerazione del fatto che i medesimi effetti (anzi forse ancor più) deve averli se espressa come volontà contrattuale. Inoltre, rispetto al passato, la legge di riforma ha imposto in questo caso la forma scritta a maggiore garanzia del convenuto. Come atto unilaterale, l'accettazione può essere espressa o tacita: è tacita quando il convenuto non faccia rilevare il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo. Al di là di questo caso, il difetto è rilevato d'ufficio sempre in qualunque stato e grado del processo in tre casi: 1) se il convenuto è contumace; 2) se, in base all'art. 5, si tratta di azioni reali con oggetto immobili siti all'estero, rispetto alle quali non vale la giurisdizione italiana; 3) se la giurisdizione italiana è esclusa da una norma internazionale. Solo quest'ultimo caso rappresenta una novità rispetto al passato. Il caso di cui al numero 2 merita di essere approfondito, anche perché occorre metterlo in relazione alle norme della convenzione di Bruxelles. La convenzione dice che per determinate materie, caratterizzate da una stretta connessione tra i motivi del contendere e il territorio di uno stato contraente, la giurisdizione spetti a tale stato indipendentemente dal domicilio del convenuto. Nulla si dice per l'ipotesi che l'elemento di collegamento sia collocato nel territorio di uno stato terzo.Da ciò possono derivare due conseguenze: o si interpreta la cosa come una mancanza di limiti nell'applicazione della convenzione verso l'esterno e quindi le limitazioni poste dalla legge 218 alla giurisdizione nazionale in materia di diritti reali su immobili siti all'estero viene a essere ridimensionata; o si accoglie la teoria degli effetti riflessi e si esclude l'applicazione della convenzione al di fuori dei casi da essa richiamati e quindi si da spazio alle norme interne sulla giurisdizione, compreso l'art. 5 della legge 218 e i suoi effetti limitativi.

Avevamo accennato nel precedente paragrafo a due effetti che la volontà delle parti può avere sulla giurisdizione: dopo avere approfondito quello positivo andiamo a parlare di quello negativo. Parlare della capacità delle parti di escludere la competenza giurisdizionale dello stato lì dove essa esiste è una questione delicata, visto che la giurisdizione è considerata uno dei presupposti della sovranità; tuttavia tutti gli stati a condizioni diverse ammettono deroghe e limitazioni di natura convenzionale, in modo da dare alle parti la possibilità di derogare al foro naturale. Il c.p.c. all'art.2 sanciva l'inderogabilità della giurisdizione nazionale, visto che i presupposti per la deroga erano veramente molto stretti: doveva trattarsi di una causa con obbligazioni tra stranieri, o fra uno straniero e un italiano non domiciliato, o residente nella Repubblica. E' chiaro come questa scelta estremamente nazionalista del nostro legislatore ben presto sarebbe apparsa inopportuna soprattutto con riferimento alle relazioni commerciali internazionali. Ciò spiega non solo la soddisfazione con cui sono state accolte le convenzioni stipulate dall'Italia nel senso di ammettere la capacità delle parti di derogare la giurisdizione naturale, ma la necessità di una vera e propria riforma, compiuta dal legislatore del '95. Pur mantenendo alcune limitazioni, nella legge 218 sono scomparse tutte quelle relative alla cittadinanza o alla residenza delle parti, mentre è rimasto l'obbligo della forma scritta in merito a queste scelte; quindi le deroghe alla giurisdizione nazionale sono possibili anche nelle cause tra cittadini italiani anche per fattispecie che non riguardano le obbligazioni. Alcune questioni: circa l'applicabilità per analogia degli artt. 1341 e 1342 c.c. la questione è ormai risolta dal nuovo art 833 c.p.c. (introdotto nel '94) che esclude l'applicabilità di queste norme; nel caso in cui in materia di deroga alla giurisdizione naturale sia applicabile la convenzione di Bruxelles, questa va applicata rispetto alle normative nazionali; infine la questione posta dal 3° comma dell'art. 4 della legge di riforma. Esso prevede che, per evitare un possibile conflitto negativo di giurisdizione, nonostante la validità del patto con il quale le parti intendono derogare alla giurisdizione nazionale, il giudice straniero (o l'arbitro) devono valutare la loro capacità di giudicare in materia, onde evitare possibili vuoti di giurisdizione. Nella relazione al progetto di legge si dice che il giudice italiano in questo caso deve riesaminare la domanda, anche se lui aveva rinunciato alla competenza con sentenza passata in giudicato: e questa soluzione è chiaramente in contrasto con un principio che la legge 218 esprime più avanti e cioè che le sentenze straniere non possono prevalere su quelle italiane definitive.

E' peraltro possibile, anche se la legge non se ne occupa, un conflitto positivo di giurisdizione, nel caso che si pronuncino sia il giudice italiano che quello straniero; la questione va risolta (secondo il principio cui abbiamo accennato) con la prevalenza della sentenza italiana e questo ci mette in evidenza come la stessa norma produce effetti diversi secondo che il conflitto di giurisdizione sia negativo, o positivo.

Il fatto che in materia di limitazione di giurisdizione tramite volontà delle parti il legislatore abbia dettato una disciplina specifica e non abbia richiamato alcuna norma della convenzione di Bruxelles sembrerebbe far pensare alla volontà di non tenere conto delle norme convenzionali, ma non è così. Ciò vale in particolare per alcune norme convenzionali che hanno una maggiore "specialità" rispetto a quelle della legge 218, in quanto impongono criteri per la deroga maggiormente restrittivi.

Rispetto al passato ( c.p.c. del '42) la legge di riforma ha profondamente innovato in materia di riconoscimento delle sentenze straniere, abbandonando il tradizionale principio dell'universalità della giurisdizione italiana. Questo principio difatti aveva portato a escludere ogni possibile equivalenza delle sentenze straniere a quelle interne, subordinando il riconoscimento delle prime a specifici atti di accettazione. Connesso a ciò è il problema della litispendenza, che il c.p.c. risolveva negando che la giurisdizione italiana potesse in alcun modo essere impedita da processi con oggetto e soggetti uguali svolgentisi davanti a un giudice straniero, né tanto meno se i due processi erano semplicemente connessi. La legge 218 ha eliminato tutti questi retaggi del passato e ha accolto le posizioni più moderne, riconoscendo le sentenze straniere, consentendo di derogare alla giurisdizione italiana e dando rilevanza alla litispendenza all'estero.Questo discorso sulla litispendenza rappresenta un necessario completamento rispetto alla materia del riconoscimento delle sentenze straniere, per evitare che giudice italiano e giudice straniero si occupino della stessa materia, con la prevalenza di chi giunge per primo a una sentenza definitiva.

Tra le novità più importanti in materia di litispendenza c'è da segnalare una importante innovazione rispetto al c.p.c.: questo ammetteva la possibilità di scelta per il convenuto se delibare una sentenza straniera (nel caso fosse a lui favorevole), o di aprire un procedimento in Italia (anche dopo l'emanazione di una sentenza, evidentemente sfavorevole). E' chiaro che questo stato di cose non poteva mantenersi nella legge 218, ammettendosi nella stesa il riconoscimento automatico delle sentenze straniere (due concetti assolutamente incompatibili).Al di là della novità appena segnalata , l'art 7 della legge 218 ha un contenuto che ricalca quello della convenzione di Bruxelles, ma questo non deve indurci nell'errore di sottovalutare questa norma: è vero che molti principi erano già conosciuti, ma avevano una portata limitata, perché non si applicavano agli stati terzi; e poi applicare e interpretare norme convenzionali è diverso dall'applicare e interpretare norme interne che riproducono il contenuto di una convenzione. E' dubbio che nell'applicazione di norme interne modellate sul contenuto di una convenzione possa avere rilevanza l'interpretazione pregiudiziale della Corte di giustizia; poi, con riferimento al principio della prevalenza del procedimento iniziato per primo, è evidente il tentativo del legislatore di stabilire un regime uniforme in materia di giurisdizione per le cause in cui siano convenute persone domiciliate negli stati aderenti. Questi obbiettivi di uniformità della giurisdizione presenti nella convenzione non possono essere ricercati nella norma interna (legge 218), per cui è chiaro come quest'ultima, nonostante quanto detto sopra, mantiene una carica di novità. A differenza della convenzione, l'art 7 della legge 218 regola la litispendenza in modo diverso: nella convenzione viene sancita la prevalenza del procedimento iniziato per primo e, nel caso di contestazione, la sospensione del processo; nella legge di riforma la prevalenza del processo all'estero è subordinata all'esistenza dei presupposti necessari affinché la sentenza estera abbia rilevanza in Italia: Il giudice italiano, verificando che all'estero è in corso di svolgimento un processo con gli stessi soggetti e il medesimo oggetto, se ritiene che vi sono i presupposti per cui la sentenza lì emanata possa essere riconosciuta, sospenderà il "suo" procedimento. Il legislatore del '95 non ha tenuto in considerazione le obiezioni della dottrina, che denunciava lo snaturamento dell'istituto della litispendenza subordinandolo a valutazioni del giudice italiano per altro basate sulla presenza di requisiti valutati senza avere tutti gli elementi della causa; ma su queste critiche evidentemente è prevalsa l'esigenza di evitare un diniego di giustizia, che si avrebbe se la sentenza straniera mancasse dei requisiti per il riconoscimento e quindi restasse senza effetti.

L'aver messo in relazione la litispendenza e il riconoscimento delle sentenze straniere ha comportato un effetto non previsto: così come si è rimandata l'entrata in vigore della parte della legge 218 relativa alle sentenze straniere, allo stesso modo, involontariamente e in quanto collegato, si è fatto per l'art. 7: quindi restano ancora in vigore in materia le norme del c.p.c., compreso il principio della prevalenza, in ogni caso, della sentenza italiana su quella straniera. Siccome la possibilità di aprire due procedimenti può verificarsi solo se non c'è stato un pronunciamento definitivo del giudice straniero e siccome, mancando ciò, l'art. 7 porterebbe sempre al prevalere della sentenza italiana, perché manca la parte relativa alle sentenze straniere e quindi si applicano le norme del c.p.c., sarebbe stato opportuno sospendere, assieme alla parte quarta della legge, anche l'applicazione dell'art. 7.

L'art. 7 presenta una formulazione migliore, dal punto di vista tecnico, rispetto al progetto di legge, in cui si prevedeva la preclusione per il giudice italiano di fronte a una litispendenza; più opportunamente nella legge si parla di una "sospensione", in modo che il giudice nazionale possa riprendere il processo nel caso di sentenza straniera non riconoscibile (perché carente dei requisiti richiesti), o nel caso di rinuncia del giudice straniero. La stessa regola si applica nel caso che il processo all'estero sia pregiudiziale: in realtà la formula del 3° comma dell'art. 7 relativa al caso di specie sembrerebbe fare pensare una regola diversa rispetto a quella del primo comma, in particolare a un obbligo per il caso del 1° comma, ritenendosi applicabile in Italia la sentenza straniera, e a una facoltà nel caso di pregiudizialità del processo estero; ma questa presunta differenza viene meno se si considera che l'accettazione della sentenza straniera è sempre discrezionale e valutata dallo stesso giudice italiano.

La litispendenza è un concetto che presuppone tre identità: oggetto, titolo e parti; ma così come faceva la convenzione di Bruxelles, anche la legge 218 non definisce questa tripla identità. Si pone quindi il problema se possa essere utilizzata a questo fine una sentenza della Corte di giustizia, la sentenza Gubisch, in cui la Corte ha interpretato in modo estremamente largo il concetto di litispendenza, in particolare riguardo all'identità dell'oggetto, arrivando a concepirla anche di fronte a due fattispecie in cui il medesimo contratto (una compravendita internazionale) veniva richiesto di esecuzione da una parte, di risoluzione dall'altra. Ad escludere la possibilità di usare tale nozione elaborata dalla Corte ci pensa la Corte stessa, quando nella motivazione ci dice che tale interpretazione si giustifica considerando le finalità particolari della convenzione e quindi ammettendo di avere ragionato sulla base di un concetto particolare e non di una nozione generale di litispendenza.

La legge 218 contiene importanti novità anche rispetto al tema del riconoscimento e dell'esecuzione delle sentenze e degli atti stranieri. Nel c.p.c. la sentenza straniera era subordinata per ciò che concerne la sua efficacia a un atto di riconoscimento da parte di una corte d'appello italiana, che doveva verificare l'esistenza di alcuni requisiti. Il giudizio di delibazione era dunque la strada obbligata per giungere a dare efficacia a una sentenza straniera.La delibazione, stando così le cose, aveva efficacia costitutiva e non dichiarativa. Ancora un rilievo: siccome il giudizio di delibazione si riferiva alla sentenza straniera, gli effetti di questa erano retroattivi, cioè partivano da quando la sentenza era stata emanata all'estero. Questa impostazione, assolutamente restrittiva, aveva sollevato varie critiche in dottrina: recependo tali critiche la legge 218 ha sancito l'automatico riconoscimento degli effetti delle sentenze straniere. Tale principio non è una novità assoluta: già in vigenza del vecchio regime, le varie convenzioni in cui l'Italia era coinvolta affermavano il riconoscimento automatico, tranne il caso in cui si dovesse procedere all'esecuzione forzata. La convenzione di Bruxelles non sfugge a tutto ciò. Il riconoscimento automatico delle sentenze straniere produce effetti sia di diritto sostanziale, che processuale, perché, oltre che a recepirne il contenuto, la sentenza straniera impedirà il formarsi di un giudicato nella stessa fattispecie da parte di un giudice italiano.

Come avveniva in passato, la legge di riforma non riconosce le sentenze straniere con efficacia limitata al procedimento in corso. Anche per ciò che riguarda i presupposti richiesti per il riconoscimento automatico non ci sono state grosse innovazioni rispetto al passato. Ugualmente poco innovative sono le disposizioni che, a tutela della difesa, mirano ad accertare la regolarità delle varie fasi processuali all'estero (come la costituzione delle parti per esempio). Anche in tema di controllo della conformità delle sentenze straniere alle norme interne di ordine pubblico nulla di eclatante da segnalare. In tema di passaggio in giudicato della sentenza straniera la legge 218 ripropone la formula del c.p.c. e non accoglie la proposta di parlare di sentenze non impugnabili ordinariamente, sulla base di un concetto (quello di passaggio in giudicato) non univoco. E' eluso il riconoscimento di sentenze straniere che contrastino con quelle italiane passate in giudicato; non si specifica se la norma riguardi sentenze che regolano la medesima lite: in vigenza del c.p.c. la norma era interpretata richiedendosi l'identità delle parti, del petitum e della causa pretendi; oggi invece si richiede l'uguaglianza solo delle parti. L'unica innovazione importante è rappresentata dall'introduzione del principio del rispetto per il giudizio iniziato per primo, volto a evitare che venga aperta una causa davanti a un giudice italiano (prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera) al solo fine di cercare di modificare una sentenza evidentemente sfavorevole.

Il fatto di avere accolto un meccanismo di riconoscimento automatico delle sentenze straniere comporta che una procedura di accertamento dei requisiti necessari per il riconoscimento di tali atti sarà necessaria solo in caso di contestazioni, o di esecuzione forzata. Questo principio è peraltro destinato a essere integrato, perché una procedura di delibazione di una Corte d'appello sarà necessaria nei casi in cui il riconoscimento della sentenza straniera comporti trascrizioni, iscrizioni, o annotazioni in pubblici registri; senza questo tipo di integrazione il compito di accertare la presenza dei requisiti nella sentenza straniera toccherebbe ai conservatori dei pubblici registri, il che non è possibile. Anzi proprio questa necessaria integrazione è stata uno dei motivi del rinvio dell'entrata in vigore della quarta parte della legge di riforma. Quanto alla procedura di delibazione, necessaria in caso di contestazione della sentenza straniera e nel caso di esecuzione forzata, nel progetto di legge non era detto nulla, per cui restando così le cose chiunque ne avesse interesse avrebbe dovuto rivolgersi alla Corte d'appello competente per territorio (considerando il luogo di attuazione); invece nel testo definitivo si è presa in considerazione la questione e si è disposta la procedura della camera di consiglio per snellire quanto più possibile il procedimento. Così come si diceva nel c.p.c., anche la legge 218 afferma come l'efficacia della sentenza straniera deriva sia dalla stessa sentenza straniera, sia da quella di delibazione: avendo la prima la capacità di produrre effetti, quella di delibazione avrà solo lo scopo di verificare i requisiti. La legge di riforma, poi, tace in merito a due questioni che nel c.p.c. erano invece esplicite: 1) la possibilità di chiedere in via diplomatica (in condizioni di reciprocità, o se previsto da convenzioni internazionali) l'efficacia della sentenza straniera; 2) la presenza del pubblico ministero. In merito al punto n°1 può ammettersi una soluzione positiva, mentre il silenzio del legislatore quanto al n°2 esclude la presenza del pubblico ministero.

Alcune critiche in dottrina ha sollevato il fatto di avere escluso ogni controllo di merito delle sentenze straniere (la delibazione riguarda solo requisiti formali). Nel sistema precedente, anche se in casi eccezionali, ciò era concesso; nella legge 218 no, in quanto si è ritenuto un principio inconciliabile con l'automatico riconoscimento delle sentenze: valutazione giusta, ma la Boschiero si interroga se non fosse stato giusto, magari sotto altre forme, mantenere un certo controllo. Altre perplessità nella dottrina ha suscitato il 3° comma dell'art. 67, dove si afferma che se la contestazione del riconoscimento di una sentenza straniera avviene durante lo svolgimento di un processo, il giudice pronuncia con efficacia limitata al giudizio in questione. Si tratta di un principio che ricalca la delibazione incidentale prevista nel c.p.c. e che in quel contesto, in cui esisteva la delibazione principale, era coerente, qui un po' meno.

Ulteriore novità la legge 218 ha introdotto in materia di efficacia degli atti giurisdizionali stranieri, dando la possibilità di riconoscere effetti a tali atti sulla base del dir. int. priv., quando essi regolano un rapporto per cui si applicano (per il dir. int. priv.) le norme dell'ordinamento da cui l'atto giuridico proviene. La dottrina e la giurisprudenza italiane da tempo sostengono la tesi che, senza nessuna delibazione, gli atti stranieri hanno efficacia se emanati dall'ordinamento competente secondo il dir. int. priv. Tale principio si applica però solo a rapporti di tipo privatistico e inoltre, siccome le sentenze non verranno in rilievo come atti giurisdizionali, ma come disciplina concreta di un rapporto, non produrranno né gli effetti di giudicato, né effetti esecutivi, per cui tale riconoscimento ha una natura completamente differente rispetto a quanto previsto nel riconoscimento automatico della sentenze. Che i due sistemi abbiano natura differente è testimoniato dal fatto che tramite il richiamo fatto dal dir. int. priv. La sentenza vale come norma che regola il rapporto, mentre il riconoscimento automatico attribuisce alla sentenza il valore di atto giuridico. Di conseguenza con il primo criterio non occorre verificare i requisiti della sentenza (delibazione), ma solo la conformità della stessa all'ordine pubblico, o, secondo alcuni, l'assenza di limiti internazionalprivatistici. Il riconoscimento dovrebbe costituire l'unico sistema per dare efficacia a sentenze emanate in stati non richiamati dal dir. int. priv. Quando i due sistemi sono entrambi invocabili allora si potrà ricorrere a entrambi alternativamente e in particolare al riconoscimento se si vogliono conseguire gli effetti di giudicato, o l'esecuzione forzata. Tutto questo discorso è tradotto nella legge di riforma nell'art. 65 la cui formula è oggetto di varie critiche. La norma prevede che abbiano effetto in Italia gli atti stranieri relativi ai rapporti di famiglia, alla capacità delle persone, o i diritti della personalità, che vengono pronunciati nei paesi ai cui ordinamenti occorre fare riferimento, nella soluzione di certe controversie, secondo le norme di dir. int. priv., o che, pronunciate in stati terzi, abbiano efficacia nei paesi di cui abbiamo detto. La norma, a differenza di quanto previsto in origine, non si riferisce solo alle sentenze, ma a tutti gli atti giurisdizionali.



Si è rilevato in dottrina che la norma appare come una strada alternativa a quella del precedente articolo per dare riconoscimento a sentenze straniere. D'altronde questa impostazione è confermata anche nella relazione ministeriale alla legge, in cui esplicitamente si parla di un processo complementare per il riconoscimento delle sentenze; ciò che non si capisce, allora, è perché come requisiti del riconoscimento si siano indicati solo la non contrarietà all'ordine pubblico e il rispetto dei diritti della difesa; infatti la mancata menzione della non contrarietà della sentenza rispetto a una italiana passata in giudicato e la non pendenza di un processo italiano rispetto a uno all'estero (con la prevalenza del primo) riguardante le medesime parti e il medesimo oggetto, comporterà un regime opposto rispetto a quello del riconoscimento indicato nell'articolo precedente. Un altro rilievo che è stato avanzato è quello per cui è criticabile la limitazione delle materie degli atti che possono essere recepiti con questo criterio alternativo, in particolare l'esclusione delle sentenze straniere su diritti reali relativi a immobili siti all'estero. Comunque, alla luce della natura processuale e non sostanziale di questo riconoscimento (quello dell'art. 65) si è parlato, anche nel silenzio della legge, della possibilità di estendere l'efficacia anche a altre sentenze che riguardano altre materie rispetto a quelle indicate.

La natura di procedimento di riconoscimento dell'art. 65 comporta la necessità di specificare i rispettivi ambiti di applicazione con il criterio dell'art. 64. Rispetto al progetto, in cui i due criteri apparivano come alternativi, nel testo della legge il criterio dell'art. 65 appare prevalente, per cui, mancando i presupposti per la sua applicazione, non potrà invocarsi in alternativa l'applicazione dell'altro.

Anche in tema di giurisdizione volontaria, oltre al normale riconoscimento, opera questo criterio che prescinde da alcun provvedimento se vengono rispettate le condizioni, già viste, dell'art. 65; ma in questa ipotesi (volontaria giurisdizione) oltre agli atti compiuti dai paesi competenti secondo le norme del dir. int. priv., valgono pure quelle emanate dai paesi competenti secondo le leggi italiane.

Le questioni generali del dir. int. priv. Sono quelle problematiche disciplinate in tutte le codificazioni nazionali (già affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza) e che riguardano le inevitabili difficoltà che sorgono dal fatto di relazionare tra di loro diversi sistemi nazionali di soluzione dei conflitti di leggi. Ad esempio, in ogni norma di dir. int. priv. Vi sono due elementi: la fattispecie e gli elementi della stessa assunti come collegamento con l'ordinamento destinato a regolarle. Con riferimento a entrambi i problemi bisogna ricercare il significato delle espressioni usate dal legislatore: questa operazione viene detta "qualificazione" e riguarda sia l'individuazione della fattispecie, che dell'ordinamento che si intende applicare. Alcuni criteri di collegamento richiedono indagini di mero fatto, altre di carattere giuridico, ma in entrambi i casi i risultati di tali indagini sono decisivi per individuare le norme applicabili. Accanto a questa problematica detta delle "qualificazioni" occorre considerare quella del "rinvio", che riguarda il fatto che i criteri di collegamento non sono sempre gli stessi.

Se nella maggior parte dei casi quindi il legislatore si è limitato all'attività di cui abbiamo appena detto, in altri ha fatto chiarezza e razionalizzato soluzioni in passato controverse e in un caso ha addirittura ribaltato la precedente soluzione. Ma alcuni problemi come le "qualificazioni", le questioni preliminari e le norme straniere di applicazione necessaria sono stati ignorati e lasciati ancora una volta a dottrina e giurisprudenza.

L'art. 13 della legge 218 si occupa del problema del rinvio, problema che si pone dopo che la norma interna di conflitto abbia individuato l'ordinamento straniero applicabile. Il giudice infatti trovandosi in questa situazione deve chiedersi se dell'ordinamento straniero richiamato dovrà applicare solo le norme materiali, o anche quelle di conflitto. Ancora bisogna capire se le norme applicabili sono solo quelle materiali dell'ordinamento richiamato, o anche quelle di ordinamenti terzi richiamati dalle norme di conflitto dell'ordinamento individuato dalle norme di dir. int. priv. nazionale.Due sono i possibili casi di rinvio: il rinvio indietro, o di primo grado, che si ha quando le norme di conflittostraniere rimandano alla competenza del foro; il rinvio avanti, o di secondo grado, che avviene quando le norme di conflitto straniere rimandano a ordinamenti terzi.

Rispetto a quanto disposto nelle preleggi, nelle quali si negava il rinvio ignorando qualunque richiamo che la legg

straniera da applicare facesse ad altre norme, la legge 218 opera una rivoluzione ammettendo il rinvio: 1) se il diritto

dello stato richiamato accetta il rinvio; 2) se si tratta di rinvio alla legge italiana. Operando tale riforma il legislatore

italiano si è adeguato ai moderni sistemi di dir. int. priv. dove il rinvio è accettato anche se in misura e con modalità

varie.Il rinvio indietro è quello che consente di applicare le norme del foro; per questo esso è il tipo di rinvio

generalmente accettato. L'applicazione della norma del foro è d'altronde una cosa necessaria per interrompere il

circolo vizioso a cui si andrebbe incontro se il rinvio indietro fosse applicato in modo completo: infatti, rimandando

al diritto interno, occorrerebbe applicare anche la norma interna che prevede la competenza dell'ordinamento che ha

operato il rinvio dando luogo a una sorta di partita a tennis, per usare le parole della dottrina. Il fatto di applicare le

norme interne nel caso di rinvio indietro è un elemento che snatura il rinvio fatto dall'ordinamento straniero (che

prevede in rinvio totale anche alle norme di dir. priv. int. e non solo a quelle materiali), ma è una scelta necessaria

per uscire dal "pantano" descritto in precedenza. E' necessario, in pratica, che in caso di rinvio indietro i paesi

coinvolti accolgano soluzioni opposte, cioè che uno accetti il rinvio e uno no.

Il rinvio oltre è previsto dall'art. 13 della legge 218, che dispone di tenere conto dei rinvii (eventuali) contenuti negli ordinamenti esteri a cui rimandano le norme di dir. int. priv. Si parla di rinvio oltre accettato perché tale rinvio opera solo se è accettato dalle norme di paesi terzi che vengono richiamate. In teoria eventuali ulteriori rinvii (accettati) dovrebbero ammettersi e questo ha da sempre rappresentato un argomento addotto dai detrattori del rinvio oltre, i quali sostengono che questo principio può portare a rinvii infiniti; in realtà la scarsa giurisprudenza in materia ci dimostra come quest'ipotesi si realizza solo raramente.

Con riferimento alla norma che prevede il rinvio oltre (art.l3) essa può essere oggetto di una duplice interpretazione:

una restrittiva, che limita l'ammissibilità di tale rinvio fino al secondo grado, quindi escludendo eventuali ulteriori

rinvii; una estensiva, che invece ammette tutto ciò e che è pure più coerente con la ratio legis: che senso ha limitare

l'applicazione di un principio introdotto per motivi di armonizzazione e quindi limitarel'armonizzazione stessa?

Cosa avviene se l'ordinamento a cui si rinvia da parte di quello individuato dalle norme del foro non accetta tale rinvio? Si produce una situazione di stallo (un ping-pong) tra l'ordinamento che rinvia e l'ordinamento che non accetta: ma mentre nel caso questo avvenga nel rinvio indietro verrà applicata la legge del foro e quindi il problema può dirsi risolto, una tale soluzione non si può invocare in questo caso: non ci sono motivi concreti che giustifichino una scelta tra due ordinamenti esteri. Una prima soluzione a questo problema è quella per cui, in caso di non accettazione dell'ordinamento a cui si rinvia, si applica la norma dell'ordinamento individuato dalle leggi del foro. Se l'ordinamento individuato dalle leggi del foro accetta il rinvio si applicheranno le sue norme, altrimenti le norme dell'ordinamento a cui questo rinvia. Un argomento a favore di questa seconda soluzione sembra potersi ricavare da quanto dice l'art. 15 della legge di riforma, in cui si dice al giudice italiano di applicare e interpretare la norma straniera come farebbe il giudice del paese da cui la norma proviene: questo sembra implicare anche il rispetto delle norme di questo paese in materia di rinvio.

L'art. 13 stabilisce anche che in caso le parti siano loro a scegliere la legge straniera applicabile, non avranno rilievo le norme del rinvio: è chiaro che tale limitazione del rinvio è giustificata dall'esigenza di non deludere l'aspettativa delle parti. Ma questo discorso non è limitato solo alle obbligazioni contrattuali, ma anche ad altre materie per le quali la legge 218 ha consentito l'autonomia (anche parziale) internazionalprivatistica, come per la materia delle successioni, della scelta del regime patrimoniale tra coniugi e in materia di donazioni.Il rinvio è pure escluso in materia di responsabilità da illecito e extracontrattuale per danno da prodotto.

Il limite al rinvio rappresentato dal rispetto dell'autonomia internazionalprivatistica è riconosciuto generalmente da

tutti i sistemi di dir. int. priv.: ma mentre non ci sono problemi quando le parti specificano le norme applicabili,

dubbi nascono quando le parti indicano solo un ordinamento giuridico, perché in questo caso nasce il

problema se non siano applicabili anche le norme di dir. int. priv. e quindi anche il rinvio. Ora mentre il nostro

ordinamento esclude questo, in modo da non deludere l'aspettativa delle parti, è dubbio che lo stesso possa dirsi per

gli altri ordinamenti. Altro limite al rinvio è contenuto nello stesso art. 13 comma 2 (lett. b) a proposito della forma

degli atti. In questa materia si ammette che operino una serie di criteri alternativi che hanno come obiettivo quello di

favorire la validità dell'atto: il rinvio è visto come un elemento inconciliabile con l'operare di questi criteri

alternativi. Certo, non sempre il rinvio ha effetti negativi: se, ad esempio, la lex loci considera invalido un atto, essa

consente il rinvio ad un ordinamento in cui l'atto è considerato valido; ma, nonostante quanto detto, la maggior

parte degli ordinamenti escluse il rinvio, così come, allo stesso modo, fa la convenzione di Roma del 1980.

Il principio del rinvio in favorem, che abbiamo appena visto essere rifiutato in materia di forma, viene invece

accolto in materia di filiazione.

Altra materia per la quale è escluso il rinvio è quella delle obbligazioni non contrattuali. Le ragioni di questa

esclusione sono giustificate dalle caratteristiche di tali norme che: lasciano un'autonomia internazionalprivatistica

alle parti in modo assai limitato; o individuano la legge applicabile per raggiunger un certo obbiettivo; o sono

costruite per cercare il collegamento più stretto.E' chiaro che consentire il rinvio significherebbe disattendere gli

obbiettivi perseguiti dal legislatore.

L'ultimo comma dell'art. 13 in esame dice che quando la legge 218 prevede l'applicazione di una convenzione,

questa verrà in ogni caso applicata influendo con il suo contenuto anche nella materia del rinvio. E, a parte qualche

eccezione, la maggior parte delle convenzioni escludono il rinvio. La ratio di tale norma sta nel fatto che

non si vogliono comprometter gli obiettivi di uniformità delle convenzioni e sull'esigenza di certezza del diritto:

infatti, ammettendo il rinvio, bisognerebbe ammettere le diverse soluzioni che in materia prevedono i vari

ordinamenti. E poi, un'altra conseguenza che si vuole evitare è quella di rendere vani i criteri di collegamento tra

fattispecie e ordinamento individuati nel modo più razionale possibile dalle parti delle convenzioni (gli stati

aderenti). In dottrina, proposito di quest'ultimo comma dell'art.13, si sta facendo spazio un orientamento: piuttosto

che attribuirgli il significato (scontato) di fare prevalere le soluzioni convenzionali in materia di rinvio, quello di

attribuirgli un valore sistematico, cioè di fare prevalere la soluzione "convenzionale" in ogni questione generale che

può nascere nell'interpretazione e applicazione delle norme convenzionali richiamate dalla legge 218.

In conclusione il rinvio (indietro e oltre accettato) è ammesso solo per le materie della capacità, dei diritti delle

persone fisiche e giuridiche, dei rapporti di famiglia, delle successioni e dei diritti reali; ma in questa

materia bisogna tenere conto dei limiti previsti dall'art. 13 in materia di autonomia di volontà delle parti e

dell'operatività dei criteri alternativi di collegamento che hanno delle finalità particolari.

Un sistema di dir. int. priv. improntato, come il nostro, al criterio della bilateralità mette sullo stesso piano sia il diritto del foro che quello straniero. A volte però questa equivalenza è oggetto di eccezioni, ma in casi non molto numerosi, forse anche grazie a una dottrina che si è costantemente schierata contro tale cosa. Nella legge 218 esempi di queste eccezioni al principio generale sono rappresentate da: l'art. 19, che prevede la prevalenza della cittadinanza italiana nel caso di conflitto con una straniera; l'art. 26, che in materia di promessa di matrimonio impone la legge italiana in caso di mancanza di una legge comune; l'art. 31, che sottopone la separazione e lo scioglimento del matrimonio alla legge italiana nel caso che non siano previsti dalla legge straniera applicabile; l'art. 38, che impone la legge italiana nel caso si richieda al giudice un'adozione in grado di fare acquisire lo stato di figlio legittimo all'adottato.

Collegato con quanto disposto dall'art. 14 è il potere-dovere del giudice di accertare d'ufficio tutte le circostanze che giustificano l'applicazione della legge straniera; se così non fosse sarebbe come attribuire alle parti la facoltà di indicare le norme straniere applicabili. In genere questo potere-dovere del giudice non crea difficoltà particolari, visto che spesso le parti che chiedono l'applicazione della legge straniera allegano anche gli elementi di estraneità su cui il giudice potrà compiere le proprie indagini; dubbi invece sorgono quando le parti non allegano gli elementi di cui sopra, per cui questa attività d'ufficio del giudice, che è caratterizzata dall'acquisizione di elementi, no si concilia col carattere non inquisitorio di questi processi.

Sappiamo che il giudice in un processo deve limitare le sue indagini ai fatti allegati, o affermati nella domanda; stando così le cose bisogna verificare se l'accertamento degli elementi di estraneità di una fattispecie deve essere equiparato ai fatti, o se merita un trattamento speciale.

La giurisprudenza italiana si è orientata verso la prima soluzione, affermando quindi che il giudice verificherà gli elementi di estraneità se e in quanto allegati dalle parti che chiedono l'applicazione della norma. In realtà tale orientamento non può essere condiviso, perché riduce l'obbligatorietà delle norme di dir. int. priv. Per non svuotare di significato l'obbligo posto al giudice di applicare la norma straniera sulla base di quanto disposto dal dir. int. priv. la soluzione da accogliere non può essere che la seconda e quindi prevedere un trattamento particolare. Altrimenti significherebbe subordinare l'applicazione delle norme straniere alla volontà delle parti.

In realtà l'obbligo per il giudice di ricercare d'ufficio gli elementi che giustificano l'applicabilità delle norme straniere è la naturale conseguenza dell'obbligo di applicare le norme di dir. int. priv. (obbligo a sua volta non esplicito, ma che si desume dall'obbligo per il giudice di applicare d'ufficio il diritto straniero, cosa che presume quel tipo di dovere). Un obbligo, quello dell'applicazione delle norme di dir. int. priv., che discende dal carattere normativo di tali norme, che quindi si impongono al giudice al pari delle norme interne. L'eventuale difficoltà del giudice a conoscere del contenuto della norma straniera è qualcosa che riguarda l'accertamento e non l'applicazione del diritto straniero.

La costruzione della dottrina volta ad attribuire un carattere facoltativo alle norme di dir. int. priv. resta quindi disattesa dal legislatore: d'altronde è inaccettabile che in materie sottratte alla volontà delle parti queste possano obbligare all'applicazione delle norme del foro semplicemente evitando di chiedere l'applicazione di quelle estere. Giusta la scelta del legislatore anche per evitare di violare gli accordi di natura convenzionale dove fosse previsto l'obbligo di applicare le norme di un determinato ordinamento straniero. La teoria della dottrina, infine, per le materie lasciate alla disponibilità delle parti, appare inutile, perché con un semplice accordo le parti possono decidere di applicare la legge del foro.

Bisogna esaminare se il principio di parità tra lex fori e legge straniera sia assoluto, o ammetta deroghe. Una tendenza verso l'attenuazione dell'obbligo per il giudice di applicare e conoscere la legge straniera sta emergendo nelle giurisprudenze e nei sistemi di dir. int. priv. di molti paesi. Questo orientamento riguarda la materia dei diritti disponibili, dove l'obbligo per il giudice viene attenuato per il fatto che le parti possono cambiare la norma applicabile e quindi alcuni legislatori non hanno ritenuto di dovere prevedere obblighi in tal senso. Verso questa direzione potrebbe evolvere anche la nostra giurisprudenza, ma non per legare l'efficacia delle norme di conflitto alla disponibilità, o meno, dei diritti, quanto riguardo all'applicazione d'ufficio che il giudice deve verso le norme straniere richiamate dalle norme di dir. int. priv.

Da quanto detto emerge come in materia di diritti disponibili la scelta delle parti della legge applicabile dovrebbe escludere qualsiasi intervento del giudice. Quando le parti non indicano la legge straniera che intendono applicare alla loro fattispecie questo non può significare di per se (una tale volontà dovrebbe essere concretamente accertata) una volontà di rinuncia; censurabile quindi appare la scelta della nostra giurisprudenza (in materia contrattuale) di applicare, in questi casi di mancata indicazione della legge straniera, la legge del foro.

Quando il giudice italiano, nonostante l'obbligo di applicare le norme straniere richiamate dal dir. int. priv., non riesce a conoscere del contenuto di tali norme, nonostante il carattere sussidiario della lex fori, questa sarà applicata solo se non sia possibile applicare altre norme straniere richiamate dai criteri di collegamento. Evidente l'obbiettivo del legislatore di ricorrere alla lex fori solo come estrema ratio. Il fatto che le norme straniere non siano più considerate fatti, ma diritti consente di superare l'impostazione secondo la quale l'impossibilità di applicare le norme straniere equivaleva a chiudere il processo per mancanza di prove.

Nell'art. 15 è previsto un principio fondamentale per il quale l'interpretazione delle norme straniere deve avvenire secondo i principi interpretativi dell'ordinamento a cui la norma appartiene. Quindi il giudice italiano dovrà interpretare la norma come se fosse un collega della nazionalità della norma stessa. Questo produce importanti conseguenze: anzitutto la norma deve essere interpretata in quanto calata nel sistema a cui appartiene e quindi non isolatamente, ma tenendo conto della consuetudine e della giurisprudenza locali; anche se l'interpretazione che ne deriva fosse errata il giudice italiano non potrebbe farci nulla. Quando non c'è giurisprudenza o essa è contraddittoria il compito del giudice si complicherà, perché rimarrà solo con il testo della legge. Un limite a quanto detto potrebbe derivare dalla contrarietà della norma ai principi fondamentali del foro.

Interpretare una norma straniera in maniera "sistematica" significa tenere anche conto delle norme di conflitto del paese da cui la norma proviene e questo pone un ulteriore problema: può infatti capitare che l'ordinamento richiamato da esse abbia delle qualificazioni differenti rispetto a quelle previste nell'ordinamento del foro (per esempio, ciò che nella legge del foro è classificato "capacità" nell'ordinamento richiamato potrebbe essere qualificato "contratto"). Questo è il problema del c.d. "conflitto di qualificazione". Prima della legge di riforma, esso era risolto applicando le qualificazioni della legge del foro. Caratteristica era poi l'affermazione secondo la quale il compito interpretativo della norma di conflitto del foro si esauriva con il collocamento della fattispecie in una categoria astratta del foro e con la conseguente applicazione della legge applicabile. Terminato ciò non aveva più senso tenere conto della norma di conflitto. Era però necessaria la c.d. seconda qualificazione volta ad individuare la norma sostanziale dell'ordinamento straniero applicabile alla fattispecie. Coerentemente con il rifiuto del rinvio, il problema delle differenti qualificazioni operate dal diritto straniero era riferito solo alle norme materiali straniere, senza riferimento alle norme di conflitto, in modo da evitare ogni possibile messa in discussione della competenza dell'ordinamento individuato dalla legge del foro.



Dopo la legge di riforma, con l'accettazione del rinvio e col disposto dell'art. 15, l'ordinamento straniero individuato dalle norme di conflitto del foro dovrà essere preso in considerazione nella sua totalità, quindi anche nelle sue norme di conflitto; e, se queste operano un rinvio, di questo e delle sue conseguenze bisognerà tenere conto. Si tratta quindi di un procedimento di qualificazione per gradi, chiamato rinvio di qualificazione dalla dottrina.

Può capitare che le norme di conflitto individuino un ordinamento all'interno del quale la norma da applicare al caso concreto induca il giudice al rifiuto della stessa, in quanto incompatibile con i principi del nostro ordinamento. Esiste quindi un limite di ordine pubblico, che deriva dal fatto che nelle norme di conflitto si cerca di realizzare una "giustizia internazional-privatistica", ma non si guarda al contenuto delle singole norme. Questo limite riguarda non solo il dir. int. priv., ma anche il dir. processuale civile int., in quanto la contrarietà all'ordine pubblico può essere sia delle norme astratte (le prime), che di norme concrete come una sentenza. Il limite dell'ordine pubblico nella legge 218 è stato semplificato, poiché non si è fatto cenno alla contrarietà al buoncostume (che giustamente non è stato considerato un vero limite) e si parla solo della contrarietà della legge di uno stato estero, eliminando il riferimento agli atti dello stesso.

Il giudice ragiona in questo modo: verificate le norme straniere da applicare, verifica la conformità delle stesse all'ordine pubblico; se manca tale conformità, verifica se in base ad altri criteri di collegamento siano applicabili altre norme straniere: in mancanza applicherà la legge italiana. Quando parliamo di conformità delle norme straniere richiamate dalle nostre norme di conflitto non facciamo riferimento solo a quelle materiali, ma anche a quelle di conflitto; se così non fosse i nostri giudici dovrebbero applicare per effetto del rinvio norme straniere già dichiarate contrarie all'ordine pubblico.

L'ordine pubblico può essere concepito in due modi: uno negativo, per cui viene visto come un limite all'applicabilità delle norme straniere; uno positivo, che vede la questione da un altro punto di vista e cioè come una serie di principi che si ritengono assolutamente da applicare. E' evidente come, secondo quale delle due concezioni venga accettata, la distanza rispetto ai concetti di diritto "cogente" e di "norme di applicazione necessaria" cambia notevolmente: la distanza sarà infatti enorme se si parte da una concezione negativa dell'ordine pubblico; i concetti invece si avvicinano se si accoglie una visione positiva, visto che in tale caso l'ordine pubblico può essere inteso come strumento di difesa dei principi dell'ordinamento sia da attacchi interni (ordine pubblico interno) che esterni (ordine pubblico internazionale), i primi portati dal tentativo dei privati di derogare a tali principi mediante accordi; i secondi dalla possibilità di introdurre elementi di disturbo nel nostro ordinamento tramite l'applicazione di norme straniere. E' ormai incontestato che l'ordine pubblico che a noi interessa è quello internazionale, rappresentando un freno all'applicabilità delle norme straniere richiamate dal dir. int. priv., mentre l'altro è una semplice limitazione dell'autonomia privata.

La concezione negativa allontana il concetto di ordine pubblico da quello di norme di applicazione necessaria: il primo opera come limite generale, le seconde si applicano a campi particolari dove maggiore è l'esigenza di tutela. L'impostazione per cui l'ordine pubblico viene riferito a quello internazionale è stata accolta dal legislatore del '95 che ha parlato semplicemente di ordine pubblico, dando per scontato il riferimento a quello internazionale.

L'accusa per la quale il limite dell'ordine pubblico non offre nessun limite di graduabilità nella sua applicazione, secondo del grado di estraneità della fattispecie rispetto al diritto italiano è contraddetto dal fatto che l'ordinamento pubblico non agisce automaticamente nei confronti delle norme straniere contrarie ad esso. Infatti è pacificamente ammesso che l'ordine pubblico opera in modo diverso secondo se le norme straniere vengono richiamate per creare un rapporto, o invece si tratti di riconoscere gli effetti di rapporti già creati da tali norme. Questa diversità di operare dell'ordine pubblico è legata al criterio del luogo di nascita del rapporto giuridico e quindi sulla maggiore, o minore connessione di un rapporto con l'ordinamento italiano. In presenza di un rapporto già sorto all'estero (quindi quando si tratta di riconoscerne gli effetti) l'ordine pubblico avrebbe un' applicazione attenuata; questo non significa che l'eccezione non opera più, poiché di fronte a situazioni assolutamente incompatibili con i principi fondamentali del nostro ordinamento non ci sarebbe spazio per il loro riconoscimento. Un'opportuna precisazione è fatta dall'art. 16 lì dove esso specifica come l'ordine pubblico non interviene a censurare una legge straniera, ma a impedire gli effetti di questa che possono contrastare con esso. Il discorso è invece diverso con riferimento alle norme di conflitto straniere, poiché esse, vista la loro natura strumentale, non possono che essere oggetto di valutazione rispetto all'ordine pubblico e quindi escluse quando contrarie ad esso.

A differenza del testo del progetto di legge, nel testo definitivo manca la specificazione per cui il limite dell'ordine pubblico opera solo quando vi sia una "manifesta" difformità rispetto a esso nel contenuto di una norme straniera; ma questo non deve fare pensare a una applicazione più ampia del limite in questione in Italia, ma ad una affermazione pleonastica nelle formulazioni dove tale specificazione è contenuta: infatti è la stessa natura dell'ordine pubblico che impone un'applicazione restrittiva.

Quando opera, l'ordine pubblico provoca due effetti: uno negativo, cioè la disapplicazione della legge straniera contraria ad esso e uno positivo, cioè l'applicazione di un'altra norma. Prima della legge 218, in assenza di norme al riguardo, si preferiva applicare la legge del foro, soluzione sicuramente migliore di quella portata avanti da certa dottrina (tedesca) che predicava di modificare la stessa legge straniera fino a eliminare il contrasto con l'ordine pubblico: è chiaro che così si finiva con lo snaturare la legge straniera. Nella legge di riforma si è prevista una soluzione più equilibrata: dice l'art.16 che quando una norma straniera è inapplicabile bisogna ricercare una soluzione nella stessa legge di conflitto, in modo da tentare di fare regolare la fattispecie dall'ordinamento da essa richiamato; se ciò non sarà possibile, come extrema ratio, si applicherà la legge del foro.

La legge di riforma prevede una norma che si occupa delle norme di applicazione necessaria e questa menzione significa, in pratica, un riconoscimento all'interno del dir. int. priv. di questa categoria.

Per norme di applicazione necessaria intendiamo quelle create per regolare determinate fattispecie indipendentemente dal fatto che il dir. int. priv. ne individui altre in altri ordinamenti. Due sono gli orientamenti per l'identificazione dei criteri identificativi di tali norme: alcuni fanno riferimento allo scopo della norma, altri individuano tali norme attraverso caratteristiche che si autoassegnano le norme stesse (una sorta di autoinvestitura). Questi due modi di individuare tali norme non devono essere soddisfatti entrambi: è sufficiente per potersi dire che una norma è di applicazione necessaria che sia presente o l'una o l'altra caratteristica di cui sopra. Peraltro questi due criteri di individuazione non sono contrapposti e in molti autori li ritroviamo ricongiunti.

E' chiaro come la presenza di questa norme di applicazione necessaria ha i suoi effetti sulle norme di conflitto, perché di fatto ne esclude l'applicazione e quindi la loro efficacia sia di limitazione del diritto interno, che di rinvio a ordinamenti stranieri. Con riguardo al fatto che le norme di applicazione necessaria escludono l'operatività di quelle di conflitto la maggioranza della dottrina è d'accordo; così come è d'accordo anche sull'altro aspetto, cioè sull'impedimento del rinvio ad altri ordinamenti, o alla volontà delle parti. Ma bisogna sottolineare come un'altra parte della dottrina ritiene che, in merito all'impedimento del rinvio, solo le norme di applicazione necessaria che si riferiscono in via esclusiva alla fattispecie abbiano questo effetto preventivo, mentre le altre (e sono la maggior parte) consentono il rinvio alle norme straniere, intervenendo in modo impeditivo solo allorché esse dovessero essere incompatibili con gli obiettivi delle norme di applicazione necessaria. Probabilmente questa soluzione più morbida è migliore dell'altra, ma alla fine non cambia assolutamente nulla, perché consente l'applicazione delle norme convenzionali solo a patto che consentano di raggiungere gli obiettivi delle stesse norme di applicazione necessaria.

Rispetto a tutti questi principi sviluppati in dottrina, l'art. 17 della legge 218 non aggiunge nulla, anzi sembra togliere qualcosa: in particolare indicando l'oggetto e lo scopo particolari come requisiti a cui fare riferimento per individuare se una norma è di applicazione necessaria, il legislatore sembra avere omesso un altro elemento importante di individuazione e cioè l'autolimitazione; ma non sembra che tale omissione possa eliminare nella realtà tale criterio.

Sempre dalla formula dell'art.17 sembra che il legislatore abbia accolto quella tesi dottrinaria che esclude a priori la possibilità di applicare le norme straniere richiamate da quelle del dir. int. priv., ma nella realtà vediamo come le norme straniere compatibili con gli scopi delle norme di applicazione necessaria vengono applicate.

Da quanto detto emerge come l'esclusione del dir. int. priv. in Italia, motivata con la presenza di norme interne di applicazione necessaria, deve essere fatta con molta moderazione: e questo è d'altronde un elemento di coerenza con un ordinamento aperto all'internazionalità qual è quello italiano. L'unica giustificazione possibile alla mancata applicazione delle norme di dir. int. priv. (cosa che deve rappresentare un'eccezione) potrà quindi essere l'impossibilità altrimenti di raggiungere gli scopi per cui tali norme sono state predisposte: anzi da questo punto di vista bisogna sottolineare l'opportunità di una maggiore specificazione proprio per evitare abusi di cui in passato la giurisprudenza si è resa protagonista per applicare la legge interna.

Dopo avere visto che cosa si intende per norme di applicazione necessaria, andiamo a verificare concretamente quali sono le norme di questo tipo previste nel nostro ordinamento. E' indubbio che il settore in cui maggiormente troviamo la presenza di queste norme è quello contrattuale: in questo settore numerose sono le materie in cui il nostro legislatore pretende di esercitare un controllo assoluto, in particolare per ciò che riguarda i c.d. contratti a statuto imperativo e le norme interne di adattamento a regole elaborate internazionalmente per la disciplina di alcuni contratti (c.d. di diritto uniforme). Il carattere di norme di applicazione necessaria per queste ultime è ammesso per il fatto che con esso si intende costruire, tra i paesi che hanno aderito tale progetto, una disciplina internazionale certa a cui le parti possono fare riferimento e sulla base di questa motivazione, prima in dottrina, poi in giurisprudenza, si è creata una tale qualificazione per queste norme. Ma questo ragionamento si giustifica per alcune disposizioni del gruppo di cui sopra e non per l'intera categoria: la correttezza del ragionamento può ammettersi, in particolare, solo per le norme a contenuto "imperativo". Per esempio norme materiali internazionali a contenuto imperativo possono essere quelle che salvaguardano nei trasporti internazionali la posizione del contraente debole. Ma il carattere di norma di applicazione necessaria no può assolutamente ammettersi quando le norme materiali di diritto uniforme ammettono la derogabilità, in particolare per quei rapporti contrattuali in cui manca un contraente debole da proteggere: come può infatti conciliarsi la derogabilità di tali norme con l'applicazione necessaria? In particolare tutto questo discorso si riferisce alla vendita internazionale, dove la disciplina contrattuale internazionale può essere derogata dagli usi, ma soprattutto dall'autonomia delle parti: significa che se le parti decidono di regolare il loro rapporto sulla base delle norme di un determinato ordinamento, o, di più, sulla base di un regolamento interno il diritto internazionale uniforme sui contratti non avrà spazio e questo non si può conciliare con una norma di applicazione necessaria: possiamo dire che in questa materia le norme di adattamento al diritto internazionale uniforme saranno di applicazione generale solo se lo vogliono le parti!

L'altra importante categoria di norme di applicazione necessaria è quella riguardante la materia del c.d. diritto pubblico dell'economia, che giustifica tale sua qualificazione a causa del fatto che trattasi di norme che riguardano aspetti importanti della politica economico-sociale del paese (es: le norme sulla trasparenza bancaria).

Si possono anche considerare di applicazione necessaria le norme applicabili nel nostro paese in quanto l'Italia è parte di organizzazioni internazionali: in dottrina si è fatto l'esempio delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche classificando in questo modo non cambia nulla in merito agli effetti di queste norme: ad esempio classificare di applicazione necessaria le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non toglie che esse devono essere applicate secondo il disposto della Carta delle Nazioni Unite.

Un ultimo gruppo di norme che possiamo considerare di applicazione necessaria sono quelle che tutelano la concorrenza.

Adesso dobbiamo occuparci delle norme di applicazione necessaria straniere. Da questo punto di vista possono venire in considerazione sia la lex causae, cioè la norma straniera dell'ordinamento richiamato dalle norme di conflitto, sia quelle di un ordinamento terzo, cioè estraneo sia alla lex fori che alla lex causae. Il legislatore non si è occupato della questione, ma per ciò che concerne la lex causae non sembrano esserci dubbi circa l'applicabilità di queste norme,con il solo limite dell'ordine pubblico,come conseguenza del richiamo operato dalle norme di conflitto all'ordinamento straniero (lex causae). Per ciò che riguarda invece le norme di applicazione necessaria di ordinamenti terzi sarà consentito di dare ad esse efficacia nei limiti in cui ciò sia previsto nelle convenzioni internazionali di cui l'Italia è parte.

A fronte della mancata presa in considerazione da parte del legislatore del problema delle norme di applicazione necessaria straniere possiamo, quindi, notare una tendenza a estendere l'applicabilità di tali norme. Ma questo provoca altri tipi di problemi, in particolare all'interprete, in quanto mancano principi che gli indichino criteri precisi sull'applicazione o meno delle norme e di quali norme applicare. Il giudizio sulle norme straniere di applicazione necessaria è molto delicato, poiché sottintende valutazioni degli effetti politici, economici e sociali e da questo punto la convenzione di Roma non ha risolto quasi nulla perché ha dettato criteri troppo generici. Può poi accadere che leggi che all'estero sono di applicazione necessaria perché perseguono obiettivi ritenuti "importanti" nella legge del foro divengono eccessive: ed ecco il motivo del rifiuto di applicare le norme di applicazione necessaria contrarie all'ordine pubblico. E in questo senso sembra esserci un orientamento giurisprudenziale, anche se la giurisprudenza in materia è scarsa.

L'art. 18 della legge di riforma si occupa del problema relativo al richiamo da parte delle norme di conflitto di ordinamenti plurilegislativi: infatti di fronte a un tale richiamo bisogna chiedersi quale dei diversi ordinamenti nazionali applicare. La plurilegislatività si manifesta in due modi: a carattere territoriale, quando esistono diversi ordinamenti per diverse unità territoriali dotate di autonomia legislativa in alcune materie di diritto civile; a carattere personale, quando la pluralità di ordinamenti nasce per il fatto che le leggi hanno applicazione su tutto il territorio dello stato, ma solo per determinate categorie di persone. Le norme interne che si occupano del primo possibile carattere (la territorialità) di un ordinamento plurilegislativo sono dette di conflitto interlocale; le altre di conflitto interpersonale. Nel complesso tali norme sono dette di conflitto di leggi interne per evitare confusione con quelle di conflitto internazionale.E' chiaro come il problema che abbiamo presentato è un problema concreto, che si verifica ogni qual volta le nostre norme di conflitto richiamano un ordinamento straniero plurilegislativo. Tale problema è stato affrontato in dottrina, ma non ne è venuta fuori una soluzione univoca. La soluzione tradizionale è quella che si basa sul coordinamento tra le norme di conflitto del foro e quelle di conflitto di leggi interne: si tratta della soluzione maggiormente seguita e si fonda sull'idea che il compito delle norme di conflitto del foro si esaurisce con l'individuazione dell'ordinamento competente. Fatto ciò la norma straniera concretamente applicabile sarà individuata dalle norme di conflitto interne dello stato il cui ordinamento è stato richiamato. Questo sistema è peraltro l'unico in grado di risolvere i problemi di plurilegislatività personale, poiché questi non potrebbero essere risolti sulla base di criteri di localizzazione.

A questa soluzione si contrappone quella per cui le norme di dir. int. priv. non esauriscono il loro compito con l'individuazione dell'ordinamento straniero, ma vanno a stabilire la norma concretamente da applicare alla fattispecie concreta. L'idea di base è, in questo caso, quella per cui le norme di dir. int. priv. non esauriscono il loro compito nell'individuazione di ordinamento, ma si occupano concretamente dei rapporti tra privati.

Accanto a queste due soluzioni estreme ne sono state proposte alcune intermedie. Una di queste è quella che distingue all'interno delle norme di conflitto del foro tra norme che contengono un criterio di collegamento idoneo a risolvere i problemi della plurilegislatività (evidentemente territoriale) e quelle che invece richiamano un ordinamento straniero nel suo complesso: nel primo caso non ci sarebbe bisogno di ricorrere ai criteri di conflitto di leggi interne, nel secondo si. Un'altra soluzione mista è quella che distingue all'interno dei conflitti interterritoriali tra conflitti interregionali e interfederali. I primi si verificano quando non c'è una pluralità di ordinamenti, ma un insieme di regole che hanno un campo di applicazione limitato; in questo caso la dottrina ritiene che il conflitto debba essere risolto sulla base delle norme previste dallo stesso ordinamento. I secondi si hanno quando all'interno di uno stesso stato esistono ordinamenti diversi e autonomi, con propri organi legislativi e giudiziari (di solito questo avviene negli stati federali e giustifica anche il tipo di denominazione). In questo caso la dottrina sostiene che il problema debba essere risolto applicando le norme di conflitto del foro: tale soluzione non sembra giustificabile almeno nelle ipotesi in cui lo stato straniero in cui esiste questo tipo di situazione prevede soluzioni interne. Quando queste soluzioni manchino, allora la soluzione secondo le norme di conflitto del foro dovrebbe essere quella naturale; tuttavia bisogna verificare con attenzione se questi criteri interni manchino effettivamente, perché a fronte di un'assenza formale, potrebbero esserci chiari indizi per la presenza di una soluzione interna: per esempio nell'ipotesi che per una materia un ordinamento si dichiari competente senza che gli altri si oppongano.

Tra le varie soluzioni elaborate dalla dottrina il legislatore del'95 in tema di richiamo di ordinamenti plurilegislativi ha scelto quella di dare rilevanza ai criteri previsti nell'ordinamento richiamato sia per i casi di "pluralità" territoriale, che personale. Una scelta coerente con il concetto che intende richiamato nella sua totalità un ordinamento straniero.

Occorre evidenziare come il fatto che la legge di riforma ha accolto, anche se in modo limitato, il rinvio ha consentito di risolvere una serie di problemi, come nel caso in cui le norme di un ordinamento straniero richiamato dalle nostre norme di conflitto applichino le leggi del domicilio in materia di statuto personale, o di successioni. Nella vigenza delle preleggi, dove il rinvio non era ammesso, nel caso che la legge straniera facesse uso del rinvio non era possibile applicarla. Può accadere che il giudice non riesca a trovare i criteri di ripartizione contenuti nell'ordinamento plurilegislativo richiamato: questo è un caso di impossibilità di accertare il diritto straniero che viene risolto come negli altri casi di questo genere, cioè con l'applicazione del principio del collegamento più stretto.






























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