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DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA - I RAPPORTI FRA IL DIRITTO DELL'UNIONE E DELLE COMUNITA' EUROPEE E IL DIRITTO DEGLI STATI MEMBRI.

diritto



CAPITOLO QUARTO


I RAPPORTI FRA IL DIRITTO DELL'UNIONE E DELLE COMUNITA' EUROPEE E IL DIRITTO DEGLI STATI MEMBRI.


2. L'adeguamento dell'ordinamento italiano ai trattati istitutivi dell'Unione e delle Comunità europee.


Ai trattati istitutivi delle tre Comunità europee è stata data esecuzione in Italia mediante legge ordinaria, e più precisamente con la legge n. 766/1952 per quanto riguarda il trattato CECA e con la legge n. 1203/1957 per quanto riguarda i trattati di Roma. Analogamente sono stati resi esecutivi con legge ordinaria i trattati modificativi di questi. Tali leggi si limitano a disporre che ai trattati <<è data piena ed intera esecuzione>>.

Per dare esecuzione ai trattati si è preferito quindi seguire il procedimento speciale più usato nella prassi costituzionale italiana, consistente nel c.d. ordine di esecuzione. Il fatto però che l'ordine di esecuzione sia stato adottato con legge ordinaria ha fatto sorgere non poche discussion 444i89e i in merito alla sua idoneità a dare attuazione a trattati come quelli istitutivi delle Comunità europee, le cui disposizioni sono suscettibili di avere un'incidenza su norme contenute nella Costituzione italiana.



L'ordine di esecuzione, infatti, deve avere la forma propria delle norme interne la cui creazione, modificazione o abrogazione è necessaria per compiere l'adattamento al trattato in relazione al quale è emanato. Di conseguenza, secondo la dottrina dominante, l'ordine di esecuzione relativo ad un determinato trattato internazionale produce l'adattamento, che questo esige, se ed in quanto esso è emanato nella forma di un atto idoneo a compierlo. Perciò se il trattato importa per lo Stato obblighi che esigono l'emanazione o abrogazione di norme giuridiche legislative, l'atto contenente l'ordine di esecuzione dovrà essere emanato sotto forma di legge, cioè dagli organi legislativi; se, invece, il trattato crea obblighi per l'adempimento dei quali si esigono nell'ordinamento interno norme di carattere regolamentare, l'ordine di esecuzione potrà essere emanato dal potere esecutivo nella sua competenza ad emanare regolamenti. Per la stessa ragione, se un trattato crea obblighi che implicano modificazioni di norme costituzionali e deroghe ad esse, l'ordine di esecuzione, per essere costituzionalmente idoneo a produrre tale effetto, dovrà essere adottato col procedimento previsto dalla Costituzione per l'emanazione di leggi di revisione costituzionale (art. 138 Cost.).

L'idoneità di leggi ordinarie a dare esecuzione ai trattati istitutivi dell'UE e delle Comunità europee dipende dunque dalla compatibilità con la Costituzione degli obblighi derivanti agli Stati contraenti, e in particolare all'Italia, dai trattati. In caso di incompatibilità infatti le leggi ordinarie non sono idonee a dare attuazione ai trattati nell'ordinamento interno, data la possibilità di un sindacato di legittimità sulle stesse da parte della Corte costituzionale.

A questa conclusione la dottrina ha cercato di sfuggire, richiamandosi vuoi all'art. 10 vuoi all'art. 11 della Costituzione.

Secondo l'art. 10 <<l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute>>. Poiché fra queste norme vi è senza dubbio il principio pacta sunt serranda, tutti i trattati internazionali dovrebbero trovare attuazione nell'ordinamento interno indipendentemente dall'ordine di esecuzione e, in quanto immessi in questo da una norma della Costituzione, avrebbero rango costituzionale e sfuggirebbero ad un controllo di costituzionalità.

La maggior parte della dottrina si è richiamata però all'art. 11, secondo il quale <<l'Italia. consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo>>. Tra le organizzazioni contemplate dalla norma rientrano anche le Comunità europee, di modo che le eventuali deroghe che i trattati istitutivi rechino a norme della Costituzione sarebbero legittime, anche se i trattati sono stati resi esecutivi con legge ordinaria, in quanto autorizzate dall'art. 11. Questa tesi ha avuto, dopo molti contrasti, l'appoggio della giurisprudenza, anche della Corte costituzionale.


3. L'attuazione delle norme adottate dalle istituzioni comunitarie nell'ordinamento italiano.


Passiamo ad esaminare il modo in cui le norme comunitarie che non derivano direttamente dai trattati, ma sono poste dalle istituzioni comunitarie in attuazione di questi (regolamenti, direttive e decisioni), acquistano efficacia nell'ordinamento italiano. Nessun particolare problema sollevano le raccomandazioni e i pareri, dato che essi sono privi di efficacia vincolante. L'adattamento poi agli atti atipici, in particolare alle decisioni dei rappresentanti degli Stati riuniti nel Consiglio europeo, dovrà avvenire in modo non dissimile dall'adattamento ai trattati internazionali.

Il problema dell'efficacia nell'ordinamento interno delle norme vincolanti emanate dalle istituzioni è in parte semplificato dall'art. 249 del trattato CE. Alla luce di questo, infatti, la questione non si pone per i regolamenti. Questi sono infatti immediatamente applicabili negli Stati membri, senza che sia necessaria l'emanazione da parte di questi ultimi di un provvedimento di qualsiasi natura, ulteriore rispetto al provvedimento iniziale di esecuzione del trattato CE, già in sé idoneo ad attuare anche l'art. 249 in tutte le sue implicazioni.

Soltanto le direttive e le decisioni abbisognano di misure di esecuzione negli Stati membri, da adottarsi conformemente al sistema costituzionale di ciascuno Stato. La forma delle misure di esecuzione è in stretta correlazione con la natura delle modificazioni da apportare all'ordinamento interno. Se l'attuazione della direttiva o della decisione comporta una incidenza su leggi preesistenti, è necessaria una norma di carattere legislativo; in caso contrario potrà essere sufficiente una norma regolamentare o un  atto amministrativo adottato dall'esecutivo.

Tuttavia i regolamenti non sono sempre e necessariamente applicabili in concreto all'interno dell'ordinamento, per effetto puro e semplice della loro pubblicazione. Non sempre l'immissione testuale di una norma nell'ordinamento interno è sufficiente ad assicurarne l'applicabilità. È talora indispensabile che vengano adottate misure apposite, di carattere amministrativo, ma spesso anche normativo, per renderla possibile. Ad esempio, per la concreta applicabilità dell'art. 256 del trattato CE, l'ordine di esecuzione non è sufficiente; esso infatti ha richiesto l'emanazione di una specifica legge sull'apposizione della formula esecutiva alle sentenze della Corte e alle decisioni delle istituzioni comportanti obblighi pecuniari. Le misure in tal modo adottate in relazione a regolamenti comunitari non hanno però la funzione di renderli esecutivi all'interno dell'ordinamento, ma quella di creare le condizioni affinché il loro contenuto normativo, già di per sé immediatamente efficace nell'ordinamento interno, sia suscettibile di attuazione concreta.

Questa conclusione è ampiamente confermata dall'insieme delle disposizioni normative adottate nell'ordinamento italiano, nelle quali si parla di attuazione di regolamenti comunitari. Tali disposizioni, infatti, sono state emanate non per rendere esecutivi in Italia i regolamenti ai quali si riferiscono, ma per disciplinare quegli aspetti dei regolamenti stessi che richiedessero, per la loro applicazione, ulteriori misure normative. Si presentano perciò non come atti di esecuzione, bensì come atti di integrazione dei regolamenti comunitari.


4. Le misure interne di attuazione delle norme comunitarie nell'ordinamento italiano.


La lentezza della procedura legislativa ordinaria ha indotto il legislatore a servirsi, in materia di attuazione delle norme comunitarie, della possibilità prevista dall'art. 76 della Costituzione, secondo il quale l'esercizio della funzione legislativa può essere dal Parlamento delegato al Governo, sia pure soltanto <<con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti>>.

Una prima delega di questo tipo già era contenuta nella legge di esecuzione del trattato istitutivo della CE n. 1203/1957, la quale autorizzava il governo ad emanare decreti aventi valore di legge ordinaria" in esecuzione di alcune disposizioni del trattato.

Una seconda delega fu accordata dal parlamento con una legge del 1965 che autorizzava il governo ad emanare decreti aventi forza di legge per attuare una serie di disposizioni dei trattati di Roma. Ma, oltre a prevedere l'attuazione di obblighi derivanti direttamente dai trattati, essa autorizzava il governo ad emanare decreti anche per assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai regolamenti, dalle direttive e dalle decisioni emessi dagli organi della CEE e della CEEA, con la decorrenza da ciascuno di essi stabilita, e quindi anche con effetto retroattivo.

Una terza legge delegata del 1969 riprendeva in maniera pressoché identica la legge del 1965, precisando che i decreti delegati hanno lo scopo di assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti, oltre che dalle direttive e dalle decisioni, dai regolamenti già operanti nell'ordinamento dello Stato a norma dell'art. 189 (ora 249) del trattato istitutivo della CEE. Come la precedente, anche questa  legge dava al governo il potere di emanare provvedimenti con effetto retroattivo.

Le leggi generali di delega sono state oggetto di vivaci discussioni in dottrina, sia prima della loro approvazione da parte del parlamento, sia successivamente.

Esse si ponevano in contrasto con l'art. 76 della Costituzione per due motivi:

- perché non indicavano con precisione le materie oggetto della delega limitandosi ad autorizzare i più diversi contenuti,

- perché non fissavano i principi e criteri direttivi ai quali il governo doveva attenersi nell'emanazione delle leggi delegate.

Inoltre sono state criticate anche perché una delega legislativa dell'ampiezza di quella in esse indicata conferiva un potere troppo esteso al governo, venendo a diminuire in modo ingiustificato le attribuzioni proprie del parlamento.

A queste critiche si è cercato di rispondere introducendo nelle due leggi del 1965 e del 1969 una disposizione secondo la quale <<il Governo emanerà le norme nelle materie previste dalla presente legge, dopo aver sentito una commissione parlamentare composta di 15 senatori e 15 deputati, nominati rispettivamente dal Presidente del Senato e dal Presidente della Camera dei deputati>>, e attribuendo a tale commissione la facoltà di <<esprimere il proprio parere sull'opportunità dell'esercizio della delega per l'esecuzione di singole misure>>, la cui adozione dovrebbe in tal caso essere discussa in sede parlamentare. Ciononostante il problema non è stato risolto in tutte le sue implicazioni.

Tuttavia esso non si è posto in concreto, in quanto di nessuna delle misure emanate dal governo in forza della delega è stata contestata nella pratica la legittimità costituzionale.

La rilevanza del problema avrebbe comunque dovuto essere attenuata in seguito al passaggio al regime definitivo del mercato comune. L'esigenza di procedere all'attuazione delle norme adottate dalle istituzioni comunitarie in relazione a singoli atti normativi, avrebbe dovuto comportare un minore uso della delega legislativa al governo per l'approvazione di misure di attuazione e l'emanazione di leggi ordinarie di esecuzione o integrazione di singoli atti comunitari.

Una situazione di questo genere si è verificata in numerosi casi, in cui sono state emanate disposizioni normative interne che hanno recepito direttive e decisioni rivolte allo Stato dalle istituzioni o contenenti un'integrazione di regolamenti.

Tuttavia in diversi altri casi si è fatto ricorso, anche in seguito all'instaurazione del regime definitivo del mercato comune, allo strumento della delega legislativa al governo per l'attuazione di singole direttive, o di più direttive omogenee, o di gruppi di direttive che non presentavano alcun collegamento fra loro. Si pensi alla legge n. 42/1982, con la quale il governo è stato delegato ad emanare norme per l'attuazione di 97 direttive comunitarie, nel tentativo di recuperare in un breve termine di 6 mesi un grave ritardo accumulatosi nell'adattamento dell'ordinamento italiano ad obblighi comunitari.

Il problema della delega si è riproposto in sede di attuazione degli atti comunitari negli anni seguenti. Con la legge n. 83/1987 si è infatti data attuazione a un altro centinaio di direttive utilizzando in gran parte lo stesso strumento.

La legge si preoccupava anche di fissare una disciplina destinata ad applicarsi all'attuazione di direttive future, in modo da evitare l'abituale ritardo verificatosi nell'esecuzione degli obblighi comunitari. A questo fine essa distingueva fra direttive non riguardanti una materia già disciplinata con legge o coperta da riserva di legge autorizzando, in questo caso, il governo a dare attuazione alla direttiva <<mediante regolamento o altri atti amministrativi generali>> e direttive riguardanti una materia già disciplinata con legge o coperta da riserva di legge stabilendo che in questo caso, invece, il governo era tenuto a predisporre un disegno di legge indicando <<se, per specifiche materie già disciplinate con legge e non coperte da riserva di legge, l'attuazione nell'ordinamento interno>> debba avvenire mediante atti amministrativi del governo. Con questa legge si è ricorsi dunque alla delegificazione in relazione a specifiche materie, per cercare di snellire il procedimento di attuazione delle direttive comunitarie (favorendo il più possibile il recepimento delle direttive in via regolamentare o amministrativa).

Proseguendo su questa linea, il legislatore ha poi approvato la c.d. legge La Pergola del 1989, contenente norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari. La disposizione più importante di questa legge (art. 2) imponeva al ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie di presentare annualmente, entro il 31 gennaio, al Consiglio dei ministri un disegno di legge disciplinante le modalità di attuazione della normativa comunitaria nell'ordinamento italiano, la legge comunitaria, che deve essere sollecitamente presentato alle camere.

Tale legge assicura l'adeguamento dell'ordinamento interno a quello comunitario: mediante disposizioni modificative o abrogative di norme interne in contrasto con gli obblighi comunitari; mediante il conferimento di delega legislativa al governo; e infine mediante l'autorizzazione al governo ad attuare in via regolamentare le direttive comunitarie anche nelle materie già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge.

La legge del 1989, se correttamente applicata, è intesa a garantire, mediante la previsione di una periodica verifica da parte del legislatore ed il suo conseguente intervento, un adempimento più puntuale e preciso degli obblighi comunitari, in particolare di quelli derivanti da direttive.

Di essa sono state fatte varie applicazioni negli anni successivi, con l'approvazione di leggi comunitarie che hanno inizialmente rispettato la cadenza annuale, ma che hanno poi fatto registrare gravi ritardi.


5. La legittimità costituzionale delle leggi di esecuzione dei trattati comunitari.


L'adattamento dell'ordinamento italiano agli obblighi derivanti dai trattati comunitari e dalla normativa emanata dalle istituzioni comunitarie ha fatto sorgere problemi di costituzionalità, per il fatto che i trattati sono stati resi esecutivi con legge ordinaria

Tali problemi sono stati sollevati, in un primo tempo, soprattutto in relazione al trattato istitutivo della CECA. Già nel 1964 il Pretore di Roma aveva ritenuto sufficiente la esistenza dell'art. 11 della Costituzione per risolvere il problema, argomentando che, poiché la Comunità carbosiderurgica rientra fra le organizzazioni previste da tale articolo, <<non occorreva per l'approvazione del trattato CECA una legge costituzionale, ma era sufficiente una legge ordinaria>>.

Altre decisioni giudiziarie, pur ammettendo che il trattato istitutivo della CECA potesse farsi rientrare nelle previsioni dell'art. 11 Cost., avevano ritenuto opportuno scendere ad esame particolareggiato delle singole disposizioni convenzionali delle quali nel caso di specie era stata affermata la contrarietà con norme costituzionali, per escludere che tali disposizioni fossero in contrasto con la Costituzione. Esse in tal modo affermavano la possibilità di un sindacato di legittimità costituzionale sulle leggi di esecuzione dei trattati comunitari, escludendo però che le disposizioni denunciate comportassero la modifica o l'abrogazione di norme costituzionali; con la conseguenza che doveva ritenersi del tutto idonea la legge ordinaria a dar loro esecuzione in Italia (in questo senso in particolare, nel 1964, il Tribunale di Napoli in causa Società Metallurgica di Napoli s.p.a. c. CECA; il Tribunale di Roma in causa S.p.a Acciaierie Ferriere di Roma c. CECA; e il Tribunale di Milano in causa S.p.a. Meroni c. CECA).

La decisione del Tribunale di Milano richiamava, a conferma delle sue conclusioni, una pronuncia della Corte costituzionale del 1964 in causa Costa c. ENEL, nella quale la Corte aveva affermato, con riferimento al trattato istitutivo della CE, la legittimità costituzionale della legge ordinaria di esecuzione del trattato medesimo, e aveva negato la superiorità di tale legge su qualsiasi altra legge ordinaria ammettendo che una legge ordinaria successiva potesse modificare la legge di esecuzione e perciò le disposizioni del trattato. La Corte ha ricondotto il rapporto tra legge ordinaria e norme comunitarie alla logica della successione delle leggi nel tempo, con la conseguente possibilità di abrogazione o modifica della norma comunitaria ad opera della norma interna successiva. Il criterio adottato per la risoluzione dei conflitti fra norme configgenti era, dunque, quello cronologico (lex posterior derogat priori).

La Corte di giustizia delle Comunità europee si era espressa, nella medesima controversia in senso diametralmente opposto rispetto alla Corte costituzionale, affermando il principio della superiorità della norma comunitaria sulla norma interna posteriore con essa incompatibile.

La motivazione della sentenza della Corte costituzionale del 1964 si prestava ad interpretazioni diverse e fu infatti chiamata a sostegno dell'illegittimità costituzionale della legge d'esecuzione del trattato CECA da parte del Tribunale di Torino, nella sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del 1964, nella causa S.p.a Acciaierie San Michele c. CECA.

La Corte costituzionale, adita con questa decisione, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale con la sentenza n. 98/1965. Essa non ha contestato in via di principio la possibilità di una dichiarazione d'illegittimità costituzionale delle norme di adattamento a trattati comunitari, anzi ha ribadito questa possibilità in accordo con quanto affermato dalla sua precedente sentenza e si è limitata ad accertare che le norme sottoposte al suo esame, in quel caso specifico, sono compatibili con la Costituzione.

Dopo qualche anno lo stesso Tribunale di Torino ha accolto una nuova eccezione di illegittimità costituzionale, relativa questa volta al trattato CE, e ha rimesso nuovamente gli atti alla Corte costituzionale. Con l'ordinanza del 1972 in causa Frontini c. Ministero delle Finanze, il Tribunale  ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 1203/1957, in quanto <<ha reso operante nel nostro ordinamento l'art. 249 del trattato di Roma, rendendo possibile l'esistenza e l'efficacia diretta, nel nostro ordinamento, di atti aventi forza di legge non provenienti dagli organi ai quali la nostra Costituzione riserva la funzione legislativa>>. In particolare il Tribunale ha osservato che <<i prelievi comunitari, anche se hanno finalità diverse dai dazi doganali e dai tributi in genere, sono in pratica molto simili a un qualsiasi tributo, perché consistono in prestazioni patrimoniali imposte ai singoli; e ciò è sufficiente per invadere il campo disciplinato dall'art. 23 della Costituzione>>.

Esaminando la questione di costituzionalità prospettatale, la Corte costituzionale l'ha tuttavia dichiarata non fondata, richiamandosi alla separazione fra ordinamento comunitario e ordinamento interno (delineata nella precedente sentenza del 1965). Le disposizioni costituzionali disciplinano unicamente l'attività normativa degli organi dello Stato italiano, e per la loro natura non sono riferibili o applicabili all'attività degli organi comunitari, regolata dal trattato di Roma. Nella medesima prospettiva si deve valutare anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 249 del trattato CEE, in quanto permette l'emanazione di regolamenti contenenti imposizione di prestazioni patrimoniali. Ciò non importa deroga alla riserva di legge sancita dall'art. 23 Cost., poiché questa disposizione non è formalmente applicabile alle norme comunitarie, emanazione di una fonte di produzione autonoma, propria di un ordinamento distinto da quello interno.

La Corte costituzionale è venuta quindi con questa sentenza a dichiarare in modo esplicito l'impossibilità di un sindacato di legittimità costituzionale sulla legge di esecuzione del trattato CE e sui regolamenti adottati dalle istituzioni comunitarie, rovesciando sostanzialmente l'impostazione originariamente seguita nel caso Costa c. Enel.

Il problema della costituzionalità dei trattati e delle norme comunitarie è stato dunque risolto dalla Corte alla luce dell'art. 11 Cost. il quale comporta un'autorizzazione preventiva a rendere esecutive mediante legge ordinaria norme comunitarie anche se comportanti una deroga a disposizioni costituzionali.


6. Il contrasto fra norme comunitarie e leggi posteriori interne incompatibili.


Un ulteriore problema riguarda i rapporti fra i trattati e gli atti delle istituzioni applicabili all'interno dello Stato da una parte, e le leggi interne che si pongono in contrasto con essi dall'altra.

Mentre questo problema non ha incontrato difficoltà particolari in presenza di atti comunitari incompatibili con norme interne preesistenti, ed è stato risolto a favore della prevalenza della norma comunitaria in quanto successiva, sulla scorta del principio lex posterior derogat priori, meno pacifica è apparsa l'applicazione dello stesso principio quando si trattasse di affermare la prevalenza di norme interne posteriori su norme comunitarie anteriori.

Il fatto che i trattati siano stati resi esecutivi mediante una legge ordinaria e che gli atti normativi comunitari, in specie i regolamenti, derivino la loro efficacia nell'ordinamento interno dalla medesima legge ordinaria, sembra avvalorare una conclusione del problema a favore della legge successiva. Ed infatti a tale soluzione era giunta la Corte costituzionale nella sentenza del 1964 n. 14, affermando che l'efficacia conferita al trattato CE dalla legge di esecuzione non fa venir meno la prevalenza delle leggi posteriori su quest'ultima, secondo i principi della successione delle leggi nel tempo.

Il più delle volte però si è cercato di sfuggire a questa conclusione richiamando gli artt. 10 e 11 Cost. e attribuendo rango costituzionale alle norme comunitarie, o addirittura affermando la priorità o supremazia del diritto comunitario sul diritto nazionale.

È quanto fece la Corte di giustizia, nella sentenza del 1964 in causa Costa c. ENEL decisa dalla Corte costituzionale pochi mesi prima, nella quale ha affermato la superiorità della norma comunitaria sulla norma interna posteriore con essa incompatibile.

Forse influenzata da questa giurisprudenza, forse per altre ragioni, anche la Corte costituzionale ha mutato il suo originario atteggiamento, affermando, nella sentenza del 1975, in causa Industrie Chimiche Italia Centrale, che il contrasto fra un regolamento ed una legge successiva dello Stato deve essere risolto a favore del regolamento, mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge interna.

Il mutato di rotta così operato dalla Corte costituzionale, che non solo escludeva un sindacato di costituzionalità delle leggi di esecuzione delle norme comunitarie, ma attribuiva rilievo costituzionale a queste ultime, attraverso l'art. 11 Cost., così da permettere la dichiarazione di incostituzionalità delle leggi interne con esse incompatibili, non ha tuttavia risolto il problema della diretta applicabilità dei regolamenti nell'ordinamento interno di fronte a leggi interne posteriori.

Ed invero, nella medesima sentenza, la Corte ha escluso che il giudice italiano potesse autonomamente disapplicare le norme interne successive incompatibili con i regolamenti comunitari, affermando che egli è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale. Pertanto per poter essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall'organo costituzionale competente.

Con questa giurisprudenza la Corte costituzionale sembrava aver perso di vista il fatto che subordinare l'applicabilità della norma comunitaria ad una pronuncia di incostituzionalità, se aveva il pregio di garantire che nessun giudice nazionale incorresse nell'errore di applicare la norma interna incompatibile con le disposizioni comunitarie, presentava il difetto di condizionare l'applicabilità giudiziale del regolamento comunitario ad un atto interno dello Stato, cosa esclusa dall'art. 249 del trattato di Roma.

Era inevitabile, quindi, il contrasto con la Corte di giustizia comunitaria, già manifestatosi nel 1964.

Infatti la Corte di giustizia, nella causa Simmenthal, contestando l'orientamento seguito dalla Corte costituzionale, ha rilevato che, in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, <<qualsiasi giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando, all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale>>. È quindi incompatibile con le esigenze del diritto comunitario qualsiasi applicazione facente parte dell'ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario.

Questa sentenza della Corte di giustizia è stata al centro di varie critiche, soprattutto per aver preteso di indicare gli obblighi che incomberebbero al giudice nazionale al fine di assicurare l'applicabilità diretta dei regolamenti.

Al di là di queste critiche, va però riconosciuto alla sentenza il merito di aver messo in evidenza i difetti insiti nelle soluzioni adottate dalla Corte costituzionale, consistenti nel non riuscire ad assicurare la diretta applicabilità dei regolamenti, frapponendo alla loro applicazione un ostacolo quasi legislativo quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna incompatibile.

Ed invero, la soluzione di illegittimità della norma interna posteriore per l'applicabilità del regolamento, appariva troppo rigida, soprattutto perché tale dichiarazione non è affatto sempre indispensabile per assicurare la prevalenza delle norme comunitarie su quelle interne posteriori incompatibili.

L'eccessiva rigidità della soluzione proposta e la sua inidoneità ad assicurare la diretta applicabilità dei regolamenti nell'ordinamento interno è stata avvertita dalla stessa Corte costituzionale, che ha corretto la propria impostazione con la sentenza del 1984, in causa Granital c. Ministero delle finanze.

Nel rivedere il proprio atteggiamento, la Corte ha ribadito che <<l'ordinamento comunitario e quello nazionale vanno configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenze stabilita dal trattato>> (da questo assunto discende la prevalenza del regolamento comunitario nei confronti della legge nazionale); che <<le norme poste da un regolamento comunitario sono immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria>>; che <<al giudice spetta il potere di accertare se la normativa comunitaria regola il caso sottoposto al suo esame ed in tale ipotesi applicarla>>; che <<poiché il regolamento comunitario fissa la disciplina applicabile nella specie, l'effetto connesso con la sua vigenza è quello, non di caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo>>. In pratica il giudice nazionale è tenuto soltanto a disapplicare la norma nazionale incompatibile. La norma nazionale non risulta quindi abrogata, ma, al di fuori dell'ambito materiale in cui vige la disciplina comunitaria, conserva pienamente la propria efficacia, restando sottoposta al regime previsto per l'atto dal legislatore ordinario, compreso il controllo di costituzionalità. All'infuori di quest'ultima ipotesi, la nuova giurisprudenza della Corte, escludendo un sindacato di costituzionalità del diritto interno incompatibile col diritto comunitario ed affidando al giudice ordinario il compito di assicurare in via prioritaria l'applicazione del secondo, da un lato permette che tale applicazione avvenga senza attendere l'esito del giudizio di legittimità costituzionale davanti alla Corte, che comporterebbe comunque un ritardo nell'applicazione, dall'altro copre tutte le ipotesi di conflitto fra una norma interna e una norma comunitaria, compresa quella in cui la prima sia esplicitamente rivolta a modificare o ad abrogare la seconda. In ogni caso il nuovo orientamento porta ad una definizione dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno diametralmente opposta a quella da cui la Corte era partita nella sentenza Costa c. Enel, nella quale aveva affermato che la legge interna successiva incompatibile con il trattato di Roma prevale su quest'ultimo in base ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo.

Il nuovo atteggiamento della Corte costituzionale è ribadito nella successiva sentenza del 1985, nelle cause B.e.c.a. c. Ministero delle finanze e altre riunite che ne hanno ampliato al portata. La Corte ha infatti ritenuto che la normativa comunitaria entra e permane in vigore, nel nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato; e ciò tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell'immediata applicabilità. Questo principio vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, ma anche per statuizioni risultanti, come nella specie, dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia.

Mentre la sentenza precedente si riferiva espressamente solo ai regolamenti, la Corte ne ha quindi esteso la portata anche alle sentenze interpretative della Corte di giustizia delle Comunità europee, attribuendo così al giudice nazionale la possibilità di valutare complessivamente, e non solo in relazione a singoli atti, il diritto comunitario ai fini della disapplicazione delle norme interne con esso contrastanti.


7. Norme comunitarie e ordinamento regionale italiano.


Passando ad esaminare la problematica dei rapporti tra le norme comunitarie e l'ordinamento regionale italiano va detto che il sistema delle relazioni tra l'Italia e l'UE e, in particolare, la partecipazione delle regioni all'attività normativa comunitaria, ha trovato una sua compiuta disciplina anche a livello costituzionale con la legge n. 3/2001, che ha introdotto nella Carta costituzionale i principi emersi fino a quel momento dalla giurisprudenza e dalla legislazione ordinaria in tema di attuazione da parte delle regioni degli atti normativi comunitari.

Situazione prima di questa legge: il primo problema che si è posto è stato quello dell'individuazione dell'organo competente a dare attuazione alle disposizioni comunitarie, in particolare ci si è chiesti, con riferimento alle regioni a statuto ordinario, se nelle materie trasferite alla competenza legislativa regionale in attuazione dell'art. 117 Cost., l'emanazione delle norme di esecuzione degli impegni internazionali dello Stato spetti alle regioni o sia riservata agli organi statali. La questione è particolarmente rilevante dato che importanti settori nei quali si esplica l'attività della Comunità, ad es. l'agricoltura, sono stati trasferiti alla competenza normativa delle regioni.

In un primo tempo il problema è stato risolto a favore della competenza statale, riservando (nell'art. 17 della legge n. 281/1970) allo Stato, nelle materie trasferite, la funzione di indirizzare e di coordinare le attività delle regioni attinenti alle esigenze di carattere unitario, ed inserendo, nei successivi decreti delegati di passaggio dei poteri alle regioni, disposizioni che affermano la competenza degli organi statali in ordine: a) ai rapporti internazionali e con la CEE; b) all'applicazione di regolamenti, direttive ed altri atti della CEE concernenti la politica dei prezzi e dei mercati, il commercio di prodotti agricoli e gli interventi sulle strutture agricole.

In realtà, simili disposizioni finivano per esautorare quasi completamente i poteri normativi regionali in certi campi, ponendosi in contrasto con l'art. 117 Cost., che tali poteri riservava alle regioni. Nonostante ciò la Corte costituzionale, adita da vari presidenti regionali, ne ha escluso l'illegittimità costituzionale.

Un ampliamento della competenza regionale si ritrova nelle successive leggi di trasferimento di poteri legislativi alle regioni a statuto ordinario, a cominciare dalla legge n. 153/1975, di attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità europee per la riforma dell'agricoltura, secondo la quale <<le regioni a statuto ordinario possono con proprie leggi regolare la materia di attuazione delle direttive del Consiglio della CEE per adattarla alle esigenze dei singoli territori regionali o zone agricole purché in ogni caso siano rispettati i limiti stabiliti dalle direttive comunitarie stesse nonché dai principi fondamenti della presente legge>> (art. 2).

Con questa legge viene dunque riconosciuta la competenza legislativa regionale in materia di attuazione delle direttive comunitarie, sia pure nel rispetto di principi fondamentali stabiliti dallo Stato. Di fronte ad un'eventuale inerzia delle regioni, la legge stessa dispone (art. 2, 6° co.) che, fino a quando le regioni non hanno esercitato la loro competenza legislativa, si applicano nei loro territori le disposizioni anche di dettaglio contenute nella legge medesima. In caso di persistente inadempimento degli organi regionali nello svolgimento di attività amministrative di attuazione delle direttive comunitarie, il Consiglio dei ministri può autorizzare il ministro per l'agricoltura a disporre il compimento degli atti relativi in sostituzione dell'amministrazione regionale.

Questa soluzione settoriale è stata generalizzata a tutti i campi di competenza regionale in cui si esplica l'attività comunitaria, con una legge dello stesso anno (n. 382/1975) che ha delegato al governo il compito di emanare nuovi decreti per completare il trasferimento di funzioni alle regioni a statuto ordinario, fra cui quelle concernenti l'attuazione di norme comunitarie. Secondo questa legge infatti la competenza regionale ad attuare le norme comunitarie avrebbe dovuto essere completa per i regolamenti e, per le direttive, subordinata al fatto che esse siano <<fatte proprie dallo Stato con legge nella quale saranno indicate le norme di principio>>; inoltre, ha disposto l'adozione di un meccanismo sostitutivo in caso di inattività degli organi regionali.

Il testo di questa legge di delega è stato poi ripreso  da un d.p.r. del 1977 (n. 616) che attribuiva alle regioni, in ciascuna delle materie definite dal presente decreto, tutte le funzioni amministrative relative all'applicazione dei regolamenti della CEE e all'attuazione delle sue direttive, ma subordinava l'esercizio di tali funzioni al previo recepimento con legge dello Stato nella quale venivano indicate le norme di principio e quelle di dettaglio che avrebbero trovato applicazione in caso di inerzia delle regioni.

Allo Stato era comunque riservato un potere sostitutivo nell'ipotesi in cui dall'inattività degli organi regionali derivasse un inadempimento di obblighi comunitari

A soluzioni analoghe si ispirano altre leggi tendenti a dare esecuzione a norme comunitarie in speciali settori, come la legge del 1976, recante attuazione della direttiva comunitaria sull'agricoltura di montagna e di talune zone svantaggiate e legge del 1977, recante attuazione delle direttive comunitarie sulle procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici.

Pur ampliando notevolmente le competenze regionali in materia di attuazione delle norme comunitarie, queste soluzioni legislative ancora lasciavano sussistere qualche perplessità

Non sono infatti mancate contestazioni da parte delle regioni, in particolare da parte di quelle a statuto speciale, che si sono rivolte alla Corte costituzionale in varie occasioni, ottenendo sempre una pronuncia di conferma della legittimità costituzionale  del potere sostitutivo dello Stato.

La legittimità costituzionale di un potere sostitutivo dello Stato è stata inoltre ribadita dalla Corte con una sentenza del 1987 nelle cause promosse da alcune regioni a statuto speciale e ordinario. In tale occasione la Corte ha anzi ampliato l'ambito di esercizio del potere sostitutivo, non limitandolo all'ipotesi di <<accertata e perdurante inerzia>> delle regioni che comporti inadempimento degli obblighi comunitari, ma estendendolo all'ipotesi <<in cui sussistano comprovati motivi di urgenza determinati dall'imminente scadenza per l'adempimento degli obblighi comunitari, senza che le regioni o le province abbiano l'effettiva possibilità di intervenire tempestivamente>>.

Per controbilanciare l'accentuato potere sostitutivo riconosciuto allo Stato, la stessa sentenza ha affermato che le regioni possono adottare tutte le misure, comprese quelle di carattere legislativo, necessarie per l'attuazione concreta dei regolamenti comunitari, purché si verta in materia attribuita alla competenza regionale e l'attività normativa si svolga nell'osservanza delle disposizioni costituzionali e degli statuti regionali.

A riequilibrare ulteriormente i rapporti fra Stato e regioni nell'attuazione degli obblighi comunitari è intervenuta quasi contemporaneamente la legge n. 183/1987 il cui art. 13 ha attribuito per la prima volta, alle solo regioni a statuto speciale, la competenza ad attuare immediatamente le direttive comunitarie nelle materie di loro competenza esclusiva, senza dover attendere l'adozione delle norme di principio da parte dello Stato.

Nulla veniva invece modificato per quanto riguarda l'attuazione delle disposizioni comunitarie nelle materia di competenza concorrente; in questo caso infatti le regioni potevano dare attuazione alle direttive comunitarie solo dopo l'entrata in vigore della prima legge comunitaria, una legge con la quale lo Stato provvedeva al recepimento e dettava i principi non derogabili dalle regioni.

L'art. 13 della legge n. 183/1987 è stato abrogato e riportato con identico contenuto dall'art. 9 ("le regioni a statuto speciale possono dare immediata attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di competenza esclusiva, mentre nelle materie di competenza concorrente, esse e le regioni a statuto ordinario possono dare attuazione alle direttive dopo l'entrata in vigore della prima legge comunitaria successiva alla notifica della direttiva") della legge n. 86/1989 (legge La Pergola). Questa legge indica quali disposizioni di principio non sono derogabili dalla legge regionale sopravvenuta e prevalgono sulle contrarie disposizioni eventualmente già emanate dagli organi regionali. Solo in mancanza degli atti normativi regionali si applicano tutte le disposizioni dettate per l'adempimento degli obblighi comunitari dalla legge dello Stato.

L'art. 9 della legge La Pergola è stato poi modificato dalla legge comunitaria n. 128/1998 la quale ha previsto che anche nelle materie di competenza concorrente le regioni possano dare immediata attuazione alle direttive comunitarie senza attendere la legge comunitaria successiva. In pratica secondo questa legge sia le regioni a statuto speciale che quelle a statuto ordinario potevano immediatamente dare attuazione alle disposizioni comunitarie sia per le materie di competenza esclusiva che per quelle di competenza concorrente.

Il ruolo delle regioni non sembra divenuto molto più significativo dopo l'entrata in vigore delle leggi del 1987 e del 1989 relative alla partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario. La prima di esse si limita a prevedere l'obbligo del governo di comunicare i progetti di atti comunitari anche alle regioni, in modo che esse possano inviare al governo osservazioni.

La seconda prevede la convocazione almeno ogni sei mesi di una sessione speciale della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni, e le province autonome, dedicata alla trattazione degli aspetti delle politiche comunitarie di interesse regionale o provinciale. Anche se la legge attribuisce alla Conferenza la competenza ad esprimere parere sugli indirizzi relativi all'elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali, non sembra che l'esercizio di tale competenza consultiva sia sufficientemente incisivo per permettere alle regioni di svolgere un ruolo adeguato nella fase di formazione degli atti normativi comunitari nelle materie di loro competenza.

Più incisiva appare forse la facoltà, riconosciuta alle regioni dalla legge comunitaria n. 52/1996, di istituire presso le sedi delle istituzioni dell'UE uffici di collegamento propri o comuni, che intrattengano rapporti con le istituzioni comunitarie, <<nelle materie di rispettiva competenza>>.

A seguito della riforma costituzionale introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, l'art. 117 Cost. stabilisce al 1° co. che <<la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali>>, ponendo una garanzia costituzionale all'attuazione degli obblighi comunitari mediante l'apposizione di un limite alla funzione legislativa regionale.

Il 3° co. prevede, tra le materie di legislazione concorrente con quella statale, quella relativa ai <<rapporti tra le Regioni e l'UE>>, con la conseguenza che sia lo Stato sia le regioni intrattengono rapporti con l'Unione europea. La disposizione più innovativa è, tuttavia, rappresentata dal 5° co. <<le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, che disciplina le modalità di esecuzione del potere sostitutivo in caso di inadempienza>>. In relazione all'intervento sostitutivo statale, nel caso in cui una Regione non provveda all'attuazione della normativa comunitaria nei termini previsti, la legge n. 39/2002 (art. 1, 5° co), c.d. legge comunitaria 2001, ha precisato che la normativa statale di dettaglio è destinata comunque a perdere efficacia al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale di attuazione.

Importante è anche la legge n. 131/2003 (La Loggia) che disciplina le forme di partecipazione diretta delle Regioni all'attività delle istituzioni comunitarie. Secondo l'art. 5 di questa legge <<le Regioni e le Province autonome concorrono, nelle materie di loro competenza, alla formazione degli atti comunitari. Tale partecipazione è resa possibile dalla presenza di esponenti regionali nelle delegazioni  del Governo che collaborano nello sviluppo delle attività del Consiglio dell'UE nonché nei gruppi di lavoro e nei comitati dello stesso Consiglio e della Commissione europea>>. In deroga alla regola che attribuisce ad un rappresentante del Governo il ruolo di Capo della delegazione italiana presso le istituzioni comunitarie, questa legge prevede la possibilità di attribuire tale carica anche ad un Presidente di Giunta regionale o di Provincia autonoma, nelle materie di competenza legislativa delle Regioni.

Da ricordare infine è la legge n. 11/2005, nota come legge Buttiglione, che ha abrogato la legge La Pergola attribuendo maggiore incisività ai poteri delle Regioni nella formazione e nell'attuazione del diritto comunitario. Sotto il primo profilo l'art. 5 dispone che:

il Governo è tenuto a trasmettere, contestualmente alla loro ricezione, alla Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome e alla Conferenza dei presidenti dell'Assemblea, dei Consiglio regionali e delle Province autonome i progetti e gli atti comunitari, indicando la data presunta per la loro discussione o adozione;

il Governo deve assicurare un'informazione qualificata e tempestiva sui progetti e sugli atti trasmessi che rientrano nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome, curandone il costante aggiornamento;

nelle materie di loro competenza ed entro 20 giorni dalla data del ricevimento degli atti e dei progetti, le Regioni e le Province possono trasmettere osservazioni al Governo, per il tramite della Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome o della Conferenza dei presidenti dell'Assemblea, dei Consigli regionali e delle Province autonome;

nelle materie di competenza regionale il Governo può convocare singoli tavoli di coordinamento nazionali cui partecipano rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome allo scopo di definire la posizione italiana da sostenere in sede di UE;

il Governo deve informare, tramite la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, delle proposte e delle materie di competenza delle Regioni inserite all'ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei Ministri dell'UE.

Una procedura del tutto particolare è stabilita dall'art. 5 per quei progetti di atti normativi comunitari che riguardano una materia attribuita alla competenza legislativa delle Regioni. In questo caso, infatti, una o più Regioni possono chiedere al Governo di convocare una sessione di Conferenza Stato-Regioni allo scopo di raggiungere un'intesa entro 20 giorni, decorsi i quali il Governo può procedere anche in mancanza dell'intesa.

Anche le Regioni possono chiedere al Governo, per il tramite della Conferenza Stato- Regioni, di apporre una riserva di esame in sede di Consiglio dei Ministri dell'UE qualora siano in discussione atti che rientrano nella loro competenza. In questi casi il Governo comunica l'avvenuta apposizione della riserva e concede alla Conferenza 20 giorni per pronunciarsi sull'argomento; se entro tale termine non vi è alcuna comunicazione il Governo procede comunque a svolgere tutte le attività dirette alla formazione dei relativi atti comunitari.

La facoltà delle Regioni di recepire in via del tutto autonoma le disposizioni comunitarie, in particolare le direttive, è stata compiutamente disciplina dall'art. 16 della legge Buttiglione. Secondo questo articolo le regioni e le Province autonome:

nelle materie di propria competenza (piena o residuale) possono dare immediata attuazione alle direttive comunitarie, senza alcuna limitazione;

anche nelle materie di competenza concorrente possono dare immediata attuazione alle direttive comunitarie, anche se in questo caso devono rispettare i principi fondamentali non derogabili individuati nella legge comunitaria. Le Regioni, però, devono attendere l'approvazione di tale legge prima di poter provvedere al recepimento delle direttive, dal momento che l'attuazione può anche precedere tale provvedimento. Nel caso in cui la legge regionale già emanata sia in contrasto con i principi fondamentali stabiliti nella legge comunitaria vi è una prevalenza di questi ultimi sulle disposizioni regionali (che potrebbe anche costringere le Regioni a modificare la legge già approvata).

Le regioni possono anche adottare una propria legge comunitaria annuale di cui verrà data notizia nella relazione al disegno di legge di accompagnamento della legge comunitaria nazionale. In quest'ultimo documento il Governo riporta anche l'elenco delle direttive attuate dalle Regioni e dalle Province autonome.







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