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APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE 2008 - PROCESSO LITISCONSORTILE

diritto



APPUNTI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE 2008





PROCESSO LITISCONSORTILE

Quinta sezione del Consolo. Detto anche processo con pluralità di parti, numero di parti superiore al numero elementare minimo di due (attore e convenuto). È un ambito del diritto processuale civile, perché è l'ambito della materia dove vengono studiati quegli istituti processuali che consentono al processo civile di essere un contenitore delle relazioni sostanziali sul piano privatistico che sono spesso intrecciate in quanto intersecano una pluralità di situazioni soggettive. Queste possono essere:

- contitolari (tipo la comproprietà o il condebito solidale: ciascuno deve pagare per l'intero)



- connesse: sono tre:

- contitolarità o pregiudizialità dipendenza;

- alternatività;

- coordinazione.

Il diritto privato sostanziale contiene la disciplina dei rapporti intersoggettivi che si caratterizza per il frequente verificarsi di ipotesi in cui le sfere soggettive che si incontrano non sono solo due, ma di più. Per queste ipotesi, il processo civile deve mettere a disposizione un apparato di strumenti che consenta nei limiti del possibile le finalità del

- coordinamento decisorio: statuizioni tendenzialmente coerenti su medesime questioni sia di diritto che di fatto;

- economia processuale: si cumulano le situazioni che potrebbero essere risolte in processi diversi.


Gli istituti del processo litisconsortile sono disciplinati negli artt. da 102 a 111, escluso il 104, che si occupa di connessione tra cause, però tra il medesimo attore e il medesimo convenuto (è sì connessione, ma tra le stesse parti che sono due; rende il processo un contenitore di una pluralità di domande, ma tra il numero minimo di parti).

Il c.p.c. mette a disposizione questi istituti, affinché il processo possa recepire questa peculiarità del diritto civile (e non c'è ad esempio nel diritto penale sostanziale, basato sulla personalità della responsabilità: possiamo avere più imputati ma la situazione di ciascuno è elementare e un singolo oggetto della pretesa punitiva dello stato, non sono mai situazioni identiche come la comproprietà).

Gli artt. dal 102 al 111 affrontano la tematica secondo due criteri:

1. Contrapposizione tra i casi del 102 (litisconsorzio necessario) e tutte le altre ipotesi; quindi ci sono situazioni in cui è necessaria la pluralità di parti, poi ci sono tutte le altre ipotesi, a partire da quella del 103, che disciplina in teoria l'ipotesi opposta del litisconsorzio facoltativo (vedremo che non è proprio del tutto vero).

2. Momento e iniziativa dell'individuazione di chi assume l'iniziativa del processo litisconsortile.

Per le ipotesi che non sono di l. necessario, l'ordine di disciplina del legislatore è quello della selezione a seconda che la pluralità di parti sia originaria (come nel 103, è litisconsortile fin dalla citazione dell'attore) o sopravvenuta (il processo nasce bilaterale e acquisisce in corso di svolgimento una connotazione litisconsortile).

105: il litis. sopravviene in seguito all'intervento di un terzo che sceglie spontaneamente di intervenirvi.

106: l'iniziativa è delle parti in causa, tendenzialmente il convenuto, ma anche l'attore, possono far coinvolgere nel processo una posizione soggettiva di un terzo, che viene chiamato in causa e accede al procedimento non di propria iniziativa, ma in quanto "costretto" dalle parti: è l'intervento coatto).

107: l'iniziativa non è né del terzo, né delle parti, ma del giudice. Intervento su ordine del giudice o iussu iudicis, una terza possibile via di accesso al processo. Il giudice, salvo le ipotesi del processo del lavoro che ha le sue discipline, ordina alle parti di compiere quanto necessario per provocare l'accessione del terzo al giudizio. Sono le parti che gli devono notificare un atto di citazione per chiamata di terzo.

108 e 109 disciplinano l'aspetto opposto, ovvero l'uscita di un terzo dal giudizio, l'estromissione di una parte dal processo, il fenomeno speculare e contrario all'intervento coatto da parte del giudice.

110 e 111 si occupano invece della pluralità di parti sopravvenuta per ragioni particolari, ovvero la successione nel processo (a titolo universale) o nel diritto controverso (a titolo particolare nella situazione sostanziale controversa oggetto della lite).

Per le ipotesi in cui la connotazione litisconsortile sia sopravvenuta, si distingue ulteriormente in funzione del soggetto che assume l'iniziativa della connotazione litisconsortile del procedimento, venendo a rendere un processo bilaterale litisconsortile.


Il c.p.c. affronta l'argomento tramite questa topografia che quasi ogni manuale rimodula (es. Consolo comincia col 103) e anche noi faremo così. Guarderemo al modo in cui si rapportano tra loro le diverse sfere soggettive delle persone coinvolte e non alle modalità processuali. Ci sono quattro possibili schemi:

1. Identità della situazione soggettiva: qui in realtà non vi è neanche un modo di rapportarsi delle diverse sfere soggettive, perché qui i soggetti non sono titolari di distinti rapporti giuridici, ma della stessa situazione giuridica. Identità della situazione giuridica controversa che determina la pluralità di parti. Solo impropriamente potremmo utilizzare la parola connessione per parlare delle situazioni di identità, perché con connessione diciamo che le situazioni sono più di una.

2. Connessione per pregiudizialità dipendenza;

3. Connessione per alternatività;

4. Connessione per coordinazione.

In 2. e 3. il vincolo è molto forte. In 4 il vincolo invece è molto leggero, lasco. Seguiremo questo schema che ci consentirà di vedere come una stessa ipotesi sostanziale in realtà può dare luogo all'applicazione non proprio di tutte, ma di diverse norme tra quelle che abbiamo indicato parlando degli artt. da 102 a 111.

Ad es. debenza solidale può essere pregiudizialità dipendenza se è effettuato il pagamento in quanto nasce il diritto di regresso; se i condebitori solidali sono uno principale e l'altro un fidejussore vi è un'ulteriore pregiudizialità dipendenza, perché il fidejussore è tenuto a pagare solo se vi è la fidejussione, esiste il debito e questo non è adempiuto. Se poi il fidejussore paga, c'è un ulteriore diritto di regresso. Si può applicare il 103, 105 co. 1 e co 2, 106 prima e seconda parte, secondo alcuni anche 107. Quindi attraversa trasversalmente vari istituti.

Adottando questo schema in funzione della tipologia di connessione, invece possiamo vedere lo stesso istituto che concretizza la possibilità di applicazione di diverse plurime norme.


IDENTITÀ tra varie situazioni soggettive che può portare a litisconsorzio. Il primo istituto che viene in evidenza è il litisconsorzio necessario del 102, che sottende tipicamente ipotesi di identità della situazione sostanziale controversa che determinano la necessità assoluta della presenza di più parti. Quando mancano alcune delle parti necessarie, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine stabilito (tra un mese e sei mesi). È il giudice che provoca la connotazione consortile. Vi è necessità della chiamata, in mancanza si ha estinzione immediata, senza effetti sulla possibilità di riproporre la domanda. Lo conferma il 354 co. 1 (il giudice d'appello, se si accorge che il contraddittorio non era integro, dichiara nulla la sentenza di 1° e rimette tutto al g. di 1°: non si può privare il soggetto pretermesso di un grado).

Nel 107 invece è un'opportunità valutata dal giudice: in mancanza, la causa viene cancellata dal ruolo, ma è possibile un atto di riassunzione entro un anno ad opera di una delle parti (le prove già raccolte rimangono valide); il giudice ha opportunità di scelta, le parti invece un onere al fine di evitare la cancellazione dal ruolo. È il giudice che decide quando si è nel 102.

Caso di un diritto soggettivo in contitolarità. La sentenza pronunciata senza tutti gli elementi necessari è nulla. Immaginiamo questo diritto di proprietà in comproprietà rispetto al quale si voglia compiere un atto di disposizione sul piano sostanziale (es. compravendita, che incide in modo dinamico il diritto). Se più sono i comproprietari, cosa succede se vanno dal notaio in 4 invece che in 5? L'atto è nullo, o più propriamente inefficace, la compravendita non può produrre effetto alcuno, perché c'è un difetto di legittimazione a disporre (si può vendere indipendentemente dagli altri solo la propria quota). Lo stesso discorso legittima il litisconsorzio necessario, dove tutti e 5 devono essere partecipi, altrimenti la sentenza coinvolge una titolarità incompleta e al pari del negozio anch'essa sarà radicalmente inefficace e non avrà la capacità di vincolare neanche i 4, proprio perché il processo coinvolge l'intero e non la singola quota indivisa.

La necessaria compartecipazione di tutti i comproprietari è necessaria affinché la sentenza possa riguardare l'intero, altrimenti la statuizione del giudice sarà radicalmente inefficace, incapace di vincolare alcuno dei comproprietari.

Quindi il giudice ordina il litisconsorzio ex 102 a garanzia dell'effettività del giudicato; affinché questo vincoli le parti. L'ordinamento vuole che si giunga ad una sentenza utile e vincolante e per arrivare a questo è necessario provocare la presenza in giudizio di tutti i contitolari, anche contro e a prescindere dalla volontà delle parti (quindi anche il quinto incomodo).


Il vizio della sentenza inutiliter data è suscettibile di sopravvivere al giudicato formale, solo per questo potremmo dire che è nulla e non inefficace. Il processo è quindi incapace in assoluto di portare ad un giudicato. Visto che la sentenza è inutiliter data non fa efficacia di giudicato sostanziale (anche se passa il giudicato formale) per cui non incontra problemi relativamente al ne bis in idem, si può instaurare un nuovo giudizio. E tale giudizio non pregiudica il giudizio di una situazione dipendente.

Se la sentenza è radicalmente nulla, perché mancava un litisconsorzio necessario, con questa proveremo a dare impulso all'esecuzione forzata, ma quello che ha perso ci dirà che il nostro titolo esecutivo è inefficace e si può opporre ad esso. Non fonda l'esecuzione fondata perché questa casca non appena il contendente vi si oppone. Quindi un sacco di tempo buttato via per niente, perché non si giunge a niente di certo.

Parte della dottrina afferma che comunque la sentenza inutiliter data qualche effetto ce l'ha, quantomeno tra le parti del processo. Essa avrebbe efficacia dimezzata, mera efficacia obbligatoria e non reale nei processi di divisione. I coeredi, infatti, avrebbero l'obbligo di non interferire nel godimento delle quote loro assegnate. Ma è una tesi criticata, perché l'attore otterrebbe qualcosa di diverso da ciò che aveva domandato.


Quando il litisconsorzio è necessario? In linea tendenziale nelle situazioni di contitolarità di una situazione giuridica, art. 102 co 1°: se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire nello stesso processo.

È un perfetto esempio di disposizione tautologica, non si capisce quando dal 102! È una norma in bianco che allude a situazioni che l'interprete deve ricavare da sé, eventualmente avvalendosi di norme puntuali del c.c. o di leggi speciali e chiedendosi poi, una volta individuate tali norme, se il litisconsorzio necessario è una figura tipica (prevista nei soli casi previsti dalla legge), o se sia ricavabile dall'ordinamento in quanto le singole ipotesi servono a ricostruire principi generali volti a individuare altre ipotesi (i casi previsti dalla legge sono qui un occasionale fenomeno, ma non esauriscono la fattispecie).

Tendenzialmente il litisconsorzio necessario non è una figura tipica, esiste in presenza di situazioni  ricavabile dai principi. Ricorre in 3 tipologie di ipotesi:

1. Per ragioni sostanziali, propter tenorem rationis;

2. Per ragioni processuali;

3. Per ragioni di opportunità.

Quando il litisconsorzio è per 1. 2. non è figura tipica, il legislatore ha indicato alcune ipotesi, ma non sono tutte. Quando invece è 3. è figura tipica, perché le considerazioni di opportunità sono solo del legislatore, in quanto attengono ad esigenze valutate dal legislatore ex ante e non sono estensibili ad altre ipotesi.


Litisconsorzio 1.: si ha necessità di litisconsorzio per ragioni sostanziali nelle ipotesi di situazioni sostanziali in contitolarità. L'identità della situazione soggettiva è condivisa da più soggetti. Solo in caso di situazione soggettiva in contitolarità possiamo avere litisconsorzio, ma non è questa condizione suff. (non tutte le volte in cui c'è contitolarità abbiamo litisconsorzio necessario).

Quando allora abbiamo necessità di litisconsorzio? La tesi tradizionale era quella per cui la titolarità ne portava necessità quando su di essa veniva richiesta una pronuncia costitutiva (tradizionale regola di Chiovenda e ripresa da Liebman e diventata vulgata comune della giurisprudenza): abbiamo contitolarità verso la quale una sentenza costitutiva non può che agire nei confronti di tutte le parti, perché non si può mutare solo i rapporti nei confronti di qualcuno ma non di tutti, per cui l'intervento del giudice deve necessariamente coinvolgere tutte le situazioni dei soggetti contitolari.

Recentemente la Cassazione a sezioni unite ha detto che è necessario il litisconsorzio anche dei coniugi in comunione legale, quando è stato stipulato il contratto preliminare di vendita da uno dei due, purché l'altro non faccia una richiesta di annullamento. Nei casi ordinari di comunione era una regola base.


La contitolarità con ipotesi di sentenza costitutiva non era l'unica ipotesi. Nell'elaborazione successiva non può più essere considerata l'unica in cui la contitolarità dà luogo a litisconsorzio. C'è la necessità di litisconsorzio anche rispetto a domande di accertamento, qualora però siano consecutive all'esercizio di un diritto potestativo in senso stretto (es: diffida ad adempiere 1454, potere formativo sostanziale --> se viene fatta una diffida ad adempiere con almeno una delle due parti plurima, se la diffida si basava su inadempimento grave e non basato su precedente inadempimento, allora tale accertamento deve avvenire nei confronti di tutti, perché a monte del processo esso ha comunque effetto costitutivo.)

Quindi sentenze di accertamento (che è sempre statico) che completano una situazione dinamica che sta a monte del processo. Non quindi rivendica o accertamento della proprietà, perché qui l'accertamento può essere utile anche se promosso da o contro uno solo dei comproprietari, perché gli dà comunque un'utilità spendibile. Idem la rivendica che porta alla condanna nei confronti del comproprietario unico che ha preso l'iniziativa contro l'usurpatore.

Viceversa quando l'accertamento è la conseguenza di un'azione dinamica, allora si ritiene necessaria la compresenza delle parti, affinché si abbia omogeneità (si affermi nei confronti di tutti).


Anche rispetto alla sentenza di condanna oggi si riconosce la necessità del litisconsorzio. Non in tutti i casi, ma, anche qui, solo quando la situazione sostanziale in contitolarità riguardo alla quale si chiede condanna e:

- si tratti di condanna conseguente alla violazione di un obbligo di non fare che si sia estrinsecato nella realizzazione di qualcosa di materiale. Es: servitù di non sopraelevare con comproprietà del fondo servente gravato da servitù che non viene rispettato; allora io cerco l'accertamento e la condanna alla demolizione. Allora devo chiederla nei confronti di tutti i proprietari, perché se io non la ottengo nei confronti di tutti, allora il mio titolo esecutivo fonda l'esecuzione forzata, ma a questa ci si può opporre.

Es. 2: divieto di non concorrenza degli operai che escono da un'azienda.

Pensa se vanno avanti fino alla cassazione...tutto tempo perso, perché non può essere esecutiva.

- controversie che hanno ad oggetto situazioni indivisibili. Es: prova d'orchestra o spettacolo teatrale con pluralità di protagonisti. Se voglio una condanna al rispetto del contratto e quindi all'esecuzione della prestazione, devo ottenerla nei confronti di tutti. Ho necessità di una statuizione che coinvolga tutti.

In un certo senso anche l'obbligo di demolire rientra qui; questa può essere identificata come una sottospecie della seconda.



Martedì 11 marzo 2008


Grazie all'art. 1059 contempla la servitù concessa da uno dei comproprietari. Quindi anche se c'è una pluralità di soggetti uno solo può concederla al fondo dominante senza obbligare gli altri, ma dando luogo ad un risultato utile. La servitù non è costituita, finché tutti non vi hanno aderito, altrimenti non si crea il diritto reale. La concessione di uno però obbliga il concedente o i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento all'esercizio del diritto concesso, e non è meramente obbligatorio come obbligo, ma è reale, perché si viene a porre anche verso gli eredi o aventi causa.

Se invece io concedo il diritto di passaggio a solo una persona, non si costituisce la servitù e nel momento in cui quella vende o muore, il diritto si estingue.

Visto che la concessione volontaria può arrivare da uno, l'eventuale giudizio di costituzione promosso da uno solo dei proprietari del fondo servente non sarà inutiliter data, ma sarà quanto meno capace di produrre gli effetti reali del 1059, in quanto potrà costituire un'utilità anche se minore della servitù. Si deroga ai principi generali.


Non sempre quando c'è contitolarità c'è litisconsorzio. Es. non c'è litisconsorzio necessario nelle domande di accertamento o in quelle di rivendica contro uno dei possessori o l'azione di manutenzione del possesso.

Inoltre non abbiamo - e su questo la giurisprudenza è rigorosa e concorde - necessità di litisconsorzio nelle azioni di condanna diverse da prestazione indivisibile e sanzione dell'obbligo di non fare, il che porta ad escluderlo in caso di contitolarità dell'obbligo che è la solidarietà passiva, il condebito solidale che sta al di fuori dal 102, salvo che non venga richiesta la caducazione del contratto. Ma la domanda di condanna di pagamento del credito può essere proposta dal comune creditore singolarmente verso il condebitore solidale. Non c'è necessità del litisconsorzio dal lato passivo. Scatta la pregiudizialità solo quando i condebitori iniziano ad esercitare il diritto di regresso. Si slitta dalla connessione per coordinazione, che si ha quando i singoli condebitori vengono visti in relazione al creditore, alla pregiudizialità dipendenza.

Tra le cause tipiche di litisc. necessario per ragioni sostanziali:

- 784 c.p.c.: azione di divisione di una comunione: es. quando si scioglie la comunione legale dei coniugi. Il 784 prevede che tutti i comproprietari devono essere parte del giudizio di divisione, questo perché abbiamo la contitolarità per definizione e abbiamo la sentenza doppiamente costitutiva (estingue la comproprietà ideale per quote e crea tante porzioni di proprietà esclusiva.


La seconda tipologia di litisconsorzio necessario è quella per ragioni processuali. Anche questa seconda tipologia non raccoglie ipotesi tipiche: vi sono ipotesi espressamente previste, ma il principio si ritiene applicabile anche ad altre ipotesi.

Caso classico: azione surrogatoria 2900 co. 2 c.c.: quando il creditore agisce in via surrogatoria in presenza dei presupposti del credito, di inerzia pregiudizievole, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intenda surrogarsi. Questa è la norma cardine, che si ritiene di poter allargare affermando che si ha necessità del litisconsorzio in tutte le situazioni di legittimazione straordinaria ad agire (ipotesi delle azioni del pm). In questi casi dovranno partecipare anche i soggetti nei confronti dei quali la sentenza produrrà effetti e saranno tutelati solo se saranno presenti. Es: il creditore pignoratizio che agisce in rivendica per recuperare il bene dato a pegno dovrà chiamare anche il proprietario; anche in caso di mandato senza rappresentanza.

Nei casi di legittimazione straordinaria abbiamo necessità del litis, tranne nel caso del 108 (estromissione del garantito) e del 111 co. 3 c.p.c. (alienazione a titolo particolare dell'oggetto del processo). Qui vi è la possibilità di sostituzione processuale non accompagnata dalla necessità del litis; però il soggetto sostituito è comunque vincolato dal giudicato come previsto una norma espressa.


La terza tipologia di ipotesi è quella del litisc. necessario per ragioni di opportunità: è tipico, sussiste solo nei casi previsti dalla legge, perché quando lo si ha, provoca una situazione in cui Tizio e Caio stanno litigando per i fatti loro e il legislatore prevede la partecipazione di altri soggetti che non sono titolari della situazione controversa; il legislatore è motivato da ragioni dell'utilità nel processo e costringe le parti a chiamare un'altra persona. Cozza in senso lato con il principio dispositivo, per cui noi possiamo decidere contro chi far valere la nostra pretesa.

Sono pochi e incerti. Uno sicuro è nel 784 sempre in materia di giudizio di divisione, dove si prevede la necessità di litisconsorzio oltre che per i comproprietari anche dei creditori opponenti, se vi sono (quindi i creditori che si sono opposti alla divisione, perché temono che essa venga fatta in modo iniquo nei confronti del loro debitore e che non se ne lamenterà: tanto quello che a lui perverrà andrà ai suoi creditori, quindi preferisce che vada in mano ai condividenti). La finalità del legislatore è prevenire una situazione in cui i creditori rimasti terzi al processo vengano ad impugnare la sentenza pronunciata dai condividendi con un'opposizione di terzo revocatoria (impugnazione che viene data al terzo avente causa o al creditore che temono che lo scioglimento sia stato effettuato con dolo o collusione in loro pregiudizio. Per evitare questo, il legislatore dice di convenirli in giudizio, di modo che possano argomentare perché secondo loro la divisione si sta svolgendo in modo iniquo). Quindi ragioni di mera convenienza e di economia processuale del legislatore, che vuole accumulare il contenzioso e vuole approfittare della presenza dei creditori, perché il processo non diventi una frode nei loro confronti. Non solo valutazioni irresistibili come quelle per il litisc. necessario per ragioni sostanziali.

Altre ipotesi sicure tutto sommato non ve ne sono. Si potrebbe discutere se sia litisc. necessario per ragioni di opportunità (pertanto la sentenza ha comunque effetti) o per ragioni sostanziali (per la cui la sua mancanza rende la sentenza inutiliter data) quello previsto per la madre del figlio in caso di azione di disconoscimento della paternità esperita dal presunto padre (nei casi specifici). Si prevede che la madre e il figlio siano litisc. necessarî. La tesi prevalente pende per una condivisione della situazione sostanziale anche in capo alla madre, in quanto vede compromessa la sua situazione familiare; quindi la sua presenza serve non tanto per contribuire all'accertamento dei fatti, quanto piuttosto perché questo rapporto di filiazione legittima si considera come una relazione più ampia, tale da coinvolgere la madre. Si potrebbe anche arrivare a dire che questo è un caso di assenza di condivisione di situazione sostanziale.

Altra ipotesi ballerina: prevista oggi dal codice delle assicurazioni, un tempo dalla L. 990/70 sulla RCA. Si prevede che, di fronte all'azione diretta del danneggiato da circolazione di veicoli o natanti verso l'assicurazione, vi sia il litisc. necessario del soggetto assicurato. Non si sa se è per ragioni di opportunità o sostanziali. Apparentemente è un caso di l.n. per ragioni sostanziali, perché questa è un'azione diretta, dove si agisce direttamente nei confronti del debitore, e siccome si discute del soggetto intermedio, questi va convocato,(quindi forse anche per ragioni necessarie). Ma ricordiamo che l'azione diretta per RCA è attribuita dalla legge iure proprio e sorge direttamente in capo al danneggiato ex lege, egli non esercita il diritto dell'assicurato ma un suo diritto proprio, quindi non siamo nello schema della surrogatoria o dell'azione diretta classica, ma abbiamo un soggetto che esercita un proprio diritto autonomo. Tant'è che egli ha il diritto al risarcimento anche di danni al di fuori del contratto, poi sarà l'assicurazione a farsi restituire quanto pagato. La presenza dell'assicurato quale ruolo gioca in presenza di questa azione diretta? La domanda deduce in giudizio anche il contratto di assicurazione, quindi vi è una con titolarità, anche se in parte accessoria. Oppure il legislatore ha voluto che egli fosse presente al giudizio e che il giudicato gli fosse opponibile, e quindi, dando l'azione diretta iure proprio al danneggiato, ha voluto che l'assicurazione fosse tranquilla che l'eventuale sanzione fosse opponibile all'assicurato e non vi fossero diversità di giudicati nell'eventuale giudizio di rivalsa richiesto dall'assicurazione? A seconda di dove si propende, è l.n. per ragioni sostanziali (in quanto si vede l'assicurato come contitolare della situazione giuridica).

La giurisprudenza, visto che in un caso la sentenza sarebbe inutiliter data e nell'altro invece sarebbe comunque utile, tende a ricostruire la fattispecie come l.n. per ragioni sostanziali, perché reputa che in mancanza dell'assicurato essa sia sostanzialmente nulla, anche se questo va a discapito del danneggiato ed è improbabile che si arrivi alla definizione del processo senza che il giudice se ne accorga.


Il legislatore ricollega alla sentenza pronunciata a contraddittorio non integro la conseguenza dell'inefficacia o nullità, tranne nei casi di ragioni di opportunità. Proprio perché la sentenza è viziata da questa inefficacia, il legislatore introduce la possibilità di sanatoria e quindi ex 102 co. 2 il giudice può integrare l'ordine di integrazione del contraddittorio in primo grado.

Se siamo già in appello e in primo grado mancava una parte, se il giudice se ne avvede, annulla la sentenza di primo grado e rimette di nuovo le parti davanti al giudice di primo grado. Il litisconsorte necessario ma assente non può essere privato di un grado di giudizio.

Se la situazione sfugge anche al giudice d'appello ed emerge per la prima volta in cassazione, allora si usa il co. 3, la corte annulla la sentenza d'appello e rispedisce le parti davanti al giudice di primo grado facendo ricominciare il processo dall'inizio.

Se il primo era ok, e nel secondo grado mancava il l.n., la cassazione fa riparare semplicemente il procedimento di secondo.


Il l.n. per ragioni sostanziali ha tre presupposti. Vi è anche un'altra ipotesi particolarissima che è conseguente ad una situazione sostanziale in contitolarità e in proposizione di un'eccezione: quando il convenuto (es. possessore convenuto da uno dei comproprietari in base ad azione di rivendica) eccepisca l'usucapione, allora scatta l'obbligo di l.n. dalla parte dell'attore. Visto che, anche se è una mera eccezione, quella sentenza può finire con il demolire la proprietà e dinamicamente potrà inserirsi nei rapporti giuridici, allora è necessario che questa sentenza venga pronunciata nei confronti di tutti i proprietari.


Parlando delle identità della situazione controversia, esse non si riducono al solo 102, perché vi sono anche delle ipotesi di litisconsorzio facoltativo ex 103, le quali però vanno incasellate nel processo litisc. per identità della controversia e vanno tenute ben distinte perché hanno un regime differenziato!

103: Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, op 717b18h pure quando la decisone dipende, totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni.

co. 2: Il giudice può disporre, nel corso dell'istruzione o della decisone, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice di grado inferiore le cause di sua competenza.

Questa disciplina si applica ad es. nelle ipotesi di condebito parziario (non solidale, il creditore ha diritto a 100, ma non può chiedere 100 a tutti. Tipico esempio il debito ereditario, ogni erede risponde del debito del de cuius limitatamente alla propria quota). Il creditore può chiamare in giudizio tutti, ma il giudice può separare le controversie.

La giurisprudenza prevede un identico trattamento per il condebito solidale (fino a che consideriamo la prospettiva dei rapporti solo tra creditore e debitore e non il diritto di regresso).

Non tutte le fattispecie di l.f. danno luogo a piena applicazione del 103; alcune vengono identificate come l.f. unitario, cioè facoltativo quanto all'instaurazione (è fermo il principio per cui più parti possono agire o essere convenute), ma una volta in cui vengono convenute più parti, il litisconsorzio non è più scindibile. Facoltativo quindi nell'an ma necessario nella prosecuzione. Il caso classico è quello dell'impugnativa delle delibere assembleari (di società, condominio); qui abbiamo 2377 e 2378 per cui l'impugnativa è un istituto un po' particolare, perché vede contrapposto uno o più soci verso la società; questa aspirazione dei soci ad eliminare la delibera è il problema dell'efficacia della sentenza di accoglimento. Siccome la società è un ente disciplinato dalle delibere assembleari, se viene accolta l'impugnativa di un socio, questa ha efficacia erga omnes, perché la vita della società non può essere disciplinata per alcuni dalla delibera e per coloro che hanno impugnato no. Il riscontro dell'invalidità porta alla caducazione della delibera nei confronti di tutti.

C'è poi un altro problema: la posizione dei soci non impugnanti, coloro che hanno votato quella delibera è idealmente sostenuta dalla società che di regola difende la delibera presa dalla maggioranza.

Il legislatore si preoccupa anche di fare in modo che eventuali impugnazioni promosse singolarmente da soci assenti o dissenzienti (altrimenti non possono impugnare!) vengano riunite nel medesimo giudizio e questo scopo prevede una regola per cui l'impugnazione davanti al tribunale del luogo dove ha sede la società. Il processo non può decorrere fino a che non passa il termine di impugnativa (90 giorni dall'iscrizione); il giudice deve aspettare per la trattazione della causa nel merito.

Tutte le impugnazioni della medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. Quando più soci impugnano e lo facciano, sia come l.f. perché si sono messi insieme come attori, sia separatamente ma con l'obbligo di riunire poi le varie cause realizzando ex post una situazione di l.f. sempre dal lato attivo, allora il giudice deve dare un'unica sentenza.

Questo vuol dire che questo l.f., una volta avvenuto, non è più scindibile. È facoltativo nell'ano ma obbligatorio nella sua prosecuzione; unitaria deve essere la sentenza come nel 102 c.p.c. Es: di l.f. unitario perché si è in presenza di identità di situazione soggettiva sostanziale perché il potere può essere esercitato con legittimazione disgiunta.

La stessa situazione si ha in tutte le ipotesi di connessione per l'oggetto come previsto dal 103: queste sono in realtà le ipotesi di contitolarità di una situazione sostanziale quando non abbiamo l.n.: i casi in cui un solo comproprietario agisce per ottenere la rivendica della proprietà. Ma se più comproprietari agiscono insieme volontariamente, il litisconsorzio dovrà permanere fino alla fine. Se si fa uso della facoltà del 103, non è possibile la separazione dei destini dei litisconsorti.


Gli art. 2783 e 2788 dettano una disciplina particolare per le prove legali.

La confessione è una dichiarazione di fatti favorevoli all'avversario: il giudice è obbligatorio a ritenerla come vera.

Il giuramento si ha invece quando una parte non ha prove sufficienti e ci deferisce il giuramento: vi si fa ricorso raramente, perché pochi vi aderiscono.

Se questi due sono resi in un processo litisconsortile, essi vincolano tutti solo se sono resi da tutti. Se solo uno confessa o giura, allora queste non sono prove legali (non obbligano il giudice a ritenerli veri) ma sono solo valutabili liberamente dal giudice.

Questi articoli parlano del processo l.n., ma è un obbligo che si applica anche al processo l.f. unitario, perché qui la sentenza dovrà essere uguale per tutti.



Lunedì 17 marzo 2008


Sorta di incoerenza dell'ordinamento (salvo l'impugnazione delle delibere assembleare che ha una sua disciplina) gli altri casi di litisconsorzio facoltativo quando il litisconsorzio comunque si realizza resta obbligata la compresenza di tutti i soggetti fino alla fine del processo. Connessione per l'oggetto, che è molto forte, perché per la stragrande maggioranza dei casi sarà connessione anche per il titolo.

L'unica ipotesi da tenere separata è la contitolarità del debito solidale, sta al creditore scegliere a chi chiedere.

L'incoerenza sta nel fatto che, se le parti non fanno la causa insieme, l'ordinamento non impone il litisconsorzio e ciò può portare a cause disgiunte e sentenze differenti. Possibilità di sentenze divergenti, che l'ordinamento comunque accetta. La possibilità di questa più marcata volontà dell'ordinamento di imporre l'unità delle soluzioni decisorie qualora le parti si siano cumulate nel processo può sembrare un'incoerenza ma in realtà ricorre in altre regole del processo litisconsortile; c'è una diversa sensibilità del legislatore quando c'è legittimazione disgiunta, che resta oggetto di procedimenti separati (qui nulla osta al fatto che questi processi separati arrivino a soluzioni divergenti) invece un'estrema attenzione che quando la stessa soluzione sostanziale sia congiuntamente dedotta in un solo processo, allora la soluzione sia omogenea, anche qualora il litisconsorzio sia facoltativo.


IMPUGNATIVE DELLE DELIBERE ASSEMBLEARI

Andiamo a vedere la vecchia disciplina originaria del codice. Essa consentiva a chiunque fosse socio, anche con quote minime, di esercitare l'impugnativa assembleare e provocarne la caducazione.

Il legislatore del 2003 non ha più costruito le modalità di azione in termini esclusivamente di c.d. tutela reale (nel senso che alla parte si dà la possibilità di incidere sulla realtà dell'ente sociale), ma distinto a seconda dell'entità della partecipazione ipotesi di capacità di far caducare la delibera e ipotesi di tutela meramente obbligatoria (al di sotto di una certa soglia al socio assente o dissenziente non si dà la capacità di provocare la caducazione della delibera, ma gli si dà solo la possibilità di chiedere il risarcimento del danno, cioè di ottenere dal giudice una statuizione risarcitoria).

Questa differenza è sottesa all'art. 2377 co. 3: l'impugnazione può essere proposta dai soci che possiedono, anche congiuntamente (litisconsorzio facoltativo unitario), l'1/1000 nelle quotate o che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, 1/20 nelle non quotate. In assenza, i soci hanno diritto al risarcimento del danno.

Quindi due tipologie di tutela: caducatoria/reale e obbligatoria/risarcitoria. Per entrambe le situazioni però il 2378 ci dice che tutte le domande, ivi comprese quelle risarcitorie, devono essere istruite congiuntamente e decise da un'unica sentenza. Qui abbiamo una figura particolare, cosa giustifica il litisconsorzio necessario? Il fatto che i soci si possono considerare colegittimati disgiuntamente di una situazione soggettiva (titolari del diritto di impugnazione); per questo abbiamo litisconsorzio unitario.

Se però stiamo parlando di pretese risarcitorie, non possiamo più dire di essere in presenza di colegittimazione disgiunta di un'unica s.g.s., perché ognuno ha un danno diverso (con date dimensioni, cause, ecc.) Si ha una comunanza di fatti costitutivi, sempre parziale, perché il fatto illegittimo è un fatto comune, ovvero la deliberazione, ma dopo tutte le vicende successive, attinenti soprattutto al se del danno e al suo quantum riguardano specificamente i singoli soci e ciascuno sarà titolare di un autonomo e specifico diritto al risarcimento del danno, come debitore non pro-quota, ma autonomo e distinto.

Il fatto che il legislatore pretenda ugualmente che anche per il 2377 co. 4 le cause vengano decise con unica sentenza ci dimostra che il litisconsorzio facoltativo unitario è previsto per ragioni non sostanziali, ma di opportunità. E a questo punto potremmo chiederci se questa pretesa del legislatore non debba in qualche modo essere interpretata restrittivamente e arrivare a quali conclusioni?

sia il L.N., sia il litisconsorzio facoltativo unitario sono da ricondurre all'applicabilità 331 cpc, che prevede che il litisconsorzio permanga fino alla sentenza (appello più kass.) Questa imposizione però ha senso sino a che vengano in considerazione ipotesi di contitolarità della medesima situazione sostanziale, ma se si parla di solo risarcimento del danno da soci assenti o dissenzienti, sembra inaccettabile che coloro che hanno fatto la causa e hanno avuto un risultato da essa vengano costretti a partecipare al giudizio di appello, perché altre parti stanno continuando a discutere della quantificazione del loro credito pecuniario. La stessa situazione non si prospetta nel caso di tutela reale caducatoria.

La pretesa del litisconsorzio nel caso del risarcimento del danno non si potrebbe prospettare al di là del grado di giudizio. Ci si potrebbe chiedere se si potesse chiedere la separazione delle cause, ma il giudice non l'ha voluta, perché non è bello che quando si comincia col litisconsorzio dopo si possa giungere a più sentenze.


In ipotesi dell'identità di situazione sostanziale, che può dare luogo a un processo litisconsortile, dobbiamo guardare l'art. 110: "successione nel processo": quando la parte viene meno.

Quindi quando un soggetto è ad es. titolare esclusivo della situazione dedotta in giudizio, nel momento in cui viene meno per morte o altra causa, a questa parte subentrano i successori universali, che possono essere uno o più di uno. E allora si verifica nel corso dello svolgimento del giudizio una situazione litisconsortile a difendere la parte del loro dante causa. Si ha litisconsorzio sopravvenuto.

Quali sono le situazioni che possono dar luogo al 110?

Per le persone fisiche è esclusivamente la morte del soggetto: però l'applicazione concreta del 110 va collegata coi 299 e 300 cpc che sono le norme sull'interruzione del processo, istituto che parimenti si occupa di morte e perdita di capacità delle parti e perdita della qualificazione dell'avvocato (radiazione dall'albo) e dichiarazione di fallimento (gli deve subentrare il curatore; questi due articoli dicono che se questi eventi si verificano tra la notifica della citazione e la costituzione in giudizio della parte per il tramite di un avvocato allora si ha interruzione in via automatica. Quindi in caso di contumacia e giudizi del giudice di pace dove non c'è avvocato.

Se invece si verificano dopo l'effetto, è solo con dichiarazione dell'avvocato dell'evento che si hanno gli effetti interruttivi. Quindi, finché non c'è dichiarazione, si ha perpetuatio legitimationis in capo all'avvocato; la causa continua nei confronti del morto. L'avvocato continua a stare in giudizio per la parte anche se morta. Finché il legale non fa questa dichiarazione, non si verificano i presupposti neanche per il 110 e non c'è bisogno che subentrino i successori universali.

L'avvocato può addirittura proporre impugnazione in nome del defunto (quindi proporre appello oltre che difendersi contro l'impugnazione dell'avversario).

Quindi del 110 si discute solo quando ci sarà la dichiarazione della morte. Accade che nel momento in cui si verifica l'evento interruttivo o quantomeno si determinano i presupposti per la rilevanza della morte si fa riferimento a coloro che in linea di principio devono rispondere sia per i debiti che per i crediti del defunto.

Es. 1: Tizio dà un legato a Sempronio, a subentrargli non è Sempronio, sono sempre i successori universali.

Es. 2: nel caso del fallimento, si ritiene successore il curatore fallimentare.

Questo subentrare dei successori universali dal lato del defunto dà luogo ad una situazione di processo litisconsortile, che la giurisprudenza qualifica come l.n., nel senso che tutti gli eredi dovranno rimanere in causa fino a che quel processo non si chiuda con sentenza passata in giudicato, quindi anche in caso di impugnazione. Questa situazione di legittimità del litisconsorzio, che di per sé potrebbe anche sembrare congrua, è ritenuta sussistere dalla giurisprudenza anche nelle ipotesi in cui la situazione sostanziale per effetto della morte si sarebbe spezzettata in s.s. autonome ed indipendenti una dall'altra (es. i debita ereditaria ipso iure dividuntur = i debiti ereditari si dividono per effetto della morte se il nostro morto ha 25 di debito, siamo tenuti ognuno esclusivamente per 25, perché non è  un debito solidale; se l'oggetto del processo originario era una domanda di condanna, allora noi tutti e quattro coeredi al defunto siamo chiamati anche se l'originario diritto si sia diviso. Resta il l.n. che la giurisprudenza ritiene di ravvisare nel 110 (anche se non è così esplicita).

Quindi se tizio muore il 17 e la notifica arriva il 18 la situazione sostanziale si è scissa in quattro. I soggetti sono condebitori parziali, siamo in pieno 103 quando le s.s. sono separate.

Se invece la morte è il giorno dopo la notifica di citazione, siamo nel 110, nonostante gli eredi siano chiamati a subentrare in una situazione che tra loro è scissa (o scindibile) allora questi soggetti sono l.n.

Istituzione di erede ex re certa: viene lasciato ad un erede un bene che non rileva come utilità del bene (altrimenti è un legato), ma è indicativo della quota dell'eredità; il bene è identificativo della quota in cui l'erede è chiamato a succedere. Es. appartamento: Tizio muore e lascia a Caio l'appartamento e agli altri altre cose; se tizio era convenuto per qualcosa che riguardava l'appartamento, perché devono essere chiamati anche gli altri? Eppure devono; si pensa che vi sia un controllo reciproco tra gli eredi in sede di devoluzione del contenzioso; quando c'è un'istituzione ex re certa e il bene non è nel patrimonio, l'erede potrà prendersi la sua quota dagli altri. Anche qui si potrebbe vedere se la controversia fosse sorta dopo la morte, allora sarebbe dovuta essere stata istruita solo verso il singolo erede, quindi anche qui il momento dell'avvio del procedimento viene a determinare il tipo di processo.

Emerge qui la volontà del legislatore di fare in modo, al di là di soddisfare esigenze di controllo reciproco tra coeredi qualora vi sia necessità di processo in cui il litisconsorzio sopravviene. Inoltre fa in modo che in sede divisoria ogni erede possa imputare il sacrificio che ha sostenuto per pagare il comune debitore (questa passività deve gravare su ogni coerede). Ma c'è anche una volontà del legislatore, quando il litisconsorzio è sopravvenuto, di imporre, nei limiti del possibile, una soluzione omogenea; ha una minore soglia di accettazione di soluzioni divergenti sulla medesima situazione sostanziale (è la medesima, perché tale era quando il de cuius era stato convenuto in giudizio o l'aveva mosso).

Persone giuridiche: vi sono spazi anche per parti che non siano persone fisiche? L'art. 110 è una norma che, per come è costruita, prescinde dal modo di essere delle vicende sostanziali (lo abbiamo visto nel l.n. dei successori) nel momento in cui individua chi subentra. Al legislatore non interessa chi diventa titolare della s.s., gli interessa ripristinare la bilateralità del processo, che è venuta meno, perché una parte si è estinta. Quindi la doverosità del subentro dei successori universali sussiste anche quando in teoria la s.s. non è trasmissibile ed è personalissima; anche in queste ipotesi però è necessario che subentrino gli eredi, dopo il giudice pronuncerà la cessazione della materia del contendere, ma nel contraddittorio in cui qualcuno potrebbe sollevare eccezioni a riguardo.

Quindi, per come è costruita la norma, se c'è un divorzio e muore il coniuge, non c'è nessun matrimonio da sciogliere, ebbene è necessario l'intervento dei successori perché si dichiari la cessazione.

Se è un credito personalissimo (es. alimenti, collegato allo stato di bisogno e alle relazioni con l'alimentante: anche se gli eredi dell'alimentando sono in stato di bisogno e hanno un legame, comunque hanno un rapporto diretto, non subentrano in questa situazione che è intrasmissibile, eppure devono partecipare nel processo che dichiara il venire meno di un presupposto sostanziale).

Quindi c'è la necessità di ripristinare la bilateralità del giudizio.

Tenuto conto di questa finalità che è sottesa al 110 (che parla di venir meno della parte) veniamo alle ipotesi al di fuori dalla morte della persona fisica.

La tradizionale interpretazione riteneva che il 110 fosse applicabile anche ad alcuni eventi riguardanti persone giuridiche aventi patrimonialità perfetta (società di capitali e associazioni e fondazioni) che però venivano individuati nella fusione e nella scissione societaria. In particolare nelle ipotesi di fusione per incorporazione, ma solo avendo riguardo alla società incorporata (è lei che viene meno), o nell'ipotesi di fusione paritaria (due soggetti si estinguono e ne creano un terzo. Idem per scissione paritaria totale (nascono due soggetti nuovi e il primo si estingue), ma non per quella paritaria (c.d. scissione di ramo d'azienda che continua ad esistere).

Non si riteneva che venisse meno una parte in caso di trasformazione della società perché essa mutava solo la sua forma (anche se da società di capitali a società di persone), neanche nell'ipotesi di estinzione/liquidazione della società, perché comunque, finché c'è liquidazione, la società continua ad esistere e poi perché si ritiene che la società non si estingua, finché vi siano rapporti pendenti nei suoi confronti.

La giurisprudenza più recente, però, facendo anche leva sulla riforma del diritto societario, è arrivata alla conclusione per cui (sezioni unite 2367 dell'8 febbraio 2006) nemmeno in fusione o scissione si può arrivare al venir meno della parte, ma determinano sempre la prosecuzione dell'originario ente in qualcosa di sì diverso, ma si è sempre in presenza di una sua continuazione, che non è mai assimilabile alla morte della persona fisica.

L'esito è basato questo sul 2504 bis c.c., dove al primo comma si dice che La società che deriva dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e li obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione.

Si ha quindi prosecuzione di tutti i rapporti, anche quelli anteriori alla fusione o scissione.

Con la modifica del 2504 bis si è abbandonata la tesi che legava la successione del processo tra quegli eventi che rappresentano successione a titolo universale.

Questo a riprova del fatto che il 110 non si verifica in ipotesi di successione a titolo universale, ma in ipotesi di venir meno della parte, che è l'unica ipotesi considerata dal 110.


Ci può essere ancora un'altra causa oltre la scissione e la fusione? Sì, ma sono fenomeni estremamente ridotti: previsioni speciali di successione tra enti pubblici; qui può essere che il legislatore stabilisca che un ente subentri a quello estinto (di regola con norme pedestri). Può essere che stabilisca il venir meno integrale di un ente con applicazione del 110 per previsione espressa.

Per quanto riguarda enti privati e persone giuridiche non abbiamo applicazione del 110.

La tematica di applicazione del 110 alle persone giuridiche non è così astratta, perché dove c'è il 110, stanno anche il 299 e 300 (interruzione del processo quando viene meno la parte) che non è sempre indolore, perché quando il processo è interrotto, va riassunto entro sei mesi, pena l'estinzione. Dire che fusione e scissione non rientrano nel 110 vuol dire anche che non possono essere interrotti e non possono quindi essere riassunti nei sei mesi a pena di estinzione. Significa togliere di mezzo la possibilità di un inghippo che potrebbe portare non ad una sentenza di merito, ma ad una declaratoria di estinzione del processo.

Nella prassi forense, specie negli ultimi anni di mega fusioni bancarie, era frequente dichiarare fusione nei giudizi, es. di opposizione al decreto ingiuntivo, dove la banca era la parte opposta, perché si sperava che l'oppositore si perdesse i sei mesi. E quindi la banca incorporata cestinava tutta l'attività della banca opposta al decreto ingiuntivo.





Martedì 18 marzo 2008


Oggi inizieremo ad occuparci di situazioni in cui la pluralità delle parti si realizza da situazioni in rapporto di PREGIUDIZIALITÀ DIPENDENZA. Il primo istituto che viene in considerazione è l'INTERVENTO ADESIVO, ex art. 105 co. 2. L'intervento adesivo, come la chiamata in garanzia.

L'intervento si ha quando il processo litisconsortile diventa tale in via sopravvenuta ex post per effetto di una spontanea accessione di un soggetto terzo. È l'intervento volontario di tre tipologie:

  1. Litisconsortile, comma primo art. 105;
  2. Adesivo, comma terzo art. 105.

La pregiudizialità dipendenza è tale da consentire la presenza di diversi istituti, noi parliamo ora dell'intervento adesivo: chiunque può intervenire in un processo pendente tra le parti per sostenere le ragioni di alcuna delle parti quando vi ha un interesse. Il problema del 105 co. 2 è nell'individuazione della situazione sostanziale legittimante. Essa si radica o connota l'interesse, che è ciò che seleziona nel mare dei chiunque coloro che hanno titolo per intervenire. Qual è questo interesse rilevante? Dev'essere un interesse giuridicamente rilevante che deve coesistere con una situazione legittimante che deve essere connotata da una relazione di dipendenza.

La situazione sostanziale dipendente trarrebbe beneficio dalla soluzione della controversia in senso favorevole alla parte le cui ragioni vogliamo sostenere.

Quando abbiamo titolarità di una situazione dipendente? In prima battuta coloro che sarebbero vincolati dal giudicato pronunciato dalle due parti originarie anche non essendo parti del processo (in quanto titolari di un diritto dipendente). Posto che il giudicato li vincolerebbe, allora sono legittimati a dire la loro. Sono i terzi titolari di subcontratti (art.1595 subconduttore: norma che si ritiene estensibile a tutte le ipotesi di subcontratto). Il suboconduttore deriva il titolo della detenzione del bene da un rapporto che lo lega col conduttore. Qualora la prima conduzione venga tolta di mezzo, allora sparisce il titolo anche del secondo. Egli può intervenire non per dedurre un proprio diritto verso il proprietario (perché non ce l'ha) e non per chiedere qualcosa nemmeno al locatore. Idem per subappalto o submandato oneroso.

In questi casi, essendovi il vincolo del giudicato, l'intervento adesivo diventa strumento di tutela della situazione sostanziale.


Possiamo avere intervento adesivo anche quando viene in considerazione un'efficacia di giudicato attenuata: es. dell'azione di rivendica rispetto al soggetto venditore, che sarebbe tenuto a garantire il compratore dall'evizione.

Il 1485 prevede un'efficacia attenuata del giudicato, che accoglie la domanda di molestie: vi si ricava che vi sia una diversa disciplina dell'incidenza dell'onere della prova. Il compratore convenuto in giudizio per l'evizione, se non chiama in causa il venditore, potrà vedere rigettata la domanda di garanzia per evizione se il venditore dimostra che vi erano sufficienti ragioni per il rigetto della domanda di molestie. Il giudicato che lo vede soccombente potrà essere invocato dal compratore che si vede spossessato del bene e chiede la restituzione del prezzi e il rimborso spese. Il compratore potrà invocare la sentenza che lo ha visto soccombente, ma resta salva la possibilità di dimostrare che il compratore, se si fosse ben difeso, sarebbe risultato vincitore. Quindi resta salva la possibilità del venditore di dimostrare che lui era il dominus. Qui abbiamo incisione sull'onere della prova, perché il compratore può limitarsi ad invocare il precedente giudicato sfavorevole e l'onere della prova dell'inesattezza del giudicato sostanziale grava tutto sul venditore. Grava sul venditore convenuto in giudizio per l'evizione l'onere di dimostrare l'erroneità del giudizio di prima.

L'efficacia è ristretta, perché il venditore non è vincolato come il sublocatore ma vede la sua posizione peggiorata da questo accoglimento della domanda di accertamento di molestie. Per evitare questo esito negativo, il venditore ha la possibilità di intervenire adesivamente al compratore e consentirgli di vincere già nel giudizio di moleste, facendo chiarezza anche su un'eventuale processo avente ad oggetto l'evizione (per il quale non ci sarà più spazio).

Quindi egli può intervenire e nel momento in cui interviene in giudizio accetta il rischio di una sentenza che vedrà soccombente il compratore; una volta che essa avviene questa soccombenza gli è opponibile in un futuro giudizio di evizione. Ora non è più terzo.


L'esempio del venditore in realtà ci illustra un novero molto più ampio di ipotesi che legittimano l'intervento lesivo anche in assenza di qualunque efficacia del giudicato. Si ritiene che vi sia legittimazione anche in ipotesi di dipendenza in cui non abbiamo estensione degli effetti del giudicato, ma solo prospettiva di un effetto riflesso di fattispecie, una possibile dipendenza di fattispecie che è tale da legittimare l'intervento adesivo.

L'esito non condiziona la nostra sfera giuridica di soggetti terzi, ma è tale da essere l'evento scatenante per una possibile successiva domanda di una delle parti nei nostri confronti (domanda futura ed eventuale che ci induce ad anticipare i tempi di salvaguardia della nostra situazione sostanziale).

Cerchiamo di pilotare l'attuale processo, per non essere chiamati in causa in uno futuro dove tutto può essere ridiscusso.

Es: azione del creditore nei confronti del fidejussore. Il debitore principale non è toccato da questo; ma nel momento in cui il fidejussore paga, può azionare il proprio diritto di regresso.

La statuizione non è opponibile al debitore principale, ma può far sorgere una seconda domanda giudiziale. Il debitore principale può avere interesse ad impedire questa concatenazione. È sufficiente interesse la volontà che non si realizzino i presupposti, perché il fidejussore possa attivare l'azione di regresso: si aiuta il fidejussore a non essere condannato e pagante.

La possibilità di intervento adesivo è possibile in ogni ipotesi di condebito solidale; quando sorge il diritto di regresso.

Un'ulteriore possibilità che può dare il condebito solidale di intervento adesivo è quello della causa che intercorre tra creditore e debitore principale. Si ritiene che vi sia legittimazione di intervento adesivo in capo al fidejussore che è titolare di una situazione dipendente. Il debito del fidejussore esiste, in tanto in quanto esiste il debito principale (e il rapporto di fidejussione). Il fidejussore non è vincolato dal precedente giudizio, ma ha timore che il creditore, avendo trovato conforto nell'accertamento del credito, cerchi l'intervento del fidejussore.


L'intervento adesivo trova conclusione nella L. 117/88 sulla responsabilità civile dei magistrati: tappa la lacuna del referendum che limitava la responsabilità dei magistrati mettendo una disciplina ancora più rigida. Nei casi di danni connessi a dolo o colpa del magistrato nell'esercizio delle proprie funzioni verso il cittadino è data azione nei confronti dello Stato, quindi nello stato in persona del Presidente del Consiglio; una volta ottenuta sentenza favorevole contro lo Stato, starà a questo il diritto di rivalsa nei confronti del magistrato. Qualunque sia la somma pagata dallo stato, esso potrà chiedere una somma al magistrato che comunque non supera 1/3 dello stipendio annuo al netto delle tasse (4 mesi). Solo in caso di dolo accertato del magistrato non c'è questo limite di tetto per la rivalsa, però la procedura è sempre la stessa.

Ci sono due compartimenti stagni l'azione di risarcimenti e l'azione di rivalsa. Sono talmente stagni, che il magistrato nel primo giudizio non può neanche essere chiamato in causa. Il magistrato è sicuro che da quel giudizio non può saltar fuori nulla di vincolante per lui, eppure l'art. 6 co. 1 consente al magistrato, a sua scelta, di intervenire adesivamente. La ragione è proprio la dipendenza tra fattispecie (il magistrato vuole evitare che venga condannato lo stato, in modo che non si fondi il diritto di regresso).


Quindi l'intervento adesivo è sì utile nelle situazioni di concatenazione di fattispecie, ma può diventare rischioso quando va male, perché risulteremo vincolati al giudicato (es. caso dell'evizione). Invece quando il terzo è comunque vincolato dal giudicato, allora è un intervento di tutela della situazione sostanziale.


Una situazione interessata all'esito del giudizio originario ma non connotata nemmeno da dipendenza: sono i creditori. Possono fare intervento adesivo in un giudizio che vede coinvolto il loro debitore per aiutarlo a vincere e a uscire dal giudizio col riconoscimento in capo a sé della titolarità di un diritto reale che potrà essere valorizzato nella garanzia patrimoniale generica.

Al limite può addirittura accadere che i creditori si ingeriscano negli affari del debitore con l'intervento adesivo, anche quando il debitore è convenuto in giudizio da un altro debitore. Il titolo giustificativo dell'intervento dei creditori non è una dipendenza tra fattispecie, perché egli non deve temere un'invocazione in giudizio, è solo una dipendenza storica ma non tra fattispecie; a giustificare il uso intervento è il fatto che l'ordinamento mette a disposizione delle prospettive di soddisfazione effettiva del credito una pluralità di strumenti che sono anche più intensi dell'intervento adesivo (primo dei quali l'azione surrogatoria: il creditore può promuovere un giudizio per far valere un diritto del debitore).

L'intervento del debitore previene la revocatoria dei creditori opponenti. Se si reputa che il debitore si sia messo d'accordo con l'altra parte per perdere apposta, il creditore ha la possibilità di far valere la revocatoria sulla base di dolo a proprio danno.

Rispetto all'azione surrogatoria, il creditore con l'intervento adesivo può agire anche nei giudizi passivi verso il debitore, per prevenire una sentenza iniqua.


Uno dei problemi dell'intervento adesivo è quello dei poteri dell'interveniente. Non dimentichiamo che il soggetto interviene senza chiedere al giudice di intervenire con un accertamento che riguardi una propria situazione sostanziale; non deduce un proprio diritto. Invoca un proprio diritto come elemento legittimante, ma senza chiedere su di esso una statuizione.

Un processo nasce e finisce su un rapporto giuridico che non fa capo a lui. Ma anche configurando l'intervento lesivo in questi termini, esso è un rapporto eccezionale. Esercita una legittimazione straordinaria a stare in giudizio in ordine ad una situazione sostanziale che non fa capo al legittimato (per questa ragione l'interesse non può essere affettivo ma deve essere giuridico).

Si pone quindi proprio per questo il problema dei poteri dell'interveniente: può disporre della situazione sostanziale dedotta in giudizio? Ha poteri dimidiati o interi? Non può, ad es., fare la transazione, perché non ha poteri dispositivi dell'oggetto del processo (idem conciliazione); è discutibile se debba anche lui accettare la rinuncia agli atti. Sicuramente però può compiere gli atti necessari per impedire l'estinzione del processo (es. per inattività delle parti).

Ha tutti i poteri istruttori, può produrre qualsivoglia documento. Non può però fare confessione o giuramento, perché non ha la disponibilità del giudizio, perché entrambi questi mezzi di prova possono comportare di fatto la disposizione del diritto.

Un problema si pone sulle eccezioni; l'interveniente ha il potere di sollecitare il giudice a rilevare le eccezioni rilevabili d'ufficio. E per le eccezioni in senso stretto (riservate, tali perché comportano una sorta di diritto disposizione del soggetto convenuto)? In linea di principio, sono precluse all'interveniente adesivo, il quale, ad es., non potrà eccepire l'annullabilità del contratto.

Lo stesso vale per le eccezioni di vizi del bene venduto e la rescindibilità del contratto.

Nemmeno la prescrizione e la compensazione, ma su questo piano provvede il diritto sostanziale. La prescrizione può essere fatta valere dal creditore o da chiunque la faccia valere.

Un'altra questione è quella del POTERE DI IMPUGNAZIONE, vi è una tendenza giurisprudenziale a negare all'interveniente adesivo qualunque potere di impugnare la sentenza. Egli potrà continuare a dare impulso al giudizio fino alla sentenza, ma una volta che questa interviene non ha il potere di devolvere la controversia ad un giudice superiore.

La dottrina è piuttosto critica e avendo avuto occasione nel 2003 di dettare norme in materia societaria è stata introdotta la norma per cui, in quel contesto, l'interveniente adesivo ha ogni potere di impugnazione: in ogni caso, il terzo intervenuto è legittimato all'impugnazione della sentenza ex art. 1 d.lgs.

C'è chi distingue tra chi sarebbe legittimato pienamente all'impugnazione (subcontratto), perché essi non sarebbero in grado di sottoporsi alla sentenza e devono accettare l'esito del processo come si è svolto tra le parti. Hanno avuto una possibilità di partecipare ma non possono impugnare, perché il loro diritto è plasmato dall'esito del processo tra le parti.

Diversa è la situazione dei soggetti che sono legati dalla dipendenza della fattispecie: avrebbero in prospettiva un giudizio di rivalsa, di regresso che si dipanerebbe in tre gradi, dove potrebbero discutere ex novo se è fondato l'accertamento. Allora è giusto che essi, qualora siano intervenuti adesivamente, possano impugnare.

I creditori invece hanno la legittimazione surrogatoria e possono dare impulso addirittura al processo, allora potrebbero dare impulso anche alla devoluzione al secondo grado, ovviamente in caso di inerzia del debitore.



Mercoledì 19 marzo 2008


Le stesse situazioni, che danno occasione di intervento lesivo collegate da pregiudizialità dipendenza, possono dare luogo anche a CHIAMATA IN CAUSA.

È l'intervento coatto, il terzo è costretto ad intervenire a seguito della chiamata di una parte. Il convenuto, se vuole chiamare un terzo, lo deve fare nella comparsa di risposta (quindi nei primi 20 giorni). L'attore deve farlo nel corso della prima udienza della trattazione e in tanto e in quanto la necessità della chiamata sia sorta dalle difese del convenuto.


La chiamata può venire in queste situazioni di dipendenza identiche a quelle idonee a giustificare l'intervento adesivo (quindi si può anche far partecipare il subconduttore, anche se la sentenza gli sarebbe comunque opponibile).

Altre situazioni invece sono quelle della garanzia per evizione, dove il c.c. addirittura fa onere al compratore di chiamare in causa il venditore; in realtà è una norma impropriamente sostanziale, in realtà non è un onere ma una facoltà (se vuoi che l'accertamento sia opponibile a tutti gli effetti al venditore, chiamalo in giudizio, altrimenti potrà sottrarsi a quel giudicato e non ne sarà vincolato opponendosi alla prima sentenza).

La chiamata in causa può essere fatta anche da qualunque condebitore solidale chiamato in causa. In questo caso però il debitore principale non potrà chiamare il fidejussore, perché non ha un rapporto diretto con lui e non avrà nessun interesse a chiamarlo in causa. Non può chiedergli di prestare la garanzia, perché se il fidejussore paga, al debitore non gliene frega niente.

La chiamata in causa in questi termini, nelle situazioni in cui viene esplicata in relazione a rapporti di pregiudizialità dipendenza, che contenuto ha? Fermo restando che queste non sono le uniche possibilità in cui si può avere la chiamata in causa; qui essa ha il contenuto di una domanda di accertamento rivolta nei confronti di un terzo; domanda di estensione dell'efficacia soggettiva dell'accertamento sull'oggetto originario del processo verso questo ulteriore soggetto che è il terzo chiamato.

Nel fatto che la cic, quando inerisce a questo genere di rapporti, sia di mero accertamento, si differenzia da quell'affine istituto, che viene in considerazione sempre (e solo) in queste ipotesi di pregiudizialità dipendenza e che è la CHIAMATA IN GARANZIA (sempre ex 106).

La cic invece si può avere anche nelle ipotesi di connessione per alternatività e coordinazione.


Chiamata in garanzia è la domanda di condanna ad essere tenuti indenni dagli effetti negativi della soccombenza eventualmente maturata nei confronti del terzo. Non ci si limita a chiedere l'accertamento del terzo per limitare una futura azione di regresso, azione per evizione, ma si cumula già nel processo avviato l'azione di regresso, rivalsa, evizione, si cumula all'interno di esso la domanda di condanna alla garanzia per evizione.

La chiamata in garanzia distingue in garanzia:

1) Propria: si divide in garanzia:

o       Reale: si ha quando il chiamante propone questa domanda di condanna, invocando la garanzia dell'effetto reale (inteso come effetto traslativo) che doveva stare a monte di un proprio acquisto. È il caso della garanzia per evizione. Si chiede nei confronti del venditore la garanzia per evizione che egli deve dare. La domanda di condanna trova il proprio fondamento nell'effettività del trasferimento di un diritto (non per forza reale, ma anche di un diritto di credito). Il cedente non si può liberare del credito che ha ceduto. Se lo vende, può e deve essere chiamato a rispondere.

In queste situazioni, si dà la possibilità al compratore molestato di promuovere in quel processo la domanda di condanna del venditore con rimborso spese (il compratore dice che nel frattempo ha dovuto comprare x per sostituire il bene o ho dovuto vendere titoli per comprare il bene che poi non è diventato suo), risarcimento danno (eventuale).

L'evizione può derivare anche da retratto agrario (il vicino aveva diritto di prelazione) o quando vendiamo qualcosa e il de cuius esercita la riduzione e reintegrazione per lesione di legittima.

In queste ipotesi, la cig è proposta di regola dal convenuto, però è possibile cig per garanzia dell'effetto reale anche dall'attore, in particolare quando si trasferisce un diritto di crediti perché quando il cessionario evoca in giudizio Caio e questi gli obietta di avere già pagato il debito cinque giorni prima di quando è stato ceduto e non esisteva più al momento della cessione, allora si chiamerà in causa il creditore cedente.

o       Personale: sono tutte le situazioni in cui la cig si associa a situazioni di condebito solidale: qui abbiamo una domanda verso uno dei condebitori solidali e lui coglie l'occasione per cumulare già all'interno di quel giudizio la domanda di regresso per tutto ciò che il fidejussore ha dovuto pagare o per il resto del condebito.


La garanzia personale merita tre precisazioni:

Nel caso in cui la garanzia personale si innesti in una vicenda di fidejussione: se il fidejussore esercita direttamente la condanna verso il debitore principale chiamandolo in garanzia. Rispetto al 106 cpc il fidejussore è il soggetto garantito dalla chiamata in garanzia, mentre il debitore principale è il garante (terminologia opposta).

A differenza di quanto accade nella garanzia reale, dove lo spossessamento o anche solo la dichiarazione di non proprietà del compratore è titolo per invocare l'evizione, nella garanzia personale si ha invece un'anticipazione dei tempi (come effetto del cumulo della domanda di regresso a fianco alla domanda di pagamento del creditore), perché quando abbiamo la condanna del fidejussore o di uno dei condebitori, in realtà il credito di regresso non è ancora nato e diventerà esigibile solo al momento in cui il condannato venga a subire il decremento patrimoniale. Ma il pagamento del condannato (fidejussore o condebitore) è un fatto che sta al di fuori dell'accertamento del giudice. Il giudice di primo grado condanna a pagare ma non sa se pagherà; eppure già qui può condannare il debitore principale o i condebitori.

La pronuncia relativa alla domanda del chiamante sopravviene in un momento in cui ancora non c'è titolo per chiederla. La sentenza di condanna del garantito è una sentenza di condanna condizionale (sospensivamente condizionata al pagamento del creditore); però per realizzare quest'esigenza di economia processuale si è ammessa questa prassi che si era sviluppata nella Francia del Seicento.

Se quella domanda non fosse cumulata, non potrebbe mai portare a condanna.

Le sorti dei condebitori solidali sono autonome e distinte, finché stanno in giudizio in una formazione parallela al comune creditore; non appena vengono azionate le domande di garanzia, questo parallelismo sparisce e prevale l'aspetto della dipendenza. Quando i condebitori chiedono uno con l'altro i diritti di regresso, allora le posizioni non sono indipendenti nella prospettiva dei rapporti con il creditore, ma diventano un intreccio inscindibile e non più separabile.

La deduzione del rapporto di regresso non deve avvenire per forza tramite cig. Es. litisconsorzio semplice del creditore che fa causa a tutti i condebitori e questi non hanno più nessuno da chiamare in garanzia, perché sono tutti in causa, ma possono chiedere che venga statuito sul rapporto di regresso in via riconvenzionale o in via di domanda tra convenuti all'interno del processo principale (se chiamiamo in garanzia, è contro qualcuno che è fuori, ma se qualcuno è già in causa, serve una domanda riconvenzionale (tra l'altro termine improprio).

La cig determina l'instaurarsi di una causa dipendente. È una relazione che ha un connotato particolare dovuto al collegamento molto stretto, che a titolo di pregiudizialità dipendenza si instaura tra la causa principale e quella introdotto a titolo di cig.

Tale rapporto è così marcato, da realizzare una situazione tale per cui l'accoglimento della domanda principale diviene condizione di decidibilità nel merito della domanda dipendente. Se la domanda principale non viene accolta, la domanda dipendente viene assorbita per radicale insussistenza dei suoi presupposti di accoglimento.

La domanda di accoglimento è condizione di decidibilità nel merito della causa dipendente.

Ipotesi che si riconducono a questo schema di cig propria: assicurazioni per la responsabilità civile. Se la domanda viene rigettata, non ci sono spazi per l'accoglimento di una chiamata in garanzia dell'assicurazione (il danneggiante non ha esborsato e l'assicurazione non deve sborsargli niente).

In caso di assicurazione contro i danni, es. ad una propria casa (incendio casa): se si verifica il sinistro, il soggetto assicurato può chiedere il rimborso; l'assicurazione ha nel contempo la possibilità di chiamare in causa il danneggiante.


2) Impropria: di per sé è una delle ipotesi di connessione per coordinazione, solo che, eccezionalmente, ne parliamo oggi per vedere le differenze con la garanzia propria.

Anche qui il soggetto mira a scaricare gli effetti negativi della soccombenza su un altro soggetto. La differenza con la propria è che qui è possibile l'accoglimento della domanda di garanzia anche in caso di soccombenza del garantito sulla domanda principale.

Caso classico: vendita a catena, dove non si invoca la garanzia dell'evizione, ma quella per i vizi del bene venduto, che ci permette di chiedere revocatoria o estimatoria (di regola solo questa, perché se abbiamo alienato il bene, possiamo chiedere solo la restituzione della parte di prezzo; solo se abbiamo ancora il bene, possiamo chiedere la revocatoria). Quando il bene arriva all'ultimo anello della catena (che però non è il consumatore! Altrimenti la disciplina è un'altra), si ha un imprenditore che acquista questo bene e vede che è viziato e fa la causa a quello sopra di lui nella catena, che chiama in garanzia l'anello prima, che a sua volta cig quello prima fino al produttore.

Può capitare che l'acquirente finale non abbia rispettato il famoso termine di otto giorni e proponga la sua domanda (la principale), essendone già decaduto. Questo però non vuol dire che questo rigetto travolga tutta la catena, perché il termine può non essere spirato per il secondo anello e quindi è possibile che la domanda di garanzia del secondo anello e quelle di tutti gli altri siano fondate.

Questo è il connotato dell'impropria: in presenza di una connessione più debole (è per mera comunanza del fatto storico) si ritiene che la cig possa essere condotta al 106 seconda parte, ma non gli si applica il 32 che agevola la chiamata ad una deroga di competenza per territorio, per ragioni di connessione. Nella cig propria, il convenuto che vuole chiamare in giudizio il venditore (?) qualora questi abbiano domicili diversi si ammette la deroga per ragioni di connessione.

Nell'impropria, se ho domicili diversi non riesco a realizzare il cumulo, dovrò fare diversi giudizi.

Ovviamente, essendo questo il connotato della connessione, non si verifica qui quel fenomeno di assorbimento della garanzia propria. Non c'è ragione di assorbimento, le domande sono decise distintamente.


VENDITA DI BENI DI CONSUMO

Le cose qui sono diverse. Il 131 codice del consumo d.lgs. 206/2005. la disciplina prevede che il consumatore abbia diritto a vari rimedi: sostituzione/riparazione e in difetto riduzione del prezzo.

La previsione di questo arricchimento di tutela è prevista però solo per i rapporti col consumatore.

Quindi dopo la catena, se il bene arriva al consumatore, questa disciplina si applica solo all'ultimo anello.

Il 131 dice che il consumatore può fare causa al dettagliante invocando i rimedi del codice di consumo. Ma questa situazione pone il dettagliante in una situazione rischiosa, perché il consumatore ha maggiori tutele rispetto a lui e può rivolgersi a lui in un momento in cui questo dettagliante non potrebbe più rivolgersi all'anello a lui precedente.

Ecco che questo dettagliante è tutelato verso questa ipotesi. Il legislatore in questo 131 dice che l'ultimo soggetto che ha venduto si vede condannato nei confronti del consumatore può scaricare gli effetti negativi della soccombenza, non necessariamente verso il proprio venditore, ma nei confronti del soggetto responsabile della difformità del bene. E potrà chiedere a questo soggetto di essere tenuto indenne dagli effetti della soddisfazione del consumatore.

La tutela del consumatore sfora sul piano soggettivo, perché potrà chiedere tutela verso anche anelli precedenti della catena (anche direttamente verso il primo produttore), a titolo di responsabilità contrattuale e sfora anche sul piano oggettivo, perché potrà chiedere al soggetto chiamato in garanzia qualcosa di non fondato sul 1490, 1495 c.c. e trova fondamento solo nel pregiudizio patrimoniale dovuto al soddisfacimento dei diritto del consumatore. Quindi è una garanzia propria, perché abbiamo due rapporti connessi per pregiudizialità dipendenza e in tanto in quanto vi sia soccombenza del dettagliante, solo allora ci potrà essere una controtutela verso gli anelli superiori.

Quindi, se la soccombenza è presupposto dell'azione di regresso, siamo di fronte a quei meccanismi di assorbimento della domanda di garanzia e di accoglimento della domanda principale quale condizione di decidibilità nel merito della domanda di garanzia.



Lunedì 31 marzo 2008


Art. 111: successione a titolo particolare nel diritto controverso. Perché è dipendenza? - Perché stiamo parlando di un soggetto avente causa, che acquista un diritto da una delle due parti originarie. Egli acquista un'aspettativa, un qualche cosa che potrebbe esistere, come no. Peraltro l'avente causa può essere riconosciuto titolare in tanto in quanto il suo dante causa lo fosse; condizionato alla bontà dei diritti del dante causa.

Successione a titolo particolare significa che abbiamo un evento di cessione del diritto controverso in corso di causa, che può essere inter vivos o mortis causa (ipotesi sono solo quelle del legato). Una delle due parti del processo decide di cedere in corso di causa il diritto di cui si ritiene titolare.

Inizialmente il legislatore aveva un atteggiamento eccessivamente prudente, nel diritto romano era vietato alienare il bene in pendenza di lite; il processo romano si imperniava sulla litis contestatio che cancellava la situazione pregressa per poi ridelinearla. Oggi, che la durata dei processi è così lunga, non si può vietare la vendita ed è ammesso un atto di cessione, fermo restando che i suoi effetti sono condizionati alla vittoria nel processo, però con la salvaguardia della parte opposta a colui che cede, perché non dev'esserci possibilità di abusarne per rendere più difficile la posizione della controparte nel processo.

Quindi la cessione è possibile, ma il processo prosegue tra le parti originarie; la struttura del processo rimane inalterata, alla controparte la cessione resta indifferente. La sentenza vincolerà anche l'avente causa in quanto titolare di un rapporto dipendente.

Nel secondo co. c'è omogeneità: in caso di morte, il processo prosegue nei confronti dei successori universali. Affinché si possa applicare il 1112, ci dev'essere un legato di specie, per vindicationem, perché c'è un trasferimento di diritto automatico (sempre che non vi sia rifiuto); non è possibile per un legato di genere, per damnationem, in quanto si ha solo possibilità di condanna.


Il processo quindi prosegue tra le parti originarie. L'avente causa ha la possibilità di intervenire volontariamente o di essere chiamato in giudizio e, una volta che questo avviene, vi è la possibilità dell'estromissione della parte originaria (provvedimento formale del giudice) o dei successori universali nel caso del comma secondo.

Fino a quando non c'è l'estromissione, dante causa e successore universale sono parti necessarie del giudizio. Il giudizio dovrà proseguire tanto nei confronti delle parti originarie, quanto degli aventi causa. L'appello infatti dovrà essere notificato sia al dante causa che all'avente causa.


È indispensabile che l'evento di cessione non resti un evento extra processuale che non affiora alla superficie del processo. Questo non è scritto nella legge, ma perché avvenga il co. 3 del 111, è necessario che l'evento venga dedotto in giudizio, con una sostanziale modifica soggettiva degli elementi individuatori della domanda. È necessario che il dante causa alleghi l'evento successorio, dicendo che da quel momento in poi lui sta in giudizio per difendere una posizione che comunque, finito il processo, non sarà più riconosciuta in capo a lui. Può essere il legatario stesso che allega l'evento successorio (morte) determinando l'interruzione, il subentro dei successori universali e il suo intervento. L'elemento morte diventa rilevante solo nel caso della sua allegazione.


Questo intervento e questa chiamata ex 111 sono sottratti ai termini dell'intervento volontario sulle modalità temporali dell'intervento ex 105 e della chiamata in causa (nella comparsa di risposta dal convenuto, nella prima udienza di trattazione per l'attore) del 106. Nel 111 terzo comma possono avvenire in qualsiasi momento; si ha un solo limite che non è processuale ma strutturale: non in cassazione, in cui non sono ammessi documenti nuovi.

Riguardo soprattutto al co. 3 si è posta una distinzione tra:

1) Teoria della rilevanza: opera tutto quello che abbiamo detto adesso sul modo di operare del 111.

2) Teoria dell'irrilevanza dell'evento successorio ai fini della prosecuzione del processo o ai fini della valutazione di un certo elemento della fattispecie in vista della prosecuzione del processo.

Le due teorie sono opposte a riguardo della possibilità che venga riconosciuta un'effettiva rilevanza nel giudizio al mutamento della titolarità del diritto conteso. Per la teoria della rilevanza, una volta allegato, l'evento successorio riconoscerà la sentenza in capo all'avente causa e concernente egli direttamente in quanto parte sostanziale della lite anche se non chiamato in causa.

Per la teoria dell'irrilevanza, invece, ai fini della pronuncia di merito rileveranno tutte le vicende sostanziali che attengono all'esistenza del diritto, tranne quelle relative alla titolarità del diritto, che restano ininfluenti; rileveranno fatti estintivi sopravvenuti (pagamento, perimento), ma non quelli relativi alla titolarità su diritti soggettivi: il giudice si pronuncerà riconoscendo il diritto in capo a chi se ne è affermato titolare al momento della proposizione della domanda giudiziale. Certo, la sentenza vincolerà anche l'avente causa, ma a titolo di efficacia riflessa.

Questa differenza si ripercuote su altre problematiche: per i sostenitori dell'irrilevanza dire che il processo continua tra le parti originarie è una banalità, mentre per i sostenitori della rilevanza questa è una precisazione necessaria, addirittura una domanda riconvenzionale dovrebbe essere rifiutata, perché il dante causa è il sostituto processuale. Nel momento in cui allega in giudizio l'evento successorio, il dante causa compie un'allegazione che riqualifica il titolo della sua presenza in giudizio; grazie al 111 non sta più in giudizio in nome proprio, ma sta in nome proprio per un diritto altrui; è uno dei casi dell'art. 81 prima parte; come tale egli tutela la posizione soggettiva del vero titolare e quindi la sentenza si pronuncerà in capo al sostituito in nome del quale - ma non per conto del quale - sta in giudizio il dante causa. È uno di quei due casi, secondo la teoria della rilevanza, dove non si ha litisconsorzio necessario del sostituito (insieme al caso dell'estromissione del garantito, che vedremo).


La possibilità del successore è un po' anomala; questo soggetto è interessato all'esito della lite, ma in quanto titolare di un diritto dipendente, quindi non molto diversamente da quanto avviene per un qualsiasi interveniente adesivo, con l'unica differenza di non avere limiti temporali.

A questo punto abbiamo anche presente in lite un soggetto non titolare diretto secondo la teoria dell'irrilevanza e qui l'eccezionalità nasce nel momento dell'eventuale estromissione del dante causa. Per i sostenitori della teoria dell'irrilevanza, non sta tra l'allegazione in giudizio dell'elemento successorio e la chiamata in causa del nuovo titolare; questo momento è nell'estromissione del dante causa, dove viene estromesso quello che è il vero titolare del diritto, perché il titolare è la parte originaria e l'avente causa che resta da solo in giudizio ci sta in nome proprio, ma in relazione ad un diritto altrui anche se alla fine sarà un soggetto che sarà beneficiato dalla decisione.

I sostenitori della teoria dell'irrilevanza ipotizzano una diversità temporale e per rendere tutto coerente dicono che l'avente causa sia una parte accessoria e il dante causa venga estromesso quale titolare effettivo e ancora unico agli occhi del giudice ed estromesso a seguito di una vicenda processuale. Costruzione un po' artificiosa, che inoltre postula che il vincolo nei confronti dell'avente causa sia indiretto/efficacia riflessa (sono ipotesi che più si tengono contenute meglio è).


Ricollegandoci al 2909 (la sentenza fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa), l'efficacia della sentenza verso gli aventi causa è condizionata all'avvenire del giudicato. Essi sono aventi causa dopo che si è fatto il processo.

Sono invece fuori dal processo gli aventi causa diventati tali prima del processo.

Il 111 parla degli aventi causa diventati tali durante la lite (di cui il 2909 non si occupa); infatti essi diventano soggetti all'esito del giudicato in virtù del 111 e sono soggetti ad efficacia diretta, secondo la teoria della rilevanza (che è quella preferita); sono soggetti ad efficacia riflessa secondo la teoria dell'irrilevanza che guarda il momento della proposizione della domanda.


Per la teoria della rilevanza, alcuni terzi sono soggetti comunque all'efficacia della sentenza: quelli aventi causa allorché l'evento successorio non sia stato dedotto in giudizio. Qui a tutela della controparte l'avente causa sarà comunque soggetto all'efficacia del giudicato, ma questa volta non direttamente, perché non è parte neanche in senso virtuale, ma solo a causa dell'esistenza di un rapporto di dipendenza.

Tra l'altro la pervenienza dell'evento morte causa l'applicazione del 111 solo quando giunga al giudice a seguito di intervento del legale della parte, non nel caso in cui ne venga a conoscenza es. attraverso i giornali.


La vincolatività della decisione anche per gli aventi causa è scolpita dal co. 4 del 111. Sembrerebbe una norma facile, ma così non è: la sentenza pronunciata contro questi ultimi (alienante o successore universale) spiega sempre (cioè anche se non è stato allegato l'evento successorio) i suoi effetti anche per i successori a titolo particolare (cioè gli aventi causa) ed è impugnabile anche da loro (la sentenza è impugnabile anche dall'avente causa, non quando è intervenuto coattivamente o volontariamente, dove potrebbe impugnarla in quanto parte del processo. Egli può intervenire anche solo impugnando la sentenza). Così come questo soggetto poteva inserirsi nel giudizio, così egli può anche dare il via all'appello.

Salve le norme sull'acquisto in buona fede dei beni mobili e sulla trascrizione. Due salvezze che hanno un ambito e potenzialità esplicativa diverse:

1) Beni mobili: si allude alla possibilità che con un titolo astrattamente idoneo, il tempo e la bf l'acquirente può acquistarla a titolo originario. Quindi l'esistenza del suo diritto non dipende più dall'esistenza del diritto del suo dante causa.

2) Norme sulla trascrizione: essa non è un meccanismo costitutivo nell'acquisto degli immobili, ma ha solo valenza dichiarativa. La salvezza di queste norme in realtà allude al fatto che quando la causa ha ad oggetto un bene immobile, il momento decisivo per stabilire se l'acquisto è stato fatto lite pendente o anteriormente al processo non è il momento della domanda, ma il momento della trascrizione della domanda nei registri giudiziari. L'acquisto deve essere trascritto dopo la trascrizione della domanda giudiziale, affinché l'acquisto avvenga durante il processo.

Serve un'ulteriore precisazione: la trascrizione è disciplinata agli artt. 2652 e 2653, ma la trascrizione che viene in rilievo nel 111, quella che si sposa con esso è quella del 2653 n. 1, dove si prevede la trascrizione delle domande dirette ad accertare la proprietà di immobili e mobili registrati (quindi rivendica, accertamento di un qualche cosa di statico che preesiste al processo). Le domande del 2652 hanno ad oggetto soluzioni dinamiche: preliminare, annullamento del contratto e sua nullità, petitio ereditatis, riduzione e integrazione per riduzione di legittima; sono tendenzialmente domande costitutive anche quelle di accertamento (preliminare proprio e nullità), che comportano pur sempre una certa efficacia modificativa della realtà della sentenza.

Riguardo alle domande del 2652, in realtà il 111 non si applica integralmente, perché queste domande è vero che finiscono, se accettate, con il determinare l'acquisto di una situazione proprietaria, ma lo fanno a valle di una decisione su di un rapporto contrattuale e quindi l'oggetto primario del contendere è l'adempimento, l'annullamento, qualcosa in cui non si ha successione del diritto controverso, perché il dante causa può anche alienare il bene ma l'avente causa subentra nella proprietà, non nel contratto! Quindi egli non può sostituire il dante.

Viceversa, se io chiedo l'accertamento della proprietà e alieno, l'avente causa mi subentra in toto.

Se chiedo l'annullamento del contratto e in prospettiva di vittoria lo vendo, l'oggetto del contendere non è la proprietà ma il dolo, l'errore, la violenza, in cui l'avente causa non ha niente da dire.

Inoltre - e qui c'è la seconda differenza - il 2653 si collega al 111 e ci dice che rispetto alle domande che hanno ad oggetto beni immobili il momento di inizio del processo va fatto coincidere con il momento di trascrizione della domanda giudiziale. Quindi solo se uno trascrive il passaggio di proprietà, dopo saremo nel 111, se ha trascritto prima non è avente causa ai fini del 111, ma non vuol dire che il suo acquisto è valido e opponibile a colui che vincerà nel processo. Chi trascrive il trasferimento, prima non è avente causa ex 111 e non è vincolato dal giudicato, ma se il trasferente era non dominus, non ha trasferito la proprietà, ma si dovrà fare in questo caso un secondo processo, perché l'acquirente non è toccato dal processo.

Nel 2652 invece la trascrizione dell'atto di acquisto anteriore alla domanda ha la capacità di salvare il diritto acquistato. Qui può avere una valenza costitutiva, perché non stiamo parlando di acquisti a non domino. Il 1458, co. 2, dice che la risoluzione non è opponibile ai terzi. Se il terzo ha trascritto prima, questo ha una valenza quasi costitutiva. Lo stesso accade con il preliminare, se il terzo trascrive prima comunque l'acquisto del terzo mi spiazza. In questi casi quindi la trascrizione ha efficacia costitutiva, perché salva i diritti acquistati dal terzo di bf.



Martedì 1 aprile 2008


La norma del 2652 si connette integralmente al 111, perché proprio come questo si limita a disciplinare l'assetto. Ciò comporta che quando il terzo acquirente trascrive la domanda dell'acquisto successivamente alla domanda giudiziale, allora non sarà vincolato (o si?) e ciò comporta che riguardo alla situazione proprietaria l'attore vittorioso dovrà fare un altro processo.

L'attore che è arrivato tardi nella trascrizione della domanda giudiziaria dovrà sobbarcarsi i costi di un altro giudizio.


Diverso è nel 2652, non è ipotizzabile una successione del diritto controverso; l'acquirente non subentra nella posizione contrattuale in modo da difendere la posizione di compratore inadempiente; è sì interessato all'esito del giudizio, ma l'unico legittimato a difendersi è il dante causa.

Inoltre l'anteriorità di trascrizione dell'acquisto, fermo restando che la posteriorità della trascrizione dell'acquisto comporta opponibilità del giudizio (come per il 2653), non solo esenta dalla soggezione al giudicato come del 2653 n. 1 e nel 111, ma può avere valenza costitutiva e costituire titolo di prevalenza nel conflitto con l'attore vittorioso. Avendo trascritto anteriormente, può precludere qualunque tutela dell'attore vittorioso. La risoluzione del contratto non è mai opponibile ai terzi, non vale la regola risoluti iure dantis et ius accipientis, a meno che la domanda venga trascritta prima, allora si conquista l'applicabilità del 1458, la disciplina sostanziale dice che la vittoria è ininfluente a chi ha trascritto l'atto d'acquisto prima della trascrizione della domanda giudiziale.

Nel n. 2 e 3 (preliminare proprio e improprio) il terzo acquirente che ha trascritto prima la domanda è invece quello ordinario: il promittente venditore fa un preliminare e lo trascrive, dopodiché vende a X e X trascrive l'acquisto; il problema si risolve in base al principio di priorità, per cui vince chi ha trascritto prima.


La cosa diventa più complessa nelle domande di revocatoria, simulazione, annullamento del contratto. Qui - fermo restando che se viene trascritta prima la domanda l'acquirente è soggetto a giudicato - se invece l'acquirente trascrive prima, l'anteriorità gli permette di prevalere nel conflitto con l'attore in simulazione, revocatoria, annullamento, ecc. È un elemento che a seconda dei casi dovrà essere integrato da bf, titolo oneroso o decorso di un determinato periodo di tempo (sia per la nullità, sia per la riduzione: 10 anni dalla morte). Per cui acquistare beni donati è un gran rischio, perché possono essere oggetti di riduzione per molto tempo.


Abbandoniamo il processo con pluralità di parti per connessione dipendenza.


CONNESSIONE PER INCOMPATIBILITÀ

INTERVENTO VOLONTARIO PRINCIPALE ex art. 105 co. 1. Di questo art. abbiamo già visto l'intervento adesivo del co. 2.

Al co. 1 ci sono:

a) Intervento principale: corrisponde alla prima parte del primo comma: ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nell'oggetto medesimo. Quindi diritto fatto valere nei confronti di tutte le parti non solo di alcune di esse. Si afferma così di essere titolari di un diritto autonomo rispetto a quello delle parti. C.d. intervento fatto per mettere in discussione il diritto di entrambi i litiganti originari per affermare l'esistenza di un diritto autonomo e incompatibile con entrambi.

Es.: controversia sulla spettanza di un diritto di proprietà: il giudice assegna la proprietà all'attore che ha soddisfatto la prova diabolica o al convenuto. È bilaterale, ma non è accertamento di un diritto erga omnes; tra A e B, arriva C e tutti e 3 dicono di essere proprietari. C'è una connessione per l'oggetto e c'è una deduzione in giudizio di una posizione soggettiva sostanziale per cui in relazione a quel bene solo uno dei soggetti potrà risultare vincitore per cui ciascuna delle 3 situazioni è incompatibile con le altre.

Qual è lo scopo di C visto che il processo tra A e B non lo vincolerebbe? - Conseguire vantaggi essenzialmente fattuali, cioè impedire che si formi un titolo esecutivo che dà all'attore la possibilità di mettere in esecuzione la sentenza e quindi utilizzare eventualmente la forza pubblica, nonché essendo di bf in quanto assistito dalla forza pubblica che gli permette l'iniziare del decorrere dei termini per l'usucapione. L'attività materiale dell'attore vittorioso sull'immobile inoltre potrebbe dare fastidio a C che si ritiene proprietario. Quindi la finalità è di prevenire eventuali pregiudizi di fatto.

Comunque C potrà agire anche a valle della sentenza tra A e B con una successiva domanda di accertamento tra C e il vincitore. Questo è uno strumento di tutela facoltativo/opzionale.

Accanto a questo strumento la medesima figura sostanziale ha a disposizione anche uno strumento repressivo (non successivo) che è l'opposizione ordinaria di terzo ex 104 e questa non è uno strumento necessario di tutela, perché questo terzo (C) volendo potrebbe anche usare lo strumento di accertamento, oppure un'altra azione di rivendica in cui chieda di essere dichiarato proprietario a discapito del vincitore.

Come mai l'ordinamento dà tutela anche a chi cerca la tutela di una situazione fattuale? - Perché comunque l'ingresso nel giudizio tra A e B di C consente di realizzare evidenti possibilità di economia processuale. Se noi cumuliamo anche la posizione del terzo, avremo una decisione che risolve una volta per tutte qualsiasi conflitto sulla proprietà di quel bene e non avremo residui/strascichi.

Il problema che pone l'intervento principale, con il quale si fa valere un diritto (cosa che non si fa con un intervento adesivo, con il quale non deduciamo mai una nostra posizione soggettiva), è che sono iniziative processuali, con le quali si deduce un diritto e quindi si deduce una domanda: si pone il problema della necessità di rendere compatibile riguardo a intervento principale e litisconsortile il disposto del 268 del cpc (termine di rito: l'intervento può aver luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni: questo in primo grado) a prima vista sembra che non ci siano problemi. Ma il co. 2 dice: il terzo non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono concessi a nessun'altra parte, salvo i casi del 102 intervento del litisconsorte necessario pretermesso (invece di aspettare l'ordine del giudice interviene lui stesso). Quindi il terzo che oggi interviene dopo la prima udienza di trattazione non ha facoltà di dedurre in giudizio fatti nuovi non può fare nulla (inserire documenti) e quindi, se propone un nuovo giudizio, non può allegare fatti e documenti! E qui nasce il problema della compatibilità tra co. 1 del 268 e il co. 2 che limita le facoltà processuali dell'interveniente, non solo adesivo (per il quale forse avrebbe anche senso, in quanto egli non deduce un proprio diritto, ma assiste ad un processo inter alios. Tra l'altro, se lui sta fuori dal giudizio, ha tre gradi a sua disposizione, se invece la sentenza gli va male, ne è vincolato irrimediabilmente).

Si era venuti fuori da questo impasse dicendo che almeno nel caso dell'intervento litisconsortile si può aprire la possibilità di controdedurre fatti nuovi e documenti. Si scardina il sistema delle preclusioni, ma è una cosa necessaria per permettere la difesa di un diritto dedotto in giudizio. Si era detto se non accettiamo questa soluzione allora tanto vale dire che l'intervento principale e litisconsortile (ma forse anche quello adesivo di soggetti dipendenti) è inammissibile dopo la prima udienza di trattazione, se non entro il termine di risposta e questa è la soluzione adottata per il processo del lavoro, che segue motivi di economia processuali e caratterizzato più di tutti da rigide preclusioni.

Il 419 cpc dice che nel processo del lavoro, salvo il caso di litisconsorte necessario pretermesso (dove il processo deve iniziare da capo in primo grado), l'intervento del terzo non può avere luogo oltre il termine stabilito per la costituzione del convenuto. Invece nel rito ordinario oggi abbiamo preclusioni rigide e il 268 che non è con esso coerente: la cassazione ha detto che non si incide né nel co. 1, ne nel co. 2 e ha detto che il 268 vige a pieno anche nel processo a preclusioni rigide e per cui il terzo interviene sempre volontariamente può intervenire, ma sappia che lo fa con le mani legate se interviene dopo le preclusioni (quindi senza poter articolare istanze istruttorie). Questo equivale ad un'abrogazione fattuale di una concreta possibilità di intervento volontario dopo la prima udienza di trattazione.

Nel rito societario, il d.lgs. 5/2003 prevede con una formula analoga al 419 all'art. 14 che l'intervento di terzi non può avere luogo oltre il termine per la notifica al convenuto della comparsa di risposta che qui sono 60 giorni dalla notifica dell'attore). Non è previsto questo termine invece per l'intervento adesivo.

b) Intervento litisconsortile: per noi non rileva.


Abbiamo in definitiva che si concretizzi anche per la via del 106 (la chiamata in causa per comunanza semplice) che si verifichi la lite per pretendenti o anche per la via del 105 co. 1: cioè la possibilità che il convenuto o l'attore chiamino in causa un terzo per comunanza, tendenzialmente per il tramite di una proposizione di una domanda di accertamento, perché in entrambe le domande di rivendica si chiederà che venga accertato che lui è proprietario anche verso il terzo, idem qualora il convenuto debitore chiederà l'accertamento negativo del proprio debito.

Tramite il 106 prima parte si può arrivare anche ad un altro tipo di processo con pluralità di parti, attraverso la chiamata in causa del vero obbligato/responsabile: A chiama in causa il debitore B, ma B dice che lui non è debitore, ma lo è C (per una qualsiasi ragione). A questo punto il creditore ha interesse ad estendere la propria domanda di condanna, perché in questo modo ottiene due risultati:

1) Da quel giudizio salterà fuori un condannato (ammesso che esista il credito);

2) L'esito potrebbe essere doppiamente pernicioso per il creditore, perché nel momento in cui inizia la causa contro C, nel secondo giudizio la sentenza che rigetta la domanda non vincola C, che non è stato parte del primo processo, quindi C potrebbe dire che egli non va condannato perché il responsabile era un altro.

Farà una domanda di condanna che ha la particolarità di dare luogo ad un litisconsorzio alternativo passivo (voglio essere pagato!) e quindi pone anche C dalla parte dei convenuti, ma è un l. passivo alternativo, perché la domanda di A è ancipite. Lui dice che uno solo è il debitore, a lui interessa che venga condannato uno solo, almeno uno dei due e la sua domanda è posta in modo che qualora la domanda venga accolta verso B allora non può essere accolta verso C e contrario.

Qualora sia accolta una delle due domande, l'identica domanda nei confronti dell'altro non viene nemmeno rigettata, ma viene assorbita in rito.

Questa è una situazione di litisconsorzio alternativo passivo che può essere sin dall'origine oggetto del processo. Uno dei casi in cui si può invocare il 103 sul l. passivo originario può essere il l. passivo alternativo, perché questa situazione potrebbe essere sorta anche a monte del processo. Per definizione potrà essere condannato uno solo dei due.

Anche se la logica vuole che questa chiamata venga dall'attore, nella pratica essa avviene dalla parte del convenuto originario, perché così facendo spera di sviare immediatamente le attenzioni dell'attore. Ci si è chiesti, quando la chiamata provenga dal convenuto, che l'attore modifichi la propria domanda, se è necessario un adattamento soggettivo della propria domanda originaria che venga formalizzata dall'attore; abbiamo detto che la domanda è di condanna nei confronti di C se la chiamata è del convenuto non c'è un atto di chiamata dell'attore, al quale può essere sottesa una modifica del petitum e allora ci vuole perché il giudizio termini con una statuizione suscettibile di essere applicata con una estensione della pretesa soggettiva. In assenza di questa formalizzazione non potremo avere la condanna di C e forse, secondo la tesi del manuale, non avremo neppure il vincolo di giudicato verso C, perché se A non estende la propria domanda di condanna in via alternativa verso C, C è in giudizio per un rapporto che non è in capo a lui neppure come rapporto pregiudiziale e per vincolarlo al giudizio bisogna farlo nel senso di accertamento che B non è debitore, ma l'accertamento non è contemplato rispetto alla posizione di un terzo. Quindi si potrebbe anche discutere che in un giudizio successivo di A (che non aveva esteso la domanda), se la prima sentenza sia tale da vincolare anche C sulla non esistenza del non debito di B. Bisogna quindi modificare la domanda, così usciremo da quella sentenza col titolo esecutivo senza dover fare un secondo giudizio, sia perché in questo giudizio probabilmente non avrà il vincolo del primo giudizio, perché il contenuto dell'accertamento della prima sentenza potrebbe essere in discussione.



Mercoledì 2 aprile 2008


Chiamata per ordine del giudice ex 107 proprio in lite tra pretendenti.

Norma un po' strana, perché abbiamo un qualche cosa che assomiglia all'ordine di integrazione del contraddittorio ex 102, ma la somiglianza è più formale che reale. Una cosa è se lo strumento è doveroso per il giudice, altra cosa saranno le ipotesi del 107, che prevede che il giudice reputi opportuna la chiamata del terzo, che non è ineludibile, ma frutto di una valutazione di opportunità da parte del giudice.

L'anomalia di questa norma risulta chiara, infatti non ha tendenzialmente riscontri negli altri ordinamenti comunitari, perché il giudice si sovrappone alle scelte delle parti e non, come accade nel 102, per la finalità voluta dall'ordinamento di fare sì che il processo arrivi ad una sentenza che non sia inutiliter data, quel giudice si ingerisce non per perseguire finalità globali, ma per sue proprie valutazioni. Certo questo con un limite, perché può chiamare solo un terzo che ha una comunanza di causa, non chiunque.

In questo senso vediamo fin da subito che l'istituto si pone intrinsecamente in contrasto con la piena valorizzazione del principio dispositivo, in cui soggetto e oggetto del processo sono rimessi solo alla valutazione delle parti (escluso certo il 102).


Ulteriore distinzione tra 102 e 107 consiste nelle conseguenze: l'ordine di integrazione del contraddittorio si affianca ad un termine perentorio, per obbedire di regola con la fissazione dell'udienza successiva, perché è rivolto alle parti che devono assolvere questo ordine del giudice.

Analogamente accade nel 107, ma con conseguenze diverse, nel 102 c'è un termine perentorio oltre cui il giudizio va incontro all'estinzione immediata; invece la mancata ottemperanza al 107 è sanzionata in maniera più tenue ex co. 1, art. 307: se nessuna delle parti provvede alla chiamata del terzo, il giudice provvede alla cancellazione della causa dal ruolo il processo non si estingue immediatamente, ma passa per una prima fase di cancellazione della causa dal ruolo, che consente alle parti di riattivare il processo con un atto di riassunzione entro il termine di un anno. Solo in caso di ulteriore inattività, si avrà l'estinzione del processo. Combinando questo con il 270(?) si vede che le parti hanno un anno per riassumere il giudizio, ma non tra di loro, altrimenti ci sarebbe una rinnovata inottemperanza dell'ordine del giudice e qui siamo nel co. 2 del 107, per cui quando c'è una seconda cancellazione della causa dal ruolo, il processo si estingue immediatamente.

Tornando al 102, dobbiamo tenere presente che la mancata integrazione del contraddittorio porta ad estinzione del processo. Però qui si pone un problema: l'estinzione opera di diritto, ma va eccepita dalla parte prima di ogni altra sua difesa. Quindi l'estinzione è immediata, senza possibilità di recupero della causa dal ruolo ma va eccepita subito. Questo cosa significa? Che se il giudice si accorge che manca qualcuno, ordina l'integrazione necessaria, le parti non obbediscono, estinzione immediata, ma all'udienza successiva le parti compaiono e nessuno eccepisce l'estinzione; in teoria il processo dovrebbe proseguire, ma non è ammissibile che questo avvenga senza litisconsorte pretermesso, perché si finirebbe con una sentenza inutiliter data e allora bisogna trovare un modo per impedire che l'inerzia delle parti nel formulare l'eccezione consenta alle parti di finire con sentenza inutiliter data. O si accetta la soluzione per cui è vero che l'estinzione va eccepita dalle parti, ma si deve ammettere che in caso di interessi pubblici preminenti sia ammissibile anche la dichiarazione d'ufficio del giudice dell'estinzione del giudizio in deroga all'ultimo co. del 107; oppure si salva l'ultimo co. e si dice che in queste situazione il processo non verrà estinto, ma verrà rigettato in rito per inammissibilità della domanda motivata dal difetto della condizione della pienezza della legittimazione ad agire e contraddire (causa di mancanza di decidibilità della causa nel merito), quindi comunque non si finirà con una sentenza. Un'altra impostazione arriva al medesimo risultato facendo leva non sulla legittimazione ad agire, ma sull'interesse ad agire, dicendo che in mancanza di litisconsorti necessari il giudizio non è in grado di pervenire ad una sentenza in qualsiasi modo efficace e le parti sono prive di interesse a proseguire il processo, perché comunque terminerebbe con una sentenza inutiliter data.

Il problema è più piccolo di quello che può sembrare, perché quando il giudice dice di integrare, la prima cosa che l'attore fa è eccepire (soprattutto in giudizi di impugnazione o altro, in cui la declaratoria di estinzione può portare al consolidamento di una situazione già maturata o a un ricalcolo dei termini di prescrizione come nelle cause per risarcimento danni causati da veicolo; l'eccezione pone in riparo dal rischio di essere richiamati in giudizio).



Se le parti non ottemperano, si arriva all'udienza; se nessuno eccepisce l'eccezione, il giudice estingue il processo, altrimenti si avrà rigetto in rito. Altra possibilità: che si cada nell'inerzia, ma che si adempia fuori dai termini indicati dai giudici: nell'udienza il controinteressato dice che la parte si è presentata troppo tardi e eccepisce l'estinzione del giudizio e il giudice lo dichiarerà estinto. Però se verso l'integrazione tardiva del contraddittorio nessuno si lamenta, allora il contraddittorio è integralmente formato e la sentenza è valida.

Art. 270: abbiamo ordine del giudice, inottemperanza e in teoria estinzione, che però anche qui va eccepita e se le parti non eccepiscono allora il giudizio prosegue. Ma allora il giudice farà un nuovo ordine e le parti di nuovo dovranno scegliere se seguire l'ordine del giudice (se non lo fanno, rischiano che il processo si estingua).

Torniamo al 107; la norma entra in conflitto con il principio dispositivo e quindi per definizione siccome va a intersecarsi con un principio fondamentale del processo civile va incontro necessariamente ad un'interpretazione restrittiva, che limiti questo potere eccezionale del giudice, tra l'altro (se ripigliamo il 270 co. 1) con modalità non sottoposte a preclusioni (in ogni momento). E a questo punto, siccome il terzo è chiamato e non interveniente volontario, avrà a sua disposizione tutte le facoltà difensive (tutti i poteri di deduzione e allegazioni istruttorie e scardinando le preclusioni maturate dalle parti originarie).

La chiamata può essere ordinata in ogni momento, ma in ogni momento del giudizio di primo grado (anche se la legge non specifica questo), a valle di determinazione (l'opportunità) che sono assolutamente discrezionali e in questo senso doppiamente limitate al primo grado, poiché in quanto assolutamente discrezionali si ritengono sottratte a qualsivoglia sindacato da parte dei giudici di secondo grado. Il litisconsorte chiamato rimane parte necessaria anche nei giudizi superiori (gli verrà notificato l'atto di chiamata, poi starà a lui decidere se essere contumace o no).


Torniamo all'altro requisito per l'attivazione del 107: comunanza di causa. È un requisito non molto preciso, perché questo è un termine generico per dire connessione. Anche nel 106 troviamo questa nozione di comunanza di causa, ma sia nel 106 che nel 107 è una comunanza che appare vicina ad una generica nozione di connessione, certo qualificata, ma che consentirebbe l'instaurazione di un processo litisconsortile. Quindi questo requisito di per sé non è particolarmente filtrante. Dobbiamo capire in che direzione restringere la comunanza di causa per non limitare troppo la possibilità offerta dal 107. Come?

Dobbiamo tenere presente che un orientamento di fondo essenziale è quello per cui tendenzialmente il potere del giudice di chiamare un terzo non può ammettersi, allorché vi sia la proposizione di una domanda vera e propria, perché in queste situazioni il giudice non può ordinare alla parte di proporre una domanda e quindi non potremmo avere un intervento del giudice che ordini ad una parte di chiamare in garanzia un terzo, perché questa va fatta dal convenuto o dall'attore, ma non può essere il giudice che mi dica di esercitare la garanzia per evizione o il diritto di regresso! Sarebbe contro al principio dispositivo delle parti. Così come il giudice non potrà ordinare ad un creditore che ha invocato in giudizio solo un condebitore solidale di chiamare anche gli altri! È una scelta monopolistica esclusiva del creditore, tanto più in caso di condebito parziario (contrapposta al l. facoltativo unitario).

Quindi potremo avere questa chiamata iussu iudicis:

1. Quando un terzo dipendente che viene chiamato dal giudice a mero fine di estensione della domanda di accertamento verso quei terzi nei cui confronti si può fare la chiamata in causa semplice (in cui si estende l'efficacia dell'accertamento).

2. Quando c'è onnessione per alternatività o incompatibilità: quindi 106 prima parte non solo come contenuto di accertamento ma qualche volta anche con condanna. Abbiamo la posizione in giudizio della posizione soggettiva del terzo e qui la sentenza pronuncia in modo trilatero e non più in modo elementare bilatero con un allargamento soggettivo del giudicato che è allargamento anche oggettivo quando si parla di proprietà.


Tornando alla chiamata del terzo vero obbligato, che viene dal convenuto originario anche qui si avrà un problema di estensione della domanda. La domanda potrebbe essere eseguita dal creditore, ma potrebbe essere eseguita anche dal convenuto.


Vanno qui esaminate le due ipotesi di ESTROMISSIONE.

Art. 108: del garantito: sono le ipotesi di connessione per pregiudizialità dipendenza, qui si ammette che il soggetto garantito possa essere estromesso qualora le altre parti non si oppongono. Chi è il soggetto garantito? Sembra alludere all'ipotesi di chiamata in garanzia, dove però non è possibile l'estromissione, il soggetto garantito è in prima battuta il soggetto che ha chiamato in causa il garante, ma lo ha fatto con una chiamata per mera comunanza semplice, quindi con domanda di accertamento volta all'estensione dell'efficacia del giudicato.

Qui si ha una chiamata di un garante che compare in giudizio (non resta contumace) e accetta di assumere la causa al posto del garantito. Perché solo in caso di comunanza semplice? Prendiamo il caso della garanzia reale: abbiamo il terzo molestante che evoca in giudizio il terzo compratore o con una chiamata immediata in garanzia o con una chiamata in causa con comunanza semplice.

Il garante (venditore) compare in giudizio e accetta di assumere la causa in nome del garante (per realizzare il 108 e poter estromettere il garantito). Questo creerebbe una situazione non accettabile in cui il garante difende il garantito di fronte al terzo molestante, perché questo dice che il garantito ha acquistato a non domino.

Se invece è una chiamata in causa per comunanza semplice, il creditore chiama il debitore per estendergli il giudizio di accertamento di modo che sia vincolante anche per il venditore. In queste situazioni l'unico rapporto sostanziale dedotto in giudizio è tra terzo proprietario e compratore chiamante e rispetto a questo rapporto si può ben ammettere che il venditore partecipi attivamente al giudizio e accetti di assumere la difesa di compratore (che consta nel dire se lui era dominus o no) ed è quindi ammissibile, se le altre parti non si oppongono, che il garantito (cioè il compratore) sia estromesso. Quindi è l'estromissione di colui che potrebbe attivare una futura garanzia per evizione in un futuro. Questo garantito resta comunque vincolato dal giudicato.

Qui torna ad affacciarsi la figura della sostituzione processuale, perché il garante quando il garantito viene estromesso diventa sostituto processuale, sta nel processo non in nome proprio, ma per conto di un altro soggetto e per definizione la sostituzione processuale non determina litisconsorzio necessario.


L'utilizzabilità del 108, che abbiamo limitato alla garanzia reale, in realtà va confinata a queste ipotesi; non sono possibili per la garanzia personale che pur ammettono la comunanza semplice. C'è A che agisce in giudizio contro B, che chiama un condebitore solidale. Qui non è concepibile una chiamata in causa per comunanza con il chiamato che accetta di assumere la causa in luogo del chiamante/garantito perché:

Non ha senso che A faccia la causa a B e B se ne vada e lasci la causa tra A e C; A aveva scelto B perché probabilmente era lui che aveva i soldi;

Nel condebito solidale nel caso di fidejussione, ma in generale anche nel condebito solidale paritario le situazioni sostanziali sono sempre distinte, c'è una parte comune che giustifica il vincolo solidale, ma ciascuno dei condebitori ha un rapporto personale col creditore in relazione alla quale non è possibile una sostituzione da parte del garante.

a.   Nel caso delle assicurazioni rc neanche qui si potrebbe mai chiamare il danneggiante perché l'assicurazione non è mai in rapporto diretto con il danneggiante, anche se talora la giurisprudenza ha ammesso l'estromissione del responsabile civile, ma perché la disciplina della rc al 1017 prevede che l'assicurato possa chiedere all'assicurazione di versare direttamente i soldi al danneggiato e se questa accetta essa diventa direttamente debitrice del danneggiato. Così possono rimanere in giudizio danneggiato e assicurazione.

b.           Può valere anche in caso di una vera e propria chiamata in garanzia (la chiamata dell'assicurazione non è quasi mai per garanzia ma è per comunanza per il formarsi di un rapporto diretto tra assicurazione e danneggiato), quindi in caso di deduzione in giudizio di una domanda di condanna da parte dell'obbligato.


Art. 109: estromissione dell'obbligato: in particolare in caso di lite tra pretendenti, che in genere si palleggiano la titolarità di un debito. Quando l'obbligato non contesta la propria posizione debitoria, ma vi siano più contendenti della posizione attiva; per cui egli ha la possibilità di essere dichiarato estromesso. Il presupposto è il deposito della cosa o della somma dovuta. A questo punto la lite deve continuare tra i condebitori.

L'estromissione avviene con un provvedimento che, affinché egli non possa un domani contestare la sua posizione debitoria, sarà una sentenza.



Lunedì 7 aprile 2008


DOTTORESSA GIOJA: IL LITISCONSORZIO FACOLTATIVO

Ci può essere una causa in cui ci sono più soggetti. Nel litisconsorzio facoltativo, a differenza che in quello necessario, le cause sono più di una.

Può succedere che in uno stesso concetto vengano proposte più domande contro più soggetti (litisconsorzio passivo), nel qual caso avremo più convenuti: caso classico è un creditore che agisce contro più condebitori, altro caso è l'impugnativa della delibera assembleare (quando un socio decide di impugnare la delibera, può farlo contro la società ma anche contro altri soci, viceversa più soci possono impugnare la stessa delibera; vedremo che questo è un caso particolare di litisconsorzio); può poi succedere che più soggetti propongano la causa contro un unico convenuto, in tal caso ci sarà un cumulo attivo. Può poi succedere che ci siano più parti attive e più parti passive allo stesso tempo.

La particolarità del l.f. sta nel fatto che i soggetti potrebbero agire o essere convenuti in un'unica soluzione. E questo cumulo può essere originario o sopravvenuto (chiamata in causa del terzo o del giudice).

I casi più frequenti e interessanti riguardano le obbligazioni complesse plurisoggettive, e più frequentemente quando ci sono più debitori. Sul piano processuale nel caso in cui ci sia un'obbligazione pro quota, in caso di mancato adempimento, il creditore può scegliere liberamente se citare tutti in giudizio con un unico atto di citazione o se proporre più atti di citazione, perché le obbligazioni sono separate; il cumulo è qui consentito dalla legge, perché il titolo è uno e quindi è meglio avere un'unica causa, che rischiare di avere motivazioni diverse. Però è importante notare che l'accertamento riguarda comunque ogni singola situazione, quindi non potrebbero esserci sentenze in contrasto, nemmeno se si tenessero le cause divise. La causa petendi è diversa, coincide solo in parte.

Le obbligazioni solidali sono più interessanti, perché alcuni comportamenti di un condebitore possono incidere anche sulle situazioni degli altri e così avviene anche per i comportamenti del creditore. Anche le obbligazioni solidali in realtà danno luogo a cause distinte, anche qui la causa petendi non coincide in tutto, perché ognuno ha il proprio vincolo (a differenza che nel l.n.). L'eccezione di prescrizione è ad es. valida solo a chi la propone, non si estende agli altri e questo non potrebbe assolutamente essere possibile nel l.n., invece nelle obbligazioni solidali vale questo principio.

In linea di principio si riverberano solo gli effetti negativi per l'interruzione della prescrizione però no: se manda una lettera interruttiva della prescrizione a uno questa si interrompe nei confronti di tutti; non è così nel caso della rinuncia, se rinuncia al credito nei confronti di uno, la rinuncia non vale per gli altri.

Quindi alla fine del processo potremmo avere sentenze diverse: se solo uno eccepisce la prescrizione, solo lui vincerà; se il creditore ha rinunciato o ha effettuato una transazione, solo per uno questo vincerà, gli altri no.

La condanna solidale va fino in fondo, il giudice condanna solidalmente tutti e il creditore, se i debitori non adempiono, può aggredire il patrimonio di uno solo di essi (verosimilmente il più ricco). Quindi questa è una norma a favore del creditore, anche sul piano processuale, permettendogli di scegliersi la controparte, senza dover far causa a tutti.


Guardiamo il punto di vista della prova: il giuramento nel l.n. è valido solo per chi lo effettua normalmente, quando il l. è n., esso è liberamente apprezzabile dal giudice, a meno che non sia prestato da tutti. Qui il giuramento nei confronti degli altri non vale neanche come prova libera, non se ne tiene proprio conto, perché le cause sono separate! E idem per la confessione.

Ammettiamo che una causa sia litisconsortile fin dall'inizio. Ci possono essere motivi che rendono opportuna la separazione delle cause: un creditore cita tutti in condebitori e uno si costituisce ed eccepisce la prescrizione e il giudice deve accertare se questa esiste davvero; tutti gli altri rapporti invece sono chiarissimi. In questo caso il legislatore dice al giudice che è inutile che il giudice blocchi tutto solo per uno, separa le cause decidibili e porta avanti le altre. A questo punto le cause vengono scisse.

Ci sono però delle cause che quando sono iniziate insieme non possono più essere scisse e questo è il caso dell'impugnazione delle delibere assembleari (anche di condominio). Es: se un socio impugna, deve farlo nei confronti di tutti? No, non è un l.n., quindi può succedere che uno solo impugni contro la società e la causa inizi e muoia così e la delibera viene annullata. Però la delibera annullata ha effetto verso tutti i soci.

Se la causa è iniziata da più soci, non si può ad un certo punto scindere le cause, perché o si annulla o non si annulla! Se più soggetti la annullano con cause separate davanti a giudici diversi addirittura le cause devono essere riunite! E questo è un terzum genus perché nasce come l.f. e muore come l.n., in appello inoltre è trattato come un l.n.


Possono essere sicuramente scisse le cause che riguardano le obbligazioni pro quota (lo abbiamo visto prima).

Vediamo i tipi di connessione:

1) Quella che riguarda semplicemente le condizioni giuridiche: es. le condizioni di un contratto; qui c'è una connessione che non è forte e viene chiamata connessione impropria, essa riguarda la soluzione di identiche questioni: pensiamo a più lavoratori, ognuno con un contratto di lavoro, che è sì singolo, ma in un'azienda è standard. Può succedere che più lavoratori contestino l'interpretazione di una stessa clausola contrattuale. L'unica cosa in comune è che c'è la stessa clausola contrattuale impugnata. Qui i lavoratori possono proporre una causa congiuntamente. Il giudice può scindere queste cause e fare più sentenze, perché esse sono originariamente separate.

2) Per il titolo o per l'oggetto: connessione propria. Ex art. 33 le cause contro più persone che dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi se connesse per oggetto o titolo possono essere decise nello stesso processo.

Anche ex 105 cpc: intervento in giudizio, in particolare quello litisconsortile o adesivo autonomo: ciascuno può intervenire per far valere un diritto relativo ad oggetto e titolo: questo vuol dire che si può intervenire solo quando c'è questo tipo di connessione. Può intervenire chi ha una causa connessa rispetto al titolo o all'oggetto, non chiunque. Viceversa la causa può essere iniziata da più persone anche in caso di identità di questioni da risolvere come al punto primo.

Non si può citare uno per divorzio e per risarcimento del danno. Deve esserci comunque connessione tra le cause e questa connessione deve essere forte per travalicare le regole di competenza. Si può intervenire come litisconsorte adesivo autonomo ex 105, seconda parte, solo in presenza di connessione forte. Se le cause sono nate insieme o si sono cumulate, normalmente vanno insieme fino alla fine e arriveranno ad una sentenza che però non è normale, come se fossero più sentenze, perché decide su più cause diverse.


Le norme per il cumulo di cause sono al 331 e 332. Il 331 dice integrazione del contraddittorio in cause inscindibili, il 332 notificazione dell'impugnazione relativa a cause scindibili. Quindi in appello non troviamo più la differenza tra necessario e facoltativo ma cambia in scindibili e non.

Ma quali sono le cause inscindibili? È scindibile un l.n.? No.

Un l. unitario? No, le cause una volta unite devono rimanere tali.

Nelle cause di garanzia con più soggetti in appello si possono scindere le cause? Qui dipende a seconda di ciò che è successo in primo grado. In caso di garanzia propria, se si impugna la condanna propria è inscindibile, se invece si impugna il rapporto di garanzia.

Qui se si impugna il rapporto sostanziale, il rapporto di garanzia è dipendente dalla domanda principale. Il nostro ordinamento dice che se la causa è inscindibile, per evitare che una causa passi in giudicato e l'altra vada oltre, bisogna integrare il contraddittorio, altrimenti la causa passa in giudicato.

In primo grado se non c'è integrazione si può eccepire l'inesistenza della sentenza, il 332 invece per le cause inscindibili dice che, se la sentenza nel caso di cause scindibile è stata notificata solo a qualcuno, il giudice la notifica alle altre; se questo non avviene, il giudizio rimane sospeso fino ai termini di legge.

Questa disciplina è finalizzata ad avere un solo giudicato o no? Se si impugna una sentenza proveniente da cause scindibili il giudizio deve essere uno; però se gli altri non vengono chiamati, il giudice continua la causa, fa scadere i termini del passaggio in giudicato nei confronti degli altri (1a e 45 giorni il termine lungo, ..) e poi procede con la causa.

Quindi nell'esempio della causa di garanzia se si impugna solo sulla causa di garanzia al nostro ordinamento non importa che la causa sul rapporto principale passi in giudicato, si sentenzia solo sul fatto che la garanzia fosse o meno dovuto.

Dopo che la sentenza è passato in giudicato, questa è una causa scindibile, non c'è problema di contrasto tra sentenze e allora il giudice può continuare il suo percorso una volta scaduti i termini. Idem nelle obbligazioni solidali, verso un condebitori passa in giudicato, verso gli altri va avanti. Non c'è coincidenza tra il 331 e il l.n.; il 331 è molto più ampio e la necessità di avere una causa unica in appello è molto maggiore che in primo grado perché riguarda anche alcune connessioni che si sono create ad es. in un momento successivo. Se la causa è inscindibile il legislatore vuole solo una causa in appello.



Martedì 8 aprile 2008


CONFERENZA COL PROF. LIVIERI (Università Federico II di Napoli) sulla TUTELA CAUTELARE.

Il punto di partenza è quello essenziale dell'effettività della tutela giurisdizionale. È un punto estremamente sentito in tutti i tempi, sul quale oggi è centrata l'attenzione del legislatore e degli studiosi.

L'effettività della tutela giurisdizionale significa che la tutela giurisdizionale è l'affermazione di una s.g; l'ordinamento deve fare in modo da non negare al soggetto ciò che la legge sostanziale gli riconosce. Il punto dell'effettività della tutela sta in "a ciascuno deve essere dato ciò che la legge sostanziale vuole che gli sia dato", come diceva Chiovenda.

La tutela costituisce l'esito di un procedimento, di una sequenza di atti; è fisiologico il dato con il quale si confrontano tutti i legislatori del distacco temporale tra il momento in cui un soggetto ritiene di essere leso e il momento in cui l'ordinamento si pronuncia e stabilisce se quest'utilità gli spetta o no; distacco tra domanda e decisione finale, per non parlare del momento di esecuzione. Questo, entro una certa misura, è fisiologico e tutti gli ordinamenti hanno da sempre predisposto strumenti concessivi di una certa tutela immediata, salvo poi l'accertamento dell'esistenza della situazione giuridica in un secondo momento. Gli interdetti del pretore nascevano proprio dall'esigenza di concedere tutela veloce ad un soggetto.

In funzione di questa esigenza, negli ordinamenti è venuto ad elaborarsi il concetto di "tutela cautelare", che non ha uno scopo diverso dalla tutela di cognizione ed esecutiva, fa sempre parte della tutela giurisdizionale; ha in particolare lo scopo di garantire l'effettività delle altre due, alle quali è strumentale.


L'ordinamento ha considerato in quali ipotesi e perché era necessario che vi fosse un giudice che si pronunciasse sulla domanda in modo immediato nell'attesa poi di stabilire in maniera incontrovertibile quale fosse il diritto spettante al soggetto.

Il nostro ordinamento, partendo dalla codificazione del '42, è nato ponendo come momento centrale della tutela giurisdizionale il giudicato: la tutela è tale perché l'accertamento determina una situazione, tutto ciò che viene prima ha funzione propedeutica e preparatoria, ma non è lo scopo. Lo sforzo che l'ordinamento deve fare è quello di realizzare il giudicato e deve fare in modo che il giudice sia in grado di stabilire in maniera incontrovertibile l'esigenza del d.s. A ciò si arriva per uno schema: giudizio di primo grado, appello, kass.

È quindi necessario affrontare il distacco temporale di cui parlavamo. È importante vedere come il percorso cambia in base a due variabili:

Quando le parti non possono più dare prova, cercare di convincere il giudice;

Dall'altra parte il riconoscimento di certe situazioni giuridiche che noi abbiamo chiamato nuovi diritti, che non ammetto il ritardo nella soddisfazione (diritto alla salute, .) e che sono venuti in rilievo a partire dagli anni '70 del secolo scorso, il momento in cui si è data attuazione all'art. 3 co. 2 cost.

Questo quadro ha fatto sì che si cercasse di far ottenere la tutela prima e in tempi accettabili rispetto alla formazione del giudicato. Perché? Da un lato possiamo avere l'ipotesi in cui un dato diritto può essere tutelato solo in tempi brevi, altrimenti viene leso (es. diritto di natura personalissima come il diritto al nome, il diritto d'autore nella parte non patrimoniale e cioè che io abbia bisogno di un provvedimento che vieta ad un terzo di contraffare il mio nome o spenderlo). Se non si intervenisse immediatamente, la tutela giurisdizionale sarebbe priva di effetti. È nozione comune che un film o altro è in attesa della decisione del giudice, perché avendo ad oggetto fatti reali, le persone coinvolte pensano di essere lese nei propri diritti.

Dall'altro lato si ha la situazione di fatto: il diritto in sé potrebbe essere riconosciuto anche con ritardo e ciò non renderebbe inutile la tutela (es. diritto di credito); però intanto l'affermazione del diritto di un soggetto diventa effettiva e cioè consente al soggetto di ricevere realmente il credito se ed in quanto vi sia la possibilità di costringere il debitore all'adempimento. L'ordinamento in realtà si preoccupa di soddisfare il diritto del creditore prescindendo dal consenso del soggetto obbligato una volta che questi è riconosciuto debitore. Questo accade attraverso la tutela esecutiva. L'art. 2140 dice che il debitore risponde con tutti i propri beni presenti e futuri. La situazione è giuridica, ma è una situazione di fatto. Anche qui la durata del processo che sembra neutrale nel concreto può pregiudicare l'efficacia della tutela, perché il debitore potrebbe far scomparire in maniera reale o fittizia i beni dal suo patrimonio. Quindi lo scopo dell'ordinamento può essere quello di lasciare inalterato uno stato di fatto in vista della sua esecuzione e questa è la ratio del sequestro conservativo.

Ancora può accadere che nella controversia su un bene sia opportuno assicurarne la custodia. Nel momento in cui si discute su chi è il proprietario, è opportuno che nessuno dei due si occupi di curare l'edificio. Lo stato di fatto che costituisce il diritto da accertare può, per il tempo, vedersi alterato e quindi abbiamo il sequestro giudiziario. Possiamo trovare un'altra ipotesi di questo tipo in una realtà più dinamica, quale l'ipotesi in cui si discute della titolarità di alcune azioni di una società; anche qui può essere che se la società viene liquidata, la mia situazione di fatto si modifichi. Può ancora accadere che vi sia la necessità di dare prova di un fatto; anche qui il diritto alla prova è un aspetto indefettibile della tutela costituzionalmente garantito; se io non ho la possibilità di provare il mio diritto, allora il mio diritto viene negato; tra il momento in cui posso provare il mio diritto e i fatti può accadere che il mio testimone non ci sia più o che lo stato dei luoghi muti; può passare molto tempo e anche qui la tutela cautelare (mezzi di istruzione preventiva) si è preoccupata di neutralizzare questo lasso di tempo potenzialmente dannoso.


Noi abbiamo sottolineato come situazioni paradigmatiche le ipotesi in cui o la durata del tempo poteva andare a danno del diritto perché lo faceva venire meno e quindi la pronuncia non aveva senso, oppure ipotesi in cui pur essendo la durata del processo neutrale si producevano situazioni di fatto tali da mutare la tutela.

Ma c'è un altro aspetto: la situazione soggettiva del creditore. Qui si è arrivati piuttosto in ritardo alla tutela cautelare, fino alla metà degli anni sessanta del secolo scorso si negava una tutela anticipata rispetto alla conclusione del giudicato. Ci riferiamo al credito di natura alimentare (anche se il problema è nato per i crediti di lavoro e vale per tutti i tipi di credito). Dal punto di vista della tutela cautelare, che deve avvenire prima della formazione del giudicato, il legislatore ha ritenuto poi di prestare una forma di tutela cautelare.


La necessità di fornire una tutela che fosse più immediata, rispetto a quella che il processo era in grado di fornire, si è posta in relazione a tre diversi aspetti:

Necessità di tutela immediata: diritto alla salute, all'ambiente;

Esigenza di non modificare uno stato di fatto;

Condizione soggettiva del creditore: credito di natura alimentare.

Lo schema della tutela cautelare prevede, per tutelare queste esigenze, attraverso procedimenti di natura cautelare, forme di tutela:

Tipiche: l'ordinamento prevede la situazione rispetto alla quale l'effettività della tutela esige un provvedimento che elimini il rischio collegato alla durata del processo. La tutela è tipica in due sensi: in funzione dell'esigenza e in relazione al provvedimento in relazione al quale il legislatore ha posto rimedio (es. sequestro conservativo: provvedimento a favore di chi si ritenga o possa ragionevolmente ritenersi creditore, affinché la solvibilità del debitore non possa venire alterata; quindi tipica in relazione al provvedimento, cioè al modo in cui l'ordinamento dà rimedio e in relazione ai presupposti necessari per ricorrere all'istituto; tutti gli atti di disposizione del debitore sono inopponibili al creditore e di esso si ha notizia nei registri immobiliari).

Un'ipotesi in cui si dà questa forma di tutela è quella in cui l'entità del credito è molto elevata e qui, pur essendoci una certa consistenza del debitore, la rilevanza della somma è tale da dover ritener fondato il timore del creditore. Quindi da un lato tipicità del presupposto (e valutazione discrezionale del giudice su questo) e tipicità del provvedimento.

Altro caso tipico è il sequestro giudiziario, che mira alla custodia del bene durante la lite: il giudice nominerà un custode (che potrà anche essere una delle parti) e che avrà il compito di amministrarlo.

Provvedimenti di istruzione preventiva: vi è la necessità di ascoltare immediatamente il testimone o di accertare qualcosa.

Atipiche: è prevista dall'art. 700: chi ha fondato timore, nel tempo per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere al giudice il provvedimento d'urgenza più idoneo a soddisfare la sua tutela. Questa è una norma di chiusura; il legislatore non ha individuato precisi ambiti di operatività, ha detto solo fuori dagli ambiti della tutela tipica; si valuta la probabile esistenza di un diritto a favore di un soggetto e quando questo soggetto ha il fondato motivo di ritenere che la durata del processo sia incompatibile con le sue necessità (credito alimentare, di non essere diffamato ulteriormente, che non vengano prodotti altri beni contraffatti) egli può chiedere al giudice i provvedimenti d'urgenza.

Quindi è il giudice che dovrà identificare il tipo di pregiudizio e identificare il provvedimento più idoneo. Se invece io agisco come creditore che versa in una situazione di necessità tale da non poter aspettare la sentenza, qui il giudice potrà emettere un provvedimento che anticipa la sentenza di merito condannando il debitore a versare la somma (qui provvedimento in parte tipico e in parte atipico).


Quindi l'effettività della tutela assume un significato via via maggiore nel tempo. Ora il centro della tutela cautelare atipica è il pregiudizio imminente e irreparabile. Ok l'imminenza, ma l'irreparabilità è un concetto relativo. Fino agli anni '60 del secolo scorso si intendeva per irreparabile solo quel provvedimento che non fosse suscettibile di essere riparato patrimonialmente: lo stesso diritto di autore nella parte patrimoniale non si riconosceva tutelabile in via cautelare.

Si esasperava il dato formale, perché la legge parlava di pregiudizio al diritto, non al soggetto; per cui la tutela cautelare aveva margini di operatività molto ridotti.

Quel pregiudizio irreparabile è tale tutte le volte che la tutela giurisdizionale concessa in via ordinaria sia finta, perché arriva quando non serve più o serve poco ed ecco che si è riconosciuta tutela anche al pregiudizio suscettibile di riparazione pecuniaria quando questa riparazione non elimini il pregiudizio ma ne limiti le conseguenze.

Allora si è fatta avanti un'altra categoria di soggetti ad invocare questa tutela: a un certo punto dei soggetti hanno affermato di avere diritto a delle differenze retributive per necessità alimentari (famiglia numerosa, moroso nel pagamento dell'affitto) e io mi trovo in una situazione in cui non il mio diritto ma io posso subire un pregiudizio irreparabile e tutto ciò che il processo mi può riconoscere può arrivare in ritardo.

Viene in rilievo anche la situazione soggettiva! E proprio questa può dare luogo a due situazioni uguali trattate in modo diverso: es. due lavoratori uno in difficoltà e l'altro no. Bisogna quindi guardare non solo al pregiudizio, ma anche alla situazione soggettiva del creditore.


Abbiamo esaminato l'aspetto della tutela giurisdizionale, che può significare tutela cautelare e qual è il suo scopo. Dobbiamo considerare l'aspetto della tecnica processuale (modi, forme e attività in base ai quali è possibile chiedere ed ottenere questi provvedimenti).

Anche rispetto alla tutela cautelare la possibilità di emanazione del provvedimento del giudice (concessione del sequestro, provvedimento d'urgenza che anticipa il pagamento delle retribuzione) esige l'accertamento dei fatti, che può essere addirittura più complesso, perché bisogna non solo accertare il diritto controverso, ma anche il periculum in mora, cioè il fatto che io non possa sopportare il ritardo. Anche nel processo cautelare inoltre bisogna realizzare il principio del contraddittorio.

Qui entra in gioco la cognizione sommaria (diversa dalla cognizione ordinaria che è attività che prevede tempi fissi e cadenze precise), che è uno schema di accertamento dei fatti più semplice e per questo aspetto diverso da quello previsto dal libro II con il quale il giudice emana la sentenza e concede o meno il provvedimento richiesto.

Nell'ambito del procedimento cautelare, la sommarietà sta nella valutazione di probabilità: quando il giudice emette la sentenza, non si basa su certezza, come nel giudizio principale, e deve esporre le ragioni della sua decisione, oltre a doversi basare sul principio dell'onere della prova (se non ha provato il fatto, questo non sussiste). Nella valutazione sommaria il giudice può fondare il suo provvedimento su un grado di certezza minore. La cognizione è sommaria, perché basata su una valutazione di probabilità e non necessariamente di certezza. Lo schema procedimentale è fatto in modo che il giudice possa concedere quel provvedimento sulla base di un accertamento sommario. Il 669 bis e seguenti si applicano a qualsiasi provvedimento di natura cautelare.

Nel 1990 il legislatore si è preoccupato, di fronte al ruolo sempre più significativo del procedimento cautelare, di disciplinarlo per due ragioni:

Le tecniche di tutela cautelare avevano assunto un ruolo centrale; è chiaro che, se un soggetto sa di dover aspettare anni, cerchi di anticipare i tempi e si è dilatato il ricorso ad essa. L'art. 700 ha avuto una crescita esponenziale della sua applicazione a partire dagli anni settanta in poi.

Inoltre di fatto molto spesso il provvedimento cautelare finisce con il risolvere in concreto la controversia, perché spesso il conflitto nasce non tanto perché un soggetto non vuole dare (perché ritiene di non dover dare), ma perché chi deve dare vuole dare quanto più tardi possibile (abuso del processo), quindi spesso la tutela cautelare finiva con il risolvere il conflitto.

Pensiamo ad un imprenditore commerciale nei cui confronti viene emanato un provvedimento di sequestro conservativo (di cui viene data notizia a banche, creditori, ecc.), il primo effetto è la sospensione della concessione di crediti. Per cui paga.

Il legislatore ha quindi previsto la possibilità di chiedere un provvedimento che consentisse di anticipare gli effetti o di mantenere inalterato uno stato di fatto, sia prima dell'inizio del giudizio di merito, sia nel corso di esso e ha stabilito in maniera precisa non solo le regole per la garanzia del contraddittorio, per l'accertamento dei fatti, ma ha anche previsto un sistema di controlli. È chiaro che più un provvedimento è destinato ad incidere in concreto, più è necessario che sia concreto.

Proprio per questa centralità assunta dalla tutela cautelare, il legislatore ha inserito anche un meccanismo di controllo: il reclamo la parte che si ritenesse insoddisfatta dal provvedimento cautelare (sia perché non le è stato concesso, sia perché l'ha subito) da effettuarsi presso un organo collegiale.


Qui sono inevitabilmente venute fuori due cose:

nel procedimento cautelare uniforme il legislatore si è preoccupato di dare tutela cautelare al soggetto prima ancora che inizi il giudizio di merito. La tutela cautelare è disseminata nel sistema normativo, non solo la troviamo nell'apposito capo del cpc, ma la legge sostanziale si è talora preoccupata di concederla in specifiche ipotesi del diritto civile (es. impugnazione delle delibere assembleari, dove provvedimento molto importante è la sospensione degli effetti mentre si valuta se questa delibera sia valida o meno; provvedimento sostanzialmente identico a quello che troviamo nei condomini). Qui la legge sostanziala limita la tutela cautelare perché essa può essere chiesta solo una volta iniziato il giudizio di merito e questo è un punto delicato perché da un lato la nostra corte costituzionale a partire dall'81 ha ritenuto la tutela cautelare coessenziale alla garanzia dell'azione; da quando viene assicurata una tutela di una situazione sostanziale allora deve essere garantita anche la tutela cautelare; però nello stesso tempo è stata limitata la tutela cautelare all'instaurazione in giudizio da parte del legislatore ordinario. Quindi per la corte cost. le ipotesi in cui la tutela cautelare è attivabile solo una volta instaurato il giudizio sono ok, non è cosi per la cgce.

E' venuto fuori un altro aspetto: cosa significa giudizio di merito? Abbiamo visto che il nostro ordinamento è partito dall'equazione assoluta "tutela giurisdizionale = giudicato", senza il quale non vi è tutela; il giudicato necessita di un accertamento nelle forme di cognizione piena. Il diritto di difesa connaturato alla funzione giurisdizionale esige che al giudicato si pervenga attraverso lo schema di giurisdizione ordinaria facendo in modo che le parti non solo abbiano la possibilità di convincere il giudice sulla consistenza del fatto, ma possono fondare prima del giudizio la sua decisione. Ciò significa che qualsiasi provvedimento sorretto da accertamento sommario può acquistare stabilità se assistito da controllo nelle forme di giurisdizione ordinaria. Una volta che il giudice avesse concesso tutela cautelare tale provvedimento non poteva assolvere alla funzione di dare stabile tutela giurisdizionale perché emesso con la cognizione sommaria; era necessario che ad esso seguisse una accertamento dei fatti effettuato con certezza.

Fino al 2005 abbiamo detto che l'azione cautelare è una forma di tutela caratterizzata dalla strumentalità, non può acquistare stabilità in quanto produce effetti in via provvisoria fino a quando quella situazione non sia accertata in modo pieno. Come faceva l'ordinamento a far rispettare quest'esigenza? Costringeva colui che avesse ottenuto un provvedimento cautelare ad iniziare o continuare il giudizio di merito fino alla sentenza pena l'inefficacia del provvedimento cautelare. Alla fase a cognizione sommaria doveva seguire una fase a cognizione piena.

Questo ha ingenerato un fenomeno di moltiplicazione dei processi. Questo effetto subisce delle critiche nel senso che si ritiene un effetto abnorme e non giustificato da esigenze di effettività della tutela giurisdizionale. A partire dal 2003, prima nel processo societario, e poi con il 2005 viene estesa questa regola a tutti i procedimenti.

Il legislatore dice che dire che la tutela giurisdizionale è solo quella offerta dal giudicato è un effetto (sono meglio i 100 euro sul conto che la sentenza) e cioè gli effetti di tutela possono essere soddisfatti anche solo con cognizione sommaria.

La cognizione sommaria si caratterizza da regole dettate volta per volta dal giudice in relazione alle necessità del provvedimento, però in concreto qual è la differenza? Anche qui vengono sentiti quelli che possono essere chiamati testimoni, si esibiscono documenti, . in realtà nella sostanza la differenza è molto scarsa e ciò è confermato dal fatto che molto spesso nella cognizione ordinaria si ripete semplicemente quello che è stato fatto nell'accertamento sommario.

Il legislatore, preso atto di questa realtà, nel 2005 ha attenuato il vincolo di strumentalità: l'efficacia del provvedimento cautelare quando ha contenuto anticipatorio ex 700 ha efficacia sine die (esecutiva, non di giudicato e incontrovertibile, ma vale sempre, se poi c'è qualcuno che contesta si vedrà).

Quindi oggi i provvedimento cautelari vanno distinti: se hanno natura anticipatoria o sono emanati ex 700 e allora non c'è più il vincolo di strumentalità. Questa regola non vale quando i provvedimento cautelari hanno carattere conservativo (i sequestri: quando il loro contenuto è funzionale non alla decisione di merito ma a mantenere inalterato uno stato di fatto in vista di una sentenza successiva); qui il sequestro perderà efficacia se il giudizio non viene iniziato (entro 60 giorni) o continuato.



Mercoledì 9 aprile 2008


Concludiamo il litisconsorzio:

331, 331 L. NELLE FASI DI IMPUGNAZIONE

Il legislatore del 42 lo disciplina con di fronte due alternative astratte tra due modelli:

Della realità del gravame: si intende l'impugnazione come strumento che viene utilizzato dalla parte che è risultata soccombente, specificamente contro l'atto sentenza, il quale viene coinvolto quasi come una res dall'aggressione del soggetto impugnante. Se l'aggressione risulterà fondata, essendosi diretta contro la sentenza come res, la toglie di mezzo nella sua integralità, imponendo al giudice una nuova decisione che concerne tutti i rapporti/le relazioni giuridiche che erano state cumulate all'interno del processo e quindi creando le condizioni perché la decisione del giudice possa toccare tutte le posizioni coinvolte e che condividano quella questione.

Della personalità del gravame: muove dalla considerazione per cui le varie relazioni intersoggettive che sono calate all'interno di un processo l. mantengono per definizione la propria autonomia, per cui se una parte soccombente chiede la verifica, del suo esito positivo ne godrà solo quella parte.

Il codice del 1865 inclinava ancora parzialmente al modello della realità; negli anni trenta ci fu un lavoro di grande impatto opera di Carnacini, che pose le premesse per la revisione del codice vecchio del '65 che negli art. 331, e 335 ha recepito i risultati dell'indagine di Carnacini e ha sposato (anche se negli esiti concreti in modo abbastanza apparente) il principio della personalità del gravame.

Il principio è formalizzato in termini rigorosi ma non può essere portato a termine fino in fondo: la molteplicità di relazioni intersoggettive sfocia nell'autonomia di ognuna di esse. Se il processo è l.n., per definizione le situazioni soggettive non sono autonome, perché sono tutte interconnesse.

La necessità del l.n. che si impone ex 102 non può portare ad una separazione dei giudizi nei vari gradi di appello. E allora è suff. che uno solo dei soggetti impugni per provocare il riesame di tutte le posizioni soggettive che sono interdipendenti; basta l'appello di uno per la devoluzione della posizione di tutti quanti. Dà luogo ad applicazione del 331: disciplina delle cause inscindibili o tra loro dipendenti. Il l.n., se necessario in primo grado, è necessario anche negli altri gradi. Il 331 dice che se il giudice si avvede che il giudizio non è instaurato verso tutti i l.n., allora ordina l'integrazione del contraddittorio affidando un termine perentorio affinché le parti vi provvedano.

In mancanza di integrazione del contraddittorio (o in caso di integrazione tardiva) il giudice non si limita a dichiarare l'estinzione del processo (come avviene in primo grado), perché qui abbiamo già una sentenza; il legislatore individua come sanzione dell'inottemperanza all'ordine di integrazione l'inammissibilità dell'impugnazione; è una sanzione più rigorosa, che è anche rilevabile d'ufficio e quindi non pone il problema dell'eccezione di parte.

Nel 331, in altre parole, troviamo una sorta di negazione del principio di personalità del gravame. Quindi il 102, pur essendo staccato dal principio della personalità, casca nel 331 e lo specializza.


La grande maggioranza delle ipotesi in realtà va a finire proprio nel 331, vuoi a titolo di cause inscindibili (come per il l.n), vuoi per cause dipendenti. Qui cade anche il l.f. unitario (l.n. solo per la prosecuzione), anche il 110 cioè la successione nel processo qualora venga meno una parte e di subentro dei successori universali che in virtù dell'applicazione giurisprudenziale del 110 devono rimanere l.n. in ogni grado. Una volta che è entrato in giudizio a titolo particolare abbiamo la possibilità di estromissione, ma finché questa non avviene, egli è l.n.. al 331 riconduciamo anche il 107 intervento per ordine del giudice, circoscritto al primo grado, perché solo il giudice di primo grado può sindacare sulla pertinenza della chiamata e perché dopo che l'opportunità della chiamata il terzo entra nel giudizio, non ne esce più, perché diventa parte necessaria e inscindibile del processo.


Cause dipendenti riconducibili al 331: richiede la presenza di tutti i partecipanti alla prima causa anche nel secondo grado, anche per le cause dipendenti; tra queste:

Intervento adesivo: egli propone una domanda di accertamento anche nei propri confronti di una relazione intersoggettiva intercorrente tra altri. Eventuali modifiche di questo accertamento rimarranno rilevanti anche per l'interveniente adesivo.

Chiamata in causa per comunanza, se fatta nei confronti del soggetto che potrebbe fare intervento adesivo ma che invece viene chiamato.

Chiamata in garanzia: solo quando si discute del rapporto pregiudiziale, non quando l'impugnazione ha ad oggetto solo il rapporto dipendente (la domanda di garanzia). Questo perché la domanda principale può essere respinta, nel qual caso viene assorbita anche la domanda di garanzia. Allora il debitore impugna contro il fidejussore e questo comporta una devoluzione esterna anche del rapporto di garanzia, perché la domanda assorbita deve essere decisa questa volta qualora la domanda principale venisse risposta diversamente. Una devoluzione virtuale che richiede in appello (non in cassazione) un atto di riproposizione ex 346. Anche al contrario funziona: in primo grado era stata analizzata e in secondo viene assorbita.

Se viene accolta la domanda principale e respinta quella di garanzia, invece quello della domanda di garanzia non deve partecipare in appello perché al massimo la domanda principale sarà riassunta. Però anche qui, se siamo in casi di garanzia propria, non si ritiene accettabile che la decisione del giudice di appello dell'inesistenza principale non debba stare insieme al consolidamento della posizione del fidejussore.


Quindi resta fuori:

Garanzia impropria: Caso della vendita a catena e di un vizio in essa. Sono cause scindibili, perché è immaginabile che passi in appello la domanda principale e passi in giudicato la garanzia propria, perché non sono dipendenti (?);

L.f. semplice: obbligazione parziaria o solidale.

Per queste ipotesi, la giurisprudenza riconosce un'obbligazione solidale, fino a quando non sono azionati tramite domanda in garanzia i regressi interni, si applica il 332.

Il 332 è del tutto diverso dal 331, anche se in linea di massima è norma che prevede un ordine del giudice volto a provocare una conoscenza dell'impugnazione in capo a coloro che non sono stati destinatari della stessa. L'atto deve essere notificato alle parti che non l'hanno ricevuto. Ma la finalità è molto ridotta: evitare la pluralità di procedimenti di impugnazione aventi ad oggetti differenti impugnazioni proposte contro la medesima sentenza. Evitare cioè che di fronte ad una sentenza unica di primo grado, che pur avendo ad oggetto più posizioni, porti ad un appello con più rivoli. Si vuole un appello che accoglie tutte le impugnazioni verso la medesima sentenza.

Per questo motivo l'art. 331 dice che il giudice, quando si avvede che in una causa scindibile la sentenza non è stata diretta verso tutte le parti, ordina la convocazione di chi manca. In mancanza di assorbimento di quest'ordine la sanzione non è l'inammissibilità, ma è la sospensione del procedimento sino a che il potere di impugnazione non sia precluso anche in capo ai soggetti ai quali l'impugnazione doveva essere notificata. Il giudice sospende il processo fino a che i teorici destinatari della sentenza, che non l'hanno ricevuta, perdono la possibilità di impugnare (un anno e quarantasei giorni, salvo contumacia).

Solo quando si ha la certezza che non si avrà una pluralità di impugnazioni, allora si può continuare e si avrà un unico giudizio si appello. Anche perché, se leggiamo la norma, il giudice ordina la notificazione alle altre parti nei confronti delle quali la notificazione è preclusa o esclusa (perché ha vinto o ha già prestato acquiescenza).

Allora la notifica estende il contraddittorio come nel 331? Rende i soggetti parti come nel 331? No, la finalità della notifica è strumentale a quell'obiettivo dell'unicità del procedimento che raccoglie tutte le impugnazioni di una medesima sentenza, grazie alla fissazione dell'udienza da parte del giudice e alla notifica dell'impugnazione. E la notifica pone i destinatari nella possibilità di formulare le loro proposte nei 20 giorni dalla notifica.

Lo scopo della notifica è provocare i soggetti nei confronti di cui l'impugnazione non sia preclusa o esclusa e a farlo in via incidentale durante il procedimento in corso.


Quindi il legislatore dice: - Aspettiamo che per tutti i poteri l'impugnazione siano preclusi o esclusi, vediamo se nel frattempo qualcuno ha impugnato e, una volta verificato questo, lo scopo dell'unicità del procedimento si persegue riunendo tutte le cause (agevolata dal fatto che le diverse impugnazioni saranno fatte verso lo stesso organo).


Che si caschi nel 331 o nel 332 porta alla possibilità di giudicati distinti solo nel 332. Nel 331 è impossibile, perché il legislatore vuole il coordinamento decisorio anche in appello, perché il legame è forte. La causa di garanzia impropria può essere rimessa in discussione in proprio e la sua impugnazione non ha efficacia espansiva sulla domanda principale.

Nel condebito solidale, se dedotto in giudizio in via parallela (a stella), le varie posizioni dei debitori solo verso il creditore (senza tenere conto del regresso); qui è possibile la formazione di diversi e separati giudizi. E solo alcuno dei giudicati può essere impugnato. Il giudizio di appello è indifferente al passaggio in giudicato di qualcuna delle sentenze, si concentrerà su chi impugna. Anche se B e C impugnano e vincono verso il debitore, resta sempre la possibilità per loro di essere chiamati in un giudizio di regresso ex 1299 e potranno dover pagare non più il tutto ma la parte.

Se si forma il giudicato sul fatto che verso A e B non c'è credito, quando le posizioni dei condebitori sono originariamente cumulate, non sarà possibile al condebitore solidale nei confronti del quale prosegue il giudizio, di chiedere Se il processo è nato verso tutti e si ha impugnazione non verso tutti, non è invocabile il 1306. Solo accettando il principio della personalità del gravame, è possibile distinguere rispetto a quali ipotesi non è necessario unire le posizioni dei singoli.



Lunedì 14 aprile 2008


PROCESSO DI PRIMO GRADO

La notifica nell'atto introduttivo di citazione è tra gli elementi essenziali (petitum, parti e causa petendi). Notificato l'atto di citazione al convenuto, egli è nella posizione di chi è fin da subito obbligato a rispettare alcune scansioni. La data di udienza indicata nel libello introduttivo (atto di citazione in giudizio) nei 20 giorni anteriori a tale data incorre nelle preclusioni del 167 (possibilità di sollevare eccezioni di rito e di merito in senso stretto, cioè quelle sollevabili solo dalle parti, proposizione di domande riconvenzionali e chiamata in causa di terzi).

La chiamata in causa di un terzo da parte del convenuto era libera, non soggetta a valutazione autorizzativa da parte del giudice. Siccome tra il giorno della notifica della citazione e il giorno dell'udienza devono intercorrere almeno 90 (fino al 28 febbraio 2006 erano 60) il giudice sposta in avanti la data dell'udienza ordinando al convenuto di chiamare il terzo.

A questo punto si svolge l'udienza nella data libellata, però il magistrato ex 168 bis ha la possibilità di differire per un termine non superiore a 45 giorni la data dell'udienza. In tal caso il cancelliere comunica alla parti la nuova data. Quando questo differimento si verifica, si sposta in avanti anche il termine per la costituzione del convenuto, il quale così potrà beneficiare di questi ulteriori allungamenti di termini e potrà costituirsi entro 20 giorni dalla data di fissazione dell'udienza. È possibile anche un diverso tipo di differimento, che sarebbe meglio chiamato "slittamento" ex co. 4 168 bis se nel giorno fissato il giudice non tiene udienza: nel tribunale ci sono dei giorni precisi dedicati alla prima udienza di trattazione. L'attore di solito fa i conti con i 90 giorni e fissa una data qualunque; se casca nel giorno in cui non ci sono le prime udienze, si slitta fino al primo giorno in cui il giudice istruttore tiene le prime udienze; per definizione non può mai superare il tempo di una settimana.


PRIMA UDIENZA DI TRATTAZIONE

Il legislatore del 2005/2006 ha cambiato orientamento. Nel 1990/95 era stata prevista l'udienza di prima comparizione e l'udienza di trattazione. Con la legge del '90 si prevedeva solo l'udienza di trattazione; nel '95 ci fu uno «sciopero» degli avvocati contro le preclusioni che prima del '95 non erano conosciute dal codice; era possibile eccepire le eccezioni per la prima volta alla fine del secondo grado di giudizio. Il legislatore introduce le preclusioni che prima c'erano solo per la domanda riconvenzionale (tra l'altro collegate alla comparsa di risposta, quindi nel corso del primo grado; il convenuto poteva fare domanda riconvenzionale del primo atto di difesa a prescindere dal momento in cui si era costituito).

Panico: non si era abituati a questo sistema, che era presente solo nel diritto del lavoro. Il legislatore inserisce prima della prima udienza l'udienza del 180, che fa da filtro e prevedendo che le preclusioni alle domande riconvenzionali e di terzi fossero da presentare nei 20 giorni anteriori all'udienza del 180. All'udienza del 180 il giudice avrebbe dovuto decidere la data dell'udienza di trattazione, assegnando un termine non oltre i 20 giorni prima dell'udienza di trattazione entro il quale si aveva preclusione alle eccezioni non rilevabili d'ufficio (quindi di rito e di merito in senso stretto). Il terzo ordine di preclusione delle eccezioni in senso stretto scattava dopo; le eccezioni in senso stretto avevano quindi più tempo, perché non si perde qualcosa perché il diritto che viene reso oggetto della domanda riconvenzionale è un diritto autonomo che può essere fatto valere in un altro processo (anche se si perdono i benefici della trattazione congiunta da parte del medesimo giudice, ma se con una certa solerzia introduco il nuovo processo, il giudice ex 274 disporrà la riunione dei procedimenti).

Si scinde la possibilità di difesa del convenuto in due momenti.


Il legislatore affida al giudice un ordine di incombenti, da compiere nella prima udienza, volti a verificare la regolare instaurazione del contraddittorio: validità della notificazione, presenza di litisconsorti pretermessi, ecc. Problemi che insorgono in un numero ridotto di controversie, meno del 5% dei casi. Negli altri 95%, nel giudizio di prima comparizione non si faceva niente: tanto che è stato definito «udienza di scambio di cioccolatini».

Nel vecchio rito nell'udienza del 183 le parti potevano fare alcune cose, ma soprattutto in base ai co. 4 e 5 previgenti tutto ciò che si poteva dibattere oralmente alla prima udienza poteva altresì essere reso oggetto di memorie scritte, se anche una sola delle parti richiedeva al giudice che fossero dati appositi termini di 30 giorni (per fare le cose del 183) e 30 giorni successivi (per replicare). Questo aveva portato alla degenerazione per cui nella maggior parte dei casi le parti andavano alla prima udienza solo per chiedere il termine di deposito delle memorie, il giudice doveva concedere i termini e concedere l'udienza successiva del 184 dedicata alle deduzioni istruttorie. Intanto il tempo passava. In alcuni tribunali i tempi delle tre udienze superavano i dodici mesi.

Ma il 184 co. 1 diceva che le parti presentavano le loro esigenze istruttorie, ma anche su richiesta di una sola delle parti il giudice doveva dare termine per rispondere fissando un'altra udienza. Quindi tutti in caso di udienza del 184 si chiedeva termine e il giudice doveva darlo e fissava una seconda udienza ex 184. Nella seconda udienza le parti dovevano quantomeno avere la possibilità di discutere, ma nella maggior parte dei casi il giudice concedeva l'udienza non essendosi ancora studiato la controversia, quindi anche se le parti erano pronte a discutere (a volte immettevano prove non in replica, ma in attacco che dovevano stare nella prima udienza) in chiusura della seconda udienza accadeva che il giudice si riservava e si usciva ancora dalla seconda udienza senza un'idea sull'ammissibilità della causa.


Il legislatore del 2006 vuole reagire contro questo stato di cose, in cui la qualità dell'intervento del giudice era stata descritta come "vigile urbano", che dice quando è la data per ripassare di nuovo e anche contro il problema della durata del processo, che è indifferente alla difficoltà della causa, ma dipendente solo dai giorni liberi del giudice. Si fanno le udienze solo quando il giudice ha disponibilità, non nel tentativo di imprimere velocità a una controversia facile.

Il legislatore reagirà nel 2003 con il rito societario (non lo chiede all'esame) e nel 2005-2006 che prevede il compattamento delle tre udienze in un'unica udienza (prima udienza di trattazione ex 183 detta anche "udienzona"), che il legislatore riesce ad organizzare, introducendo una modifica preliminare che riprende la lezione dell'originaria riforma del '90, cioè l'agganciamento di tutte le preclusioni alla comparsa di risposta. Nei 20 giorni anteriori all'udienzona cadono le preclusioni per tutto (eccezioni in senso stretto, domande riconvenzionali, .) La separazione viene riassorbita grazie al fatto che tutte le preclusioni cadono anteriormente alla prima udienza (in senso cronologico) del processo.

Per realizzare questo obiettivo, sono stati necessari una dozzina di anni, in cui gli avvocati si sono abituati al sistema graduato delle preclusioni. È comunque un passo più contenuto rispetto a quello tra rito senza preclusioni e rito con. Il legislatore vuole che l'udienza sia un effettivo luogo di scambio di opinioni e dialogo tra le parti e per fare ciò egli deve costringere il convenuto a costituirsi prima dell'udienza (altrimenti, se lo fa durante l'udienza con una comparsa di risposta lunghissima, è fisiologico che l'attore in una situazione di questo genere chieda termine a difesa). Come si fa? Si mettono delle preclusioni forti prima dell'udienza, in auspicio che il convenuto nella gran parte dei casi sia indotto a costituirsi prima.


Quindi per realizzare il compattamento, perché la prima udienza possa essere un luogo di scambio proficuo, è necessario anticipare le preclusioni rispetto ad essa e questo porta a termine il legislatore, che riesce a compattare il 180 e il 183, anticipando le preclusioni.

Il legislatore, inoltre, visto che nell'udienza del 184 si chiedeva quasi solo termine (in realtà era anticipata anche dalla prassi di alcuni tribunali che davano quattro termini insieme alla fine della prima udienza), fa sparire l'udienza del 184 e dice al giudice che nell'udienza unica vengono dati tre termini ex 183 co. 6:

Per le attività che possono essere svolte in udienza per iscritto;

Per le repliche e le richieste istruttorie;

Per le richieste istruttorie di replica.

Da 4 il legislatore scende a 3 memorie scritte assegnate in chiusura dell'udienza unica, con 30 più 30 più 20 giorni per il deposito in cancelleria. Dopodiché i termini per il deposito di elementi nuovi sono chiusi.


Parliamo dell'udienzona ex 183: qui il legislatore prevede che possa capitare che il giudice rilevi una di quelle problematiche di fisiologica instaurazione del contraddittorio; quando esse emergono, il giudice deve disporre la sanatoria del vizio (es. integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso) e fissare un nuovo termine per la vera prima udienza di trattazione.

Il rapporto regola/eccezione si è ribaltato: prima c'era un'udienza solo per i casi eccezionali, oggi l'udienza è destinata a partire con il contraddittorio e nei casi eccezionali deve essere nuovamente effettuata.

Quando non ci sono questi casi eccezionali, l'udienzona è destinata a dare luogo alla celebrazione di un dibattito tra le parti, il cui contenuto è il medesimo di quello della vecchia udienza di trattazione del 183 e che oggi viene quasi integralmente replicato. Il possibile contenuto è: l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono  conseguenza delle difese del convenuto (quindi domande nuove e eccezioni che sono conseguenza delle difese del convenuto) e può chiedere di essere autorizzato dal giudice a chiamare in causa un terzo, qualora questo insorga dalle esigenze della dialettica processuale del convenuto. Inoltre entrambe le parti possono modificare o precisare domande, eccezioni e memorie già formulate; non abbiamo la necessità qui che la modifica insorga dall'intervento dell'avversario, è una sorta di potere libero.

Queste attività (tutte) nel vecchio regime potevano essere svolte nelle memorie autorizzate ex 183; oggi invece in queste tre memorie autorizzate arriviamo alla conclusione che non tutto ciò che può essere fatto a voce può essere fatto anche per iscritto. Nella prima memoria le parti possono precisare domande ed eccezioni già formulate; è la possibilità di esercitare lo ius penitendi, ma non c'è la possibilità di proporre eccezioni nuove o domande nuove. La domanda nuova dell'attore (la riconvenzionale della riconvenzionale) può prendere spunto anche da un'eccezione, o la sua nuova eccezione (eccezione di interruzione di prescrizione con cui l'attore replica all'eccezione di prescrizione) vanno formulate a verbale di udienza, non si possono formulare per la prima volta nella prima memoria. Le attività innovative ad opera dell'attore non si possono più fare per iscritto, ma si devono fare oralmente (quindi a verbale).

Prima memoria dunque solo per lo ius penitendi.


Seconda memoria: le eventuali repliche allo ius penitendi e le repliche alle eventuali attività innovative. Nonché (e qui abbiamo il compattamento tra le prime due memorie) l'indicazione dei mezzi di prova e delle produzioni documentali).


Terza memoria: serve solo per la deduzione di prova contraria, quindi per replicare al secondo contenuto della seconda memoria, cioè quella dedicata alle richieste di mezzi istruttori e alle domande documentali. Il tutto si svolge in 30 più 30 più 20 giorni, decorsi i quali scadono tutte le preclusioni e l'unica valvola di sfogo è la possibilità di rimessione in termini ex 184 bis, cioè chiedere al giudice di essere rimessi in termini quando si è incaduti in preclusioni per cause non imputabili. Così anche il difensore non può essere rimesso in termini perché la parte si è ricordata di un fatto importante solo tardi. La mera dimenticanza non è motivo valido.


Questo modello è estremamente semplificante ed è molto nitido e chiaro, meglio di quello vecchio. Secondo il legislatore, dovrebbe concentrare tutto in un'unica udienza con tre memorie a valle. Sembrerebbe che il giudice nei 30 giorni successivi debba già provvedere alla decisione sull'ammissione dei mezzi di prova. In 80 giorni le parti devono fare tutto, ma poi hanno la certezza che in 30 giorni già si comincia. Solo che il modo non del tutto nitido in cui è formulato il co. 7 del 183 e l'interpretazione dei magistrati (il giudice provvede sulle richieste istruttorie, se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro 30 giorni; ma quando provvede fuori udienza? - Quando le parti hanno chiesto i termini del 183 co. 6, perché altrimenti il giudice potrebbe provvedere direttamente all'udienza, oppure riservarsi per un massimo di 30 giorni). I 30 giorni quindi iniziano a decorrere alla scadenza dell'80° giorno.

È interpretazione collettiva che questo art. permetta di fare un'ulteriore udienza, in cui il giudice può decidere immediatamente, oppure riservarsi e sciogliere la riserva entro 30 giorni. Quindi questa seconda interpretazione consente al magistrato di valutare, a valle del deposito della terza memoria, se sia opportuno fare un'udienza successiva per l'analisi di ciò che le parti hanno messo per iscritto nelle memorie e solo dopo questa udienza decorreranno i 30 giorni per la pronuncia sull'ammissione dei mezzi di prova. In pratica è il giudice che decide da quando iniziare a far decorrere i 30 giorni.

In realtà, tali 30 giorni dovrebbero decorrere dagli 80 giorni. Ma per i magistrati è meglio se possono fissare un'altra udienza, che permetta di coordinare meglio le cause in avvio con quelle già pendenti (un magistrato medio ha 600 cause pendenti). L'idea dell'udienza è un'interpretazione che va incontro alle esigenze dei magistrati, ma è stata vista con favore anche dagli avvocati, perché in questo modo c'è la possibilità di fare le pulci all'avversario (?): le tre memorie hanno un contenuto preciso e ci potrebbe essere l'interesse a dire che in quella data memoria in realtà l'avversario ha messo dentro qualcosa che poteva esserci solo nella memoria prima. E se questo è il caso, l'avvocato dice: - Il giudice potrebbe non accorgersi di questo e lo svolgimento dell'udienza può dare l'opportunità di segnalare questa cosa. - Inoltre si potrebbe ulteriormente discutere sull'ammissibilità delle prove richieste dall'avversario. In altre parole, nell'udienza, essendo un luogo di discussione, ci possono essere più domande e risposte, mentre il sistema delle memorie è probabile che lasci qualcosa di non detto. Tendenzialmente il numero di memorie potrebbe non bastare mai.

Non si può negare che l'idea che vi sia un'ulteriore udienza in qualche maniera scardina l'impostazione dell'udienzona come unica udienza di dibattito, essendo le altre udienze possibili, ma legate solo all'assunzione dei mezzi di prova.


Ma il meccanismo dell'udienzona in realtà non regge neanche per la parte che si svolge prima delle tre memorie. In molti casi infatti il giudice deve scinderla in due momenti e questo non solo nel caso previsto dalla legge quando emerga la difettosa integrazione del contraddittorio, non solo in caso di richiesta congiunta dei difensori di entrambe le parti di interrogatorio libero ai fini del tentativo di conciliazione condotto dal giudice (le parti possono chiedere al giudice di sentire le parti direttamente). Se c'è la richiesta congiunta degli avvocati delle parti, è obbligato a farlo, se no è facoltativo e sta nella sua discrezionalità; se c'è richiesta delle parti, il giudice lo scopre all'udienzona.

Al di là di questi due casi, ce ne sono altri dove è conveniente o doverosa:

Ipotesi in cui, nonostante la volontà legislativa, il convenuto si costituisca solo all'udienza e in tale situazione l'attore chieda termini a difesa per analizzare la comparsa di risposta del convenuto.

Se l'attore chiede termine a difesa per ponderare la risposta, che potrebbe contenere il richiamo del giudice all'attenzione su determinate eccezioni sollevabili d'ufficio, allora deve avere diritto al termine a difesa. L'unico modo per concedergli il termine a difesa è fissare un'altra data.

Vi sono poi delle cause che possono essere particolarmente complicate e le parti potrebbero chiedere al giudice di gradualizzare il calare delle preclusioni e chiedere un ulteriore termine (es. per scambiarsi ulteriori memorie). Di fronte alla richiesta delle parti, il giudice, senza farsi trascinare da necessità dilatorie (che in genere non sono mai in capo a entrambi) potrebbe separare la trattazione delle prima udienza.

Cause per definizione complicate sono quelle di opposizione a decreto ingiuntivo, perché nascono con una prima udienza, che nella gran parte dei casi (abbiamo la pronuncia del giudice e l'opposizione entro 40 giorni; viene di solito chiesta una provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, ex art.648, siccome non sempre (ma spesso) il problema è di grandi cifre, allora la sussistenza o meno del decreto ingiuntivo non è una cosa da niente e concentrerà l'attenzione delle parti nella prima parte dell'udienza (perché lì si concede la provvisoria esecutività o la sua sospensione).

Ci sono tante situazioni, quindi anche tipizzabili, in cui è opportuno scindere l'unica udienza di trattazione, che non va bene proprio per tutte le cause, perché troppo concentrata.

Se abbiamo delle parti a cui viene chiesto, negli 80 giorni dall'udienza libellata, fino ai 210 giorni dalla notifica dell'atto di citazione, esse non possono dire più nulla, tranne la sollecitazione del sollevamento di eccezioni di ufficio. Ma la decisione del giudice può arrivare anche dopo anni e questa non è ritardata nella fase iniziale o nell'assunzione di prove, ma nella fase in cui i 600 fascicoli arrivano in coda e se ce ne sono 200 pronti, il 201esimo deve attendere che il giudice faccia la sentenza.

È doveroso ricavare questi spazi ulteriori nel sistema dell'udienzona per evitare l'effetto tangenziale di Mestre (rito bellissimo, apparentemente velocissimo, che però funziona a rilento).



Martedì 15 aprile 2008


CHIAMATA IN CAUSA DEL CONVENUTO

Il convenuto aveva la possibilità di chiamare in causa il terzo senza alcuna valutazione di tipo autorizzatorio da parte del giudice. Viceversa, l'attore invece poteva chiamare in causa un terzo solo su autorizzazione del giudice, per verificare che nascesse dalle esigenze del convenuto nella dialettica processuale.

Il fatto che l'esigenza dovesse nascere dalle difese del convenuto era una ragione per escludere che l'attore potesse fare una chiamata in causa (art. 106) verso i soggetti nei confronti dei quali c'è un rapporto che giustificherebbe un l.f. semplice. Non perché non sia un'ipotesi di comunanza di causa (anche nei confronti del debitore solidale c'è), ma perché non è concepibile che l'esigenza della chiamata del diverso condebitore sia sorta dalle difese del convenuto. Non può realizzarsi quel presupposto per cui il giudice può chiamare in causa. Le difese del convenuto non sono giuridicamente rilevanti e non consentono di ritornare indietro (chiamare altri l.f. che non sono stati chiamati; una volta che si è scelto di fare la causa contro x e y, non si può ritornare indietro).

In questo senso il 106 prima parte non può essere utilizzato per chiamare in causa un condebitore solidale che non era stato chiamato inizialmente, non perché non c'è comunanza, ma perché la necessità di chiamarlo non è sorta dalle difese del convenuto.


Quando l'attore chiede l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo (quando lo fa il convenuto, il giudice sposta la data della prima udienza per consentire la presenza del terzo); il legislatore ha voluto che l'ulteriore svolgimento del processo avvenisse in modo coordinato e ha previsto al 369 che qualora il giudice conceda l'autorizzazione a chiamare un terzo, allora prima si dava corso alla sua chiamata (notificazione, termine di comparizione, prima udienza di trattazione, seconda udienza, e quando la posizione del terzo si fosse parificata alla posizione delle altre parti, solo allora il giudice avrebbe chiesto i termini per le memorie). Oggi resta questo principio, per cui l'attore fa la dichiarazione alla prima udienza di trattazione e se il giudice dà l'autorizzazione, aspetti che si instauri il contraddittorio nei confronti del terzo e solo nella prima udienza da alle parti i tre termini per le memorie.

Una differenza si ha per la chiamata del convenuto, perché il legislatore del 2006 nel co. 1 del 183 ha previsto che il giudice possa compiere le valutazioni che un tempo costituivano oggetto assoluto della prima udienza. Nel ritrascrivere questa parte, il legislatore ha scritto che il giudice verifica d'ufficio la legittimità e se del caso ordina la nullità della domanda riconvenzionale, la chiamata del l. pretermesso, nullità della notifica, ecc.

Nel rinviare al 167, però il legislatore aggiunge al 167 i co. 2 e 3, mentre il vecchio art. diceva solo art. 167 e si intendeva solo il co. 2. Oggi invece si rinvia anche al co. 3, dove c'è la possibilità per il convenuto di fare dichiarazioni nella stessa comparsa e provvedere ai sensi del 369. Oggi il co. 3, nel prevedere cosa fa il giudice nella prima udienza di trattazione e nell'elencare le ipotesi in cui questa viene fatta slittare, fa rinvio al co. 3, che prevede la possibilità per il convenuto di chiamare in causa un terzo. Ma il rinvio è assurdo se il convenuto ha diritto a questo! Non si capisce cosa il giudice debba decidere qui, perché eravamo abituati a pensare che qui ci fosse un automatismo, non una discrezionalità del giudice. La questione può risolversi in due modi:

1) Il legislatore si è sbagliato, non intendeva includere il co. 3. La riforma del 2005 è frutto di un maxi emendamento frettoloso. Quindi non porta a niente.

2) Alcuni giudici l'hanno fatto, anche se per il prof è assurdo, perché nella nuova configurazione del 183 l'automatismo per il convenuto di procedere alla chiamata di terzi è venuto meno. Anche la chiamata ad opera del convenuto deve essere valutata dal giudice in ordine ad una sufficiente connessione. Quindi non automatico spostamento della prima udienza, ma dichiarazione di voler chiamare in causa un terzo, prima udienza di trattazione, verifica della ragione di connessione, autorizzazione, fissazione di una nuova udienza destinata solo alla vicenda processuale che concerne il terzo, ecc. Non automatismo, ma così come avviene per l'attore, verifica discrezionale da parte del giudice.

Questa è una tesi che sta affiorando qua e là (meglio: un'affermazione concreta) e postula l'abrogazione tacita del co. 2 art. 169, che diceva che il convenuto doveva contestualmente alla chiamata richiedere lo spostamento della trattazione.


PROCESSO SOCIETARIO

Introdotto con il d. lgs. 5/2003, dove il legislatore cerca di combattere la figura del giudice vigile urbano, i cui ritmi sono scanditi dai buchi nella sua agenda e non dalle esigenze di celerità.

Si è introdotto un modello processuale radicalmente alternativo a quello del codice, ma non alternativo perché il termine di riferimento è il rito del codice del 1865 (cioè quello prima vigente). Il modello è imperniato sulla filosofia del giudice che non è vigile urbano e la cui presenza alle udienze dove non si dà una definizione alla causa non è vista di buon occhio. Filosofia della espulsione del magistrato dalla fase di trattazione, che nel rito societario non prevede la presenza del magistrato, ma è affidata integralmente alla responsabilità delle parti, e quindi dei difensori tecnici (avvocati) delle parti.

Nelle controversie societarie (tutte quelle elencate all'art. 1 del d.lgs. 5/2003, tra cui ci sono anche quelle relative alla disciplina bancaria che hanno fatto cascare qui dentro anche Parmalat e altro) il legislatore ha previsto che il processo si apra come sempre con un atto di citazione, il quale però non ha l'indicazione della data dell'udienza, perché non c'è udienza nella fase di trattazione. Di fronte alla citazione dell'attore, il convenuto risponde con un atto di citazione che va notificato al convenuto. E la notifica va resa nel termine che gli è concesso dall'attore e che non può essere compresso sotto i 60 giorni e non ha un tetto massimo.

Dal momento della notificazione dell'atto di citazione si apre una fase di "ping pong" tra le parti, le quali senza un giudice cominciano a scambiarsi memorie (atti scritti), nelle quali volta per volta replicano a ciò che è detto dall'avversario.

L'attore replica, il convenuto può controreplicare (sempre tutto entro 20 giorni), l'attore può duplicare, il convenuto controduplicare e da questo momento in poi i termini non sono più fissati solo nel minimo, ma sono fissi di 20 giorni per la triplica e la controtriplica, e così via, fermo restando che dal momento della controduplica entro 80 giorni deve avvenire qualcosa.

Teniamo presente che l'attore, sin da principio dà almeno 60 giorni, poi l'attore ne dà almeno 30 e poi almeno 20 e poi 20 fissi. Fermo restando che il destinatario può anche non usare tutti quei giorni.

Connessa al meccanismo del ping pong vi è anche la previsione che la parte che ha parlato per penultima, che ha ricevuto la memoria di risposta dell'avversario, ha la possibilità sia di replicare ulteriormente sia notificare l'istanza di fissazione di udienza; si fa precipitare la causa sul tavolo del giudice. Dal momento della notifica di istanza di fissazione di udienza maturano tutte le preclusioni: di eccezioni nuove, istanze nuove, documenti nuovi. Le preclusioni maturano tutte contemporaneamente. Nessuno può aggiungere altro. E questa notifica può avvenire ipoteticamente dal momento successivo alla ricezione della notificazione della comparsa del convenuto.

Lo scambio deve comunque concludersi entro 80 giorni. Se entro 80 giorni non viene notificata l'istanza di fissazione di udienza, il processo si estingue. Per l'esattezza, scaduti gli 80 giorni nei 20 giorni successivi, deve essere notificata l'istanza.

Notificata l'istanza, il fascicolo - che fino a quel momento è stato confezionato dal cancelliere e si è mano a mano arricchito di sempre nuovi strati - viene portato sul tavolo del presidente, che entro pochi giorni (secondo successivo alla presentazione del fascicolo) designa il giudice relatore, che ha in mano la causa ed entro 50 giorni deve depositare in cancelleria il decreto di fissazione di udienza, nel quale il giudice relatore individua quella che è la decisione sull'ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova richiesti dalle parti. È questo il provvedimento istruttorio del giudice; decide sull'ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova richiesti dalle parti. Qui questo provvedimento è scandito in due momenti:

È anticipato dal giudice relatore;

Poi ci sarà l'udienza, dove le parti avranno la possibilità di discutere il decreto di udienza.

A valle della discussione, il decreto del giudice dovrà essere confermato o modificato dal collegio con ordinanza (questa è la vera e propria ordinanza istruttoria, che però ha una certa gradualità di formazione, perché viene preparata da questo decreto del giudice e poi decisa dal collegio).

Nei 50 giorni il giudice relatore dovrebbe depositare il decreto di fissazione di udienza e l'udienza dovrebbe tenersi non oltre 30 giorni dal deposito. In 100 giorni circa dalla notifica di fissazione d'udienza abbiamo la decisione dell'ordinanza istruttoria. Ma l'ordinanza istruttoria potrebbe non esserci (se non si chiede perito o testimoni). La causa potrebbe essere meramente documentale e andare subito in decisione. In questo caso, in teoria, l'udienza collegiale fissata con decreto del giudice potrebbe concludersi con immediata decisione della controversia (quindi in circa 100 giorni).


Qual è il problema? - La certezza dei tempi in realtà è un'illusione anche qui, perché anche se i tempi sono scanditi dal legislatore, il sopravvenire di questo giudizio non incide nel carico di lavoro dei giudici, ma si accodano con gli altri. Dopo un iniziale momento, in cui i giudici davano una corsia preferenziale ai giudizi societari, ma dopo non più. Questo ha portato al deposito del decreto di fissazione di udienza in tempi anche superiori all'anno.

Quindi il rito societario non ha accelerato i tempi, al massimo ha completato la fase introduttiva, perché per voler disciplinare questa fase, il legislatore ha scritto norme di difficile lettura, perché rimpallano dall'uno all'altro articolo; ma non è necessaria quando abbiamo il momento dell'udienza, che ha anche l'utilità di disciplinare e organizzare con una certa coerenza lo svolgimento delle fasi del processo.

Inoltre il legislatore non ha assunto una disciplina precisa nella costruzione delle norme; vi sono lacune:

Art. 8 co. 2 lettera c): la regola è che se siamo stati l'ultima parte che ha parlato (notificato una memoria scritta), dobbiamo attendere l'avversario, perché lui ha il diritto di replica e non possiamo noi notificare l'istanza di fissazione di udienza. L'art. 8 eccezionalmente prevedeva che il convenuto che non avesse sollevato domanda riconvenzionale, che non avesse proposto eccezioni in senso stretto, notificata la comparsa di risposta e costituitosi in giudizio, poteva eccezionalmente notificare l'istanza di fissazione senza aspettare la risposta dell'attore alla sua memoria.

Il convenuto in questo momento poteva notificare la comparsa di risposta e insieme anche l'istanza di fissazione, senza che l'attore avesse la possibilità di replicare, salvo che in comparsa di risposta ci fossero domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto.

Il processo societario rischiava di trasformarsi in una trappola per l'attore, perché l'attore che aveva proposto l'atto di citazione senza prevedere tutte le possibilità (o senza aver depositato tutti i documenti), rischiava di vedersi notificata istanza di risposta e istanza di fissazione di udienza.

La corte cost. è intervenuta del 2006 dove non ha cancellato la possibilità eccezionale del convenuto, ma ha introdotto un'ulteriore deroga: il convenuto non può ammissibilmente notificare l'istanza, quando le sue difese sono tali da rendere opportuna o necessaria una contro difesa dell'attore. Viene affidato al giudice, tra l'altro in modo strano al presidente del tribunale (che non decide, assolve più che altro compiti di polizia), il compito di dichiarare inammissibile l'istanza di fissazione di udienza nei casi in cui il diritto di replicare dell'attore fosse necessario.

Gestione della disciplina delle preclusioni: le norme (artt. da 4, che è comparsa di risposta, a 6 e 7) prevedono tutta una serie di preclusioni. Non è prevista una preclusione alle eccezioni in senso stretto sulla domanda originaria, c'è preclusione solo sulle eccezioni in senso stretto sulle risposte. Inoltre l'attore ha preclusioni legate alla proposizione della domanda riconvenzionale, ma questa può anche non esserci.

La ricostruzione prevalente è quella che ritiene il co. 5 art. 13 una norma che può essere disattesa e che quindi le preclusioni degli art. 4, 6 e 7 e poi c'è la preclusione generale che prevede il calare delle preclusioni all'istanza di fissazione d'udienza. E questo costringe le parti ad essere il più possibile esaustive nelle prime fasi, perché quando si dimentica qualcosa, c'è più rischio che la controparte chieda l'udienza. E questo è un onere delle parti. L'istanza di fissazione è già la garanzia dell'esaustività degli atti introduttivi, perché già il rischio di andare a processo "nudi" porta la cognizione del fatto che si può andare davanti al giudice con le armi spuntate.

Il legislatore prevede una disciplina del processo litisconsortile che nel processo societario arriva ai limiti della pazzia. Il convenuto nella comparsa di risposta deve indicare l'intenzione di chiamata di terzo e motivare (ma non si capisce perché deve motivare, se non c'è il giudice). ma la norma non dice quando, e tutti lo leggono come se insieme alla comparsa di risposta vadano inserite le chiamate (per prudenza, così non rischio che non venga accettata la chiamata). E non c'è nemmeno il termine per l'attore nell'art. 6, dove c'è scritto che egli può chiamare in causa un terzo, se l'esigenza nasce dalla difesa del convenuto (anche qui non si sa chi deciderà se ci sarà l'esigenza).

Il meccanismo del ping ping crea tanti rapporti bilaterali, ciascuno caratterizzato da un proprio ritmo; attore con citazione; 60 giorni per la comparsa di risposta in cui c'è l'atto di chiamata; mentre viene notificata l'atto di chiamata si possono avere ulteriori scambi, che hanno ritmi completamente distinti tra causa principale e quella della chiamata. La bilateralità degli scambi comportava che non era possibile garantire all'interno del processo societario che i benefici del processo simultaneo non potessero essere usati.

Il legislatore se ne accorge e aggiunge un co. 5 bis all'art. 8: se nel processo sono costituite più di due parti, l'istanza di fissazione di udienza, notificata da una, diventa inefficace se successivamente ad essa, in relazione ad un altro tavolo, abbia notificato memoria di replica. Il fatto che anche solo uno degli scambi sia ancora attivo determina inefficacia della notificazione. Così facendo, il tempo in cui si va a decisione è dettato dalla causa più lenta.






Mercoledì 16 aprile 2008


DOTTORESSA PILLONI: NULLITÀ DELLA CITAZIONE ex artt. 163 e 164.

È una tematica fondamentale del processo. Prima parliamo di nullità degli atti processuali, la cui disciplina è negli artt. del libro prima da 156 a 162 cpc. Solo alcune al momento ci interessano: il 156 da cui si ricavano due principi:

Principio di tassatività: un atto processuale, che può essere compiuto in un processo civile, può essere viziato; lo è quando non rispetta il paradigma legale in merito al contenuto che deve avere. Quando ha vizi di forma quindi è nullo. Questa norma ci dice che la nullità degli atti è tassativa. La nullità potrà essere pronunciata solo dove c'è una norma di legge che ci colpisce con la nullità.

Principio di strumentalità: anche se c'è una norma di legge che sanziona con la nullità un atto (viene in rilievo il principio di tassatività), se quell'atto ha raggiunto lo scopo a cui era collegato, anche se violava il paradigma legale, allora la nullità non può essere pronunciata. Questo è un principio correttivo della rigidità della tassatività.

Nel co. 2 questo principio ci dice un'altra cosa (restringe la nullità se l'atto ha raggiunto il suo scopo all'ultimo co.; è la sanatoria per raggiungimento dello scopo): amplia il campo delle nullità quando, anche se non c'è una norma che sanziona la nullità, questa è comunque pronunciabile se quell'atto è privo degli elementi essenziali. Quindi l'ambito delle applicazioni delle norme che prevedono la nullità è estensibile o restringibile.


Il regime di rilevabilità delle nullità degli atti processuali, ex art. 157, dice che la nullità degli atti, di norma, deve essere eccepita dalla parte, salvo che la legge ritenga che quella nullità sia così grave da essere rilevabile d'ufficio. La norma ci dice che deve essere eccepita da quella parte nel cui interesse era stata posta la norma sulla nullità. Da ciò capiamo che le nullità previste sono nullità relative in generale (salvo dove sono rilevabili d'ufficio), quindi, se non vi è stata contestazione, il vizio perde rilievo.


C'è un particolare atto processuale. Il legislatore riconduce la sua disciplina di nullità a queste norme, ma nei confronti dell'atto di citazione ci sono norme specifiche per determinarne la nullità. Non viene posto sullo stesso piano degli altri atti sul piano della nullità. C'è una disciplina specifica che non è nel libro I, ma nel II.

Perché c'è disciplina speficica? Sostanzialmente perché il legislatore si è reso conto che è un atto fondamentale, perché è l'atto che dà vita al processo e in particolare è rilevante perché ha due funzioni importanti:

È atto normativo perché traccia i binari su cui si svolgerà il processo: fissa l'oggetto del processo; quanto verrà chiesto con l'atto di citazione, tanto il giudice dovrà pronunciarsi. Salvo naturalmente che il processo potrà essere allargato per domande riconvenzionali, ecc.

Attivare il contraddittorio: tramite questo atto viene notiziato il convenuto che un processo c'è.

Tenuto conto di queste due importanti funzioni, si capisce il perché della sussistenza di una disciplina particolare, contenuta nel 164.

Al 163 ci sono i principi contenutistici dell'atto di citazione: la domanda si propone mediante atto di citazione. Poi c'è un elenco di elementi contenutistici:

Indicazione delle parti;

Determinazione della cosa oggetto della domanda: il bene della vita, il petitum,

Esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti la ragione della domanda: causa petendi o titolo o fatto costitutivo;

Indicazioni dei mezzi di prova

Data dell'udienza: al n. 7 con l'invito al convenuto di costituirsi;

Documenti.

In sostanza, un atto di citazione contiene l'intestazione del tribunale, i dati dell'attore che espone i fatti alla base della domanda, poi c'è l'esposizione di diritto (in base alla quale io vanto la mia difesa); alla fine di tutto c'è la citazione e i dati del convenuto a comparire (con la citazione è l'attore che indica l'udienza), ex n. 7, alla data, nel posto e con l'avvertimento che, se non risponde nei termini, incorre nelle prescrizioni.


Nel 164, che indica i casi di nullità, non sono riportati tutti i requisiti del 163; per es. se mancano i documenti, non si ha nullità (possono infatti essere dichiarati più avanti). Nel 164 il legislatore fa una distinzione di vizi in due tipologie, in base alle due funzioni dell'atto di citazione:

Vizi della vocatio in ius: funzione di instaurare il contraddittorio e informare il convenuto;

Vizi dell'editio actionis: funzione, tramite degli elementi individuatori, di individuare il diritto dedotto in giudizio, ai fini di circoscrivere il dovere decisorio del giudice.

Ma l'atto di citazione, per la dottrina maggioritaria, ha un'altra funzione (anche per De Cristaforo): quella di preparazione alla prima udienza di trattazione; l'atto consente l'individuazione di quello che è il programma difensivo e quindi prodromico alla fissazione del thema decidendum e dell'atto probandum. In quest'ottica, l'atto di citazione potrà essere nullo anche in carenza di requisiti relativi a questa funzione.


I primi 3 co. della norma riguardano i vizi della vocatio in ius: determinano l'inidoneità a radicare il contraddittorio e sono:

Indicazione del giudice: quindi del tribunale; anzi la norma dice se è omesso o se risulta assolutamente incerto (cioè è di impossibile individuazione).

Indicazione delle parti: anche qui se omesse o assolutamente incerte.

Data dell'udienza.

Avvertimento rivolto al convenuto di costituirsi almeno 20 giorni prima, altrimenti incorrerà nelle decadenze.

Rispetto dei termini minimi a comparire di cui al 163 bis: cioè se non decorrono quei 90 giorni minimi.

È facile che un atto di citazione sia viziato; possono infatti succedere degli errori, ad es. che nell'intestazione venga indicato un tribunale e nella parte finale, dove si invita il convenuto a costituirsi, si inserisca un tribunale diverso. Anche la data può non collimare; qui con la data in realtà è maturato in giurisprudenza un principio di buon senso, per cui dove è evidente che ci sia un errore di svista non c'è nullità (es. invito a comparire il giorno x del 1898).


Ai co. 2 e 3 il legislatore ha preso in esame due possibilità:

a) Che l'atto sia nullo sotto il profilo di informare il convenuto ma che ciò nonostante il convenuto ha saputo data e luogo e si è costituito;

b) Che il convenuto, con citazione nulla, non si costituisca.

La norma da due meccanismi di sanatoria:

Se il convenuto non si è costituito, si va alla prima udienza, dove il giudice innanzitutto vede se l'atto di citazione è stato notificato bene o se era nullo. Se il giudice vede che l'atto è viziato sotto il profilo della vocatio in ius, allora rileva la nullità e fissa un termine all'attore per rinnovare l'atto di citazione (notificare un nuovo atto si spera emendato dai vizi) e gli dà un termine perentorio entro cui fare questa rinnovazione, altrimenti la causa è cancellata dal ruolo e il processo si estingue. Se però l'attore è così accorto da rinnovare l'atto entro i termini dati dal giudice, allora quella rinnovazione ha efficacia sanante retroattiva: si sanano tutti gli effetti processuali e sostanziali della prima domanda; in realtà è un modo un po' semplicistico, perché non è che si sanano gli effetti, perché dobbiamo immaginare l'atto di citazione come una serie di sottoatti con funzione autonoma (alcuni deputati alla vocatio in ius, altri volti all'editio actionis) ed è parso improprio dire che gli effetti della domanda si producono ex tunc (sanatoria); questo perché se le funzioni dell'atto di citazione sono due, se un atto è viziato solo dal punto di vista della vocativo, allora dall'altra funzione è intatto. Ma allora se vi è l'individuazione del diritto, da quel momento si manifesta anche la volontà dell'attore di far valere un suo diritto; perché quell'atto nella deduzione del diritto si fa ben capire, è solo viziato dal punto di vista del radicamento del contraddittorio. È meglio dire, al di là di quello che dice la norma, che la sanatoria agisce su un procedimento che è nato male, recuperando ciò che è stato svolto fino a quel momento.

Se il convenuto si costituisce: la costituzione ha efficacia sanante in forza del principio di strumentalità; siccome l'atto ha la funzione della vocatio in ius, se il convenuto si costituisce, vuol dire che l'atto ha prodotto i suoi effetti. La sanatoria anche qui sarà ex tunc; ma non c'era neanche bisogno di vederla in termini di sanatoria, perché la funzione di vocatio in ius non era stata toccata.

La norma però fa una distinzione. Tendenzialmente la costituzione sana ma:

o   Il non rispetto del termine minimo a comparire;

o   La non indicazione degli avvertimenti.

Con questi egli ha la possibilità di chiedere al giudice la fissazione di una nuova udienza di comparizione, quindi in realtà ciò che viene salvato è il procedimento.


La disciplina trova applicazione anche in parte per ipotesi di vizi dell'atto di citazione nel contenzioso societario. Però la buona parte delle sanatorie qui sono poste fuori gioco, perché:

Non c'è la fissazione dell'udienza;

Non c'è neanche l'avvertimento

Non c'è neanche un termine minimo.

Quindi gli unici vizi che rilevano sono la mancanza dell'indicazione del tribunale e delle parti. Di cinque vizi solo due.

Questo per i vizi della vocatio in ius.


Adesso passiamo ai vizi dell'editio actionis. Per la nullità, vengono in rilievo gli ultimi tre co. innanzitutto vediamo due vizi:

Quando è omesso o è in certo il n. 3 del 163 (oggetto della domanda, petitum, bene della vita di Chiovenda).

N. 4 che non è richiamato in toto; la norma dice solo "l'esposizione dei fatti"; non richiama "gli elementi di diritto": questo nell'ottica del legislatore non è elemento idoneo ad individuare la domanda perché vale il principio iura novit curia. Infatti se anche l'attore indica degli elementi di diritto, il giudice non è vincolato da questi (la ragione di diritto non vincola il giudice e non comporta la nullità).

Quindi se mancano petitum e causa pretendi, è viziato il solo atto destinato ad individuare il diritto dedotto in giudizio. Quindi forse è più grave, perché mentre nell'altro caso non era ben radicato il contraddittorio, qui se anche il convenuto si costituisce, non si sa qual è l'argomento su cui il giudice è chiamato a decidere.

Il meccanismo di sanatoria parte dal presupposto che anche se il convenuto si è costituito questa sua attività non è idonea a sanare l'atto (diversamente da quanto accade per gli altri vizi, salvo le due eccezioni). Quindi la costituzione non è che atto meramente processuale che non fa niente di più: ci si è resi conto che il meccanismo di sanatoria dovrà essere qualcosa in più, quindi:

Se il convenuto non si è costituito: l'atto di citazione è viziato, perché non individua il diritto su cui si dovrà decidere; il giudice rileva la nullità alla prima udienza e dispone che sia rinnovato l'atto.

Se il convenuto si costituisce: abbiamo comunque un atto viziato che non consente l'individuazione del petitum e qui potrà anche essere che il convenuto argomenti nel merito provando ad immaginarsi il diritto che si fa valere, ma siccome l'individuazione del diritto di cui si chiede la tutela è compito dell'attore, tale costituzione del convenuto dovrà essere accompagnato dall'ordine del giudice di integrare la notificazione carente. La notificazione di un nuovo atto/una rinnovazione non è necessaria, perché il convenuto si è costituito.

Se l'attore rinnova l'atto o integra l'atto viziato, il processo può proseguire ma si ha una sanatoria ex nunc, non pienamente retroattiva; questo perché gli effetti sostanziali e processuali della domanda si produrranno solo dall'atto sanante.

La ragione è che, visto che quell'atto all'inizio non individuava il diritto, era un atto non idoneo a farci capire qual era l'oggetto della pretesa e quindi non era idoneo ad esplicare gli effetti sostanziali e processuali.

Ma questa norma, nel dirci che l'efficacia non è pienamente sanante, ci dice che restano salvi:

o   Diritti quesiti;



o   Decadenze maturate.

Visto che l'efficacia non è retroattiva, se nel frattempo matura ad es. l'usucapione, il convenuto allora verrà liberato dal condebito. Tutto quello che avverrà prima della domanda è qualcosa che si matura a favore del convenuto (es. prescrizione del credito) e va a suo vantaggio (sempre a patto che il debitore eccepisca la prescrizione o la nuova situazione). E questo perché il diritti non era individuabile.

Quindi quello che noi andiamo a salvare è il procedimento dandogli la possibilità di andare avanti verso la sentenza, anche qui perché seppur la norma non ci dice molto di più (solo che il giudice dice all'attore di integrare o rinnovare, non che dà un termine perentorio per farlo e che se no lo fa il processo si estingue). Ma cosa succede se l'attore non rinnova/integra o se lo fa ma lo fa oltre il termine perentorio (anche se questo è un po' più discutibile)? La conseguenza, per la maggior parte della dottrina, è che si avrà l'estinzione del giudizio e questo senza necessità di ricorrere all'analogia ma perché la dottrina dice: guardate, la norma parla di termine perentorio e già questo è sufficiente a richiamare quel corpus di norme dei 307 e seguenti che ci dice che quando un'attività non è compiuta nel termine perentorio allora il giudizio si estinguerà. E' possibile quindi ricavare la disciplina focalizzando l'attenzione sul fatto che la norma ci dice che il termine è perentorio.

Non tutti sono d'accordo, parte della dottrina è un po' più rigida e dice che la conseguenza non è l'estinzione; comunque anche questa dottrina si rende conto che quell'atto di citazione che manca di causa petendi e petitum ha un vizio troppo importante perché non consente al giudice di pronunciarsi; quindi anche in questi casi parte della dottrina dice che visto che la domanda non può essere decisa nel merito allora la domanda andrà rigettata in rito per nullità di citazione (qualora l'attore non la integri nei termini).


Manca una cosa: tematica delle domande auto/etero determinate: il n. 4 del 164 ci dice che la citazione è nulla se risulta sostanzialmente incerta o è assente la causa petendi (l'individuazione dei fatti). Ma le domande autodeterminate (status, diritti reali, ecc; diversamente da diritti di credito e diritti potestativi) non necessitano la spendita del titolo (l'indicazione della causa petendi) per l'individuazione del titolo. Come si fa? due opzioni:

Si va a dire che il 164 trova applicazione solo per il caso di domande etero determinate e che in quelle auto la citazione non è nulla in caso di assenza di causa petendi;

Si dice che questa interpretazione non risulta applicabile, perché tra le funzioni dell'atto di citazione c'è anche la terza funzione prodromica alla preparazione della prima udienza, che nella fattispecie viene disattesa. Perché se anche il diritto è individuato, l'atto di citazione non assolve la terza funzione. E questo si comprende per il semplice motivo che l'oggetto del giudizio può venire in essere un numero indefinito di volte, mentre la cosa non può essere mia per più di una volta e allora considerato questo se la mancanza dell'enunciazione del 4 porterà alla nullità perché non è perseguita la terza funzione.

Quindi gli effetti processuali si esplicheranno solo dall'inizio. Il giudice dirà solo all'attore di rinnovare o integrare la domanda (mediante il deposito in cancelleria di una memoria) ma stai tranquillo perché la domanda era autodeterminata e gli effetti si produrranno dall'inizio.

In tutte le ipotesi di vizio per editio actionis viene sempre fissata un'altra udienza che è la prima udienza del 183.


Siccome sappiamo che di domande giudiziali non c'è solo quella contenuta dell'atto di citazione, ma c'è anche la domanda riconvenzionale, con cui si fa valere un diritto ma che non deve essere notificata in quanto è intrinsecamente incidentale e viene promossa in un processo già pendente, quindi sicuro non ha funzione di vocatio in ius.

Inoltre è una domanda rivolta ad un soggetto che è già parte e quindi il convenuto si fa a sua volta attore. Anche questa domanda può essere viziata ma solo sotto il profilo dell'editio actionis e sarà viziata quando:

È omesso o assolutamente incerto l'oggetto o il titolo (l'esposizione dei fatti).

Se mancano, ci sarà anche qui un meccanismo di sanatoria e il giudice ordinerà l'integrazione che avverrà tramite deposito in cancelleria di una comparsa che conterrà o l'oggetto (se prima mancava) o la causa petendi. Basta depositarla in cancelleria, tranne quando l'attore propone la domanda giudiziale (e poi si deve costituire) il convenuto si costituisce, propone domanda e poi si costituisce. Ma se l'attore nel frattempo è contumace, allora non basterà il deposito ma dovrà notificarla all'attore, integrata di ciò che manca.



Lunedì 21 aprile 2008


Termine delle lezioni: 4 giugno.

Preappello: 10 o 13 giugno con orale a metà della settimana dopo.


FASE DECISORIA

Ci si arriva dopo la trattazione che si conclude con la terza memoria del 183 e con un udienza successiva al deposito della terza memoria. Abbiamo parlato se è il caso di spostare un'udienza ulteriori.

Accade che all'udienza ci possa essere una riserva di decisione (il giudice non la fa subito davanti alle parti, ma da solo) che però deve essere sciolta entro 130 giorni. Viene ormai sempre fissata questa udienza post memorie istruttorie senza che sia valorizzata una decisione caso per caso. Il giudice la fissa quando chiude l'udienzona del 183, anche se le parti non hanno chiesto l'assunzione di nessuna prova.

Se il giudice fissa tale udienza, guardando la sua agenda, la dice agli avvocati delle parti. Se il giudice decidesse di fissarla dopo aver visto il contenuto delle memorie, allora della data dell'udienza gli avvocati non vengono informati ma dovrebbe giungergli avviso dalla cancelleria. I cancellieri avrebbero una montagna di avviso da dare e hanno chiesto ai giudici di darla subito. Anche se si rischia così di dare udienza quando non ci sono nemmeno istanze istruttorie.


Presa la decisione da parte del giudice, si svolge se del caso l'attività istruttoria. In chiusura dell'attività istruttoria (consulenza tecnica d'ufficio spesso, se del caso giuramento e confessione). Poi si chiude l'istruzione e nasce il big problem della conclusione della controversia dato dall'enorme cumulo di cause dei giudici. Ogni causa ha il suo grado di avanzamento e si verifica l'effetto del collo di bottiglia: molte controversie sono mature ma il giudice non ha il tempo per la loro decisione. Prima passano le impugnazioni per i licenziamenti e le cause di tutela dei minori. Fatte salve queste particolari ipotesi.

Cosa accade al momento della chiusura della fase istruttoria? Il giudice dovrebbe fissare l'udienza di precisazione delle conclusioni, dove la causa si avvia alla definizione con sentenza. Da questo momento, ex art 190 e 275 (controversie di tribunale affidate al collegio), dell'udienza di pc partono dei termini di preclusione:

60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali: in cui si rifà la storia del processo, si dice cos'è avvenuto nel corso del giudizio e riassumono tutte le argomentazioni giuridiche e ripropongono anche tutte le istanze istruttorie. Viene fatto dalle parti e ciò penalizza l'imparzialità conoscitiva delle consulenze tecniche di parte, per questo qui il giudice segue di più le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio

20 giorni per le repliche: fare le pulci a ciò che l'avversario ha detto nella comparsa conclusionale. Dopo si chiude l'attività delle parti.

60 giorni ulteriori per il giudice che deve depositare la sentenza in cancelleria. Dall'udienza di pc in 140 giorni dovremmo quindi avere la decisione, che viene prestata in cancelleria da un momento che non è molto distante da quando le parti hanno avuto occasione di dedurre nuovi fatti (purché sopravvenuti: successivi al calare di termini di preclusione. Importante qui il pagamento estintivo del credito, che si può dedurre liberamente fino all'udienza di pc; non nelle comparse conclusionali dove non si possono allegare nuovi fatti).


La regola è che il giudice giudica come giudice monocratico. Per alcuni casi specifici, c'è la riserva di collegialità. In tre si decide in appello; in cinque in cassazione, in nove in cassazione a SU. I termini sono quelli della decisione assunta in composizione collegiale.

Quando invece il trib. decide in composizione monocratica ex 290 e 281, i termini sono dimezzati a 30 giorni non 60 per il deposito della sentenza in cancelleria. Inoltre è prevista la possibilità del 281 sexties di disporre la conclusione a seguito di esposizione orale (succede per le controversie molto semplici: qui il giudice può far precisare le conclusioni e ordinare la pronuncia della decisione sempre nella stessa sede con motivazione concisa delle motivazioni di fatto e di diritto.

Nel 281 il giudice fa sentenza nella stessa udienza o su richiesta di parte ad un udienza successiva. Comunque se rinvia c'è discussione orale e lettura della concisa esposizione in fatto e in diritto della decisione medesima.


Anche quando si abbiano comparse conclusionali e memorie di replica è possibile chiedere di discutere oralmente la replica. Qui la discussione non è sollecitata però dal magistrato ed è possibile che le parti chiedano di discutere oralmente la controversia e questo può portare a due conseguenze diverse:

Nelle cause collegiali la richiesta va fatta al momento della precisazione delle conclusioni, va ripetuta al momento del deposito della memoria di replica (siccome la discussione orale è una seccatura per il collegio si dice: chiedetela due volte). A tal punto si fissa un termine per la discussione entro 60 giorni e nei 60 giorni successivi ci sarà il deposito in cancelleria.

Se siamo davanti al giudice monocratico la richiesta va fatta una volta sola in sede di precisazione delle conclusioni, il giudice dispone il solo scambio delle comparse conclusionali in 60 giorni (non ci sono le repliche), poi 30 giorni per l'udienza di trattazione (che sostituisce le repliche in quanto orale) e poi il deposito nei 30 giorni ulteriori.

Diversità di schema prevista dal legislatore che è stata portata alla corte per vedere se ci fosse disparità di trattamento ma essa ha ritenuto che in ogni caso il diritto di difesa fosse rispettato.


Mentre la discussione orale immediata e pronuncia della decisione del giudice monocratico è uno strumento acceleratorio perché contrae i tempi della decisione (riconducendoli sostanzialmente a zero) e per questo è adatto alle cause semplici dove già tutto è stato detto ed è una questione solamente di diritto con magari molte pronunce precedenti conforme; la richiesta della discussione che proviene dalle parti è il residuo dello schema decisorio anteriore alla riforma del '90-'95 dove il rito prevedeva la chiusura dell'istruzione, l'udienza di pc e dopo necessariamente un'udienza di trattazione a partire dalla quale decorrevano i termini per il deposito in cancelleria. Ma accadeva che in poco si chiudesse l'istruttoria, poi udienza di pc e poi 2-3 anni per l'udienza di trattazione. Quindi il collo di bottiglia nel rito vecchio era tra udienza di pc e udienza di discussione.

L'udienza di discussione in realtà era una presa in giro: 3-4 magistrati con 3 pile di fascicoli e il cancelliere davanti. Nessuno discuteva. Venivano chiamati i nomi delle parti, bastava ci fosse il legale di uno delle due che rispondeva. E così la causa andava a sentenza (nella pila delle sentenze destinate ad arrivare a conclusione).

In realtà la discussione si era quindi atrofizzata. Se qualcuno voleva discutere, se non avvertiva il tribunale di questo non gli veniva nemmeno data la parola, perché era un'udienza di smistamento!

Così il legislatore del '90 ha eliminato l'udienza di discussione. Dall'udienza di pc si va in conclusione. Ma non è così, perché adesso il collo di bottiglia è prima dell'udienza di pc.


Un vantaggio dello schema attuale non è la riduzione dei tempi ma il fatto che l'udienza di pc che segna il limite cronologico del giudicato è molto più vicino alla sentenza di quanto fosse prima.

Nella concretezza per il rispetto del termine del deposito in cancelleria non si guarda il vero deposito in cancelleria per la pubblicazione della sentenza ma la consegna vera e propria al cancelliere.

Si guarda la prima consegna del file dal magistrato al cancelliere però e oggi spesso nella prima parte della sentenza c'è scritto anche minuta depositata in cancelleria in tal data.

Valendo poi che il procedimento disciplinare viene attivato solo quando il termine codicistico viene superato nel doppio (120 giorni o 60); poi si entra comunque in un buco nero perché non si quando il cancelliere si metterà al lavoro per pubblicare quella sentenza. A volte sono settimane a volte mesi.

C'è stato un momento in cui il legislatore conscio di questo problema ha fatto una cosa particolarissima. Nel '95 stava passando la legge che rendeva esecutive tutte le sentenze anche solo di primo grado e le norme di transizione prevedeva fossero esecutive le sentenze già depositate (2 maggio); quindi non erano esecutive quelle depositate prima del 29 aprile. I cancellieri prendevano le mance dai due contendenti che volevano che queste venissero depositate prima o no. Il legislatore interviene dicendo che il riferimento cronologico era il 19 aprile che era già passato.


SENTENZE NON DEFINITIVE 279

La sentenza non definitiva è una nozione che raccoglie al proprio interno una molteplicità di realtà. Sono di due grandi tipi:

Su questioni: è la vera sentenza non definitiva, che si collega e mette in collegamento il 279 con il 187; è la decisione alla quale il giudice arriva quando insorta questione preliminare di merito o questioni pregiudiziali di rito ritenga opportuno soffermarsi con attenzione sulla questione perché essa non gli appare del tutto infondata e allora la sua analisi approfondita in un determinato momento potrebbe essere fonte di economia processuale.

o   Le questioni pregiudiziali di rito hanno ad oggetto un'eccezione processuale rilevabile per regola d'ufficio.

o   Le questioni preliminari di merito sono tendenzialmente delle questioni di merito (avente ad oggetto elementi della fattispecie sostanziale) che il giudice deve affrontare per arrivare alla decisione ma che hanno una peculiarità in particolare funzionale, cioè sono questioni che consentirebbero al giudice di risolvere la controversia senza dover esaminare tutta la folla di altre questioni che quella causa prospetta. Risolverà nel senso del rigetto della domanda attrice, perché solo nella domanda di rigetto un singolo punto è idoneo a portare al rigetto; in caso di accoglimento invece è sempre obbligatorio analizzare tutte le questioni. Le questioni preliminari di merito hanno ad oggetto passaggi che il giudice deve compiere e che promettono di permettere di arrivare ad una decisione del merito perché attengono ad un punto risolvibile in modo semplice, senza particolare approfondimento, e che in tal caso portano al risolvi mento della domanda. Questione preliminare di merito classica è la prescrizione; se è vero che sono 25 anni che è nato il credito allora esso è prescritto; hanno questa caratterizzazione funzionale: consentono di risparmiare attività; inoltre hanno una caratterizzazione strutturale negativa: debbono avere ad oggetto solo fatti/elementi di fatto, mai fatti/diritti (cioè non le questioni pregiudiziali di merito, perché non possono essere oggetto di decisione con sentenza non definitiva) o fatti che sottendono un rapporto giuridico. La compensazione è un fatto/diritto perché ha come presupposto l'esistenza del contro credito e tra l'altro è l'eccezione che va sempre esaminata per ultima perché è quella che porta più sacrificio per il convenuto.

Il connotato funzionale è condiviso da entrambe le questioni. In presenza dunque di un'eccezione di incompetenza per territorio anche semplice sollevata dal convenuto (le uniche che ancora si propongono frequentemente), o di eccezione relativa ad una questione preliminare di merito (prescrizione) cosa succede? All'udienza di discussione sulle istanze istruttorie il giudice vede che ci sono tot. testimoni e tot. domande delle parti. Il giudice però ha le due eccezioni e dice che promettono di essere fondate. Allora che fa? Ascolta tutti i testimoni e poi nomina un consulente tecnico d'ufficio per accertare cose e poi salta fuori che era incompetente e che sì possono trasmigrare le prove ma saranno necessarie una nuova udienza di pc, o fa tutta l'istruttoria (ascolto i testimoni, chiedo consulenza tecnica, e poi rigetto perché il credito era prescritto)?

O mi scavo una piccola parentesi nella quale mi concentro su questa questione preliminare di rito o pregiudiziale di merito? E poi in caso rigetto in rito risparmiando attività. Il codice consente questa sorta di riserva anticipata di decisione. Si ha avvio della decisione in controversia che viene chiamato come "anticipato" perché il giudice avvia la controversia quando questa non è ancora matura per la decisione di tutte le questioni sollevate perché una parte dell'istruttoria non è ancora conclusa, ma qualora si accertino determinate cose si avrà rigetto in rito o in merito.

Fatta la riserva in decisione ci sono due alternative:

o   La questione preliminare di merito o pregiudiziale di merito vengano ritenute fondate.

o   Il giudice alla fine ritiene infondata le questioni e arriviamo in questo caso alla sentenza non definitiva, perché il giudice ha studiato la causa su quel punto sul quale deve pronunciarsi in modo irreversibile. Egli non potrà più tornare su competenza.

La scelta di riservarsi per la decisione di una questione è discrezionale del giudice. E' anche fisiologico che il giudice faccia tutta l'istruttoria e alla fine rigetti in rito, perché il legislatore non gli impone di risolvere la questione di rito prima. Le ragioni che muovono il giudice sono:

o   Vedere se la questione appare fondata; non implausibile fondatezza della questione.

o   Ponderazione costi - benefici, perché la questione per andare in riserva anticipata di decisione ci va con conclusionali, repliche e deposito della sentenza, con il rischio di dover scontare anche lì il collo di bottiglia e quindi introdurre una pausa decisoria va contro le esigenze di celerità del processo ma può avere utilità nel senso del principio di economia nel processo.

Si può avere scelta di riserva anche prima delle 3 memorie. 183 co. 6 una volta che la causa prosegua. Non si ritiene invece che sulle questioni preliminari di merito sia possibile la riserva immediata perché proprio dalle tre memorie e dai documenti prodotti dalle parti è fisiologico che possa emergere materiale rilevante. Es. la prescrizione va eccepita dalle parti e allora il giudice non va subito a verificare perché l'attore potrebbe aver interrotto la prescrizione con delle raccomandate (e questo non è una contro eccezione ma è rilevabile anche d'ufficio). Andare a decisione senza dare termine alle memorie potrebbe significare costringere l'attore ad andare a decisione senza avere la possibilità di dimostrare all'attore di aver interrotto i termini di prescrizione.

Su domande: due ipotesi:

o   Sentenza di condanna generica 278 con riserva della quantificazione del credito con proseguo sempre in quel processo (sentenza di impugnazione del quantum.

o   Non definitive su domande: quando abbiamo un processo contenitore di una pluralità di domande. Il 277 co. 2 ci dice che il collegio può limitare la decisione ad alcune domande se per la loro definizione: quindi ci vuole istanza di parte e valutazione da parte del collegio (se la causa è facilmente decidibile). La sentenza è non definitiva e detta parziale e il giudice può con sentenza parziale definire le questioni che sono mature per la decisione. Definiscono in modo definitivo una parte di giudizio ma non chiudono il giudizio davanti a quel giudice.

Si ha una specie di riscontro nel n. 4 del 279: il collegio pronuncia sentenza quando definisce il giudizio con rigetto. Definisce giudizio decidendo totalmente il merito. N. 4 = il collegio pronuncia altresì sentenza quando nei casi 1, 2 e 3 non definisce giudizio perché definisce totalmente in merito solo in relazione a quelle cause che ha completamente deciso, ma non per tutte le domande.



Martedì 22 aprile 2008


SENTENZE NON DEFINITIVE SU DOMANDE

Cioè le sentenze parziali, tra queste rientrano le sentenze di condanna generica 278 e quelle che pronunciano su alcune delle domande cumulate sul processo.

Quando il collegio pronuncia su decisioni della tipologia 1, 2 e 3 (quindi compresa la definizione del giudizio) non definisce il giudizio. Come può essere questo? E' la peculiarità delle sentenze parziali, che sono ibride in quanto definitive sul deciso ma non definitive perché non chiudono il grado di giudizio.

Diverso è l'art. 5 del 279 co. 2: più domande di parti nel caso del n. 5 si ipotizza che la sentenza di merito sia preceduta da un provvedimento formale di separazione delle cause cumulate; quando si ha questo provvedimento allora siamo in presenza di una sentenza definitiva a tutti gli effetti. La sentenza che definisce le cause mature per la decisione è matura a tutti gli effetti. La decisione che definisce le cause è definitiva e chiude quel ramo del procedimento originario che se ne è distaccato. Il collegio pronuncia sentenza quando ex 103 e 104 prevedono possibilità di separazione; qui quando c'è il provvedimento formale di separazione la scissione determina che il ramo che prosegue giunga a sentenza considerata a tutti gli effetti definitiva.


Ma che scopo ha questo lavoro definitorio (definitive o no)? C'è anche un risvolto pratico? Il problema ha un netto e significativo risvolto pratico perché il cpc prevede per le sentenze non definitive un particolare regime di impugnazione: per le sentenze non definitive è ammessa la scelta della parte tra:

l'impugnazione immediata ex 340

riserva di impugnazione ex 361: con atto notificato o dichiarazione resa a verbale di udienza al momento in cui sopravverrà la sentenza definitiva affinché la parte possa compiere una valutazione unitaria del processo e dopo decida se vale o meno la pena di impugnare. La riserva può essere sciolta anche quando (non capita molto spesso) viene pronunciata un'altra sentenza non definitiva che viene impugnata da una delle parti.

Il problema (se è possibile chiedere riserva non si pone): il 279 ci dice che se c'è un provvedimento espresso di separazione, allora le cause si dividono e per quelle che vanno a sentenza definitiva non c'è possibilità di riserva di gravame.

Se invece il procedimento è unitario ma sopravviene una sentenza che ne definisce alcune a questo punto siamo in presenza di una sentenza non definitiva parziale e come tale suscettibile di un'efficace riserva di gravame.

Il problema è che si era innestata una sorta di giurisprudenza che divideva a seconda che in assenza di provvedimento formale di separazione la domanda fosse in grado di rappresentare un punto fermo/esito decisorio per la parte con riferimento al quale la soccombenza era già apprezzabile in modo chiaro e per questo la soccombenza poteva legittimare solo l'impugnazione immediata. Se tra le cause cioè una era abbastanza autonoma da affermare un tempo fermo (es. attribuire un bene della vita) senza che poi la decisione delle altre potesse interferire significativamente allora la giurisprudenza affermava che in questo caso, anche in assenza di provvedimento formale di separazione, la decisione deve ritenersi decisa. Così facendo però si creava incertezza del diritto

Alla fine sono intervenute le su con due pronunce del '99 che hanno ribadito l'indispensabilità di un atto formale del giudice di separazione delle cause perché si possa parlare di sentenze definitive a tutti gli effetti; in assenza di atto formale siamo in presenza di decisione da considerarsi parziale. Hanno aggiunto che questo provvedimento formale non è necessariamente esplicito come quello del n. 5 del 279 ma può anche essere implicito ma in un qualche senso tipizzato: si dovrà considerare che vi è stata separazione o ex n. 5 o perché il giudice implicitamente ha separato i provvedimenti e questo emerge dal fatto che la decisione di alcune delle domande contiene una pronuncia sulla condanna alle spese. Quando il giudice pronuncia anche sulle spese di lite dimostrando che in quel troncone del procedimento abbiamo avuto la parola fine. Si riafferma il provvedimento formale che può essere anche implicito.


Il legislatore del 2006 ha in qualche modo ulteriormente intorbidito il problema, perché ha cancellato la ricorribilità immediata in cassazione delle sentenze non definitive su questioni di modo che quando siamo in presenza della sentenza d'appello non definitiva su questioni non c'è più l'opzione per la parte soccombente, c'è solo la possibilità dell'impugnazione differita al momento di impugnazione della sentenza definitiva. Ma questo solo sulle sentenze su questioni.

Resta fermo che se siamo in presenza di sentenza definitiva su alcune delle più domande l'unica possibilità è invece l'impugnazione immediata.

La rilevanza della pronuncia sulle spese nel definire la natura dell'impugnabilità della sentenza è rilevante solo quando parliamo di sentenze parziali su domande. Quindi mai se parliamo di s. non definitive su questioni.

Quindi se vi è una decisione non definitiva di rito che dichiara la sussistenza di una questione di giudicabilità della causa del merito (es. dichiarazione di giurisdizione del giudice adito e continuazione del processo); nel caso la sentenza aveva contemporaneamente condannato alle spese (che dovrebbe esserci sempre e solo nella sentenza definitiva. In questo caso il giudice ha disposto la continuazione del processo e condannato alle spese contestualmente. Ci si è chiesti se fosse definitiva. Le su hanno detto che la presenza della pronuncia sulle spese è fattore che incide sul regime dell'impugnazione solo se siamo di fronte a questioni su domande.


Tra le sentenze di rito ve ne sono, quelle sulla competenza che, in particolare quando dichiarano l'incompetenza, sappiamo essere un trampolino per la prosecuzione del processo davanti al giudice indicato come competente. Ebbene la sentenza di competenza non è mai di chiusura del processo ma è sempre una premessa per l'ulteriore impulso davanti al giudice indicato come competente. Ciò nonostante il cpc prevede che tale sentenza possa essere affiancata da condanna alle spese perché resta una sentenza di rigetto in rito (in caso di incompetenza). Tra l'altro il 91 addirittura contempla la possibilità per la cassazione che giudica la competenza di condannare alle spese anche se la competenza si ritiene sussistente.




Mercoledì 23 aprile 2008


IMPUGNAZIONE

Strumento che serve per ambire ad una diversa decisione della causa rispetto a quella che è stata resa dal giudice con sentenza di merito o di rito. Sono elencate come mezzo di impugnazione 823:

l'appello

il regolamento di competenza

il ricorso per cassazione,

la revocazione

l'opposizione di terzo.

Quindi 5. Poi c'è un sotto catalogo nel 824 che ci specifica quali sono le opposizioni ordinarie, la cui permanente opponibilità impedisce il calare del giudicato formale:

appello

regolamento di competenza

revocazione per i soli motivi 

Mentre revocazione stragiudiziale o opposizione di terzo rientrano tra i mezzi straordinari che non si oppongono al calare del giudicato formale. Sono straordinari perché rari ma soprattutto perché i vizi che si fanno valere con queste sono i c.d. vizi occulti che si possono anche fare valere dopo molto tempo dalla sentenza. Per questo le opposizioni ordinarie sono proponibilità in termini ristretti e ravvicinati al deposito della sentenza, decorsi i quali la sentenza passa in giudicato formale (iter temporale supervisionabile). Invece se emergono vizi occulti abbiamo un termine di impugnazione che è collegato al momento della scoperta del vizio (es. dolo del giudice). se così non fosse mai potremmo essere certi del giudicato perché ci sarebbe sempre la possibilità di emersione di nuovi fattori.


Il termine di impugnazione è 30 giorni per la stragiudiziale dalla scoperta del vizio, fatta eccezione per l'opposizione di terzo ordinaria che non ha termine (824 co. 1) perché è quello strumento funzionalmente affine all'intervento principale (2 soggetti che contendono la proprietà di un bene e un terzo che dice invece proprietario sono io).

I termini di impugnazione stragiudiziale sono di 30 giorni se la sentenza è notificata; un anno altrimenti. Il termine è di giorni 60 per ricorso di cassazione o per ricorso per revocazione delle decisioni della corte di cassazione (quindi se decide la cassazione, in via di sindacato o auto sindacato). Quindi un termine breve di 30 o 60 giorni dalla notifica e un termine lungo di un anno dal deposito. Sono termini allungati di 46 giorni ci sono in agosto giorni feriali. Il primo dei due termini che scade brucia il potere di impugnazione.

L'impugnazione si propone presso il procuratore che è il destinatario dell'impugnazione contro la parte ex 330. Ovviamente se la parte nel primo grado era contumace allora l'attore non essendoci procuratore dovrà notificarla "a mano" come per l'atto di citazione di primo grado.

È possibile anche una doppia sospensione dei termini. Il termine lungo è 1 anno, dobbiamo aggiungere 46 giorni, ma se la decisione viene depositata a ridosso della sospensione feriale è possibile che questa interruzione intervenga due volte; idem se viene depositata durante il periodo feriale. Infatti a ottobre in un dato giorno scadono tutti i termini lunghi depositati tra luglio e agosto.

In realtà non cala la preclusione al termine lungo quando la sentenza è pronunciata nei confronti del contumace che dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità di notificazione dell'atto introduttivo o nullità della citazione ex co. 2 art. 327 è l'opposizione contumaciale; il soggetto non partecipa al giudizio, egli quando viene a conoscenza della sentenza ha possibilità di effettuare ancora impugnazione qualora dimostri di non averne saputo niente.


Presupposto centrale per l'esercizio del potere di impugnazione è una posizione di soccombenza; si da un rimedio per provocare una nuova decisione sulla medesima causa solo per la parte soccombente che  rimasta insoddisfatta dal giudizio. Il problema della soccombenza è stato avvicinato a quello dell'interesse ad agire; ma è un po' diverso, sia perché l'i.a.a. è una nozione un po' ballerina e discussa perché si dice che non è un requisito generale ma settoriale (dipende dal tipo di domanda), mentre la soccombenza è un requisito essenziale in ogni caso. E mentre l'i.a.a. si misura sull'affermazione che viene resa dall'attore, la soccombenza invece può essere misurata in modo oggettivo nel raffronto tra la decisione di primo grado ed un altro termine di paragone e il problema attiene all'individuazione di questo termine di paragone per vedere quanto vi può essere questa posizione di insoddisfazione.

Si è parlato in un primo momento una nozione di soccombenza formale per cui la misura dell'insoddisfazione della parte veniva misurata nel confronto tra il contenuto della decisione e le istanze che la parte aveva proposto al giudice. La soccombenza formale è qualcosa che da appieno, rispetto all'attore, una possibilità di misurarla.

Non sempre però la nozione di soccombenza formale è in grado di dare risposte soddisfacenti rispetto al convenuto, perché non propone domande in giudizio e potrebbe addirittura essere contumace o potrebbe addirittura avere fatto una difesa tecnicamente formale ma poi essersi messo al prudente giudizio del giudice e in questo caso allora la sua richiesta potrebbe essere conforme al contenuto di qualsiasi sentenza. Stando al concetto di soccombenza formale si potrebbe dire che la soccombenza del convenuto non c'è mai.

Tenuto conto allora di questa difficoltà si è enucleata la nozione di soccombenza materiale che si parametra non tra decisione e richieste formalizzate dalle parti ma su confronto tra decisione e peggioramento della posizione soggettiva che la decisione ha recato rispetto alla situazione in cui stava la parte prima del processo. Quindi confronto tra esito del giudizio e posizione in cui la parte stava prima del processo. Riguardo all'attore la nozione di soccombenza materiale coincide integralmente con quella di s. formale in quanto egli si affermava titolare di 10, risulta titolare di 8 e questo 2 costituisce nozione di soccombenza.

Rispetto al convenuto, egli anche se rimasto contumace o se ha rimesso il giudizio al giudice, nel momento in cui è condannato a pagare anche solo 1 vede la sua posizione soggettiva peggiorata, visto che prima del giudizio non c'era nessun debito accertato.


Si ha una nuova nozione: l'interesse ad impugnare che è il requisito che sostanzia la soccombenza e non deve far presumere che questa nozione ulteriormente raffinata vada ricondotta all'interesse ad agire (che abbiamo visto essere un'altra cosa perché è settoriale e valutabile non oggettivamente ma solo soggettivamente).

La soccombenza come tale è dunque più che un requisito di interesse all'impugnazione (anche se lo chiamiamo interesse ad impugnare) è un requisito di legittimo esercizio del potere, che seleziona tra le parti del processo chiuso quelle che hanno il potere di impugnazione.

Va detto che non sempre c'è un soccombente e un vincitore, ci può essere una situazione di soccombenza parziale o ripartita per cui entrambi sono soccombenti in parte; in queste situazione tutti possono impugnare.


DESTINATARIO DELL'IMPUGNAZIONE

In linea di massima, è il giudice superiore. Revocazione stra e ordinaria e opposizione di terzo invece vengono proposti al medesimo ufficio giudiziario che ha emanato la sentenza. Quando la revocazione è proposta contro la cassazione ha termine di 60 invece che di 30 giorni.


La soccombenza intesa come interesse ad impugnare è una nozione nella quale la misura della soddisfazione non viene più resa guardando indietro ma guardando avanti per cui si ha interesse ad impugnare se il grado ulteriore ha possibilità di dare un risultato più soddisfacente o più tutelante. Rientrano i casi in cui si chiede: "chiedo 100 o la maggior somma qualora questa sia dovuta".

Rientrano inoltre alcuni casi particolari:

possibilità di consentire l'impugnazione ad un soggetto apparentemente vittorioso e quindi si può riscontrare interesse ad impugnare del convenuto che ha ottenuto una sentenza di rigetto in rito. Quando? Dipende dal comportamento del convenuto: egli può impugnare mirando ad un rigetto nel merito che gli darà il massimo della tutela quando siamo di fronte ad una sentenza che dichiara l'estinzione del processo su eccezione di estinzione proveniente dall'attore (possibilità un po' anomala).

Idem se in caso di rigetto in rito il giudice ha rigettato in rito rilevando d'ufficio il difetto della condizione di decidibilità della causa nel merito (se lo ha fatto accogliendo una domanda del convenuto: chi è causa del suo mal pianga sé stesso).

Idem nei casi di omessa pronuncia dove l'attore propone due domande (risoluzione del contratto e risarcimento del danno) e il giudice si esprime solo sulla prima. Qui le violazioni dell'art. 112 (principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato) sono di tre tipi:

o   omissione di pronuncia: il giudice sta sotto a quanto chiesto;

o   ultrapetizione: il giudice da più di quanto chiesto;

o   extrapetizione: il giudice, per ragioni imperscrutabili, pronuncia su qualcosa che non è quello chiesto dall'attore: es. attore acquista un bene che ritiene viziato e chiede un'estimatoria, il giudice invece risolve il contratto decidendo una redibitoria.


Sempre rimanendo nell'interesse ad impugnare, possiamo immaginare che l'attore che ha perso nel merito possa formulare un'impugnazione nella quale, più o meno stranamente, non chieda di vincere nel merito ma chieda al giudice di appello di sostituire il rigetto nel merito col rigetto in rito a valle del riscontro, operabile anche d'ufficio, del difetto di una condizione di decidibilità di una causa nel merito. Invece che chiedere di nuovo 100, forse mi conviene fare leva sulla condizione di decidibilità così il mio diritto non è consumato del tutto ma posso riproporre la domanda da capo avendo la possibilità di preparare meglio la mia difesa e quindi sfuggendo da quelle preclusioni che in questo giudizio hanno causato la mia soccombenza.


La stessa situazione si potrebbe immaginare rispetto ad un attore che abbia perso nel merito a valle di un processo nel quale il convenuto ha formulato alcune eccezioni (alcuni tranchant: come nullità, prescrizione) e altre idonee a portare a giudicato del merito ma non definitivo (non era decorso il termine ma comunque il credito è esigibile); all'attore farebbe comodo una decisione di merito che dice: il credito non è prescritto semplicemente non è esigibile, nel qual caso il giudizio può essere riproposto. Ma in questo caso il giudice non può chiedere di sostituire la pronuncia (invece di tenere in considerazione la prescrizione guarda la non esigibilità attuale), perché l'attore qui prima deve ottenere una pronuncia sul fatto che il credito non è prescritto, di modo che si faccia piazza pulita delle eccezioni tranchant e solo dopo può chiedere l'inesigibilità del diritto

È vero che qui vi sarebbe un interesse ad impugnare ma questo non può essere apprezzato come nel caso precedente perché qui le eccezioni di merito stanno tutte su un piano di parità e l'attore deve prima ottenere una decisione che gli dia ragione (favorevole nel merito) per far saltare la declaratoria di intervenuta prescrizione e poi sperare che gli derivi una decisione di inesigibilità.

Le questioni di rito invece vanno sempre analizzate prima del merito! Quindi l'attore potrebbe chiedere di sostituire il rigetto nel merito con un rigetto di rito senza dire che il rigetto di merito era sbagliato (io non parlo della prescrizione però dico che manca la giurisdizione).


Viceversa una graduazione delle eccezioni è ipotizzabile nel versante del convenuto che potrebbe avere sì un interesse a che il giudice di appello pronunci sulla domanda respingendola per un motivo piuttosto che per un altro e quindi nel caso di prima, se il convenuto ha fatto valere in ordine prescrizione, nullità, esigibilità, . se il giudice si pronuncia sull'esigibilità potrebbe chiedere che il giudice pronunci nell'ordine chiesto perché così può avere rigetto con sentenza che fa piazza pulita con la nullità e non con inesigibilità.

Caso paradigmatico di ordine delle difese è quello dell'accoglimento dell'eccezione di compensazione. Il convenuto può chiedere mutamento della motivazione del rigetto, perché ottenere motivo diverso dalla compensazione vuol dire trattenere il proprio contro credito che altrimenti sarebbe bruciato dall'accoglimento della domanda della parte attrice.

Pur avendo vinto il convenuto potrebbe essere interessato ad una vittoria diversa.

Soccombenza a entrambe le parti qualora la decisione di primo grado sia stata depositata per mancata sottoscrizione da parte del giudice. È un vizio assoluto detto anche di inesistenza della sentenza ed è l'unico vizio che sopravvive al giudicato formale. Anche se la sentenza mi da ragione essa non mi da alcuna utilità.


In caso di interessi super individuali il legislatore è molto meno rigoroso nel pretendere questa insoddisfazione dalla sentenza per legittimare il ricorso.

Art. 718: giudizio di interdizione e inabilitazione. Tale sentenza può essere impugnata da tutti coloro che potevano proporre la domanda anche se non hanno partecipato al processo che è stato chiuso. Qui il legislatore vuole arrivare al punto più vicino possibile alla verità. Allora viene dato il potere di impugnazione a prescindere dalla soccombenza.

Materia di divorzio ex art. 5 co. 5 legge sul divorzio: la sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti, quindi sia da chi ha perso sia da chi avendolo chiesto ha vinto. Si vuole favorire che ci sia una possibilità del giudice di appello di riscontrare  che esso è stato pronunciato in difetto dei requisiti che lo legittimano. Qualunque sia la parte, anche quella che l'ha chiesta.


Lunedì 28 aprile 2008


Nella parte generale sulle impugnazioni, abbiamo già sfiorato il 332: impugnazioni incidentali. Sono un argomento e una possibilità che si verificano in presenza di una soccombenza reciproca, ripartita o parziale: entrambe le parti soccombono rispetto al giudizio di primo grado (all'attore è stato dato 400 e non 1000, alcune domande sono state accolte, altre rigettate). Allora entrambi vogliono impugnare. Il leg. detta una disciplina complessa (artt. 333, 334, 335) e raffinata, allo scopo di evitare la molteplicità dei procedimenti sulla medesima sentenza (332).

Il leg. si muove con l'art. 333, che ci dice in modo abbastanza netto: Le parti degli artt. precedenti debbono proporre appello incidentale nello stesso processo. È la parte notificata dall'impugnazione dell'avversario. Un'impugnazione è principale, l'altra incidentale, che si inserisce nel processo avviato.

Però proporre in via incidentale vuol dire che l'impugnazione del destinatario andrà proposta nel primo atto difensivo previsto da qual mezzo d'impugnazione considerato. Se siamo in appello, vale la disciplina del 1990-95, nei venti giorni anteriori (artt. 343 + 167). Se siamo in kass., propone i.i. nel controricorso, non depositato, ma motivato, nei quaranta giorni. Come tutti i termini, si salva con la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario.

A questo punto, dover proporre i.i. significa che la notifica dell'impugnazione all'avversario può avere il drastico effetto di riduzione del tempo: sentenza depositata il 20/4/07, scade il 5/6/08, se non viene notificata. Arriva la notifica, e l'avversario ci notifica il 18/9/07: ci dà sessanta giorni per la notifica e fissa l'udienza al 20 novembre. Se l'udienza è il 20/11/07, per proporre i.i. ci dobbiamo costituire il 31 ottobre, cioè nei venti giorni prima, non conta più il termine lungo del 5/6/08. Tutto il tempo successivo è irrilevante. Con la notifica della sentenza, avremmo avuto sessanta giorni (17 novembre), invece con la notifica del ricorso 20 + 20 giorni. Debbono proporre a pena di decadenza è una locuzione generosa, la giurisprudenza ha ritenuto possibile per il primo notificato la facoltà di proporre impugnazione in via principale, non nell'atto difensivo. La giurisp. ha tenuto conto che nelle c.d. impugnazioni incrociate succedeva che Tizio notificava l'appello e in quei tre o quattro giorni Cajo aveva consegnato l'atto all'ufficiale, ma uno arrivava primo in modo casuale: era ingiusto sanzionare chi era arrivato un po' dopo. Allora si può proporre impugnazione principale, a patto che il deposito avvenga nel termine a disposizione per il controricorso. Ma vi sono ipotesi diverse, che vedremo dopo.

Ho facoltà di calare la mia impugnazione principale, rispettando i termini e a condizione che le parti si facciano diligenti promotrici delle finalità volute dal legislatore: l'unicità del procedimento contro la medesima sentenza, con l'onere per entrambe le parti di attivare la riunione dei procedimenti, 335. L'onere cade sia su chi ha promosso l'impugnazione per primo, sia sul secondo, perché se i due processi proseguissero separatamente, il primo che arriva a decisione (non il primo incardinato!) rende inammissibile l'altro. Può capitare che le cause finiscano in due sezioni distinte e ciascuna decide, con deposito a distanza di un giorno, allora non è possibile applicare il 335, perché non si sa quale doveva sopravvivere e quale impugnare. Sono i paradossi cui può portare la presenza di più processi di impugnazione di una sentenza.

È possibile sottrarsi all'onere di proporre i.i., ma non di non rispettare i termini. L'onere di proposta dell'i.i. si concretizza sia nel 330 (impugnazione in causa bilaterale), sia nel 331 (integrazione del contraddittorio in cause inscindibili), sia nel 332, che infatti non parla di parti cui è notifica l'impugnazione, ma di parti degli articoli precedenti. Se il soggetto (332) soccombente ha ancora il potere di impugnare, va notificato, perché se vorrà esercitare il potere, dovrà farlo nei venti giorni successivi in appello, 20 + 20 in kass. È una notifica ex art. 332 con finalità di litis denuntiatio, riducendo i termini per l'impugnazione, facendo venir meno il termine lungo. Se manca la notifica 332, si ha solo una sospensione del processo e si attende che il termine scada per tutti, per vedere chi ha impugnato.

L'ultimo versante è quello delle impugnazioni incidentali tardive, art.334. Riprendiamo il solito schema: 20/4/07 deposito, 5/6/08 termine lungo. La notifica dell'impugnazione dell'avversario fa perdere valenza al termine lungo e ci lascia a dover rispettare i gradi di giudizio, sia quando la notifica arriva in un tempo distante, ma anche quando l'impugnazione arriva pochi giorni prima della scadenza. Ma il principio vale anche in caso di termine lungo, perché occorre rispettare la scadenza. Se arriviamo in kass., la data sarà il 25/9/07, dopo la sospensione feriale. Allora faccio in tempo a replicare dopo il termine breve. L'unica peculiarità è che quando la mia i.i. viene eseguito in un momento in cui il termine ordinario è scaduto, diventa i.i. tardiva, 334. Ma è tardiva non perché io la faccio tardivamente rispetto al tempestivo compimento del primo atto (limite invalicabile), ma perché il puntuale rispetto del termine avviene quando questo sarebbe già decorso. Lo scopo è quello di agevolare l'accettazione della sentenza: se ti accontenti di un risultato fuori discussione, 60 anziché 100. non sei costretto a impugnare, puoi attendere cosa fa il tu' avversario. Se vedi messo in discussione il tu' 60, potrai riallargare tutto l'ambito della tua devoluzione. Per agevolare l'accettazione della sentenza alle parti soccombenti, la giurisp. ha applicato la teoria - dal 1956 al 1986 - dei limiti oggettivi all'impugnazione incidentale tardiva, ammissibile solo se riguardava il medesimo capo di sentenza su cui cadeva l'impugnazione principale, non su domande diverse. Se Tizio voleva impugnare la propria parte, doveva rispettare i propri termini ordinari.

Nel 1989 la giurisp. (poi nel 1989 le SU) ha abbandonato tale teoria e oggi il problema dei limiti oggettivi alla i.i. tardiva non esiste più. Il figlio che vince sullo status, ma perde sugli alimenti, doveva impugnare nei termini ordinari della domanda autonoma.

L'impugnazione a ridosso della scadenza comporta una rimessione dei termini. L'impugnazione tardiva è identica a quella tempestiva, con una sola differenza: la i.i. tardiva è legata alla sorte in rito dell'impugnazione principale e alla sua ammissibilità, anche alla procedibilità (S.U. due settimane fa). Se l'impugnazione principale è inammissibile o improcedibile, lo stesso accadrà all'i.i. tardiva, il cui destino è legato alla dicidibilità nel merito. Si capisce che della soccombenza parziale ti dovevi accontentare, infatti il tu' avversario ha messo in discussione la tua vittoria, tu non hai impugnato e il tu' interesse è andato in discussione, quando l'avversario ti ha impugnato! La tua vittoria non può essere in discussione, né tu puoi discutere quella degli altri. Da qui si capisce qual è l'interesse di chi propone la propria impugnazione in via principale. Il motivo può essere questo: l'impugnazione mi è arrivata il 22 maggio (atto di appello). Io ho tempo fino al 7 luglio per la risposta di appello. Se propongo dopo, l'appello incidentale sarà tardivo, ma posso avere interesse a farlo qualificare come tempestivo, allora faccio un atto di citazione in appello, in cui mi curo solo delle lamentele contro la sentenza (entro il 5 giugno), poi ho un mese per articolare le difese contro la citazione dell'avversario. Così posso conservare tutti i termini a mia difesa, evitando l'etichetta di i.i. tardiva. Così ottengo che l'i.i. abbia vita autonoma, avendola fatta nel rispetto dei termini ordinari dell'impugnazione, indipendentemente da cosa fa l'avversario. L'i.i. tardiva (in replica) è consentita non più a tutti i destinatari del 330, 331, 332, ma solo a quelli contro cui è stata proposta impugnazione 331. Quelli del 332 (litis denuntiatio) stanno fuori dai legittimati, perché abbiamo più cause cumulate da rapporti inscindibili. Il soggetto del 332 che riceve la notifica non vede in discussione la sua vittoria. Nell'ipotesi di cause scindibili restano limiti alle cause di impugnazione tardiva, consentita solo a chi vede messa in discussione la sua posizione sostanziale, invece il 332 è una notifica che riguarda altri. Il soggetto viene messo in mora e deve impugnare nel primo atto difensivo.

Le i.i. tardive possono essere proposte anche dopo che la parte abbia prestato acquiescenza, un modo di perdita del potere di impugnazione, che vedremo domani.



Martedì 29 aprile 2008


L'acquiescenza è una causa di perdita del potere di impugnazione (art. 329, diverse ipotesi: acquiescenza espressa e tacita), se proveniente dal legale, è irrilevante.

L'acquiescenza tacita si ha con comportamento concludente, non equivoco di volontà di non impugnare. Si può avere acquiescenza tacita: prima della riforma del 1995, con l'adempimento spontaneo ad una sentenza di condanna, ma non esecutiva, se no l'adempimento di per se non esprime la volontà di non impugnare, ma di evitare l'aggressione esecutiva. Dopo la riforma, tutte le sentenze depositate sono esecutive anche dopo il primo grado, quindi non c'è acquiescenza tacita.

Le ipotesi tipiche sin qui non sono ravvisabili. Si era ipotizzata una acquiescenza tacita da parte dell'attore che riassume il processo e non può più fare il regolamento di competenza. Oggi l' acquiescenza tacita va riscontrata caso per caso. Secondo il 329, pur essendo una causa di perdita del potere, è ammessa solo su eccezione della controparte; in assenza di eccezione, il giudice non può rilevarla d'ufficio. Il comportamento esprime la volontà negoziale, quindi richiede l'eccezione.

La terza figura di acquiescenza - rilevabile d'ufficio - è quella del 329, secondo comma: acquiescenza impropria, o presunta, o parziale. Importa acquiescenza nelle parti non impugnate. Ipotesi: un contraente ha perso su entrambe le domande e impugna solo sul quantum, quindi è acquiescente alla risoluzione e sull'an del risarcimento. Su quella parte si forma direttamente il giudicato. Es. sentenza di divorzio e assegno di mantenimento: il convenuto impugna solo il quantum dell'assegno.

L' acquiescenza del secondo comma è detta anche "presunta", perché il legislatore ricollega una sorta di evidenza di non impugnare le parti escluse dalla impugnazione, con una presunzione assoluta iuris et de iure. Il primo atto consuma il potere di impugnazione. L'acq. presunta è rilevabile d'ufficio, perché si riverbera nella sentenza. Invece nell'acq. 329 comma primo, se l'altra parte allarga l'oggetto, posso farlo anch'io. L'unica eccezione è nel 343 comma secondo. Ci sono più rapporti soggettivi autonomi e separati nello stesso processo. Viene fatta l'impugnazione ad uno e il giudice ordina la notificazione alle altre parti, che hanno l'onere di impugnazione incidentale. Una parte si costituisce e propone impugnazione contro l'appellante. Un creditore vince per 80 contro un secondo debitore, ma perde 20 col primo. Allora impugna contro il primo. Anche il secondo impugna, ma contro il creditore, che ha messo in discussione la sua vittoria parziale.

A questo punto, l'approfondimento riguarda l'oggetto del processo nel momento della devoluzione della causa dal grado inferiore a quello superiore. Ci sono due anime: impugnazione sostitutiva e impugnazione rescindente. La distinzione elementare è stata arricchita da Cerino Canova, dicendo che non ci sono solo le funzioni sostitutiva o rescindente, ma necessariamente vi entrano tante altre cose. L'imp. sostitutiva era a critica libera, senza predeterminazione di vizi specifici, non a critica vincolata. C'è una devoluzione integrale e un'identità dell'oggetto. Secondo Cerino Canova, nell'esame del mezzo di impugnazione, seguendo un termine, c'erano anche gli altri tre. L'oggetto su cui pronunciarsi era la domanda originaria di tutela giurisdizionale, rendendo una nuova decisione una seconda volta. La tesi sottovaluta il primo grado di giudizio.

Di contro all'imp. sostitutiva, c'era il modello dell'imp. rescindente, avviluppato ad altri tre termini speculari all'opposto: critica vincolata - nessuna devoluzione e diversità di oggetto. Tale impugnazione riguarda un diritto astratto da un diritto sostanziale alla caducazione del provvedimento impugnato. In questo contesto, il giudice dell'impugnazione è chiamato solo ad annullare la sentenza o lasciarla com'è, trattandosi di kass., o ritorna al giudice, o passa in giudicato.

Il modello di Cerino Canova è troppo rigido ed astratto e storicamente condizionato al modello del codice del 1942 e al modo di essere della kass. di allora. Oggi ci sono modifiche giurisprudenziali, che riguardano in particolare l'appello, per cui i due modelli si confondono. Ma già a monte il modello Cerino Canova faticava a spiegare la revocazione: è un'impugnazione a critica vincolata, eppure - se il giudice riconosce uno dei vizî del 402 - c'è un autonomo momento di accoglimento della revocazione, che diventa allora a devoluzione integrale e identità di oggetto, oltre alla natura sostitutiva.

In realtà, Cerino Canova aveva detto che l'oggetto della revocazione è dato dalla condizioni di ammissibilità della domanda di una nuova decisione della causa, subordinatamente alla ricorrenza di uno dei presupposti del 395.


Colla riforma del novanta, i modelli si avvicinano. La contaminazione è irresistibile colla modifica del 384, che consente alla kass. di decidere la causa nel merito, qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto (più un'altra condizione, ora tolta dal 2006). Quindi la kass diventa un possibile giudice del merito. Fino al novanta, la decisone della kass era solo di annullamento. Ciò vuol dire che, nell'esercizio del potere, chi impugna fa valere una richiesta di una nuova decisione nel merito, sull'oggetto del giudice d'appello. In questo contesto, il ricorso per kass dice che alcuni tasselli acquistano un diverso significato: la kass è tenuta a rilevare d'ufficio le questioni. Anche al di là delle censure del ricorrente, ha tale possibilità, in particolare nelle questioni pregiudiziali di rito (es. difetto di giurisdizione). In concreto le questioni di merito si riducono a una: nullità del contratto, l'unica rilevabile d'ufficio, quando appare in modo manifesto. Ma allora nessuna delle censure del ricorrente può stare in piedi. Il referente del lavoro della kass non è il ricorso, ma la domanda originaria, su cui rilevano le questioni di merito. In terza battuta, è vero che il ricorso in kass è un'impugnazione a critica vincolata, però dal 360 n° 3 troviamo l'impugnazione per violazione di norme di diritto, è un modello tipizzato, ma molto largo.

Dopo il novanta, i modelli sono contaminati, sia nel merito, sia nella fase di cognizione; il referente non è il ricorso, bensì la domanda originaria. Uno dei casi frequenti di rigetto nel merito era la nullità del contratto.

D'altronde vi è un momento di mutamento anche riguardo al giudizio di appello. Il legislatore del novantacinque ha vietato il ius novorum in appello, riscrivendo il 345: divieto di nuove domande, nuove eccezioni, nuove prove (salvo decadenza per cause non imputabili, oppure qualora il collegio non reputi indispensabili le prove ai fini della decisione). Il giudizio di appello si svolge sullo stesso materiale dei primo grado, precludendo la possibilità di una nuova decisione, senza dire che il primo grado era sbagliato. Oggi la possibilità di novità è ridotta, ma il giudizio di appello può essere a devoluzione integrale e identità di oggetto. Su questo punto è intervenuta la giurisprudenza, con varie sentenze, fino alla n° 16/2000, con cui ha stabilito che il compito del giudice di appello è circoscritto ai motivi di censura dell'appellante. Il riesame dell'oggetto originario è arricchito solo dalle sue censure. Su tutte le questioni risolte a suo vantaggio c'è acquiescenza parziale, quindi una preclusione irreversibile verso i giudici successivi. Se c'è una concatenazione logica, ovviamente una censura fa cadere tutti gli anelli. Allora l'appello resta un mezzo a critica libera, ma non a devoluzione integrale.



Mercoledì 30 aprile 2008


Il corso termina il 12 maggio, poi continua con le impugnazioni.


Continuiamo con l'appello, il primo mezzo di impugnazione ormai generalizzato col d.lgs 40/2006, anche contro le sentenze di equità del giudice di pace. Sono appellabili, ma rispettando la forchetta di vizî oggi indicati nel 339, terzo comma. Il legislatore ha introdotto l'appello per dare più garanzia di diminuire le controversie in kass: questo era l'obiettivo del d.lgs. 40/2006.

L'appello si propone con citazione, che deve indicare i motivi specifici dell'impugnazione 342. Però le sentenze si appellano al tribunale corrispondente, poi alla corte d'appello, infine in kass. Oltre tutte le indicazioni, va inserito l'avvertimento al convenuto appellato di costituirsi entro venti giorni, altrimenti c'è la decadenza ex 167 o 343 (decadenza dall'appello incidentale.

La cosa più interessante del 342 è formulare i motivi specifici. Per la tesi tradizionale (Cerino Canova), l'appello è un mezzo a devoluzione integrale e illimitata, in cui il giudice deve decidere riesaminando tutte le questioni già risolte dal giudice di primo grado, col proprio secondo esame. La richiesta del 342 di introdurre motivi specifici è sovrabbondante, perché in ogni caso deve riesaminare tutto. Nella più evoluta concezione dell'appello, esso ha un significato tutto diverso: il giudice dell'appello può riesaminare l'oggetto solo per il tramite delle specifiche censure formulate dall'appellante, su cui si sono appuntati gli strali delle sue lamentele. Il senso di questa evoluzione è quello di valorizzare la sentenza di primo grado e poi avviarsi verso una formazione progressiva della decisione, sfruttando al massimo le risultanze compiute e su cui non via sia contestazione. Se il giudice di primo grado si è sforzato di risolvere la questione e l'appellante non dice nulla, che senso ha che il giudice d'appello riesamini tutto? La decisione di merito si forgia per una combinazione di tasselli, alcuni del primo grado non contestati, altri dall'appello, su cui c'è stata contestazione. Così si valorizza anche l'economia processuale.

In questo contesto, la proposizione dell'appello determina la devoluzione delle sole questioni oggetto delle lamentele, sulle altre si produce non un vero giudicato, ma una preclusione endoprocessule irreversibile, impossibilità di ridiscutere la questione periva di censure dall'appellante. All'interno del capo di sentenza, vi sono tanti microcapi e su ciascuno si può riversare tale preclusione, secondo il 329 comma secondo (acquiescenza parziale), una sorta di giudicato formale o interno al processo, che non potrà mai attingere al 2909 (solo statuizioni su domande).

L'accumulazione dei motivi di appello 342 è la terminazione del giudice d'appello ad opera dell'appellante, la intensità dell'aggressione alla sentenza di primo grado. Anche i limiti specifici delimitano la cognizione del giudice d'appello. Se questa è la funzione dei motivi specifici, SU 16/2000, l'appello privo di tali motivi specifici, il giudice d'appello non li può conoscere e l'appello sarà inammissibile, per mancanza di possibilità di attività di cognizione. È la sanzione più grave che colpisce tale vizio. Non è possibile nemmeno un rilievo officioso, ma ci vuole sempre l'attività della parte. Tra l'altro, il motivo specifico non basta che sia enunciato, ma occorre anche che nella parte cd volitiva vi si affianchi una parte argomentativi: il giudice di primo grado ha sbagliato, perché doveva considerare questi altri elementi. Peraltro, si dice che l'ampiezza della parte argomentativa va correlata all'ampiezza della motivazione data dal giudice di primo grado. Però non è possibile chiedere un riesame per tutte le regioni già svolte in primo grado, perché non è specifico, non tiene conto dello iato tra i due giudizi. Ovviamente se la funzione è quella di aprire la cognizione del giudice di appello, un onere nell'appello incidentale sussiste anche in capo al soggetto appellato, che immaginiamo essere rimasto soccombente in primo grado in via meramente virtuale. Cos'è? - Il giudice di primo grado respinge due eccezioni e ne accoglie una (compensazione). Il convenuto è soccombente su alcune questioni (prescrizione, nullità) e dovrà, nella comparsa di risposta, chiedere di riesaminare le questioni dovrà a sua volta formulare motivi specifici d'impugnazione circa le questioni su cui è rimasto soccombente, di cui ambisce ad avversi ancora in appello, nella prospettiva del rigetto della domanda. Se non lo fa, il giudice d'appello non conoscerà mai più delle eccezioni, quindi la domanda verrà accolta e la prescrizione non potrà operare. Lo stesso vale per l'attore (domanda per responsabilità contrattuale e aquiliana). Basta che l'attore abbia torto su un punto perché la domanda venga respinta, altrimenti doveva fare una causa petendi alternativa. Ma la soccombenza virtuale è più immaginabile pel convenuto, comunque l'onere grava sia sull'appellante, sia sull'appellato, riguardo a tutte le questioni che sul capo di sentenza lo vedono in parte soccombente, con una soccombenza che non si riverbera sul merito della domanda. Nella comparsa i risposta dovrà fare un appello incidentale e come tale va calata l'eccezione. I venti giorni sono anteriori all'udienza liebellata, però rileva che il trib o la corte d'appello abbiano spostato la data ex 168 bis comma quinto, applicabile anche in appello. Se c'è stata questa dilazione, motu oficioso, si sposta anhe il termine per l'appello incidentale (di solito spostano di mesi, il che non è indolore).

Un'altra norma importante, che spesso s'interseca con l'effetto devolutivo, è l'art. 346, che un tempo si riteneva disciplinare l'intero effetto devolutivo, mentre oggi ha una latitudine sintetizzata nella acquiescenza parziale 329 comma secondo, combinata col 342. invece il 346 parla di decadenza delle domande ed eccezioni non riproposte. Ma le domande ed eccezioni non accolte non sono quelle respinte, ma quelle assorbite e risolte sulla base di una questione preliminare. P. e. accoglie eccezione di nullità; l'attore appella; allora il 346 dice al convenuto di riproporre le eccezioni. Anche le domande assorbite vanno riproposte, perché se immaginiamo una chiamata in garanzia, assorbita perché la domanda principale è respinta, ebbene il creditore fa appello contro il fiejussore, con evocazione in giudizio del debitore principale, allora è tenuto a riformulare la domanda assorbita, altrimenti il giudice d'appello non può deciderla. Lo stesso vale per il l.f. alternativo passivo: la condanna di uno esclude la condanna dell'altro. Quello che sborsa, impugna, ma se vuole che si decida anche su quello che in primo grado era assolto, sulla domanda alternativa, dovrà riproporre il 346. Allora occorre un appello incidentale; se invece vi è assorbimento, non serve.

La riproposizione ex 346 sulle domande assorbite si ritiene che operi fino all'udienza di p.c., perché non è impugnazione, ma richiesta di considerare i punti non esaminati. L'onere di impugnazione incidentale sulle questione è rilevante anche ai fini delle preclusioni rilevabili d'ufficio (soprattutto di rito); ma se il giudice di primo grado le ha già decise, la domanda è fondata. Se il convenuto impugna solo nel merito, il giudice d'appello non potrà mai riaprire il dibattito sulla giurisdizione o sulla capacità processuale: c'è legittimazione. Il convenuto le impugna, ma il giudice d'appello non può riesaminarle, perché coperte dal giudicato endoprocessuale.

Vi sono questioni collaterali, come il fato che la trattazione dell'appello è sempre collegiale (tre giudici in ogni passo, non un solo istruttore, come in primo grado e il collegio si vede solo alla fine, a meno che non si faccia discussione orale). Se l'appello viene fissato al 2014, non è detto che i giudici siano propri quelli! A Venezia, causa il carico di lavoro, tra l'udienza p.c. e la prima non c'è garanzia che si introitino le conclusioni.

Resta da esaminare l'art. 345, una norma che vieta nuove norme in appello, per rispetto al principio del doppio grado di giurisdizione: su ogni domanda ci devono essere due gradi. In realtà, il divieto è volto a dare una disciplina nitida al progredire del giudizio, senza poter ribaltare la materia del contendere. Nuove domande sono dichiarate inammissibili, occorre un nuovo giudizio. Sono tuttavia proponibili 345 u.c. le domande di prosecuzione, non del tutto nuove, ma che riguardano frutti, interessi e accessori maturati, nonché i danni sofferti dopo la sentenze di primo grado, in tanto in quanto fossero già stati richiesti in primo grado. Se al momento dell'appello non è stato pagato, l'attore può chiedere gli interessi fino alla pc di appello, per richiedere una forchetta temporale che estende la domanda di primo grado. Se la domanda di primo grado è respinta, in appello chiede risarcimento più interesse. Le SU hanno precisato che il 345 uc è ammesso solo se la domanda era già presente in primo grado, se no sarebbe una domanda nuova.

Il comma secondo vieta le eccezioni in senso stretto, mentre restano quelle in senso lato, che non sono una nuova proposizione, affinché il giudice tenga conto anche i eccezioni rilevabili d'ufficio. È una mera sollecitazione al potere del giudice. Queste eccezioni sono liberamente proponibili. Il problema è quello della prova: in quanto rivolta a sollecitare l'attenzione del giudice, l'eccezione in senso lato non allarga l'oggetto, ma è solo una sollecitazione che non può essere preclusa, sempre proponibile dal convenuto (o dall'attore in via riconvenzionale, ecc.) Allora se il convenuto dice che ha pagato, siamo nelle attività che può fare anche in appello. Ma se il documento non era già acquisito agli atti, c'è il problema della prove nuove, che il convenuto deve produrre per fare eccezione in senso lato. Allora dal 345 comma secondo ci si salda al 167 (preclusione all'eccezione sl che matura in primo grado nella comparsa di risposta), la decadenza è irreversibile e l'eccezione non si recupera più. Invece le eccezioni vanno nella disciplina delle nuove prove: 345 comma terzo: non sono ammesse nuove prove, il che si salda colla preclusione in primo grado (la seconda memoria del 183 comma sesto). L'inammissibilità di nuove prove vale (SU aprile 2005, nn. 8242-8243, sentenze gemelle, una sul rito del lavoro, l'altra col rito riformato) anche le prove costituende, ma anche le prove documentali, rovesciando tra l'altro 30 anni di giurisp. sul processo del lavoro. Se si producono nuovi documenti, vanno stralciati dal fascicolo, ma con due eccezioni:

1) La parte dimostri di non averli potuti produrre in primo grado per causa a lei non imputabile, giustifica la non negligenza, come il 184 bis, per recuperare la prova non dedotta, non per malizia o trascuratezza, ma perché non si conosceva il documento o il testimone.

2) (Più indeterminata.) non sono ammessi. salvo che il collegio non li ritenga indispensabili per la decisione della causa (ipotizza che siamo in appello). Si cono date tutte le interpretazioni per il concetto di "indispensabilità", qualcosa di più della rilevanza, ma cosa? - Quella prova che basta a ribaltare il primo grado, oppure quella che permette al giudice d'appello di decidere evitandoli di far leva sull'onere della prova, quindi quando in primo grado c'era una fatto incerto, con una regola residuale. Allora il giudice d'appello può decidere avendo piena convinzione di come si sono svolti i fatti, a vantaggio dell'attore o del convenuto (tesi di Proto Pisani, abbastanza barocca). La tesi migliore è quella che considera il documento non meramente rilevante, ma entra come lama nel burro, capace di portare il giudizio sicut sagitta a una sentenza opposta al primo grado. Colle du' sentenze, la kass ha detto che le nuove prove sono ammesse quando ajutano il giudice verso una verità incorsa in preclusione. Altrimenti la realtà si presenta incompleta, su un fatto che con si è potuto provare. Così arriva a una statuizione sul merito più vicina alla realtà fattuale, con una sentenza che rifletta la sostanza. Però va detto, che qualunque tesi si accolga, rimane un grosso problema: le prova del 345 comma terzo sono ammesse in deroga alle preclusioni, allora bisogna stare attenti a largheggiare coll'indispensabilità, perché così si cambiano in corsa le regole del gioco. Possiamo introdurre nuovo materiale istruttorio a preclusioni già calate. Il problema si ricollega a quello delle eccezioni in senso lato, dove c'è il problema della prova. Però se troncano una domanda, se uno produce la quietanza, è difficile dire che la sentenza non può essere rovesciata, perché il venditore non può essere condannato a pagare una seconda volta. Con altre eccezioni è più difficile (es. impossibilità sopravvenuta).




MANCA solo lunedì 5 maggio 2008!




Martedì 6 maggio 2008


La kassazione.

È quell'impugnazione di vertice dell'organizzazione giuridica, art. 111 cost, un ufficio a cui ci si può sempre rivolgere per un controllo sulla violazione di legge, garanzia soggettiva pei litiganti, ma anche oggettiva, nel senso che il ricorso è sempre ammesso per violazione di legge. Tutto ciò dà riscontro di una funzione che traspare nell'art. 65 dell'ordinamento giudiziale. La kass è giudice dell'impugnazione di mera legittimità, per l'esatta osservanza della legge, è il ruolo dell'organo accentrato per uniformità sul territorio nazionale, nel momento applicativo. Il ricorso per kass è garantito solo per violazione di legge. La kass accumula questa duplice funzione, come risultato di un'evoluzione storica, nata all'epoca della rivol. francese, quando il potere era diffidente dell'autonomia del giudice, che non doveva interpretare la legge, già chiara i per sé. Se avesse interpretato la legge, avrebbe usurpato il potere legislativo all'assemleah nazionale. I rivoluzionari hanno inventato il trib. di kass, un cerbero sul collo dei giudici. Il compito specifico doveva essere solo l'eliminazione (cassation) della sentenza che interpretava la legge. Ma in pochi anni il trib di cassazione diventa il centro dell'attività giurisdizionale, non appena si è dimostrato che il giudice non è una mera bouche de la loi. L'applicazione sta a monte dell'interpretazione, con un significato forse coerente col legislatore, forse diverso.

L'utopia del giudice "bocca della legge" porta il trib. di kass. (dal 1837: corte di kassazione) nell'età napoleonica a rendersi protagonista non solo di decisioni cassatorie (non serve la motivazione: è sempre usurpazione del giudice!), ma allora è la kass. che fa attività interpretativa. Però resta un tipico connotato nella funzione cassatoria del mezzo, che si risolve in una conferma o in un annullamento della sentenza impugnata, per aprire un nuovo esame nel merito (al giudice del rincio), affinché renda la decisione. Nel modello italiano, invece, la decisione può anche essere opera della kas (484 cpc) se non occorrono ulteriori rilievi di fatto. Così il modello classico è contaminato. Il problema della kass allora è che davanti ad essa si va solo per legittimità, cioè per le violazioni di legge. L'esame del fatto è riservato ai giudici del merito. La kass ha la funzione di creare un precedente, che può essere seguito, relativamente all'aspetto significativo della norma. Invece non si può disturbarla per questioni irripetibili del caso singolo.

La kass vive in un empireo, dove si individua solo il significato astratto delle leggi. Una distinzione importante è proprio vedere dove finisce il fatto e incomincia il diritto, in particolare di fronte a testi normativi con concetti indeterminati (es. giusta causa di licenziamento: è di fatto o di diritto? L'equità? La b.f.? - Sono concetti aperti).

La kass è un mezzo prescindente alla conferma o all'annullamento della sentenza, a critica vincolata. Ci sono cinque motivi tassativi (360) di ricorso per kass:

Violazione delle norme sulla giurisdizione;

Violazione delle norme sulla kompetenz;

Violazione o falsa applicazione delle norme;

Nullità della sentenza o del provvedimento.

In questi quattro numeri sono errores in procedendo (1-2-4) ed errores in iudicando (3). Sono norme di diritto sostanziale, che presiedono al bene della vita conteso, ma al n° 3 ci sono anche norme di diritto processuale. P. e., nell'opposizione agli atti esecutivi, l'esecutato contesta la regolarità del proc. esecutivo. Sono errores in iudicando de iure procedendi. Il 360 n° 3 oggi è stato arricchito, dal 2006, dalla materia dei contratti collettivi nazionali di lavoro, senza che questi arrivino a fonti del diritto, restano contratti, solo che la loro applicabilità dà alla kass l'occasione di interpretare le clausole suscettibili di applicazione infinita, colla possibilità di creare un precedente, al pari delle norme di legge.

Un quinto motivo di ricorso per kass è il 360 n° 5: vizio di motivazione, su un fatto decisivo pel giudizio. Ma è un giudizio che si avvicina al fatto, ma al sindacato la kass si può approcciare solo nel sindacato indiretto sull'adeguatezza della motivazione data dal giudice di merito (omissione, insufficienza, contraddittorietà dei motivi). Può essere controllata non nella sua correttezza, ma la kass si limita a controllare la giustificazione completa, logica e non contraddittoria: è un riesame indiretto della quaestio facti. Non è un nuovo giudizio sulle prove (acquisizioni istruttorie). Magari il giudice del merito non ha tenuto conto di un documento, allora la motivazione è vizïata da un'omissione, oppure non ha sentito un testimone e non ha motivato circa la mancanza di risultanze istruttorie (parziale motivazione di fatto). Sulla parte impugnante vi è un onere di riportare per esteso il testo del documento non considerato o l'oggetto della deposizione del testimone pretermesso. Allora la kass può valutare la decisività della prova mancante, altrimenti il ricorso è dichiarato inammissibile per mancanza di decisività. Tutti gli elementi necessarî devono essere presenti nel ricorso, senza che la kass debba perdere tempo a controllare. Il ricorso per omessa o insufficiente motivazione, se accolto, può portare a un rinvio, che dà un esito uguale a prima, basta che il giudice di merito questa volta motivi meglio la sentenza. Questo "paradosso" fa veder che il sindacato è sempre indiretto, ma potrebbe lasciare il giudice di merito a mani libere.

Il ricorso per kass va sottoscritto da un avvocato munito di procura speciale, con almeno dodici anni (anche per la corte cost.). Il numero dei ricorsi è abnorme (da quest'anno più di trentamila). Il legislatore del d.lgs. 40/2006 ha cercato di creare le condizioni per assolvere la funzione oggettiva della kass, di nomofilachìa. Pronunciando circa ventiquattromila sentenze, è difficile un'interpretazione uniforme della legge (sono circa 160 magistrati, in cinque sezioni, con composizione alternata). È fisiologico il rischio di contrasto di giurisprudenza, poiché stiamo nel seno dell'organo deputato all'interpretazione della norma nazionale.

Ci sono poi momenti in cui speciali esigenze pratiche rendono obsoleto un indirizzo sino allora seguito (p.e. sull'anatocismo trimestrale bancario: la kass ha stabilito che le clausole invalide in base al 1283).  Oppure pensiamo alla materia fallimentare: la kass ha affermato che il curatore fallimentare può sciogliersi dal preliminare, a patto che la trascrizione non sia avvenuta. Così la kass si ricompatta su una posizione. Fino allora i contrasti erano inevitabili, o voluti: ribellioni di sezioni semplici vs le SU. Art. 374 secondo comma: composizione dei contrasti su precedenti di massima importanza. Ma vi erano casi frequenti di ribellioni. Rispetto a questa situazione ingestibile, il legislatore ha predisposto meccanismi che consentano di garantire l'interpretazione uniforme, piuttosto che diventare un supermarket. Col d.lgs. 40/2006, il legislatore ha introdotto il divieto di equità per il giudice di pace, sgravando di molto la kass. E lo stesso ha fatto per le decisioni ingiuntive. Altri interventi sono stati messi in campo.



Mercoledì 7 maggio 2008


Dottoressa Pilloni. Art. 295: la sospensione necessaria del processo.

È una paralisi temporanea, nella quale non possono porsi atti giuridici, e il processo entra in quiescenza, che ha fine colla riattivazione o col definitivo abbandono del processo. Il legislatore vuole che il processo si chiuda, ma non sempre questo accade. Questa sospensione va a dilatare i tempi del processo. Carnelutti ha visto una sorta di crisi del processo e alcuni hanno visto nella sospensione un diniego di giustizia (comunque è una stasi temporanea).

Ci sono molte ipotesi sospensive. Nel processo di esecuzione: artt. 615 + 624, o il 512. Nel processo di cognizione: regolamento di komp. o di giurisdizione 367. Altre ipotesi: questione di legittimità cost. durante il processo. Sono tutte ipotesi di vicende sospensive.

Artt. 295 sgg. (libro secondo): disciplina peculiare della sospensione, è una disciplina uniforme di sospensione necessaria. Art. 296: sospensione volontaria delle parti. E sempre il presupposto va interpretato dal giudice. Nel caso di sospensione concordata del 296 c'è una ratio particolare, con presupposta l'istanza e la concessione, al massimo per quattro mesi (ma il giudice non è vincolato). La ragione è semplice: le parti stanno cercando una transazione. Oggi la norma non ha un grande uso,  perché dal 2001 si parla di "ragionevole durata", ma è difficile che le sentenze si tengano ogni quattro mesi.

È più interessante la sospensione necessaria ex 295. Vi sono du' processi pendenti, di cui uno ha un oggetto pregiudizïale sull'altro. Questa sospensione, per Liebman, l'unica sospensione vera e propria. Un processo va sospeso in attesa dell'esito dell'altro (p.e. richiesta di alimenti più status di figlio). Un altro giudice dev'essere investito della questione.

Le norme seguono la stessa ratio e disciplina. La sospensione necessaria è un istituto complesso. È definita necessaria, perché il giudice - se ci sono quei presupposti - deve sospendere, anche d'ufficio. Qui non c'è discrezionalità, perché il giudice è vincolato. Allora occorre dare un contenuto alla pregiudizialità, in particolare tra processo civile e processo penale, riguarda i rapporti di coordinamento. La prima ipotesi è questa: due processi pendenti, civile e penale, di cui il secondo è pregiudiziale. Nel vecchio cpp, art. 3, c'era il principio di unità della giurisdizione e della prevalenza della giurisdizione penale, che si concretizzava nella sospensione del processo civile, per la pendenza di un proc pen con l'efficacia di giudicato anche civile. L'art. 295 cpc è stato rifatto nel 1990. il principio di unità di giurisdizione si concretizzava in diverse situazioni: se durante il processo civile si scopriva un reato, veniva sospeso, questo fa capire la prevalenza. Un'altra ipotesi: un fatto come reato faceva sospendere la domanda di risarcimento danni.

Nel 1989 è entrato in vigore il novo cpp, che non segue più quel principio, bensì quello dell'autonomia del giudizio civile da quello penale, quindi non più una sospensione generalizzata. In linea di massima i du' processi proseguon parallelamente. L'art. 75 cpp sancisce i casi di sospensione del proc. Civile in attesa del proc. penale. si entra nel campo della coordinazione. L'ipotesi è sempre quella del nesso di pregiudizialità tra i due processi, specie per le azioni di restituzione o di risarcimento danni derivanti da reato. La norma dice che se l'azione civile è proposta al giudice civile per risarcimento danni, l'attore ha due possibilità: continuare l'azione, oppure trasferirla in sede penale. Il primo presupposto è che non ci sia una sentenza di primo grado, il secondo che ci si possa ancora costituire parte civile nel proc. penale. Infatti per trasferire il proc. in sede penale occorre costituirsi, in tal modo il proc. civile si estingue.

L'ipotesi più interessante è quella di un processo penale, in cui, a un certo punto, il danneggiato intenta l'azione civile: se inizia dopo essersi costituito parte civile, ovvero se c'è già un primo grado di sentenza penale, allora il processo civile viene sospeso, fino all'esito del processo penale. Questo comporta una deroga. Il 75 comma terzo cpp contempla una serie di eccezioni.

Il legislatore ha voluto evitare la cd "fuga dal processo" penale, quando il danneggiato teme che si concluda con un esito sfavorevole, con efficacia anche civile, che farà stato. Il giudice civile dovrà accertare autonomamente i fatti. Il principio è stato nuovamente messo in crisi, a causa dell'art. 211 cpp, una norma che Consolo definisce criptica e ambizïosa. In realtà, si ha sospensione solo ne' casi tassativamente previsti: 753 cpp e leggi speciali del caso.

Dobbiamo vedere le ultime due ipotesi. La prima si ha quando pendono due giudizî civili, in un rapporto di pregiudizialità dipendenza, sul piano del merito. La nozione di "fatto pregiudiziale" è di Allorio: quando è un fatto costitutivo di un'altra fattispecie. Sono tutti i casi di questioni pregiudiziali di merito, questioni che hanno ad oggetto diritti o status, il cui accertamento si pone come pregiudiziale, come oggetto di un autonomo processo. In questi casi il giudice civile deve sospendere il giudizio dipendente, ma la norma non dice le ipotesi. Allora la dottrina ha cercato di interpretare la norma. Satta aveva detto che l'art. 295 vale nei soli casi in cui la legge lo dicce. Ma è un'opinione molto riduttiva, infatti lo stesso Satta l'ha cambiata. Un'altra tesi ha detto che il 295 opera sempre, quando non opera a monte il 34, perché non è possibile che il giudice decida incidentalmente della causa pregiudiziale. Ma anche questa tesi non è seguita dalla giurisprudenza. Merchini aveva rispolverato la tesi della pregiudizialità tecnica e logica di Satta e ha detto che solo la pregiudizialità tecnica porta alla sospensione del processo dipendente. Se non operano gli artt. 34, 274, 40, ecc., non si sono unificati i processi, allora si sospende il processo dipendente, anche per ragioni di economia processuale. In realtà la ragione è evitare un conflitto di giudicati, quindi per ragioni di coordinamento decisorio. In giurisp. si è elaborato un concetto di pregiudizialità tutte le volte che la decisione pone come antecedente logico-giuridico dell'accoglimento della domanda sul processo dipendente. Poi è necessario che i processi intercorrano tra le medesime parti, inoltre non deve essere stato possibile il simultaneus processus sulle due questioni.

La kass, su casi pratici, (accertamento di un credito + azione revocatoria di un atto) in un primo tempo ha detto di sospendere la revocatoria in attesa dell'accertamento, ma altre pronunce dicono che è un accertamento solo eventuale. Le SU finalmente hanno detto che non si dà sospensione, perché non c'è pericolo di conflitto tra giudicati. Anche se la revocatoria è accolta, non può portare un'utilità, finché non c'è un titolo esecutivo, cioè l'accertamento.

Altri casi emblematici: nullità dell'atto + adempimento del credito. Qui si può applicare la sospensione per pregiudizialità dipendenza. Ma qui entra in gioco l'istituto della continenza qualitativa: una domanda abbraccia gli effetti dell'altra. Vi sarebbero molti altri esempi, ma il problema è che i presupposti non sono chiari nemmeno alla giurisprudenza. Ciò che dev'essere chiaro è quello che si è detto prima: sospensione come crisi e diniego temporaneo di giustizia, per cui occorre utilizzare le norme sul simultaneus processus per evitare la sospensione del processo pregiudiziale, per quanto riguarda la pregiudizialità civile.

L'ultimo aspetto è quello della sospensione per pregiudizialità amministrativa: un giudizio civile che attende un giudizio amm. Ma è un evento raro, perché se il G.A. può disapplicare l'atto, non c'è bisogno di aspettare. Vengono in rilievo solo i casi di giurisd. amm. esclusiva, invece in tema di giurisd. su interessi legittimi è più difficile. L'unico caso è un decreto di esproprio impugnato davanti al G.A. e contemporaneamente c'è una causa civile sui confini del terreno. Al di fuori di questi casi, ci sono poche ipotesi.

La disciplina è contenuta nelle norme 295 sgg. La ratio è nota, è un fondamento che mira a evitare il conflitto di giudicati. Il provvedimento sospensivo è un'ordinanza del giudice. È impugnabile (solo la sospensione necessaria!) con regolamento necessario di komp. ex 42. Se invece sono le parti a chiederlo, non può essere impugnato. Gli effetti portano a un arresto del processo, impedendo altri atti giuridici. Però ci può essere qualche attività: la tutela cautelare (anche se il processo è sospeso, i termini sono interrotti, la ragione è maggiore per chiedere tale tutela cautelare: 669 quater), atti urgenti (deferimento al giuramento decisorio, ecc.: atti che perderebbero la loro utilità.) Gli effetti vengono meno quando cessa la causa di sospensione, per il passaggio in giudicato o la cessazione del processo. Allora o si riattiva, o viene irrimediabilmente abbandonato. Le parti (spec. l'attore) dovranno chiedere al giudice di rifissare l'udienza entro sei mesi dalla cessazione della causa di sospensione. Il dies a quo decorre oggi da quando la parte ha avuto conoscenza della cessazione.



Martedì 13 maggio 2008


[Recupereremo la lezione di jeri lun 26 mattina. Doman non c'è lezione]


Il legislatore riforma il giudizio per kass., per un principio di nomofilachìa, affinché possa dedicarsi ai ricorsi più importanti, sgravando l'afflusso con prescrizioni che mirano a tale risultato in via indiretta. Da un lato dissemina di trappole la strada verso la kass., aumentando le ipotesi di inammissibilità. Dall'altro lato aumenta le ipotesi di sentenza di rito in kass. Il leg. cerca di far sì che aumenti la valenza dei precedenti in kass., che i precedenti divengano più reperibili, leggibili e seguibili, anche nella stessa kass., per ridurre i fenomeni di contrasti (altrimenti la kass. sembra un supermercato dove tutti trovano il prodotto per il caso loro).

Il primo ordine di intervento è l'aumento di ipotesi di inammissibilità, art 366 bis, che si affianca al 366, dove sono indicati gli elementi contenutistici, e al n° 4 ci sono i motivi per adire alla kass. I motivi - a fortiori - sono specifici, ancor più in linea di massima sono la causa petendi di annullamento contro la sentenza di appello. La kass. potrebbe annullarla anche solo ritenendo fondati i motivi del ricorrente.

Basta che la norma violata si desuma dal motivo, dalla parte argomentativa, anche senza indicare l'art. del codice. Inoltre la kass. ha sviluppato (n° 5 del 360) una giurisp. molto restrittiva, sul principio di autosufficienza del motivo o del ricorso: occorre indicare dove si è verificato l'error in procedendo, trascrivendo il motivo che il giudice d'appello ha pretermesso; se si lamenta l'omissione di un mezzo di prova, questa va trascritta per esteso (es. le domande che si voleva far al teste).

Il leg. del 2005-2006 ha introdotto anche l'art. 366 bis: nei casi previsti dal 360 1, 3, 4, l'illustrazione di ogni motivo si deve chiudere con la formulazione di un quesito di diritto, cioè una parte da evidenziare, in cui il ricorrente riassume l'essenza della sua censura, per cui aggredisce la sentenza d'appello. Solo che questo dà luogo a un sacco di declaratorie di inammissibilità presso la kass. Il problema non è quando manca il quesito, ma quando esso sia pertinente alla fattispecie: pertinenza anche al motivo di ricorso e alla ricostruzione normativa della fattispecie. La kass va a sindacare se il quesito è corretto, non tanto nelle problematiche riassunte, ma se va a toccare tutti gli elementi rilevanti ai fini della decisione favorevole. La giurisp così arriva a paradossi: la kass deve poter rispondere solo no o . Non ci possono essere quesiti alternativi, che potrebbero indurla in errore sulla causa petendi. Si arriva a un paradosso. Una volta, la kass. in 12 facciate (febbraio 2008) esamina il motivo di ricorso (materia tributaria), poi dice che il quesito non tocca il motivo, né la fattispecie astratta, quindi è inammissibile. Così spende uno sforzo enorme per niente, era meglio esaminare il motivo del ricorso, invece della confezione del quesito. Altro paradosso. Nel nuovo 363, la kass. può accogliere ed esaminare ricorsi inammissibili, se la questione è rilevante, affinché possa affrontare il punto di diritto per creare un precedente. A luglio 2007 la kass. ha dichiarato inammissibile un ricorso perché il quesito era fatto male, però l'ha deciso lo stesso perché il motivo era rilevante. Sostanzialmente l'ha rigettato nel merito, eppure avrebbe anche potuto deciderlo nel merito, non sapendo come la censura sarebbe andata a finire: allora un ricorso che sollevava una questione intelligibile e fondata era dichiarato inammissibile, ma tanto fondato da portare la kass. a condividere la censura dell'impugnante; che invece è stato condannato al non essere preso in considerazione, a causa di un balzello formale, un quesito formulato in modo adeguato. Con l'esito inverso, non sarebbe stato conciliabile in luce del giusto processo: vallo a spiegar alla corte europea dei diritti dell'uomo! Avere un ricorso fondato e chiaro, ma condannato solo perché non soddisfa requisiti teorici, non è accettabile. Ogni ragione di inammissibilità deve avere una giustificazione seria, perché impedisce alla parte il suo diritto a un grado di giudizio, messo a disposizione su un piano di uguaglianza sostanziale 3 cost. Una cosa è l'inammissibilità su dati oggettivi, un'altra quella su ragioni solipsistiche personali del giudice di quella mattina.

Oltre al quesito di diritto, c'è qualcos'altro. Nel 366 è stato aggiunto un n° 6, una norma formalistica: come se contenesse l'elenco dei documenti richiesti al ricorrente, in base al motivo del ricorso. Tra l'altro, nel depositare il ricorso, occorre depositare anche gli atti processuali su cui esso si fonda. Così sembra (combinato disposto 366 n° 6 + 379 n° 4) richiedere (un pajo di pronunce) che questi documenti siano oggetto di separati depositi, indipendentemente dai fascicoli in cui sono contenuti, perché la kass faccia meno fatica a reperirli, eppure devono sempre essere ritrascritti. Anche qui ci sono stati eccessi formalistici, per consentire alla kass l'improcedibilità dei ricorsi, cui si arriva non per la diminuzione delle pronunce impugnabili, ma con un aumento degli inghippi cui l'avvocato va incontro per ottenere una pronuncia nel merito.

Il quesito di diritto va formulato ex art. 360 nn. 1-2-3-4. Il leg. non chiede il quesito di diritto per omessa  insufficiente motivazione: se insufficiente in fatto, non serve quella in diritto. Ma il leg. si è accontentato, quindi nel n° 5 pretende di più: la chiara indicazione del caso controverso, ma è una valutazione discrezionale e soggettiva. In più va aggiunto (anche se dalla norma non emerge) che parte della kass richiede sempre una parte ad hoc, in chiusura, per cui il motivo di ricorso, anche per vizi di motivazione, vada sintetizzato in pillole, col fatto controverso, ovvero con l'indicazione per cui la motivazione è insufficiente. È una parte graficamente separabile e riassuntiva. Non c'è un quesito di diritto, ma una prassi paeter legem, ancora un approcci restrittivo e formalistico.

In tre o quattro anni la kass dovrebbe svolgere l'arretrato, con trenta o quarantamila pronunce all'anno. Invece va rimarcato come il quesito di diritto doveva ausiliare il lavoro della corte, secondo il disegno del leg. Il contraltare, pei giudici, è l'onere di formulare in calce della decisone di ogni motivo del ricorso il principio di diritto, enucleandolo in modo evidenziato sul piano grafico. Art 384, primo comma: diventa un obbligo in tutti i casi di ricorso ex 360 n° 3 (violazione norme di diritto sostanziale), anche in caso di rigetto; nonché quando ritenga di aver risolto una questione di diritto di particolare importanza (nn. 1-2-4-5).

Finora la formulazione del principio non esisteva, salvo ex 360 n° 3. Oggi, serve sempre in caso di questioni di diritto di grande importanza: occorre la ratio della decisione, il che incrementa le ipotesi. Questo porta a una formalizzazione di un altissimo numero di principi di diritto, con cui si deve chiudere ogni sentenza importante. Così il collegio decidente toglie lavoro all'ufficio del massimario, che fino alla riforma era composto da magistrati addetti a spulciare le sentenze per formulare le ratio decidendi, il tutto in un contesto, dove i principi diventano i protagonisti della legittimità.

Col principio di diritto, il leg. vuole rafforzare l'autorevolezza dei precedenti, affinché vengano difficilmente dimenticati. Allora riguardo al principio si gioca l'efficacia. Una novità del 2006 è il vincolo delle sezioni semplici alle SU (art. 374): se devono decidere su una questione identica, o si conformano, oppure la rimettono alle SU, con ordinanza motivata, perché solo le SU possono superare un principio.

Art. 363: ricorso nell'interesse della legge. Il PM poteva proporre tale ricorso, non per riparare all'errore, ma per smentire un principio, nell'interesse di una corretta interpretazione della legge. L'istituto del 363 non è mai stato applicato in 64 anni, né il corrispondente istituto del codice del 1865. Allora il leg. vi aggiunge la previsione che la kass. accolga ricorsi inammissibili, in ambiti sottratti al su' controllo, non idonei al giudicato formale. È ammesso il ricorso straordinario ex 111 comma settimo cost. Allora il termine "sentenze" va inteso in senso sostanziale, però deve essere un provv. definitivo su un bene della vita (non pronunce cautelari, né in camera di consiglio). Di fronte a un ricorso inammissibile, il leg. che fa? - Dà alla corte l'occasione per esprimere la propria autorevolezza sul merito! Allora la corte decide quando intervenire, per dare un orientamento unitario e creatore di un precedente rilevante (un po' come la corte anglosassone, che esamina solo alcuni casi, che sceglie ritenendoli interessanti). Sia dal PM, sia dalla corte stessa, essa è chiamata a enunciare il principio di diritto, in base al nuovo 363, comma terzo.

Con questo strumento si arriva ad altre due novità col decreto 40/2006. È il procedimento più semplice, con un'unica udienza (non ascoltano nemmeno l'avvocato, perché dicono di aver già letto il fascicolo: ognuno pensa alla propria relazione, il che rende la decisione quasi monocratica).La prima è il potenziamento del rito camerale in corte di kass., con rito accelerato, artt. 375, 380 bis e 380 ter. È il procedimento prescritto per la declaratoria di inammissibilità e improcedibilità in rito, o per manifesta infondatezza, quindi anche nel merito.

Ma non è stato accelerato e differenziato dall'altro rito. Oggi il relatore spiega perché ritiene di discutere e accogliere o respingere (n° 5 del 375) il ricorso, per manifesta fondatezza o infondatezza. Ma quand'è che ci può essere fondatezza o infondatezza "manifesta"? - Dipende da un iter di principio di diritto conforme. Diventa una situazione che trova riscontro solo nel suo principio di diritto. La decisione camerale va sempre resa con un'ordinanza.

Un'ultima innovazione è quella del 385 quarto comma, tutta nuova, dove si prevede che, quando la kass si pronuncia sulle spese, anche d'ufficio, condanna la parte soccombente al pagamento (a forfait, come una condanna punitiva), per una somma pari fino al doppio dei massimi tariffari, in caso di colpa grave. Ma quando c'è colpa grave? - È quando si va contro un principio di diritto sancito dalle SU. Ci vuole una sorta di dolo specifico, es. usare l'impugnazione per dilazionare le ragioni dell'avversario, mettendone in imbarazzo la difesa. Ma può essere anche l'ipotesi di interpretazione strampalata delle norme. Allora anche nel nuovo 385 aleggia questo principio di diritto. Una nota simpatica: se resiste chi ha vinto in appello, se condannato ora è alle spese, un minimo di condivisione ci dovrebbe essere con chi ora cerca di rimanere avvinghiato a una vittoria immeritata.




Martedì 20 maggio 2008


Oggi incominciamo i procedimenti sommari e l'esecuzione forzata. Col prof. Livieri abbiamo già visto la tutela cautelare.

Differenza tra tutela sommaria cautelare e non cautelare. Sono una contrapposizione che ha come elemento comune la sommarietà: in entrambi i casi in cui il legislatore mette a disposizione un procedimento avente carattere sommario destinato a svolgersi secondo cadenze più celeri rispetto al processo ordinario di cognizione, per arrivare più rapidamente a rispondere alla domanda (formulata per ricorso).

Hanno inoltre in comune:

Tendenziale immediatezza dell'efficacia dei provvedimenti: perché la sommarietà è la risposta dell'ordinamento ad una tendenziale maggiore urgenza e quindi i provvedimenti tendono ad avere efficacia immediata; in particolare immediata efficacia esecutiva.

Ipoteticità nella pronuncia del provvedimento: se nel processo sommario abbiamo una valutazione più celere vuol dire che abbiamo una presa di cognizione più superficiale e questo comporta che quando il giudice si pronuncia lo fa sulla base di una valutazione che non è approfondita come quella che compie il giudice nel merito. La valutazione è di verosimiglianza non di certezza.

Le due tipologie di istituti si differenziano per:

Provvisorietà

Strumentalità

I due connotati in qualche misura vanno a braccetto, i cui contenuti possono essere delimitati in modo diverso. Si allude al fatto che il provvedimento cautelare è sempre provvisorio nel senso che è sempre esposto ad essere caducato o in generale assorbito dal risultato di una possibile cognizione ordinaria piena di merito, perché l'efficacia del provvedimento cautelare si estingue al momento della sua esecutività. Ce lo dice l'art. 669 opties cpc ult. co. "l'autorità del provvedimento cautelare non è evocabile in altro processo"; è una forma un po' barocca, per dire che non ha la forza del giudicato ex 2909 cc (ne bis in idem). Si è sempre esposti ad eventuale altro provvedimento di merito.

La strumentalità è una conseguenza della provvisorietà cioè il fatto che il provvedimento cautelare è lo strumento per dare una risposta urgente e celere ad un'esigenza di tutela che potrebbe calarsi all'interno di un giudizio di merito. È una risposta ad hoc che dà il diritto processuale ad una situazione sostanziale che non si trova solo nella situazione di sofferenza che motiva l'intervento del giudice; la lesione richiede una tutela immediata. Per questo la tutela cautelare è strumentale ad una tutela ordinaria, è un momento interinale/intermedio all'interno di un percorso che è destinato a sfociare anche ad una cognizione ordinaria piena (art. 669 novies).

Se la cognizione di merito è concorde non abbiamo caducazione ma assorbimento.

Questi due caratteri non ricorrono invece nella tutela sommaria non cautelare che sono provvedimenti che il legislatore costruisce e disciplina avendo di mira la possibilità che questi provvedimenti possano consolidarsi; la tutela sommaria non cautelare ha la capacità di diventare stabile tanto quanto la cosa giudicata sostanziale e questa capacità non è fisiologica/normale, il legislatore prevede uno stadio di cognizione sommaria e il legislatore dice che dopo ad essa vi è la possibilità di attivare anche un percorso a cognizione ordinaria piena, ma questa è solo una possibilità, non è un obbligo. Se la cognizione piena non viene attivata il provvedimento di tutela sommaria si stabilizza a causa della non contestazione e assume forza di sentenza.

La pienezza della tutela giurisdizionale può essere raggiunta tramite il decreto ingiuntivo non opposto.


Tornando alla tutela cautelare, uno dei suoi connotati strutturali era rappresentato dalla "strumentalità necessaria" fino al 2006 28 febbraio. Nel senso che per come era disciplinata la tutela cautelare (da un pacchetto coeso di norme da 669 bis a 669 terdecies) non era possibile usufruire di un provvedimento cautelare in assenza di una cognizione ordinaria piena parallelamente pendente e che sarebbe cominciata di li a poco; la cautela o si innestava in un giudizio di merito già avviato o si concatenava rispetto ad un processo di merito da avviarsi in tempi brevi.

Ottenuto il provvedimento ante causam il provvedimento diventava inefficace se non veniva avviato un processo entro tot giorni. Nei 30 giorni era indispensabile l'introduzione della causa di merito a pena di caducazione del provvedimento

Instaurata la causa di merito nelle ipotesi di provvedimento ottenuto ante causam o comunque nel corso della causa di merito se il provvedimento cautelare fosse stato richiesto lite pendente in ogni caso il provvedimento cautelare perdeva efficacia in caso di estinzione del processo (quindi se ne perdeva l'utilità).

Il legislatore 2005/2006 ha modificato parzialmente il regime della strumentalità necessaria. Nel nuovo 669 opties aggiunge che i commi precedenti non si applicano per i provvedimenti d'urgenza ex 700, anticipatori cautelare, le denunce di nuova opera o di danno temuto. Il legislatore nel 2005/2006 passa ad un regime binario, da un lato vi sono i provvedimenti cautelari conservativi il paradigma dei quali è il sequestro conservativo e che sono quelli che tendono a congelare una situazione in attesa di vedere chi ha ragione e chi ha torto. Per questi provvedimenti con natura conservativa resta la strumentalità necessaria: nei 60 giorni (allungati) devo introdurre la causa di merito e se questa si estingue o non viene fatta il provvedimento cautelare diventa inefficace e si perde la sua utilità.

Per i provvedimenti con natura anticipatoria invece possono sopravvivere, a prescindere da un giudizio di cognizione ordinario. Sorta di autonomizzazione del procedimento cautelare. Resta comunque ferma la provvisorietà, anche se non è più inevitabile.

Il fatto che resti ferma la provvisorietà continua a tenere separati i provvedimenti sommari cautelari da quelli non cautelari che possono stabilizzarsi come le sentenze passate in giudicato formale.

In Inghilterra il sequestro conservativo non opera in rem come da noi (su beni individuati) ma in persona (si ordina ad un soggetto di non rispondere dei suoi beni); è la freezing injunction.


A quale novero di provvedimenti cautelari si applica questa aggiunta nel 669 octies? Si poteva fare un nuovo art. perché qui i commi sembrano contrastanti.

Non si applica ai provvedimenti d'urgenza ex 700 e altri idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, nonché alle azioni di nunciazione.

C'è un regime distinto per i provvedimenti non conservativi per cui non c'è più la strumentalità necessaria. Il provvedimento cautelare è anticipatorio quando senza arrestarsi a congelare la situazione esistente per vedere chi ha ragione viene incontro non al c.d. pericolo da infruttuosità che è il pericolo cui risponde la tutela cautelare conservativa, ma pericolo di tardività (non è il timore che un domani il mio debitore diventi incapiente ma è il problema di andare incontro a qualcosa di irreversibile, che al massimo porterà a risarcimento del danno ma non soddisfacimento. Es. il lavoratore chiede ordine di reintegra al posto di lavoro, ha bisogno di lavorare ora; es. 2 di fronte ad un recesso non per giusta causa il produttore può ottenere un provvedimento che gli dia in via immediata un ordine di prosecuzione del rapporto di fornitura per tutta la durata del periodo di preavviso; è quest'ultima una tutela diversa da quella che potrei ottenere con la sentenza definitiva, che nel momento in cui attesta la legittimità del preavviso non potrà dire continua a fornire per tot tempo, al massimo potrà darmi il risarcimento del danno; qui non è provvedimento anticipatorio in senso stretto proprio perché con la sentenza vera e propria otterrei qualcosa di diverso; il pericolo da tardività irreversibile e che se da oggi a domani non ho più materie prime fallisco e dopo non c'è più niente da recuperare perché il risarcimento del danno contrattuale non rimedia. Questi sono provvedimenti di natura anticipatoria).


Per i provvedimenti anticipatori così latamente intesi, per i provvedimenti ex 700 (apparentemente il legislatore dice tutti i provvedimenti del 700, anche se teoricamente potrebbero anche essere di contenuto ..), per i provvedimenti di denuncia di nuova opera o di danno temuto non vale il regime della strumentalità necessaria.

Questo ha prospettato agli interpreti il dubbio di fronte ad un determinato provvedimenti se c'è l'obbligo o no della causa di merito. Parlando di provvedimenti anticipatori, che è una nozione dottrinale, il legislatore introduce una nozione che potrebbe essere intesa in più modi. E' un bel rischio.

Ma non è il giudice della cautela quello che deciderà sulla natura del provvedimento, ma è il giudice a cui viene presentata l'istanza di inefficacia (quello del 669 novies).

La migliore parte della dottrina per il prof) fa leva su un dato per risolvere il problema: il legislatore ha tolto la s.n. anche per denuncia di nuova opera e danno temuto che sono tendenzialmente conservativi (congelare in attesa della decisione). Se il legislatore prevede il venir meno della s.n. anche per provvedimenti che hanno valenza conservativa allora possiamo arrivare ad un regolamento di competenze che risponde ad esigenza di certezza perché è molto semplice: da un lato nel permanente e perdurante regime della s.n. restano solo i sequestri (conservativo, del diritto industriale, .) e dal lato della strumentalità cancellata c'è tutto il resto (es.: sospensione delle delibere assembleari che può essere chiesta anche in via cautelare che è un provvedimento sospensivo eppure la sospensione di delibera da al ricorrente un'utilità autosufficiente e per questo si considera autonoma).

Con i sequestri non ho utilità autosufficiente, perché blocco il patrimonio del debitore ma non arrivo alla soddisfazione del credito. Il legislatore la introduce perché pensa così che almeno alcune parti si accontentino della cognizione sommaria e così facendo si diminuisce il contenzioso. Mira alla deflazione del contenzioso.


Connotato di tale tutela sul piano funzionale è il fatto che viene richiesta per venire incontro ad una situazione di periculum in mora. L'urgenza va sempre dimostrata dal ricorrente. Ed è proprio l'urgenza che giustifica che si possa valutare il fumus boni iuris (cioè la verosimiglianza dell'effettiva esistenza del diritto a cautela del quale viene chiesta tutela al giudice).



F.b.i. e p.i.m. si rapportano l'uno all'altro: più è evidente il fumus e minore sarà il grado di periculum di cui il giudice può accontentarsi nella concessione della tutela.



Mercoledì 21 maggio 2008


Lunedì lezione in più dalle 12.30 alle 14.00.

Continuiamo con le figure cautelari.


I SEQUESTRI

Sono misure cautelari tipiche quanto per i presupposti quanto per la tipologia del provvedimento e degli effetti del provvedimento che viene reso dal giudice. Sono provvedimenti tipici di natura conservativa che condividono il nome ma sono diretti a salvaguardare, proprio perché mirano a congelare una situazione sostanziale in attesa di vedere chi ha ragione, la fruttuosità dell'esecuzione forzata.

Sono due i principali:

Conservativo (671): agisce per espropriazione e vendita del bene per l'esecuzione forzata di un credito in denaro. Il sequestrante è un soggetto che ha un credito di somma di denaro. Il creditore ha una pretesa che potrà andare a concretizzarsi su un bene qualunque del sequestrato, i cui beni sono fungibili, al sequestrante ne interessa solo il valore economico.

Il sequestrante chiede e ottiene il sequestro a salvaguardia del suo credito e fino a concorrenza di una determinata somma, senza che il provvedimenti di sequestro individui i beni che devono essere sequestrati. L'individuazione dei beni sta a valle del sequestro, così come sta a valle l'individuazione dei beni quando ottengo una sentenza di condanna, il giudice mi dà il titolo esecutivo che condanna il debitore al pagamento, su che cosa andrò ad eseguire questo pagamento sta a valle del pagamento (cerco i beni da pignorare dove il mio debitore ha dei cespiti). Nel contesto della richiesta di sequestro dunque l'individuazione dei beni non emerge.

L'effetto traslativo non è opponibile al sequestrante, che qualora ottenga il titolo esecutivo potrà avere ragioni sui beni venduti. Il passaggio di proprietà non è in grado di sottrarre quel bene in caso di sequestro. Capiti che il sequestro si caduchi o perché la sentenza dichiari inesistente il credito o per altro e in tal caso l'atto di compravendita avrà la sua piena valenza, se non per l'azione revocatoria (che però opera ex post, non ex ante come il sequestro).

È lo stesso effetto che produce l'esecuzione del pignoramento che è l'atto con cui comincia il processo esecutivo, l'atto che compie il creditore quando già dispone di un titolo esecutivo (sentenza di condanna o altro titolo extra giudiziale). Quindi anche il pignoramento produce questa efficacia relativa del trasferimento successivo. Dunque identità di effetti con il pignoramento salvo che il sequestro è interinale e provvisorio in quanto volto alla salvaguardia (perché non si mette in moto la vendita come per i beni pignorati che devono essere venduti entro tot giorni;  con il sequestro invece si sta li e si aspetta).

Inoltre anche le modalità di esecuzione sono uguali al pignoramento sia per i beni mobili ex 678(secondo le norme per il pignoramento presso il debitore o presso terzi = notificazione ai terzi debitori del sequestrato di un atto che li pone sull'avviso, dopo questo atto se i terzi adempiono verso il sequestrato il loro adempimento non è liberatorio verso il sequestrante e potrebbero essere costretti a pagare due volte la seconda verso il sequestrante). Invece il sequestro di immobili è più semplice rispetto al pignoramento immobiliare perché basta la trascrizione del provvedimenti presso i registri immobiliari (anche il pignoramento ha effetto dalla trascrizione ma prima ci sono tutta una serie di atti).

Vendere beni ipotecati o pignorati è comunque difficile.

Per identità di effetti e sostanziale omologia di modalità esecutive il s.c. viene anche chiamato "pignoramento anticipato", che è un nome congruo a ciò che il s.c. è in concreto in quanto anticipa in via cautelare gli effetti del pignoramento. Lo si anticipa però senza mettere in moto l'espropriazione in senso proprio, che necessità della sentenza finale.

Qual è la ragione che ci consente di anticipare gli effetti del pignoramento pur senza disporre di un titolo esecutivo? Ex 671 la ragione è lo specifico periculum in mora, cioè quella situazione di urgenza che è la ratio dell'erogazione di tutela cautelare: fondato timore di perdere la garanzia del credito (non garanzia reale come pegno e ipoteca a meno che essi siano per un valore inferiore al valore del mio credito per cui io non sono più integralmente salvaguardato addirittura con diritto di prelazione che il s.c. di per sé non mi da; è garanzia patrimoniale generica quella che qui si intende e quindi 2740 il debitore risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri delle sue obbligazioni). Non è un caso che del s.c. si parli anche nel c.c. nel capo della garanzia patrimoniale dopo revocatoria e surrogatoria; se non ci fosse il debitore potrebbe svuotare la propria garanzia patrimoniale generica e mi resterebbero solo revocatoria e tentare di dimostrare la simulazione.

Quando c'è fondato timore nella concretezza? Si sono enucleate alcune fattispecie:

o   Se il credito è di origine contrattuale: si ha fondato timore di perdere la garanzia del credito solo se siano sopravvenuti fatti nuovi che incrementano o sostanziano questo timore rispetto a fatti già conosciuti dal creditore al momento della stipulazione del contratto; si pensa che se si ha contrattato con qualcuno di cui già si conosceva l'incapienza allora il rischio è stato assunto all'inizio e non si può chiedere tutela per una situazione accettata in partenza. E' necessario che siano scoperte o successe cose nuove.

o   Se il credito è di origine extracontrattuale: visto che non scegliamo a monte l'autore del danno aquiliano allora il s.c. si può chiedere a prescindere da qualsiasi cosa. Non ci sono limiti.

Vediamo caso tipico in cui il periculum in mora si dà comunque per esistente:

Extrac. o contrattuale, quando l'ammontare del credito è particolarmente elevato: qui vi è particolare timore di perdere la garanzia; l'entità del credito è indicativa del fondato timore, dato il big rischio vi è una presunzione oggettiva di pericolo dovuta al fatto che questo debitore nel tempo del processo potrebbe scegliere la strada di vendere tutto.

Notizia certa che il debitore ha preso contatti per vendere i beni: es. in agenzia immobiliare ci sono i suoi beni o ha preso contatto con notaio per vendere. Qui è anche possibile mettere in moto la particolare versione del processo cautelare ex 669 sexies co. 2, quando cioè anche solo la notiziazione alla controparte che si sta per chiedere una misura cautelare è tale da pregiudicare le prospettive di esecuzione della misura cautelare allora si può ottenere il provvedimenti cautelare inaudita altera parte, con decreto del giudice che concede senza aver ascoltato il destinatario del s.c. lo concede.

Quando si ottiene un provvedimento cautelare inaudita altera parte però il giudice deve tenere un'udienza in tempi ristrettissimi (massimo 15 giorni) in cui deve partecipare anche il destinatario del provvedimento cautelare affinché in quell'udienza si verifichi il contraddittorio.

In tutti questi casi (credito di fonte contrattuale in cui subentrano cose o conoscenze nuove, credito extra e i due casi) si ha periculum in mora ma presupposto per la concessione del s.c. è anche il fumus boni iuris. Di regola non si parla mai nelle varie norme al fumus, però la valutazione di verosimiglianza di esistenza del diritto è intrinseca alla salvaguardia di un diritto, che deve essere plausibilmente esistente (anche perché il s.c. è un sacrificio per il debitore).

Qual è la vita del sequestro conservativo: viene chiesto di regola ante causam, solo in situazioni particolari di sopravvenienze fattuali o di sopravvenienze di conoscenze possiamo immaginare di richiedere e ottenere un s.c. in corso di causa. Se c'è un fondato timore è logico che subito si chieda tutela e dopo si parta con la causa di merito.

Se lo chiediamo ante causam nei 60 giorni bisogna instaurare la causa di merito (di condanna non di mero accertamento), se lo chiediamo durante una causa dobbiamo tenerla in vita perché se si estingue il giudizio il s.c. è caducato.

Se la sentenza:

o   Dichiara inesistente il diritto, il s.c. si caducherà;

o   Dichiara esistente il diritto allora che tipo di sentenza dovrà essere? Necessariamente di condanna quindi se per caso dopo s.c. si chiede accertamento il s.c. scaduti i 60 giorni cade perché non si potrebbe arrivare al suo scopo originario, cioè la conversione in titolo esecutivo per il pignoramento.

La conversione in pignoramento è un effetto automatico che risparmia la necessità di ripetere quell'operazione che in realtà in concreto già c'è (essendo i due provvedimenti analoghi). Richiede la conversione uno specifico onere di attivazione della parte vittoriosa contemplato dall'art. 156 delle disposizione di attuazione del cpc, che deve depositare copia del titolo esecutivo nel termine perentorio di 60 giorni dalla notificazione. Onere di deposito del titolo esecutivo nella cancelleria del g. competente per l'esecuzione; l'onere va assolto entro un termine perentorio, quindi se nei 60 giorni non si deposita il titolo esecutivo il processo esecutivo si estingue, cioè casca tutto a ritroso sin dall'originaria efficacia.


Giudiziario (670): è volto ad assicurare la fruttuosità di un'esecuzione forzata per consegna di beni mobili o per rilascio di beni immobili. È volto alla salvaguardia delle prospettive di fruttuosità di crediti di esecuzione specifica (beni mobili, immobili, universalità di mobili o azienda). Sempre oggetti individuati.

Il s.g. non cautela per espropriazione ma per consegna o rilascio. Qui i beni del sequestrato rilevano nella loro individualità non nel loro valore economico perché il sequestrante ha esigenza di congelamento in vista di rimettere le mani proprio su quel bene.

È previsto in due ipotesi:

o   Di beni: è al n. 1 ed è il più interessante ed economicamente rilevante e statisticamente utilizzato; è previsto per le ipotesi in cui siano controverse proprietà o possesso di beni mobili, immobili, universalità o aziende e inoltre si prospetti l'opportunità della custodia (beni in senso statico) o della gestione temporanea (azienda) che è il periculum in mora.

Per controversia sulla proprietà o possesso si intende qualcosa che non corrisponde a pieno alla terminologia utilizzata. Controversie sulla proprietà si ha quando si ha un conflitto sulla proprietà di un bene (uno ha il godimento, l'altro pretende di essere riconosciuto proprietario); qui temendo che il bene conteso sia destinato a depauperamento/rovina economica/sparizione (tendenzialmente per bene mobile )allora non si fa solo rivendica ma si chiede anche s.g. (= affidamento coattivo ad un soggetto tendenzialmente terzo, ma che potrebbe anche essere una delle due parti e che assume la veste di custode). Il custode è figura centrale del s.g.; vale il meccanismo per cui entrano in una relazione con il bene che non è più possesso ma coinvolge obblighi di comportamento sanzionati penalmente. Anche qui ci si deve orientare con la domanda principale alla condanna e non al mero accertamento; è necessaria la proiezione esecutiva.

Con possesso non si intende il possesso in senso proprio ma un novero di situazioni:

Controversia sulla detenzione: il s.g. è ipoteticamente utilizzabile anche dal conduttore che non vedendosi consegnato il bene locato intanto chiede s.g.

Controversia che non vede l'esistenza in capo al sequestrante di un diritto dominicale a monte ma prospettano l'eventualità che il diritto dominicale del sequestrante si formi a valle del processo per effetto di una sentenza costitutiva: es. promissario acquirente può chiedere il s.g. ma non a tutela di un diritto dominicale perché la proprietà non è ancora in capo a lui.

Es. rogito e si firma prima di avere i soldi. Anche se nella pratica non succede tanto.

È non lo ius in rem (come la proprietà) ma ius ad rem (particella di moto a luogo per indicarne la dinamicità).

È discusso molto se possa ad avere ad oggetto quote di società. Comunque può avere ad oggetto aziende a differenza del s.c. perché il s.c. è strutturato sul modello del processo esecutivo individuale (su beni individui) che è essenzialmente un processo liquidatorio che va a colpire singoli beni traendone il valore di mercato e come tale il processo esecutivo individuale non conosce lo strumento per la valorizzazione di quello che è il collante dell'azienda: i beni dell'azienda verrebbero in considerazione come tanti beni; mancherebbe l'avviamento. Nel processo esecutivo individuale, che è il modello anche delle procedure concorsuali, il legislatore ha dovuto fare nel '79 la l. Prodi sull'amministrazione stra delle aziende in crisi e oggi sulla riforma che vieta gli aiuti di stato ha introdotto la possibilità per il curatore fallimentare di vendere il complesso aziendale al di fuori delle procedure del cpc che prevedevano l'esecuzione individuale.

Invece nel s.g. non abbiamo il sequestro di crediti perché non sono suscettibili di trasferimento, non si incorporano in qualcosa. Infatti è ok solo il s.g. di titoli di credito (documenti che incorporano un credito).

E il sequestro di quota? Anch'essa comporta rapporti di debito credito ma allo stesso tempo incorpora uno status. Forte dibattito giurisprudenziale che cede alla tesi della sequestrabilità delle quote. Oggi è prevista espressamente una disposizione che disciplina le modalità di esecuzione del sequestro in generale delle quote (perché una volta effettuato il sequestro è difficile capire se è s.c. o s.g.).

Il s.g. di aziende e pacchetti azionari ha una notevole rilevanza economica e blocca integralmente la possibilità per un sequestrato di portare ad esecuzione la vendita o l'annacquamento di capitale. E' stato uno strumento decisivo per Enimont e Mondatori (Giappini all'epoca); il s.g. reso o non reso determinò l'esito del conflitto economico, una volta congelata la partecipazione chi stava cercando di fare la scalata non poteva continuarla fino alla fine del processo perché sarebbe stata economicamente troppo onerosa.

Caso Antonveneta: si è giocata sulla sospensiva di delibera assembleare di nomina del nuovo cda. più intercettazioni. Ma quella volta non è stato necessario sequestro.

o   Di prove:

La gestione temporanea vale per le aziende, i pacchetti azionari. La custodia vale invece per mobili, immobili e serve a prevenire per tutti i beni il rischio di distruzione/deperimento/rovina più prevenire il rischio di sparizione (in senso più giuridico che fisico), soprattutto per i beni mobili, tolto al sequestrato il possesso del bene mobile non è più possibile.

Per beni immobili serve il s.g. per prevenire l'alienazione? Qui il s.g. è strumento sovrabbondante perché l'attore in queste situazioni ha uno strumento molto più semplice che è la trascrizione della domanda giudiziale tutti gli acquisti successivi sono subordinati alla sentenza. Quindi rispetto al bene immobile e mobile registrato il rischio dell'alienazione non va prevenuto con il s.g. ma basta la trascrizione quindi un'eventuale richiesta di s.g. verrebbe rifiutata per mancanza di interesse (non viene considerato necessario né utile lo spossessamento).



Lunedì 26 maggio 2008


Le azioni della srl possono anche essere nel patrimonio di un debitore e in quanto tali essere sequestrate. Vengono sequestrate nei modi previsti dal c.c. agli artt. 2352 con modalità identiche per entrambi i tipi di sequestro. La cosa essenziale è l'iscrizione nel libro soci quanto al sequestro conservativo, qui c'è il problema dell'opponibilità ai terzi quindi diventa importante la pubblicizzazione del vincolo.


PROVVEDIMENTI D'URGENZA

Già accennati. Art. 700 cpc che è una delle poche norme in cui le parole hanno un preciso e peculiare significato: "fuori dai casi regolati nelle precedenti sezioni" i provvedimenti d'urgenza sono una tipologia di provvedimenti cautelari sia residuale che sussidiario; l'art. 700 è norma di chiusura del sistema. Il legislatore del '42 prosegue la tradizione che prevedeva una serie di misure cautelari tipiche, ma completa il sistema, valorizzando gli elementi della dottrina tedesca, con una misura residuale che è il 700 che subentra quale strumento in tutte le situazioni che non conoscono già di per loro una misura cautelare tipica.

Sono provvedimenti quindi sussidiari per questa funzione di norma di chiusura del 700, subentrano dove manca la tutela cautelare tipica.

Sono residuali perché ad essi si può fare ricorso solo ove manchi una tutela cautelare tipica, altrimenti sono inammissibili perché bisogna ricorrere alla misura tipizzata dal legislatore.


Sono anche provvedimenti atipici:

In un primo senso nel senso che sono atipici i presupposti, perché non sono tipizzati. Fuori dai casi previsti, colui che ha fondato timore/motivo di temere (accenno al fumus boni iuris) che nel corso del tempo necessario per ottenere la tutela in via ordinaria, il proprio diritto sia sottoposto sia minacciato o esposto ad un pregiudizio imminente o irreparabile può chiedere tutela. "Fondato timore" non è preciso, sottostà a qualsiasi tutela cautelare.

Art. 700: nesso tra tutela cautelare e urgenza di provvedere perché la t.c. è un apparato che il legislatore deve mettere a disposizione perché qualunque processo di cognizione impiega del tempo perché conosce delle forme di sua articolazione/scansione che sono necessariamente distese. La necessità di t.c. è collegata a qualunque lunghezza del processo ed è stata riconosciuta anche a livello comunitario da una serie di pronunce della cgce la prima delle quali ha il nome di "Factortame" nel cui contesto la cgce ha ritenuto non compatibile con i trattati comunitari la regola inglese che escludeva la possibilità che escludeva la possibilità di ottenere in via urgente ordini di fare nei confronti della PA.

La tutela dei diritti nei trattati comunitari richiede necessariamente la messa a disposizione anche di strumenti cautelari, anche in disapplicazione di diritto processuale interno che non prevedono queste disposizioni.

Dove i processi sono lunghi di solito anche per ottenere procedimenti cautelari i procedimenti sono lunghi, salvo che lo si ottenga inaudita altera parte quando la conoscenza del destinatario renderebbe inutile la tutela.


Tipologie di pregiudizio: la norma ci dice: "imminente ed irreparabile". Il loro utilizzo non è casuale, specie per il secondo.

Imminente: è descrittivo e discorsivo, il pericolo deve essere incombente, lì lì per attuarsi. In un caso si chiedeva in via di urgenza la costituzione di una servitù che era la condizione che un comune aveva previsto per consentire lo sfruttamento urbanistico di un determinato fondo.

Irreparabile invece apparentemente potrebbe sembrare descrittiva, invece è giuridica. Per irreparabilità si allude a delle questioni prettamente giuridiche ed è tramite questa nozione che arriviamo a dare un contenuto più preciso ad atipicità e sussidiarietà dei presupposti. Per irreparabilità si intende non adeguata riparabilità con quello strumento generale e generalissimo di restaurazione del danno che è il risarcimento del danno per equivalente.

Qui il risarcimento dà sì un sollievo ma è una panacea perché il diritto è andato incontro ad un pregiudizio non reversibile. E questo quando succede? Fino agli anni '70 si poteva avere solo di fronte a diritti assoluti e quindi diritti reali, reali minori e diritti assoluti della personalità (nome, .) e privative industriali (sono anche diritti assoluti, sono diritti dal cui godimento è possibile escludere tutti gli altri. Per gli altri diritti si considerava il risarcimento adeguatamente satisfattivo e in particolare per due tipologie di diritti:

Diritt di obbligazione: pensiamo a quelli avente fonte contrattuale per i quali il risarcimento è previsto direttamente dal c.c.

All'interno di questi ultimi i diritti di credito pecuniari avendo ad oggetto una somma di denaro.


A partire dagli anni '70 si amplia l'operatività dell'art. 700. Prima di tutto relativamente alla figura del lavoratore illegittimamente licenziato che chiede la reintegra e chiede di corrispondere la retribuzione. Egli fa valere un diritto di fonte contrattuale. Ma il creditore di somma di denaro non ha già il sequestro conservativo a tutela di somma di denaro? Si, ma è previsto dall'ordinamento per le ipotesi di pericolo da infruttuosità/insolvenza. Invece il lavoratore non è toccato da questo, egli ha bisogno dei soldi subito. Quindi la diversità del pericolo fatto valere consente di usare la tutela del 700 anche se per quel diritto l'ordinamento già preveda una misura cautelare tipica. In questo contesto l'irreparabilità del pregiudizio viene riconosciuta esistente ma non per il pericolo di insoddisfazione, quanto piuttosto perché c'è pregiudizio irreparabile per le utilità che grazie al credito pecuniario si riescono a soddisfare.

Quindi deve mancare una figura cautelare tipica che possa porre rimedio proprio a quella tipologia di periculum che il soggetto vuole evitare ricorrendo al 700.

In primis la figura del lavoratore. Analogamente per la figura dell'imprenditore che può trovarsi di fronte al caso di una fornitura non pagata con conseguente rischio di squilibrio finanziario dell'imprenditore oppure imprenditore che ha rapporto di fornitura e vede improvvisamente interrotti i rapporti con la casa madre. Qui il sequestro conservativo non serve a niente all'imprenditore perché non è preoccupato dell'insolvenza del fornitore, ma della tardività dell'adempimento.

Qui addirittura è possibile ottenere un ordine di prosecuzione delle relazioni commerciali per l'intero periodo di preavviso.

I provvedimenti ex 700 non sono di natura prettamente anticipatoria, mi faccio dare ora quello che se ho ragione otterrò con la sentenza (reintegro e pagamento della retribuzione, prezzo della fornitura), ma possiamo ottenere anche un qualcosa parzialmente diverso da quello che potrebbe essere l'oggetto della cognizione di merito perché il 700 ci dice che si può chiedere al giudice di emettere i provvedimenti più idonei ad assicurare gli effetti della decisione di merito. Non si parla di anticipare gli effetti della decisione di merito. Questo provvedimento viene sempre incontro ad una prevenzione di un pericolo da tardività, ma il contenuto concreto può anche non essere anticipatorio in senso stretto, ma può essere più ampio, sempre funzionale agli effetti della sentenza di merito ma non necessariamente ricalcato su quello che sarà il contenuto della sentenza di merito.

Come nell'esempio dei rapporti commerciali: in sede di merito non potremo mai avere un obbligo di prosecuzione dei rapporti perché dovremmo chiedere una sentenza di condanna all'adempimento specifico che oltre ad arrivare troppo tardi sarà anche incoercibile. In sede di condanna chiederemo al massimo il risarcimento danni.

In Germania li chiamano provvedimenti di regolazione interinale (provvisorio) del rapporto.


Quindi i provvedimenti ex 700 sono atipici anche nei presupposti ma ancor di più nel contenuto. Il giudice può leggermente rimodellare anche la domanda della parte perché ha discrezionalità. Il contenuto è modellato secondo le circostanze.

Se il rischio va ad incidere su valori che sono considerati primari e costituzionalmente tutelati, e qualora questi diritti siano messi in pericolo anche solo indirettamente allora possiamo avere accesso alla tutela d'urgenza, con conseguente ampliamento enorme della sfera di applicazione del 700.

Negli anni settanta poi c'era stata un'estensione molto ampia del 700 (si era arrivati a parlare di "settecentizzazione" del processo civile perché tutto si giocava lì) ed era prevista la competenza dei pretori (meno esperienza perché generalmente più giovani e anche più aperti alle nuove istanze costituzionali) che erano quasi sempre pronti a concedere questa tutela.


PROVVEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME

Competente ad erogare la tutela cautelare è il giudice che sarebbe competente per la tutela cognitoria prima. Se siamo in lite pendente è competente il giudice adito, il giudice dinnanzi al quale pende la causa in concreto anche se in teoria potrebbe non essere competente ma l'eventuale sentenza di incompetenza non sarebbe tale da portare alla caducazione della t.c. perché il rapporto processuale resta in piedi davanti ad un altro giudice.

Il giudice di pace non può emanare provvedimento cautelare; qui per il primo grado di giudizio abbiamo una generale competenza cautelare del solo tribunale. Non è prevista pronuncia cautelare neanche da parte degli arbitri; a loro al massimo si può chiedere la sospensione delle delibere assembleari (disciplina specifica ed è l'unica che prevede potestà cautelare degli arbitri).

Se c'è una controversia in mano agli arbitri dobbiamo chiedere tutela cautelare al giudice che sarebbe stato competente se non ci fossero stati gli arbitri.

Poi abbiamo il procedimento che può prendere il canale particolare dell'inaudita altera parte dato con decreto del giudice singolo, qui nei 15 giorni successivi deve aver luogo l'udienza e negli 8 giorni successivi deve esserne informato la parte.

Decreto: quando si è ascoltato solo uno dei contendenti.

Ordinanza: con contraddittorio.

Se viene concesso il provvedimento inaudita altera parte esso sarà assorbito dalla successiva ordinanza che il medesimo magistrato renderà una volta che sarà svolto il contraddittorio; il decreto sparisce dopo che avviene il contraddittorio.


Qui abbiamo due possibiiltà:

Ricorso cautelare respinto: il legislatore prevede una parziale forma di giudicato cautelare: non è mai un giudicato del 2909(sostanziale), ma il provvedimento di rigetto del g. consente la riproposizione dell'istanza solo se fondato su nuove ragioni di fatto o di diritto Quindi abbiamo una specie di giudicato cautelare nel senso che comunque discende una preclusione del dedotto (non del deducibile).

Non abbiamo il ne bis in idem ma abbiamo comunque una preclusione del dedotto che non è poco stringente perché se immaginiamo che la t.c. ci serviva allora una volta richiesta ce la siamo giocata e non l'abbiamo più. In realtà è la preclusione di tutti quegli argomenti sui quali avevamo pensato di ottenere questo provvedimento cautelare.

Se è rigetto per incompetenza allora abbiamo libera riproponibilità dell'istanza ma solo quando il rigetto sia motivato dall'ipotetica incompetenza del giudice (questo soprattutto per rigetto cautelare ante causa; i casi di richiesta durante causa dovrebbero essere numericamente abbastanza ridotti).

Ricorso cautelare accolto: viene pronunciato provvedimento cautelare. Per i provv .cautelari conservativi abbiamo l'onere di instaurare il giudizio entro 60 giorni.

Anche qui in caso di accoglimento abbiamo una forma di giudicato cautelare: 669 opties più 669 decies in materia di revoca e modifica di provvedimenti cautelari (sono richieste che suppongono che il provvedimento cautelare sia stato concesso); in queste situazioni l'istanza di revoca o modifica proveniente dal destinatario della cautela potrà essere proposta solo qualora vi siano mutamenti delle circostanze, cioè fatti sopravvenuti (dal provvedimento di concessione discende non solo una preclusione del dedotto, ma anche del deducibile e non molto diversamente da quanto accade dalla preclusione del ne bis in idem. Certo il ne bis in idem si riferisce anche ad altri futuri giudizi, qui si sta nella parentesi cautelare) e grazie un'aggiunta del 2006 superabile qualora si venga a conoscenza di fatti pregressi successivamente alla pronuncia cautelare con l'onere però di dimostrare che questo momento è successivo a quello della pronuncia da parte del giudice del cautelare.

Quindi preclusione del dedotto, del deducibile non dedotto, ma no del deducibile incolpevolmente non dedotto (ancora deducibile a patto di dimostrare che se ne è venuto a conoscenza dopo ma non per negligenza). La preclusione è più circoscritta e meno vincolante del ne bis in idem che preclude anche il deducibile incolpevolmente non dedotto tranne specifiche ipotesi di eccezione.

Per mutamenti delle circostanze la dottrina dice che si possono includere anche i mutamenti delle circostanze endoprocessuali. Potrebbero venire in considerazione anche gli esiti dell'istruttoria che si sta svolgendo in merito alla tutela di merito.

quindi con due eccezioni abbiamo preclusioni molto intensa e forte e come tale consente di parlare, pur tenendo conto che tale autorità non può essere invocata in un altro processo, che siamo in una sorta di giudicato cautelare.



Lezione del pomeriggio


RECLAMO CAUTELARE

Solo in caso di passaggio in giudicato della decisione si toglieva di mezzo al sequestro, altrimenti sopravviveva in eterno come disciplina tra le parti finché non si arrivava alla cassazione; nel 669 invece si arriva a pieno assorbimento anche solo con il primo grado.

Il legislatore laddove irrobustisce il procedimento cautelare introduce anche il reclamo, strumento di controllo del quale si era sempre sentita la necessità. Prima la decisione del pretore era sempre piuttosto stabile e in arco temporale contenuto non era possibile ottenerne il riesame.

E' una vera e propria  impugnazione, essenzialmente di secondo grado, funzionalmente assimilabile all'appello. E' data contro i provvedimenti di accoglimento della misura cautelare, di rigetto della misura cautelare e oggi anche per i provvedimenti di rigetto (in origine i provvedimenti di rigetto non erano impugnabili perché si riteneva sufficiente la possibilità di riproposizione dell'istanza per nuove ragioni di fatto e di diritto). La corte nel '94 ha detto che la garanzia che c'era prima non era equivalente alla possibilità di chiedere il riesame della decisione alle medesime condizioni che furono oggetto della cognizione da parte del giudice unico ad un collegio, perché la decisione del reclamo è sempre collegiale di 3 magistrati tra i quali non deve esserci il giudice unico che aveva deciso in prima istanza.

Il collegio riesamina integralmente la stessa identica decisione che aveva fatto il giudice monocratico.

La corte ha detto che essendo differenti le due garanzie non c'era ragione valida di disuguaglianza di trattamento tra il resistente soccombente e il ricorrente soccombente e che c'era una violazione dell'art. 3 in particolare nella sua accezione della parità delle armi che echeggia solo nel 111 introdotto nel 1999.

Nel 2005 con la l. 80 il legislatore chiarisce che sono impugnabili entrambi; ora il riferimento alla sentenza della corte è diventato superfluo perché l'ordinamento si è adeguato a quell'orientamento.


Il reclamo va proposto in 15 giorni, il legislatore del 2005 ha specificato che è perentorio, decorrono dalla pronuncia in udienza in presenza delle parti o in caso di pronuncia su riserva (cioè quasi sempre) dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria o qualora avvenga prima della comunicazione dalla notificazione del provvedimento eseguita ad istanza di parte.

È un'impugnazione di secondo grado che viene decisa dal collegio sulle stesse basi che erano state oggetto della cognizione del giudice monocratico ed eventualmente su novità se nel contesto dell'impugnazione delle parti perché non ci sono preclusioni qui, diversamente da quanto avviene nell'appello civile. Quindi sono possibili richieste di nuovi mezzi di prova, nuovi fatti, eccezioni, integrazioni del panorama delle deduzioni di merito e delle istanze istruttorie. Qui si pone il rapporto tra reclamo e revoca (che è lo strumento che ci consente di chiedere al giudice di prima istanza nuovo esercizio del potere cautelare sulla base di nuovi fatti sopravvenuti).

Questi fatti sopravvenuti possono essere spesi anche in fase di reclamo. Quindi in caso di reclamo, il limite cronologico alla sopravvenienza fattuale è cambiato, vi è onere di dedurre in sede di reclamo tutte le sopravvenienze fattuali perché revoca e modifica potranno essere chiesti solo per fatti sopravvenuti al reclamo. I mutamenti delle circostanze dal reclamo in poi sono post reclamo. Viene sfruttato a pieno questo secondo grado, anche dal lato delle preclusioni.

Abbiamo spostamento in avanti del limite cronologico della preclusione del dedotto e del deducibile. Se invece il reclamo è rigettato non abbiamo preclusione, abbiamo preclusione solo del dedotto.

Il giudizio di reclamo è un rinnovato esercizio di potere cautelare. Infatti non è consentita la rimessione al primo giudice, non possono essere infatti usati per analogia gli articoli che obbligano il giudice di appello che rileva vizio di appello a rimettere. Il reclamo è sempre nuova cognizione sul merito, non è controllo del provvedimento


Il legislatore del 2005 nel 669 octies aggiunge 3 commi alla fine che dovevano essere collocati in un posto ad hoc ma non si potevano mettere in un art. apposta tra l'octies e il novies. L'ultimo co. dice che l'estinzione del giudizio di merito non determina l'inefficacia dei provvedimenti di cui al primo co. della norma; qui il legislatore voleva dire di cui al precedente comma perché nel primo comma si parla di tutti i provvedimenti cautelari (quindi non ci sarebbe mai estinzione!). Il co. 6 invece parla dei provvedimenti anticipatori.

L'ottavo co. dice "l'autorità del provvedimento cautelare non è evocabile in un diverso processo". Il sesto comma però dice "le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai provvedimenti cautelari", ma nel 669 octies c'è anche l'ottavo comma che si occupa proprio di cautelare! In realtà il legislatore voleva dire le disposizioni di cui ai precedenti commi o di cui ai precedenti articoli.


Una norma di cui abbiamo spesso discusso è l'art. 669 novies. Norma che ci dice che il provvedimento Cautelare (oggi solo quello conservativo) si caduca in caso di estinzione del giudizio di merito e allorché la sentenza anche solo di primo grado dichiari inesistente il diritto La norma vale per le sentenze del go ma viene richiamata anche per i casi in cui ci sia l'accordo compromissorio, gli arbitri non hanno autorità cautelare e vanno a chiedere al giudice che sarebbe stato competente.

Se il lodo degli arbitri dichiarino inesistente il diritto anche il quel caso abbiamo estinzione della t.c.; oppure assorbimento.


Stesso effetto di caducazione in caso di provvedimento cautelare ottenuto in Italia e competenza a decidere del caso in capo a giudice straniero o perché manca giurisdizione o perché in Italia non si è potuto introdurre il giudizio perché c'era una previa pendenza estera (stato comunitario). Anche qui quando arriva la sentenza straniera che dichiara inesistente il diritto si caduca la t.c.

PROCEDIMENTO MONITORIO PER DECRETO INGIUNTIVO

E' una tutela sommaria non cautelare. Il processo per decreto ingiuntivo costituisce una modalità speciale dell'esercizio dell'azione di condanna che il creditore può esperire nei soliti modi o ex 633 anche per il tramite di instaurazione del processo per decreto.

Si svolge in due momenti separati, ognuno dei quali inaudita altera parte. Il giudice compie una valutazione molto sommaria, doppiamente perché manca la risposta del soggetto destinatario. Il giudice fa questo controllo sommario verificando alcuni presupposti, pronuncia il decreto ingiuntivo e qui il provvedimento viene notificato al destinatario che ha 40 giorni per fare opposizione, altrimenti il decreto ingiuntivo passa in giudicato.


Si sfrutta in altri termini l'atteggiamento del destinatario per arrivare alla cognizione piena. La mancata contestazione si considera come un riconoscimento di correttezza di ciò che viene detto nel decreto ingiuntivo. Il meccanismo è di inversione dell'onere di promuovimento del contenzioso perché l'atto di citazione qui è in opposizione, è il debitore intimato l'attore in senso formale e il creditore il convenuto in senso sostanziale.

Sul piano sistematico è una peculiarità perché se facciamo una citazione e il convenuto non contesta e non si fa vedere di solito ha diritto a tutto (eccezioni, .) e in più gli vanno notificati alcuni atti specifici (atto ammissivo del giuramento, provvedimento istruttorio ammissivo dell'interrogatorio formale e tutti gli atti da cui risultano domande nuove e se il convenuto contumace perde in primo grado ha anche l'appello.

Quindi di solito il convenuto è ipertutelato, qui invece è l'opposto.


Quando si può accedere: credito certo, liquido ed esigibile e quando abbiamo la possibilità di produrre una prova scritta dell'esistenza del credito (contratto, non espresso riconoscimento di debito); la prova può anche essere una prova che coincide con uno scritto ma che non sarebbe idonea prova scritta in un procedimento monitorio. Cioè può essere auto confezionata dal debitore = fattura purché regolarmente tenute.

Certo: non è la sicurezza dell'esistenza del credito, si esaurisce nell'esistenza della prova scritta, nel contenuto e nelle forme disciplinati agli art. 634 e 635 cpc.

Esigibile: non sottoposto a termine o condizione.

Liquido: determinato o determinabile sulla base dell'atto scritto o di criteri precisati nell'atto scritto; nell'atto scritto si ha la determinazione dell'ammontare del debito.

Se il credito è sottoposto a condizione o nasce da un contratto a prestazioni corrispettive allora il creditore può accedere a questa tutela dando elementi atti a far presumere (non prove perché non siamo in contraddittorio) dell'avveramento della condizione o l'adempimento della controprestazione. Il giudice deve verificare cioè che la condizione sia avvenuta ed eccezionalmente verificare sulla base di questi elementi presuntivi l'adempimento della controprestazione. Eccezionalmente perché tenuto conto che siamo davanti ad un processo che funziona inaudita altera parte e che può concludersi con non opposizione del debitore allora eccezionalmente il legislatore recede dalla disciplina dell'eccezione di inadempimento e richiede che l'altro adempimento sia una condizione per ottenere tutela.

Nei normali procedimenti non devo dimostrare di essere stato fedele al contratto per ottenere tutela.

Sempre visto che siamo in un dialogo bilatero e non trilatero su elementi presuntivi, non su prove.


Vi sono anche due casi in cui si può avere decreto ingiuntivo n. 2 e 3 art. 634: gli avvocati per prestazioni o rimborso spese e i notai.

Questi soggetti hanno la possibilità di ottenere decreto sulla base della loro parcella liquidata dal proprio ordine professionale. L'ordine vede arrivare l'avvocato che dice io ho fatto la causa e ho diritto al credito. L'ordine controlla che il credito sia congruo rispetto alla tariffa e vista la parcella. Il che significa che notai e avvocati non necessitano di nessuna prova di aver eseguito il lavoro. Essi si possono auto confezionare la prova scritta dell'esistenza del loro credito il che evidenza come sotteso al procedimento monitorio vi siano esigenze di imprenditori (monitorio su fatture) o di professionisti. In parte è previsto dal legislatore anche per avvantaggiare determinati soggetti nel recupero dei crediti.

Infatti dovendo essere liquida la somma è il credito per definizione di fonte contrattuale.



Martedì 27 maggio 2008


Credito liquido ed esigibile e certo di somma di denaro o cosa mobile determinata o determinati beni mobili fungibili. Nella richiesta di tutela bisogna essere assertivi, altrimenti va a finire che il giudice non la concede.

Si svolge l'esame inaudita altera parte, il giudice verifica l'esistenza di prova scritta, può in alcuni casi richiedere chiarimenti alla parte ricorrente (art. 640 se manca la prova scritta o è inadeguata o mancano gli elementi che facciano presumere l'elemento della prestazione).

Se il ricorrente non risponde all'invito di chiarimenti o in generale se la domanda non è ammissibile, il giudice la rigetta con decreto motivato (art. 640 co. 2). Il rigetto non ha alcuna idoneità ad assurgere a cosa giudicata. Il decreto non pregiudica la proposizione della domanda neanche in via ordinaria. Il giudice non sta accertando il diritto, quindi non ci può essere giudicato.

Se invece accoglie ex 643, abbiamo notificazione dello stesso all'ultimato che ha 40 giorni di tempo per proporre l'opposizione con atto di citazione notificato all'intimante; viene in questo caso introdotto un giudizio ordinario di cognizione pieno ex 183. Qui l'intimato è attore in senso formale, ma resta convenuto in senso sostanziale e questo rileva ai fini del riparto probatorio che continua a gravare sull'attore, non è che perché il convenuto si fa attore vada incontro ad oneri probatori maggiori.

Se l'intimato non fa opposizione, subentra il giudicato; la questione dell'esistenza o inesistenza del giudice non potrà più essere messa in discussione.

La giurisprudenza tende a riconoscere in questo un giudicato tout court, ma un'altra parte della dottrina fa fatica ad accettare che per il solo fatto che ci si avvalga della tecnica della non contestazione si possa ottenere un risultato identico a quello di un giudizio di primo grado.

In effetti non è giudicato sostanziale, è mera irretrattabilità. Altra parte della dottrina dice invece che effetti del giudicato il nostro ordinamento ne conosce solo uno che è quello del 2909.


Ma non solo qui il processo è utile, perché il legislatore integra le tutele che da esso derivano prevedendo istituti di concessione anticipata e provvisoria di decreto ingiuntivo. Quindi non solo abbiamo la possibilità di pervenire al giudicato irretrattabile presto, ma anche in caso di opposizione possiamo usufruire di un'esecutorietà provvisoriamente concessa al decreto potendo fare tutto il primo grado usufruendo di un titolo che è già esecutivo. Intanto il debitore paga, poi si vedrà.

L'esecutività si può avere in due momenti:

- Immediata e a monte dello stesso contraddittorio: se la prova scritta è particolarmente qualificata (cambiale, assegno, atto pubblico, certificato di borsa);

- Immediata se manca il titolo certo, ma qui non è un diritto ma una valutazione discrezionale del giudice che concede il decreto ingiuntivo. Qualora vi sia pericolo di pregiudizio in caso di ritardo o se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore (aggiunta della riforma 2005/2006); va bene qualsiasi cosa dalla quale risulta la consapevolezza dell'esistenza del debito in capo al debitore.

Da notare che il decreto ingiuntivo è titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale finché non è finito il giudizio e questo va limitato visto che il contraddittorio è limitato e il debitore intimato non può difendersi.

Inoltre, per equilibrare la situazione, il legislatore prevede che laddove il diritto sia concesso ab origine come immediatamente esecutivo il debitore possa fare opposizione e chiedere qui la concessione della sospensione dell'efficacia esecutiva in presenza di gravi motivi. Però mai revoca, solo sospensione per cui tutto ciò che fino a quel momento era stato compiuto dal creditore rimane.

Per questa ragione l'ampliamento delle ipotesi di decreto ingiuntivo del 2005/2006 non è stato ampliato al massimo attraverso l'interpretazione ma si è richiesto un ulteriore scritto di provenienza del debitore che sia un riconoscimento del debito.


Altra ipotesi di immediata esecutorietà del decreto ingiuntivo questa volta a valle: dopo l'opposizione e allorché l'opposizione non sia fondata su prova scritta; quando l'opposizione non è forte.

Decisivo allora è la fase iniziale nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo perché è in prima udienza che si avrà la discussione accesa contro l'esecutività del decreto ingiuntivo.

La prima udienza sarà concentrata su questo incidente inibitorio, cioè il tentativo di fermare l'esecutività del decreto ingiuntivo e questo comporterà che l'udienzona del 183 sarà necessariamente scissa in due momenti perché nel primo momento le parti si concentreranno necessariamente sull'incidente inibitorio.


Proposta opposizione comunque il creditore comunque deve ritornare dal giudice a farsi apporre la dichiarazione di esecutività; li il giudice ha l'obbligo di compiere un'ultima verifica a salvaguardia del diritto al contraddittorio. Il giudice deve controllare sommariamente (agli atti) la regolarità della notificazione per evitare di dichiarare esecutivo un decreto la cui mancata esecuzione è dovuta al fatto che il debitore non ne è mai venuto a conoscenza.

Comunque l'accertamento del giudice è anche qui delibativo, il creditore intimante potrebbe comunque sostenere che l'opposizione è tardiva.


Se il debitore si oppone nei 40 giorni, le grane non sono ancora finite perché deve anche costituirsi e l'interpretazione del 647 da parte della giurisprudenza equipara la tardiva costituzione alla mancata costituzione. Quindi bisogna anche costituirsi tempestivamente con tutta una serie di problemi perché il 645 prevede un dimezzamento dei termini che non si sa se è automatico, se deve essere chiesto dalla parte.

Se è lasciato alla parte significa che il dimezzamento del termine dipende e si vede dal termine di comparizione che è stato assegnato al debitore opposto. Il termine di comparizione è di 180 giorni, se gli diamo più di 90 giorni se ne arguisce che abbiamo voluto avvalerci del dimezzamento dei termini. Ma allora se diamo - di 90 giorni allora vuol dire che dobbiamo costituirci entro 5 giorni, perché il cpc ne prevede 10.


Se l'attore non si costituisce tempestivamente, abbiamo la cancellazione della causa dal ruolo. In base al 653 se il giudizio di opposizione si estingue allora anche in questo caso il decreto passa in giudicato e il problema qui è che l'estinzione del giudizio di opposizione determina che la pronuncia del decreto continua a gravare sul debitore intimato e opponente che riuscirà a liberarsene solo ed eventualmente dopo la sentenza di primo grado ad esso favorevole che si sovrappone al decreto ingiuntivo.


Cassazione: se abbiamo in primo grado pronuncia che dichiara inesistente il decreto ingiuntivo confermata da una pronuncia di appello, che a sua volta viene cassata dalla cassazione, allora abbiamo onere di riassunzione della causa entro un anno altrimenti si estingue l'intero processo.

Cosa significa che si estingue l'intero processo di opposizione e risorge o si estingue l'intero rapporto processuale, ivi compresa questa fase inaudita altera parte? La cassazione nel 2005 ha detto che si estingue l'intero giudizio di opposizione. La sentenza di appello è sempre sostitutiva della sentenza di primo grado, semmai è la sentenza di appello che assorbe il decreto ingiuntivo, ma la sentenza di appello è cassata dalla cassazione allora abbiamo il decreto ingiuntivo e nessuna decisione che lo assorbe, quindi passa in giudicato.

Invece nel 2007 un'altra sentenza ha detto che questa conseguenza non si può accogliere da un lato perché è l'intero processo che si estingue e dall'altro perché è una decisione piena e quindi toglie sempre di mezzo la cognizione sommaria. Quindi di fronte ad un decreto che accoglie l'istanza del creditore e che quindi avvalora l'esistenza del credito, ma senza contraddittorio e solo su prova documentale, dopo una cognizione piena comunque esso viene tolto di mezzo.


Una volta consolidatisi il decreto per mancata opposizione il debitore ha un'estrema possibilità di difesa che è l'opposizione tardiva ex 650 che tiene conto che nonostante l'onere di verifica del giudice può darsi che vizi della regolarità della notificazione siano sfuggiti. Quindi ci si può opporre nella premessa di non averne avuto conoscenza incolpevolmente.

In ogni caso vi è un termine invalicabile costituito dal decimo giorno dal compimento del primo atto di esecuzione; nel momento in cui il debitore ti pignora i beni dovresti accorgerti che qualcosa è successo. Forse è un termine troppo breve, andrebbero bene i 40 giorni di prima.


PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO ex 660

Abbastanza simile per filosofia al decreto ingiuntivo ma vi è una differenza decisiva sulla struttura perché esso come quello monitorio valorizza la mancata contestazione ma nasce ab origine come procedimento in contraddittorio. Nasce infatti con un atto di citazione.

Nasce in contraddittorio ed è previsto per una particolare categoria di creditori: i creditori locatori creditori per il rilascio di un bene immobile. Si ha diritto al rilascio perché siamo in una situazione di sfratto per morosità oppure siamo in una situazione di licenza o sfratto per finita locazione.

Il locatore ha anche la possibilità di chiedere la licenza che è un'intimazione a sloggiare che faccio oggi in vista del momento in cui la locazione sarà finita, anche se il credito al rilascio non è ancora esigibile.

Il procedimento nasce originariamente come giudizio in contraddittorio. Con atto di citazione si cita il conduttore a comparire ad un'udienza per la convalida di un'intimazione. Questa citazione va notificata al conduttore e gli va indicata che ci sarà un'udienza di lì ad un termine che non potrà essere inferiore a 20 giorni liberi (di solito sono termini liberi quelli contenuti). Quindi non abbiamo il termine ordinario di 90 giorni, perché il convenuto è invitato a comparire, non per difendersi, né deve fare nei 20 giorni o nei 5 giorni una comparsa di risposta.

Il conduttore è chiamato a partecipare all'udienza per palesare la sua contestazione. E allora se questo è l'oggetto dell'udienza allora i 20 giorni liberi bastano perché non ci si deve premunire di una difesa anteriore all'udienza.


Se non ci si fa vedere all'udienza, si ritorna alla filosofia del processo monitorio e la mancata contestazione porta al riconoscimento della fondatezza del diritto; viene convalidata l'intimazione di sfratto irretrattabilmente.

Se il conduttore compare e non si oppone (meno probabile): ex 663 (mancata comparizione o mancata opposizione) il giudice convalida l'intimazione allo sfratto. Vale peraltro anche a questo riguardo ilprincipio per cui ex 647 il giudice se ha ragioni di ritenere che la citazione non ha raggiunto il soggetto intimato ordinerà la rinnovazione della notificazione perché anche qui lo sfruttamento dell'inerzia esige che questa sia consapevole e cosciente.

Se invece il conduttore compare e si oppone l'opposizione del locatore, deve essere meramente palesata:

- Se lo fa con prova scritta: il giudice da una sorta di provvisoria esecutività alla pretesa del conduttore di liberare l'immobile. Qui la presenza del conduttore consente al giudizio che era nato a contraddittorio originario di proseguire, invece l'assenza determina una sorta di atrofia del giudizio di convalida che si chiude immediatamente. Mentre nel processo ingiuntivo è l'assenza che determina il giudizio qui è il contrario.

- se invece l'opposizione è fondata comunque su gravi motivi e il conduttore moroso ha diritto a dei termini di grazie e se si fa vedere anche solo con una somma pari ad 1/5 si da diritto ad un lauto termine per pagare il resto. Quindi in presenza di prova scritta o ricorrendo gravi motivi abbiamo prosecuzione del procedimento nato con contraddittorio originario in vista della decisione sulla fondatezza. Quindi giudizio ordinario di cognizione che nasce con citazione e così finisce.


Teniamo presente che in larga parte si applica il rito sul lavoro. Ordine di prosecuzione del procedimento in tutti i casi di opposizione, con mutamento di rito (in quello del lavoro) e obbligo di depositare la propria memoria difensiva in un termine ristretto (quello del processo del lavoro).

Vale anche per la convalida pronunciata in assenza del conduttore, che è già chiusura irretrattabile, quanto abbiamo visto riguardo al decreto ingiuntivo non opposto: c'è la possibilità di un'opposizione tardiva ex 668 che consente all'intimato di fare opposizione provando di non aver avuto conoscenza incolpevolmente.


Va detto poi che sia nel 650 che nel 668 la Corte cost. si è pronunciata aggiungendo una parte di norma che dice che l'opposizione tardiva o l'opposizione dopo la convalida si può proporre anche quando, pur avendo conoscenza, non siamo riusciti a comparire o a fare opposizione tempestiva per caso fortuito o causa maggiore.

Il problema era sorto in situazioni in cui il debitore intimato aveva fatto l'opposizione ma essa non era stata notificata tempestivamente al creditore intimante per un disguido dell'ufficiale giudiziario, perché all'epoca (anni '70) si riteneva che per essere nei termini si riteneva che gli atti dovevano arrivare a destinazione nei termini. Oggi i termini si salvano con la consegna all'ufficiale giudiziario che è incaricato della consegna dell'atto.


Nel momento in cui chiediamo convalida, in particolare di sfratto si può chiedere contestualmente anche un decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni scaduti e anche per quelli da scadere fino all'esecuzione dello sfratto (ipotesi di condanna in futuro).

È possibile impugnazione straordinaria del decreto ingiuntivo non opposto per i motivi di revocazione stra e opposizione di terzo di tipo revocatoria (art. 404 co. 2)

La corte ha introdotto la possibilità di impugnare con opposizione di terzo anche l'ordinanza di convalida dello sfratto o della licenza.

I numeri sono un po' strani perché sono 1, 2, 3, 5 e 6, quindi manca il 4 e invece abbiamo il conflitto di giudicati e la ragione di questa strana discrasia perché di solito questi motivi vanno tutti insieme tranne il 5 secondo alcuni sta in un errore del legislatore, ma perché il contrasto con un precedente giudicato dovrebbe essere un vizio da far valere nel giudizio di opposizione perché se il decreto non viene opposto cade il giudicato.

Questo sopravvenienza del conflitto di giudicato quale motivo è inspiegabile così come è inspiegabile perché non si possa fare opposizione per scoperta di nuovi documenti. Non si vede perché la mala fede dell'avversario non possa essere dedotta come motivo a fondamento dell'opposizione.

Il motivo più frequente di solito è il num.1 cioè il dolo, quando una parte usa prove false.






Mercoledì 28 maggio 2008


Dottoressa Pilloni: le opposizioni esecutive, artt. 615 sgg.

Sono strumenti di reazione, che l'ordinamento predispone a fronte dell'esecuzione forzata, anche solo al fine di ottenerene la correttezza. C'è un processo esecutivo per soddisfare un credito, congegnato per consentire l'attuazione celere di questo diritto. Sostanzialmente deve attuare un programma: l'azione esecutiva data da quel titolo, con cui posso aggredire i beni del debitore per soddisfarmi sul ricavato. È condizione necessaria e sufficiente (nulla executio sine titulo), senza più dover dimostrare l'esistenza del diritto.

Questo ci fa capire come nel codice di rito il proc. esecutivo non conosce momenti di accertamento, né di contraddittorio, quindi possibilità di difendersi, perché lo scopo non è più di comporre le liti, ma è quello di attuare diritti e soddisfare i crediti. Allora il leg. lo porta fuori dall'estrinsecazione del credito: il debitore non può più dire la sua, perché c'è il titolo esecutivo. È quasi un'inversione dell'onere della prova: efficacia incondizionata del titolo esecutivo. Il documento privilegiato (come sentenza di condanna di primo grado) è una sorta di atto ricognitivo, che contiene anche un programma, di quello che sarà il processo esecutivo. Ci dice chi ha diritto e a che cosa. Il leg. è partito da una teoria dell'antecedenza logica dell'accertamento, strumentale al processo di esecuzione. Questo ha un senso quando si parla di sentenze passate in giudicato, ma non vale per tutti i titoli esecutivi. L'art. 474 - norma privilegiata - fa un elenco di atti (il primo è la sentenza), con altri provvedimenti (decreto ingiuntivo, ordinanze anticipatorie, ma anche le scritture private autenticate, atto pubblico, cambiale, titoli di credito: non hanno nulla a che fare coi titoli tipici, perché sono atti di autonomia privata, senza accertamento del giudice). La scelta del leg. abbraccia varie ragioni, di credibilità pel notajo, nella scrittura privata autenticata con la speranza di una funzione deflativa (non dovrò chiedere un decreto ingiuntivo). Ciò che accomuna tutti questi titoli stragiudiziali è che non garantiscono l'esistenza di un diritto, però il leg. si accontenta e li inserisce tra gli atti legittimanti. Però lo stesso vale anche pei titoli giudiziali. Anche la sentenza di primo grado è impugnabile in appello, dove può essere riformata; non è un diritto incontrovertibile. Il gravame lo può porre in discussione, anche il giudicato non dà certezza assoluta, ma fotografa un certo momento: c'è la zona grigia che va dall'udienza pc al deposito della sentenza che il giudice non tiene in considerazione, che può essere oggetto di nuova discussione. Allora abbiamo un titolo esecutivo, che non garantisce l'esistenza del credito (es. il debitore ha pagato, ma il creditore potrebbe fare il furbo, avendo un titolo, e non dovendo dimostrare il diritto: sarà il debitore a doversi difendere).

L'astrattezza dell'azione esecutiva prescinde dalle questioni sostanziali. Ma se il titolo dà tale potere legittimante, sorge il dubbio che il proc. sia «giusto». L'esecuzione forzata può essere:

- per espropriazione, quando c'è un titolo di credito, qualcosa di fungibile. Allora con la notifica del titolo e del precetto (atti preliminari al debitore: hai 10 giorni, se no ti pignoro!) Il pignoramento 491 è il primo atto verso l'espropriazione, ma varia anche a seconda del titolo. L'espropriazione prevede tre modalità, secondo il tipo di pignoramento:

a) mobiliare (rolex, compiuter, quadri, ecc.)

b) immobiliare;

c) pignoramento presso terzi: crediti che il debitore vanta verso terzi, stipendi, conti correnti ecc.

Così avviene l'espropriazione: notifica, pignoramento, udienza per l'autorizzazione alla vendita, ricavato con soddisfazione del creditore.

- in forma specifica. È deputata a soddisfare esigenze particolari, un facere fungibile (l'unico infungibile è il preliminare inadempiuto).

Ma il processo deve garantire il diritto di difesa. Allora il problema non è se al debitore sia riconosciuto tale diritto, ma il modo in cui può difendersi:

- o si difende nella stessa procedura,

- o il leg. gli crea spazi esterni, con un'azione (opposizione), che è esterna al proc. esecutivo, bensì funzionalmente collegato. È una possibilità del 615, uno strumento offerto al debitore contro l'azione esecutiva, la quale non sempre si rivela «giusta». Può accadere che l'ufficiale giudiziario pignori beni che appartengono a un altro soggetto, allora ci sarà il 619 (opposizione di terzo).

A noi interessa il 615: opposizione all'esecuzione, con un processo parallelo, con una nuova parentesi di cognizione, in cui si contesta il diritto della parte istante a procedere all'esecuzione forzata, un diritto processuale, cioè l'azione esecutiva. Allora il debitore dice che tale azione non c'è, si difenderà dicendo che non c'è il titolo, o che manca il credito.

A seconda del momento in cui l'azione è proposta, assume nomi diversi, ma questo non deve ingannare:

- se viene proposta dopo la notifica del precetto (615 primo comma), ma prima del primo atto di esecuzione forzata (pignoramento) è OPPOSIZIONE A PRECETTO;

- se viene proposta dopo il pignoramento, a processo iniziato, è OPPOSIZIONE A PIGNORAMENTO (con cui si può sostenere anche che quei beni non potevano essere pignorati).


Il debitore ha questi due mezzi, diversi per un parametro cronologico, che si projetta anche sulla forma dell'atto e sulla komp del giudice e sui motivi delle doglianze. Con l'opposizione a precetto, è komp (per materia, territorio e valore) il giudice secondo le regole normali, con atto di citazione, che va notificato e poi depositato. Con l'opposizione a pignoramento, c'è già un giudice dell'esecuzione, che sarà quello komp, e va fatto con ricorso: prima avviene il suo deposito, quindi il giudice fissa con decreto un'udienza dando un termine perentorio al debitore opponente per la notifica al creditore.

È sempre opposizione all'esecuzione; in entrambi i casi, i motivi sono:

- inefficacia originaria o sopravvenuta del titolo;

- inesistenza del credito;

- impignorabilità dei beni, perché personalissimi 614.

Si contesta il diritto a procedere all'esecuzione, perciò la tesi più accreditata è che si tratti di un proc di accertamento negativo. Invece per Liebman e Garbagnati è azione costitutiva, perché mira all'invalidazione di tutti gli atti sin lì compiuti.

Quello che a noi interessa è la causa petendi, es. inefficacia del titolo: si inizia una causa di accertamento, o di condanna generica, oppure un lodo arbitrale irrituale erroneamente omologato. Se questa è l'inefficacia originaria del titolo, pensiamo all'inefficacia sopravvenuta (all'inibitoria 283); un titolo la cui efficacia esecutiva viene sospesa in appello, con cui viene meno il potere di aggredire i beni del debitore.

È diversa l'ipotesi in cui un titolo ci sia, quindi l'azione c'è tutta. Però il debitore, se ritiene che il credito non c'è più (opposizione di merito), può contestare in modi diversi, a seconda del titolo (stra o giudiziale, col primo si può aprire un processo di condanna). Vi sono titolo che non contengono un accertamento (decreto ingiuntivo, sentenza di primo grado, ecc.) I limiti si pongono in questi termini: se per quel titolo esecutivo, l'ordinamento prevede un mezzo di impugnazione, non è possibile l'opposizione di merito, che è preclusa, non si può dire che manca il credito. Occorrerà opporsi solo con l'appello, per ottenere l'inibitoria della sentenza di primo grado, perché c'è un impedimento da litispendenza; non si può fare opposizione all'esecuzione, perché già può pendere un altro processo di cognizione piena, attraverso il processo di impugnazione. Allora chiederà la sospensione dell'esecuzione alla corte d'appello.

Un'altra questione è quella della sentenza di condanna passata in giudicato, qualcosa che dovrebbe togliere ogni dubbio. Però il giudicato non garantisce che esista ancora il credito, allora come ci si può opporre? - sempre rispettando i limiti cronologici, deducendo fatti successivi (invece il giudicato preclude il dedotto e il deducibile, in quanto ci sono preclusioni strette). Le opposizioni di merito non hanno problemi di litispendenza.

[Raccolta firme preappello]


Chiariti i limiti a contestare l'azione esecutiva, in base al titolo stra o giudiziale, abbiamo spiegato (domanda frequente!) che nel contesto dei titoli che contengono un accertamento, tra i quali va ancora distinto tra quelli che offrono un mezzo di impugnazione e gli altri. Nel contesto dei titoli che non contengono un accertamento, vi sono le ordinanze anticipatorie di condanna, artt. 186 bis, ter e quater. Il problema dell'esperibilità dell'opposizione si pone in questi termini:

- Ordinanza 186 bis: è titolo esecutivo, anche quando il processo ordinario si sia estinto. Allora come si può contestare l'ordinanza? - Non si può fare opposizione di merito, perché c'è il corso del giudizio del primo grado, che dura con la litispendenza, finché il grado si estingue: allora non c'è più impedimento all'opposizione di merito.

- Ordinanza 186 ter: ingiunzione di pagamento e consegna, che si caratterizza pel fatto di essere titolo esecutivo coi presupposti del 642 e 648 (decreto ingiuntivo). Non contiene un giudicato, quindi anche qui c'è litispendenza. Anche qui l'unico rimedio è chiedere al giudice di revocare l'ordinanza. È uguale al 186 bis.

- Ordinanza 186 quater (caso più simpatico), successiva all'istruzione. A differenza delle altre due, non è revocabile dal giudice, ma solo dalla sentenza che chiude quel giudizio. Le ragioni alla base del giudizio, anche se il proc. si estingue, il debitore potrà ottenere una revisione con l'appello che sostituisce quella sentenza.

Questo è il panorama dei limiti all'opposizione contro l'esecuzione forzata. Ma la questione più importante è quella relativa a un titolo giudiziale contenente un accertamento, una sentenza di condanna passata in giudicato (problemi che non si pongono coi titoli frutto dell'autonomia privata). Le due doglianze (non c'è il titolo o non c'è il credito) si aggiungono a una terza: impignorabilità dei beni, che non rispondono all'azione esecutiva, art. 514: sono beni personalissimi per vivere al debitore. È un motivo spendibile solo con opposizione al pignoramento. È un'opposizione strana, perché di solito si dice che con l'opposiozione all'esecuzione si contesta l'an dell'azione esecutiva (l'altro strumento è l'opposizione agli atti esecutivi, con cui si contesta il quomodo, cioè un atto che non è regolare: questo sembra l'impignorabilità). Ma se il leg. l'ha inserita nel 615, incide sul regime giuridico di quel bene. Il proc. può essere iniziato dal debitore esecutato, ma anche dal suo creditore (in via surrogatoria), ma anche dal terzo datore di ipoteca per diritto altrui. Il legittimato passivo è sempre il creditore. Ma è controverso se gli altri creditori sono litisconsorti necessari (Consolo è d'accordo).

L'oggetto di questo giudizio è di accertamento negativo (per Mandrioli non ha importanza la natura). L'oggetto immediato è del successivo giudicato è il diritto della parte istante a procedere alla esecuzione forzata: non esiste l'azione esecutiva. Però si pone una questione, quando il motivo è l'assenza o carenza del credito. La questione dà luogo a una pregiudiziale di merito (che non concretizzano un rapporto processuale, ma hanno ad oggetto un diritto, un rapporto o uno status, es. l'eccezione di compensazione, che potrebbero essere oggetto di un processo autonomo). Allora tale questione pregiudiziale di merito viene accertata incidentalmente con efficacia di giudicato (la dottrina prevalente condivide), perché l'accertamento avviene ex lege. Allora ha vinto il debitore, che otterrà un accertamento che manca l'azione. Invece è discusso se accerti con giudicato l'inesistenza del credito. Il futuro del creditore è che potrà iniziare un nuovo processo esecutivo, ma non in forza di quel titolo.

Se invece l'opposizione è di merito, dice che manca il credito, così accerta con efficacia di giudicato: il creditore è bloccato per sempre, il credito non esiste!

Il processo di opposizione è autonomo. Ma cosa succede se si estingue il processo esecutivo? Sono processi che vivono autonomamente, vi è interesse a coltivare il processo di opposizione, a maggior ragione di merito. È più difficile contestare la pignorabilità dei beni.

L'ultima questione è quella in cui ci sia interferenza tra i due giudizi: con l'opposizione all'esecuzione, il debitore può anche chiedere la sospensione del processo esecutivo, con richiesta cumulativa. Il provvedimento dato dal giudice dell'esecuzione è sancito al 624. È importante, perché il leg. del 2005-2006 è intervenuto. Una volta si poteva ottenere la sospensione del provv. esecutivo solo una volta iniziato (è logico!), occorreva prospettare gravi motivi, simili a un provv. cautelare (FBJ + PIM), con concessione di un'ordinanza, con le modalità 624. allora se il creditore aveva un titolo esecutivo, poteva fare il pignoramento, e il debitore era disarmato; proponeva opposizione, ma non aveva altri mezzi contro l'esecuzione, anche solo minacciata. La dottrina aveva denunciato la lacuna. La giurisp allora ha consentito di farvi fronte, consentendo al debitore di ottenere un'inibizione, con provv ex 700 (infatti non era previsto un mezzo di tutela). Era una via cautelare ante causam, per impedire il corso degli atti successivi. Oggi tale forzatura non serve più, perché al 615 primo comma c'è la possibilità di sospendere l'efficacia del titolo. Non è però corretta la lettura della norma come sospensione del titolo, ma come sospensione del processo (altrimenti nessuna procedura potrebbe più essere iniziata).

Un'altra novità del leg. è stata quella di impedire che la sentenza conclusiva di opposizione potesse essere impugnata con l'appello: nel 616, avverso alla sentenza che conclude quel processo ordinario di cognizione, possa essere appellabile. Un tempo il discrimen tra opposizione all'esecuzione o agli atti stava proprio in ciò: sentenza che poteva essere impugnata in appello o solo in kass.  Oggi si pongono altri problemi: l'appello dà un'ulteriore garanzia, se lo si toglie, le possibilità sono due:

- o la norma è incostituzionale;

- o è stato scambiato l'oggetto del giudizio di opposizione.

Se uso la cambiale o l'assegno come titolo esecutivo, per una normale azione di condanna, il debitore può solo dire che non esiste l'azione, poi fa ricorso in appello e kass. con cognizione piena. Ma allora vi è violazione dell'art, 3 cost., perché se uso la cambiale come oggetto di azione esecutiva, è deciso in un solo grado; invece se la uso per un procedimento monitorio, ho esaurito tutti i tre gradi. Non è violato il 24 cost, ma vi è una disparità di trattamento. Una prospettiva è vedere cosa ritiene la consulta sulla costituzionalità della norma, oppure se dirà che non si va a vedere se esiste il credito, senza efficacia di giudicato.



Martedì 3 giugno 2008


Continuiamo con il processo esecutivo e il suo iter, rimanendo ad un livello di generalità. Abbiamo parlato della sua funzione, di quali titoli esecutivi ci sono e della funzione preliminare e legittimante del processo quale atto che consente l'avvio del processo ad esecuzione forzata.

Torniamo un po' indietro, soffermiamoci invece sui rapporti tra processo di esecuzione forzata e quell'istituto sostanziale che ne costituisce fondamento e che gli da corpo: principio della responsabilità patrimoniale. Rispetto a questo principio, il legislatore deve mettere in campo gli strumenti affinché l'enunciazione della responsabilità patrimoniale diventi concreta. Soddisfazione anche contro e indipendentemente dalla volontà del debitore. Queste situazioni valgono come deterrente e presidio coercitivo psicologico allo spontaneo adempimento; il deterrente si realizza perché vi è possibilità di concretizzazione in aggressione alla sfera patrimoniale del debitore.

La sfera del debitore può essere aggredita nella sua integralità (tutti i beni presenti e futuri) con sequestro conservativo (preventivo) e revocatoria ordinaria (repressivo).


Limitazioni a responsabilità patrimoniali ex 2640 co. 2, previste solo per legge; sono di due tipi a seconda che attengano:

a) all'oggetto dei beni: alcuni beni per la loro finalità sostanziale si sottraggono all'azione esecutiva, come i beni impignorabili ex 513 cpc, beni parzialmente impignorabili (per l'esercizio della professione, emolumenti che riceve come stipendio nei limiti di 1/5); funzione sostanziale: usufrutto dei genitori sui beni dei figli; beni costituiti in fondo patrimoniale;

b) in relazione alla qualità del credito: in ragione del rapporto in virtù del quale i creditori si fanno avanti; ricordiamo due situazioni: possibilità del creditore di uno dei coniugi di aggredire il patrimonio, ma solo fino alla metà e poi quel limite peculiarissimo dell'aggredibilità dei beni che discende dall'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, che fa sì che il debitore risponda solo intra vires.

Fatte salve queste ipotesi, c'è il principio generalissimo di soddisfare i creditori con tutti i propri beni presenti e futuri.


Ci sono problemi per quanto attiene al rapporto con le varie figure di esecuzione forzata. Perché il 2740 e 2741 riescono a trovare piena attuazione nella prospettiva dell'esecuzione forzata per credito in somma di denaro (pecuniario)? - Perché qui si possono aggredire i cespiti, ricavare del denaro e soddisfarsi.

Quindi si ha piena soddisfazione in caso di esecuzione forzata per espropriazione e per obblighi di fare e di non fare (sempre ammesso che sia un facere o non facere fungibile), perché si realizzano provocando soddisfazione per surroga (con intervento di un terzo) a spese dell'originario debitore.

È più problematico il rapporto tra principio di responsabilità patrimoniale e caso di esecuzione per consegna o rilascio, perché qui tendenzialmente colui che mette in moto l'esecuzione non è meramente creditore, è tendenzialmente proprietario, il titolo dell'azione esecutiva è dato da un diritto non di credito ma reale (mobile: consegna; immobile: rilascio). Esecuzione per consegna o rilascio presuppone un diritto su beni individuate, non su cose fungibili per le quali non si ha ancora avuta la specificazione. Qui siamo sprovvisti di strumenti di tutela, se non quelli di sanzione indiretta (risoluzione per inadempimento e tutti gli altri rimedi sostanziali, non rimedi processuali in senso stretto).

Ciò avvalora la tesi per cui l'esecuzione per rilascio è utilizzata dal proprietario e in che misura possiamo usare qui il perincipio di responsabilità patrimoniale. Satta aveva distinto situazioni giuridiche:

- strumentali: di credito; qui si ha l'esecuzione per espropriazione;

- finali: solo qui si può usare esecuzione diretta (per consegna o rilascio);

Per Satta i crediti non hanno mai accesso all'esecuzione diretta, perché questo è ok solo per le s.g. finali. Questo comportava che si fosse al di fuori del contesto della responsabilità patrimoniale, perché qui non ci sono limiti, perché se io sono proprietario di un bene, ma se lo vendo allora è proprietario il terzo! Non ci sono limiti per l'esecuzione o il rilascio, neanche il limite dei beni impignorabili, perché se lo vendo, anche se è impignorabile, la proprietà passa.

Inoltre non ho concorrenti nel rilascio del bene di cui sono proprietario.


Ci possono essere problemi anche quando il titolare del diritto dominicale ha una pretesa che coincide con un non facere del debitore; l'esecuzione per obblighi di fare o di non fare è a disposizione di diritto di fonte obbligatoria ma può anche esserlo per diritto di fonte dominicale; nel primo caso trova limiti oggettivi della responsabilità patrimoniale ed è soggetta al concorso con gli altri creditori; nell'altro caso no. Esempio: A titolare di un diritto a che il debitore non sopraelevi o non edifichi sul suo terreno; siamo titolari in base ad una servitù, che è trascritta nei registri immobiliari; B nonostante la servitù edifica o sopraeleva. Qui B è anche indebitato verso altri.

A ha diritto alla demolizione dell'edificio o del piano ulteriore. E nella maggior parte dei casi non ci sarà demolizione spontanea, ma dovrò ricorrere ad un terzo per far demolire.

Gli altri creditori però non vedono di buon occhio questa demolizione perché diminuisce il patrimonio di A.

Qui c'è conflitto di interessi e prevale sempre il diritto dominicale. Prevale l'interesse ad avere l'adempimento a discapito degli altri debitori. Certo che questa soluzione richiede che vi sia un titolo dominicale a vantaggio del proprietario del fondo servente. Se invece vi fosse stata non servitù, ma vincolo di fonte meramente obbligatoria a non edificare e non sopraelevare (normalissimo contratto che non vincolano gli aventi causa successivi). Questo contratto da comunque diritto ma qualora ci siano altri creditori che possono mettere in moto il processo per espropriazione e che hanno interesse a che il manufatto resti li in queste ipotesi il conflitto di interesse va risolto diversamente: qui non c'è titolo reale, qui siccome sono tutti creditori vale il principio del concorso ex 2741 (par condicio creditorum). Ma come realizzarla se gli interessi sono diversi? Si liquida monetariamente il danno per equivalente.

Qui non è giusto dire che c'è principio di responsabilità patrimoniale. In questo senso l'equivalenza postulata da una parte della dottrina è inesatta; però probabilmente non è neppure esatta la tesi di Satta) le situazioni giuridiche finali danno luogo solo ad esecuzione diretta), questo perché vi sono s. g. finali in cui c'è possibilità di usare esecuzione forzata per consegna o rilascio, anche se sono rari o frequenti: es. esecuzione per consegna o rilascio è sicuramente ok in caso di locatore che si vede non consegnate le chiavi, Satta in effetti ha detto che qui è ok, però in vita sua non ha mai visto un locatore che invece di cercarsi un'altra casa va a fare esecuzione forzata. Certo che con il 4più4 e 6più6 per i negozi non è del tutto improbabile.

Serve un contemperamento: norme sull'esecuzione forzata disciplinano i rapporti tra il diritto dell'acquirente alla vendita forzata e il diritto del conduttore a rimanere nell'immobile per un dato periodo di tempo. I creditori non possono sgomberare l'immobile fino a quando c'è il debitore dentro. Se poi si arriva alla vendita forzata. meccanismo improntato a emptio non tollit locatur, non si butta fuori il locatore a patto che il diritto del terzo sia un diritto che risulti da un atto avente data certa e anteriore al pignoramento, per garantire che l'atto non sia formato dopo il pignoramento in frode ai creditori.


PAR CONDICIO CREDITORUM

Il legislatore realizza la par condicio nell'ordinamento italiano non solo in sede concorsuale (fallimento), ma anche per singoli beni del creditore e in beneficio non di tutti i creditori ma solo di quelli specifici che hanno preso l'iniziativa e hanno assunto le iniziative indispensabili per partecipare al procedimento. Comunque su singoli beni.

Lo strumento per garantire la par condicio nell'esecuzione singolare è l'intervento dei creditori nel processo di esecuzione forzata. La garanzia è data dal diritto dei creditori ad essere soddisfatti salve le legittime cause di prelazione; sono fatte salve solo pegno ipoteca e privilegi e non sono riconosciuti al creditore pignorante (diversamente dall'ordinamento tedesco) alcuna prevalenza alla soddisfazione del proprio credito.

Il creditore che si è mosso per primo non ha più speranze di garanzia se non ha cause legittime di prelazione.


Prima chiunque poteva intervenire, l'unico filtro era la necessità di avere un documento (andava bene qualsiasi atto scritto) che consisteva in un riscontro del debito. Tra l'altro, per come era formulata la norma originaria del 449, neppure l'esigenza del documento emergeva dalla legge che diceva che andava indicato il credito e basta! Sola indicazione del titolo poi la giurisprudenza per filtrare aveva aggiunto la necessità del titolo. Di per sé il codice si affermava alla mera affermazione del terzo che voleva intervenire.

Il legislatore 2005 - 2006 ha invece ristretto molto qui; oggi l'intervento è previsto come regola generale solo a vantaggio dei creditori che vantano un titolo esecutivo (titolo che gli consentirebbe di dare il via al processo di esecuzione forzata). Il legislatore seguendo una parte della dottrina ha ritenuto di poter arrivare ad una semplificazione del processo in questo modo.

Perché ci possono essere contestazioni del credito non solo frontali da parte del debitore, ma anche incrociate (da parte degli altri creditori) e restringendo la possibilità di fare intervento si semplifica. Il titolo esecutivo non è dimostrazione dell'esistenza del credito perché dipende dalla qualità del titolo esecutivo, però è già qualcosa.


Però il legislatore da una parte limita l'intervento, dall'altra aggiunge alcune situazioni ulteriori nelle quali si può fare: è annesso l'intervento anche di soggetti creditori che al momento del pignoramento avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati o se erano creditori ipotecari; chiaro che non possiamo escludere il sequestrante, il cui titolo esecutivo e in formazione e ha già avuto un riscontro del fumus boni iuris e il creditore ipotecario che non ha titolo esecutivo, ma ha un diritto di prelazione.

Terza aggiunta che è frutto di mero potere dei lobbisti del parlamento del 200: il legislatore ha consentito l'intervento ai creditori titolari di somma di denaro risultante da scritture contabili (obbligatorie) ex 2214 cc.; sono essenzialmente i creditori imprenditori e banche, che dopo la primavera 2005 hanno capito che non bastavano più le copie degli estratti conto per fare intervento e allora nella revisione della legge 262/2005 è stata introdotta anche questa ulteriore ipotesi per consentire intervento di questi soggetti. Non si capisce perché il lavoratore non può più, mentre l'imprenditore può. Norma palesemente incostituzionale perché non si capisce perché si va contro al 3 cost.; hanno già strumenti particolari in più quali la prova scritta nel procedimento monitorio, non si capisce questa deroga.


Il legislatore ha inserito nel 449 tutta una serie di passaggi procedimentali particolarmente complicati che muovendo da un'idea semplificante per cui un titolo esecutivo darebbe più certezza sull'esistenza del credito. Per gli altri 3 soggetti che non hanno titolo esecutivo non ci sarebbe stato ancora nessun riscontro dell'esistenza del credito.

Si prevede la fissazione di un'udienza di comparizione per tutti quei debiti senza titolo esecutivo dove il debitore deve dire quali debiti riconosce e in che misura (si provoca la contestazione o la non contestazione). Se il debitore non compare si danno tutti per esistenti, agli effetti di quel processo esecutivo. Per cui l'originaria e permanente assenza di titolo esecutivo non osta alla loro possibilità di partecipazione alla distribuzione del ricavato.

Se invece il debitore contesta allora le prospettive di partecipare alla divisione del credito sono un po' meno sicure. Fermo restando che qui non si ha comunque accertamento giurisdizionale sull'esistenza del credito perché resta sempre in teoria possibile che il debitore chieda la ripetizione dell'indebito (per il debito che non aveva contestato).

Quando invece c'è contestazione, i creditori hanno diritto non a divisione del ricavato, ma a mero accantonamento delle loro somme o quote proporzionali di somme. Questo accantonamento ex 510 è disposto dal giudice per il tempo ritenuto necessario e comunque non superiore a tre anni, decorsi i tre anni il giudice dà luogo a distribuzione e il debitore non piglia più niente.

Succede spesso in realtà perché da noi le sentenze si ottengono dopo i tre anni.


Intervento tempestivo: entro l'udienza che autorizza l'assegnazione. I creditori che intervengono tempestivamente si soddisfano a preferenza dei creditori tardivi. Ai tardivi restano solo le briciole (prevalgono comunque se hanno crediti con diritto di prelazione).

I creditori muniti di titolo esecutivo tra l'altro sono gli unici che possono compiere gli atti di impulso del processo esecutivo che impediscono l'estinzione del processo per inattività delle parti (es. istanza di vendita). Fino alla vendita, poi tutti i creditori sono uguali. Questa diversità di posizioni si descrive in modo atecnico dicendo che i creditori titolati sono gli unici che sono muniti dell'azione esecutiva espropriativa, mente i non titolati sono titolari solo dell'azione esecutiva sattisfattiva (solo di vedere riconosciuto il loro interesse).


Mercoledì 4 giugno 2008


AVVIO DEL PROCESSO ESECUTIVO

Il processo esecutivo diventa pendente con l'atto di pignoramento che va compiuto entro 90 giorni dalla notificazione del precetto pena retroattiva inefficacia del processo. Atto di precetto interrompe la prescrizione, affinché l'interruzione sia perpetua serve l'atto di pignoramento.

Il pignoramento è disciplinato dal 492, è intimazione a debitore di non disporre dei beni individuati come pignorati (anche i frutti di essi).


La riforma 2005-2006 è intervenuta sull'assetto dei beni da pignorare: qualora l'ufficiale giudiziario non rinvenga beni sufficienti per coprire il valore allora deve invitare il debitore a dichiarare se è in possesso o in proprietà di altri beni e dove questi beni si trovino; di conseguenza ex co. 6 art. 492 il debitore ha 10 giorni per rispondere e se non lo fa (o lo fa con falsità) c'è sanzione penale; prassi ed esperienza dimostrano che questa sanzione penale è un deterrente a non rispondere e che quasi tutti rispondono.

L'ufficiale giudiziario può anche rivolgere istanza a anagrafe tributaria o altre banche dati pubbliche per vedere se il debitore ha altri beni. Probabilmente sono recuperabili anche i dati sui capital gain che non vengono dichiarati in dichiarazione dei redditi perché sono soggetti a imposta del 12,5%. Il problema si pone soprattutto per gli immobili intestati prima dell'informatizzazione del catasto e la ricerca dei conti bancari o presso il datore di lavoro (per pignorare quantomeno per 1/5) e idem per la pensione. Il vero problema per l'esecuzione forzata è la tendenziale inefficienza dell'esecuzione mobiliare (sia perché gli ufficiali giudiziari sono tendenzialmente in sotto numero e non hanno tempo per fare esecuzione mobiliare, spesso perché dove c'è la sede distaccata non ha l'ufficiale giudiziario; inoltre è anche difficile trovare i beni perché la maggior parte valgono poco o niente). Quindi l'ufficiale arriva, trova qualcosa ma non tutto, spesso finisce con il trovare macchinari che valgono cifre spropositate (tosa erba per 10.000 euro) e quindi non si può più pignorare nulla.

Rimangono le altre due alternative:

a) PIGNORAMENTO IMMOBILIARE: troviamo l'immobile, notifica del pignoramento, trascrizione dei registri immobiliare; qui la notificazione (atto formale) che contiene l'intimazione a non disporre del bene (art. 555). L'esecuzione immobiliare inizia con la notificazione poi pignoramento e il pignoramento immobiliare si differenzia dal sequestro conservativo qui dove c'è immediata trascrizione (perché qui non si può dare tempo al debitore che sta cercando di vendere tutto).

Il pignoramento immobiliare è più efficiente di quello mobiliare ma ha due inconvenienti:

1) procedura lunga, che si è snellita dal '96 in poi da quando si può delegare parte della procedura ai notai, però sono necessarie le varie perizie di stima sul valore del bene.

2) i tempi sono molto lunghi anche perché non è facile trovare l'acquirente, un soggetto che sia disposto a corrispondere il prezzo di stima, perché accadeva spesso che gli incanti andassero deserti e il prezzo venisse gradualmente ridotto per poi arrivare dopo 5 anni ad un prezzo che non è rappresentativo del vero valore del bene. Per contrastare questo il legislatore 2005-2006 ha invertito il meccanismo di vendita e mentre prima la modalità primaria era vendita con incanto e poi senza incanto, adesso la modalità primaria è la vendita senza incanto, cioè la ricerca di un acquirente a prescindere dalla forma dell'asta. Tra l'altro la vendita con incanto, soprattutto in certe zone, risentiva di turbative esterne. più si ha ora un potenziamento della figura del custode dell'immobile e ha particolari responsabilità nel contesto di norme che non escludono che i custodi possano essere gli agenti immobiliari, veri e propri privati che cercheranno di piazzare questo immobile come normalmente fanno. E questo è stato previsto implementando la prassi sviluppatasi soprattutto in Tar Monza e Bologna che era anche praeter legem.

Quanto alla turbativa d'asta (esclusione strutturale della partecipazione o tentativo per far diminuire il prezzo dell'immobile) non dimentichiamo che il 586 prevede che il giudice dell'esecuzione possa sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo della vendita sia notevolmente inferiore a quello giusto.


b) PIGNORAMENTO PRESSO TERZI: è quello che di solito risulta più efficienti. Art. 543; quando il terzo è debitore a sua volta del debitore o ha un bene che è di titolarità del debitore esecutato.

Nell'espropriazione di crediti il problema è che bene mobile e immobile esistono nello spazio fisico, sono tangibili. Quindi il credito si vincola con intimazione al debitore di non disporre dei propri beni e con citazione del terzo e del debitore a comparire ad un'udienza perché il terzo renda una dichiarazione ex 547 nel contesto della quale questo presunto terzo debitore dichiari la sua situazione passiva.

Solo quando il terzo debitore riconosce di essere debitore allora la nostra affermazione diventa qualcosa di concreto e effettivamente spendibile. Altrimenti il pignoramento non si concretizza perché non abbiamo la sicurezza dell'esistenza del diritto.


Se il terzo rende dichiarazione positiva, il legislatore ha previsto oggi che l'udienza sia necessaria allorché vengano in considerazione i crediti di cui all'art. 545 co. 3 e 4, cioè stipendi e crediti vari da lavoro; per tutti gli altri crediti il terzo non viene citato a comparire ma viene invitato a dare comunicazione (sono debitore o no) entro 10 giorni a mezzo di lettera raccomandata. In realtà è stata una semplificazione perché questi non sapevano come fare a scrivere la dichiarazione e andavano dall'avvocato.

Allora il pignoramento, se il terzo dice di sì, si perfeziona retroattivamente, nel senso che il terzo comunque è costituito custode della somma o del bene sin dal momento della ricezione della notifica dell'atto di intimazione/citazione o intimazione/richiesta di invio documenti. Quindi il terzo ha l'obbligo di non disporre in nessun modo sino a provvedimento giudiziale di queste somme, a salvaguardia delle ragioni del creditore procedente e dei creditori intervenuti. Per cui ogni atto estintivo o modificativo del credito compiuto dal debitore terzo dopo la notificazione dell'atto di pignoramento non è opponibile alla procedura esecutiva.

Quindi nel pignoramento presso terzi il regime del pignoramento può essere binario: può avere rapporti non efficaci tra terzo debitore e procedura esecutiva e quindi potremmo avere il terzo obbligato a pagare due volte perché prima paga al creditore originario e poi dovrà pagare ai creditori (poi avrà ripetizione dell'indebito).

Il terzo non ne può disporre nella somma del credito aumentato del 50%; la cassazione: il conto bancario viene bloccato perché il creditore chiede soldi ecco che qui non è possibile frazionare la somma.


Se invece il terzo disconosce il credito o non risponde all'invito a fare dichiarazione: non abbiamo concretizzazione del pignoramento; può accadere che la procedura muore o che ci sia un modo per accertare il credito. La prima alternativa sarebbe troppo comoda: il creditore sceglie lui a questo punto sceglie lui se dare ulteriore impulso alla procedura tramite procedura ordinaria con cognizione piena per l'accertamento del credito presso terzi.

Dal pignoramento in poi le sorti del credito del debitore esecutato presso il terzo e del diritto a farsi pagare possono percorrere due strade diverse, perché fatti estintivi efficaci tra terzo e debitori possono essere non efficaci per i creditori del debitore.


Se il giudizio di accertamento ha oggetto necessariamente duplice è oggetto di dibattito. La giurisp. tende a dire che l'oggetto è solo l'esistenza della situazione di soggezione del terzo debitore alla procedura esecutiva, non il diritto del creditore esecutato nei confronti del terzo; l'oggetto è meramente processuale e questo comporta questioni anche di giurisdizione, che c'è sempre perché non si discute del debito ma semplicemente dell'esistenza di un diritto processuale. Per il manuale l'innegabile possibile diversità degli oggetti, tra il diritto del terzo e la procedura, non può far chiudere gli occhi sul fatto che per una larga parte gli oggetti di questi due giudizi coincidono, almeno fino al giorno del pignoramento. Da qui si trae spunto che vale la pena sfruttare questo giudizio per fare accertamento sostanziale su entrambi. Quindi otteniamo una sentenza che ha necessariamente due capi.

Però va tenuto presente che la differenza tra giudizio che ha ad oggetto il diritto della procedura verso il terzo e l'altro non è solo una differenza in termini cronologici (da qui in poi le vicende potrebbero divergere) ma è anche differenza in termini di mezzi istruttori: la confessione vincolerebbe sull'inesistenza del debito del terzo (debitore dice no non c'è il debito), ma non sarebbe opponibile al creditore procedente perché confessione e giuramento vincolano in quanto colui che giudichi abbia la disponibilità del diritto (qui si discute non del credito, ma del diritto della procedura a farsi mettere a disposizione i soldi). Idem per le scritture private non autenticate (es. rimessione del debito), la prova non è opponibile ai creditori procedenti a meno che non abbia data certa anteriore al pignoramento.

Si potrebbe addirittura arrivare a ritenere più semplificante la dottrina che ritiene l'oggetto come unico.


Con questo giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo che determina la sospensione della cognizione, abbiamo la duplice possibilità che il giudizio si chiuda nel senso dell'inesistenza dell'obbligo di terzo e qui il processo esecutivo si chiude per mancanza di oggetto (manca il credito da pignorare e ne abbiamo riscontro giudiziario). Se invece si chiude favorevolmente ai creditori intervenuti abbiamo concretizzazione dell'oggetto del pignoramento che avremmo già potuto avere (ma che non abbiamo avuto perché il terzo non era stato collaborativo) per cui perveniamo qui solo per esito dell'attività di cognizione; è uguale per che strada ci si arriva, ma una volta che abbiamo certezza dell'esistenza del credito il passaggio successivo è l'assegnazione del credito in pagamento.

In realtà si prevede anche la vendita qualora si tratti di somme esigibile dopo 90 giorni, cioè provvedimento del giudice che assegna il credito pro solvendo (per l'eventualità di effettiva soddisfazione) che avviene dunque per effetto di provvedimento giudiziale che determina sostituzione del lato attivo nel rapporto creditorio.

Così si chiude la vicenda espropriativi. Resta aperta la vicenda sattisfattiva e qui si crede in giurisp., forzando un po' gli schemi, che il decreto di espropriazione sia titolo esecutivo; se cioè il terzo dopo l'assegnazione non paga allora il creditore procedente dovrebbe costringerlo a pagare e per farlo gli serve il titolo esecutivo, si dice che ce l'ha già ma a stretto rigore dovrebbe instaurare un nuovo giudizio di cognizione sostanzialmente identico nell'oggetto a quello ipotetico che si è già svolto.


RAPPORTO TRA EFFETTO SOSTANZIALE DEL PIGNORAMENTO E EFFETTO SOSTANZIALE DEL SEQUESTRO CONSERVATIVO

Abbiamo detto che sono sostanzialmente omologhi. C'è però una differenza con riguardo alla posizione del terzo creditore interessato. Si dice che il pignoramento è un vincolo a porte aperte, perché beneficiati sono creditore esecutante e anche tutti i creditori intervenuti a prescindere dal momento di intervento (beneficiante è la procedura nel suo complesso), mentre il sequestro conservativo è a porte chiuse perché giova solo al creditore sequestrante.

Quindi se immaginiamo che il pignoramento sia avvenuto il primo febbraio, se il creditore aliena il 15 marzo, poi il creditore B interviene il 4 giugno, l'inopponibilità negativa giova anche a B anche se si è inserito dopo.

Invece il sequestro conservativo dà luogo a vincolo a porte chiuse, se sequestro 1 febbraio, debitore sequestrato vende 15 marzo, 4 giugno titolo esecutivo (sequestro in pignoramento), 1 luglio interviene il creditore B. qui succede che il vincolo di inopponibilità relativa giova solo al creditore sequestrante, non giova retroattivamente anche per chi è intervenuto dopo. Se in quel processo esecutivo intervengono altri creditori il 1 luglio, il primo creditore dice che il bene che lui ha sequestrato spetta solo al soddisfacimento del suo credito.


OPPOSIZIONE DI TERZO ALL'ESECUZIONE

Terza figura di opposizione. Art. 619. Ha oggetto/funzione peculiare. E' in realtà una rivendica promossa dal terzo nei confronti della procedura esecutiva, nel contesto della quale il terzo fa valere, o meglio si batte, contro quella presunzione relativa che costituisce il fondamento incomprimibile e ineluttabile dell'attività dell'ufficiale giudiziario quando va a pignorare accedendo con il titolo esecutivo (muove dall'appartenenza al debitore di tutti i beni che nei suoi locali si trovano). E' la presunzione che sta alla base del 113 e che rende plausibile l'attività dell'ufficiale giudiziario (presunzione relativa di proprietà del debitore). Questo vale anche se si abita con i genitori.

Per combattere questa presunzione vi è l'opposizione di terzo all'esecuzione, che ovviamente ha un suo significato:

a) per i beni immobiliari: i problemi sono molto sottili perché non serve nella maggior parte dei casi neanche l'opposizione. Ammesso che il giudice già non si sia accorto che c'era una trascrizione precedente il pignoramento.

b) per i beni mobili: problemi maggiori. l'ufficiale giudiziario si muove su una presunzione relativa ma a prova contraria limitata! La prova contraria limitata è l'atto scritto da cui risulta la proprietà del terzo avente data certa anteriore al pignoramento. Non basta che sia un documento qualunque, deve avere data certa anteriore al pignoramento.

Le possibilità sono condizionate nei limiti di cui all'art. 621: il legislatore non esclude la prova testimoniale, è ammessa ma non una qualunque o in qualunque situazione altrimenti è facile fregare i creditori. E' ammessa solo se è verosimile la collocazione presso il debitore di beni che appartengono a terzi: es. calzolaio; fallimento comporta pignoramento: società che affitta ville per i matrimoni, due ragazzi affittano e prenotano il catering che la sera prima prepara; la mattina dopo c'è fallimento della ditta di ville e si incamerano posate, tavoli e tutto ma non c'era documento di data certa anteriore come prova certa; qui la professione va bene per ammettere la prova testimoniale.

Il legislatore del '42 aveva previsto anche l'inammissibilità dell'opposizione di terzo della moglie del debitore; corte già nel dicembre '67 l'ha dichiarata incostituzionale.











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